“Bombardare è sempre un atto immorale”


Il vescovo di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli si rivela una fonte inattesa di controversia internazionale.

 


Da più di un quarto di secolo, il pacato padre con un volto luminoso quasi beato e una certa qual somiglianza con papa Giovanni Paolo II è alla guida della chiesa cattolica romana di San Francesco d’Assisi.
Così il vescovo di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli ha fornito con discrezione la sua assistenza alla piccola comunità cattolica dal maestoso edificio di pietra bianca costruito al culmine del dominio coloniale italiano all’epoca di Benito Mussolini, coi suoi 100 metri di campanile che svetta in un orizzonte di minareti.
Ma dal momento che le bombe occidentali hanno cominciato a essere sganciate sulla Libia di Muammar Gheddafi, Martinelli, 69 anni, è diventato una fonte inattesa di controversia internazionale.
La sua critica persistente alla campagna guidata dalla NATO ha portato alcuni a considerarlo un pacificatore nei confronti di Gheddafi, e a suggerirgli che sarebbe stato meglio per lui il dedicarsi a questioni spirituali.
Martinelli, nato in Libia e figlio di colonizzatori italiani, respinge l’idea che si debba mettere a tacere la sua voce, usando la conoscenza da lui posseduta sia di questa nazione del Nord Africa che dell’Occidente per perorare la sua causa.
“Gheddafi è un beduino. Non si può fargli cambiare idea bombardandolo. Non è possibile annientare i beduini così”, ha dichiarato di recente il vescovo Martinelli nel patio ombreggiato di un albergo a cinque stelle a Tripoli, mentre detonazioni fragorose scuotevano la capitale, fatto che sembra accentuare il suo punto di vista.
“E’ un uomo orgoglioso. Provate a parlare con un beduino. Esiste una sorta di sublime nel beduino, l’uomo del deserto”, ha detto, scivolando dall’inglese alla sua lingua nativa, l’italiano.
Il vescovo, che ha incontrato Gheddafi e che ammette il suo “rispetto” per il leader, si posiziona come un sostenitore della pace e del negoziato.
“Bombardare è sempre un atto immorale”, ha detto all’agenzia ufficiale del Vaticano, Fides. “Io rispetto le Nazioni Unite, rispetto la NATO, ma devo anche dichiarare che la guerra è immorale. Se ci sono violazioni dei diritti umani, non posso utilizzare lo stesso metodo per fermarle”.
Papa Benedetto XVI ha invocato il dialogo e la diplomazia per porre fine al conflitto libico. Ma da molto tempo il vicario apostolico della Santa Sede a Tripoli è andato molto più in là, e a quanto pare con la benedizione del Vaticano.
Il vescovo è in contatto quotidiano con le agenzie cattoliche in Europa, e manda sempre lo stesso messaggio: i bombardamenti della NATO sembrano avranno il risultato di arrecare più vittime fra i civili che indurre la capitolazione del regime.
Mentre condanna in modo inequivocabile il bombardamento occidentale, Martinelli ha eluso le domande riguardo agli attacchi del regime contro i civili. Ha detto che aborrisce ogni forma di violenza, spostando il tema verso quello che lui chiama i risultati positivi di Gheddafi: un welfare sociale, la parità relativa per le donne e, più puntualmente, una libertà di culto in questo Paese a stragrande maggioranza musulmana.
La rivoluzione del 1969, guidata da un allora oscuro tenente dell’esercito di nome Gheddafi, ha portato alla espulsione della maggior parte degli italiani rimasti e la chiusura delle chiese, simbolo della colonizzazione brutale dell’Italia del XX secolo. Una ex cattedrale è diventata qui ora una moschea; la cattedrale, nella città dei ribelli di Bengasi, con le sue doppie cupole che si ergono davanti al porto, è avvolta da ponteggi e in cattivo stato di conservazione. Altre chiese sono state convertite in palestre e sale riunioni, e, in almeno un caso, persino in un caffè.
Ma Gheddafi, rivoluzionario laico, ha permesso ben presto ai cristiani di praticare liberamente la loro religione, restituendo la chiesa di San Francesco e quella del centro di Bengasi, in una strada ancora denominata Via Torino. Lo stato vieta però il proselitismo e limita le attività di beneficenza all’interno dei locali della chiesa, ma suore cattoliche sono all’interno degli ospedali, centri per disabili, orfani e anziani. Giovanni Paolo II aveva anche ripreso le relazioni diplomatiche con Tripoli nel momento in cui il regime era considerato un paria internazionale a motivo dei legami di Gheddafi con il terrorismo.
“Gheddafi ci ha concesso libertà come Chiesa”, ha detto il vescovo Martinelli, citando altri esempi nel mondo arabo, dove i cristiani subiscono invece severe restrizioni e, nel caso del post-Saddam Hussein anche in Iraq, per lui emblema di un massacro. “Guardate l’Iraq – ha detto – hanno distrutto Saddam Hussein, ma è ancora molto difficile organizzare la vita da quel momento”.
Non dimentica neppure l’attuale dispiegarsi della cosiddetta “Arab Spring” (Primavera araba) dove gli autocrati secolari della regione – Hussein, la dinastia Assad in Siria, Hosni Mubarak in Egitto – sono stati tolleranti nei confronti delle minoranze cristiane.
Nato durante la seconda guerra mondiale in una famiglia di agricoltori italiani a sud-est di Tripoli, Martinelli era andato in Italia da giovane e lì è stato ordinato sacerdote francescano a Salerno nel 1967. Poi è stato rinviato nel Maghreb per guidare una piccola residua comunità italiana in una regione dove era fiorita la chiesa primitiva, generando uno dei maggiori luminari intellettuali del cattolicesimo, Sant’Agostino di Ippona, nativo di quella che oggi è l’Algeria. Le invasioni arabe avevano cancellato il cristianesimo in Libia per secoli, fino a quando i commercianti italiani e i colonizzatori non vi hanno riportato la fede se pure in modo limitato.
Fin dall’inizio dei bombardamenti, Gheddafi ha cercato di invocare il periodo precedente al conflitto tra cristiani e musulmani, inquadrando la guerra come un’alleanza stile “crociata” di aggressori fanatici di Al Qaeda.
“Perché volete morire sotto la croce?”, così Gheddafi ha schernito i ribelli in un recente messaggio audio.
Il vescovo ammette che Gheddafi è lento a rispondere alle esigenze della popolazione e ha trascurato per troppo tempo la Libia orientale, dove è covata la ribellione. Molto prima che le proteste scoppiassero nel mese di febbraio, Martinelli sottolinea come fra i libici si avvertisse già la nostalgia per una maggiore libertà, maggiore giustizia e migliori opportunità economiche.
Gheddafi “non era in grado di ascoltare i giovani di Bengasi, non era in grado di capirli” – ha riconosciuto con un certo rammarico Martinelli, che ha prestato il suo servizio di sacerdote per una dozzina di anni a Bengasi – il che implica che la guerra avrebbe potuto essere evitata se il regime avesse destinato maggiori investimenti nella parte orientale del paese. La violenza è diventata quasi una malattia allergica a Bengasi”.
Il vescovo ha scelto con cura le sue parole che di solito sono conformi con la linea del governo: “Sì, Gheddafi ha commesso degli errori, ma il regime è ormai pronto a negoziare un cessate il fuoco e la transizione verso elezioni democratiche. I capi dei ribelli, e anche quelli dei governi occidentali, affermano però che questo non si può comprare, ma piuttosto che Gheddafi deve andarsene dopo più di quattro decenni al potere.
Martinelli, naturalmente, parla da una posizione precaria. Ogni straniero che critichi il regime rischia l’espulsione, o peggio, di finire alla mercé della polizia di Gheddafi. Dire la cosa sbagliata potrebbe avere conseguenze catastrofiche per un gregge estremamente vulnerabile e per di più notevolmente diminuito dopo i disordini scoppiati nel paese, da cui molti cristiani sono partiti con voli aerei, altri a bordo delle navi sgangherate per navigare l’imprevedibile mar Mediterraneo.
In questo angolo della capitale, la messa settimanale è una delle poche consolazioni dei suoi parrocchiani, una singolare fonte di conforto spirituale.
“Ci dà coraggio”, ha detto Alex Attisso, nativo del Togo che dirige un coro composto da persone provenienti dall’Africa occidentale, una serie di splendidi cantori che in un recente servizio liturgico hanno mostrato i loro abiti viola con berretti piatti carichi di fiocchi.
Tempo e difficoltà hanno trasformato l’antica fortezza spirituale dei maestri costruttori coloniali libici in qualcosa di diverso: un rifugio per immigrati in ansia, tra cui lavoratori dell’Africa subsahariana, operatori sanitari delle Filippine e artigiani dell’Asia del Sud, tutti attratti da posti di lavoro di un pese ricco di petrolio come la Libia.
I fedeli frequentano ancora perlopiù la domenica, anche se il giorno con la frequenza più massiccia ai servizi liturgici è il venerdì, giorno della preghiera musulmana, quando la maggior parte non deve recarsi al lavoro. Alla chiesa di San Francesco, uscieri africani indicano ai partecipanti i loro posti a sedere, danno loro in mano i fogli stampati per la preghiera e ricordano loro di spegnere i cellulari, prima di indirizzarli ai banchi.
In un recente venerdì, il vescovo stava accogliendo gli ospiti prima della Messa. Tra loro c’era una donna del Bangladesh che stava cercando di organizzare il battesimo della figlia. Una famiglia senza tetto dall’Eritrea che chiedeva rifugio. Un gruppo di filippini che comunicava tra le lacrime lapartenza.
“Vanno via dopo 25 anni”, ha detto il vescovo, con un tono malinconico in questi giorni tristi di distacco.
Nella parrocchia di San Francesco, l’inquietudine del momento ha accentuato la dimensione metaforica della Bibbia. Un passaggio, quello riguardo  all’uomo cieco che riacquista la vista, rappresenta un po’ “un simbolo di questa umanità, accecata dalla guerra, ma senza perdere mai la speranza che la luce della ragione venga riacquistata”, aveva confidato Martinelli ad un giornalista vaticano.
La chiesa in Libia, ha detto, deve essere “purificata” di nuovo, sopportando l’ultimo passaggio in un dramma millenario che l’ha vista lievitare a grandi altezze, scomparire dalla vista e poi di nuovo rinascere.
Il vescovo è fiducioso riguardo alla sopravvivenza della sua Chiesa qui in Libia, anche se il destino di questa nazione in frantumi rimane il vero punto interrogativo.

 

(McDonnell è stato recentemente in missione a Tripoli).


di Patrick J. McDonnell
in “Los Angeles Times” del 3 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)

Dove sono finiti gli scrittori cristiani

 

 

intervista a Sylvie Germain, a cura di François Thuillier


Dove sono finiti gli scrittori cristiani, in questo periodo in cui la loro voce sembra più che mai necessaria? Dove sono finiti i loro appelli alla giustizia e all’indipendenza, o, più modestamente, alla bellezza e all’intelligenza?

Sicuramente, l’epoca di scrittori, romanzieri, poeti, filosofi come M. Barrès, C. Péguy, F. Mauriac, G. Bernanos, J. Green, P. Claudel, G. Marcel, M. Blondel, E. Gilson, J. Maritain, ecc. è superata.
Ma questo cambiamento nel modo di esprimere la fede, sia che essa venga affermata o interrogata, non significa una totale scomparsa.
In Francia ci sono grandi pensatori del cristianesimo, e anche grandi romanzieri, poeti, drammaturghi. Nessuno fa “opera confessionale”, ma, ognuno a suo modo (magari con una certa distanza, o in grande libertà, o in maniera a volte parodistica) mantiene un legame con il pensiero cristiano.
L’appello “alla giustizia e all’indipendenza, alla bellezza e all’intelligenza”, di cui comunque i cristiani non detengono l’esclusiva, certo non è più diretto come in Péguy, Bernanos o Claudel, ha perso quegli accenti forti, focosi, lirici che quegli scrittori sapevano far risuonare, ma tuttavia perdura. La voce della letteratura cambia nel corso del tempo. Il timbro, il colore, l’intensità si modificano incessantemente.
La voce della letteratura “cristiana” parla ora con toni molto più bassi, in maniera più indiretta e discreta. E se si mettesse di nuovo a parlare forte, con foga e combattività, non è certo che ci sarebbero orecchie per ascoltarla; c’è perfino il rischio che le orecchie dei nostri contemporanei si chiudano ulteriormente, tanto è cresciuta la diffidenza, l’avversione, verso qualsiasi discorso “religioso” espresso in maniera troppo ardente.
E poi, nel gran frastuono della nostra epoca, dove tanti clamori si scontrano, forse è più facile farsi sentire, almeno un po’, da qualcuno, parlando (scrivendo) in toni più pacati.

 

Questo pone il problema del nostro essere “presenti al mondo”, affrontato nel suo ultimo libro. Che cosa significa per lei essere “presente all’altro”?
Essere presente, significa “esserci, restare davanti”; restare attenti, nel mondo e davanti al mondo, e davanti all’altro, ad ogni altro. Significa considerare il mondo e gli altri. La dimensione spaziale del “qui” si accompagna alla dimensione temporale: adesso, in questo momento. Significa essere attenti
e vigilanti, qui e adesso.
Ma questa pienezza della presenza/coscienza/attenzione all’altro non deve farsi opaca e diventare ostacolo – per un eccesso di affermazione, per uno sviamento dell’attenzione in indagine, in impudicizia, per una tentazione di controllo e dominazione.
Questa pienezza deve essere una posizione di fronte all’altro, senza dominio su di lui. Anch’essa ha il suo doppio: di oblio – a sé; o piuttosto, è opportuno distinguere l’“io” cosciente, responsabile, che assume l’atto di presenza, e l’“io” centripeto che tende a ricondurre tutto a sé.

 

È veramente possibile, o è ancora solo un problema di credenza, di fede nel volto dell’altro?
Non c’è esclusione, per opposizione; aver “fede nel volto dell’altro” non è un’illusione che uno cerca di darsi per consolarsi dell’impossibilità di essere presente all’altro. Questa fede si fonda sull’intuizione profonda rielaborata per innalzarla a sapere, per quanto questo sapere possa restare incompleto e fluido. E l’intuizione dell’importanza vitale del volto dell’altro, che io devo riflettere, si presenta, in un unico movimento, nel bisogno vitale che io provo che anche l’altro mi rifletta.
I pensieri di odio, di disprezzo verso un’altra persona, hanno come finalità la sua perdita, in quanto tendono ad imprigionarla non nel suo vero volto, ma, all’opposto, in una caricatura di volto, in un rifiuto a riconoscergli la dimensione di volto, di alterità, di piena dignità di vivente. Tutto dipende dal modo di pensare l’altro, dalla qualità di questo pensiero: chiuso o aperto, malevolo o benevolo, mortifero o vivificante. Più si pensa l’altro liberamente, senza nulla “che pesi o immobilizzi”, su uno sfondo di un vuoto luminoso aperto a tutte le possibilità, e più questo pensiero si fa benefico. E questo non riguarda solo il nostro pensiero dei vivi, ma anche quello dei defunti, perché perfino nella morte l’altro deve essere pensato nell’apertura e nel movimento,  considerando l’immensa parte di ignoto che lo circonda, e di insospettato, forse, che lo abita.

 

Questa presenza non può prescindere dal corpo. E il corpo, questo “mezzo”, che è stato usato da Dio una volta per tutte, non è molto semplicemente il messaggio?
Nessuna religione ha attribuito al corpo tanto riconoscimento, dignità e valore quanto quella dell’Incarnazione. Purtroppo la Chiesa, nel corso della sua storia, ha spesso, e drammaticamente, perso di vista questo messaggio, distorcendolo, tradendolo, schernendolo. Il senso profondo dell’Incarnazione è stato salvaguardato nell’aspetto della cura, della cura per l’altro sofferente, affamato, nel bisogno… e questa dimensione di misericordia attiva, di fraternità operante, è fondamentale. Ma dal lato del godimento e della gioia, del corpo in festa, assurdamente, e scandalosamente, c’è stato il rifiuto, come se ogni piacere ed ogni gioia fossero subito confusi con la sregolatezza, l’oscenità, la depravazione.
No, non si può mai prescindere dal corpo; la meraviglia e la radicale singolarità della rivelazione cristiana risiedono nella piena accettazione del corpo, nella comprensione della sua complessità fatta di pesantezza e di grazia, di fragilità e di forza, della sua folle capacità sia di soffrire che di godere e gioire. E l’ascesi praticata da Cristo (digiuni, lunghe veglie di preghiera, frugalità del modo di vivere) non significa mai disprezzo e rifiuto del corpo, ma padronanza e disciplina del corpo in vista della partecipazione ad un fantastico movimento di liberazione di tutto ciò che ostacola e appesantisce gli uomini. L’uomo Gesù è stato sensibile ad ogni segno di ospitalità, di delicatezza, perfino di sensualità, che gli è stato prodigato. E incessantemente ha guarito i malati, che si trattasse di problemi fisici o psichici, ridando a ciascuno la sua integrità corporale e mentale.
Il corpo deve essere assunto e vissuto pienamente, ai suoi albori, nel suo pieno mezzogiorno, al suo crepuscolo, e fino all’estremo limite della sua notte. Così fu la Passione, un assoluto di tenebre penetrato nel corpo e nell’anima. Ma prima c’è stato lo splendore della Trasfigurazione, e dopo,
l’invisibile bagliore della Resurrezione.

 

Ecco, come sperimenta, una scrittrice come lei, la povertà e il buio? Nel rapporto con le parole o piuttosto nella vita quotidiana?
L’esperienza della povertà e del buio la si prova nel quotidiano, in maniera confusa, spesso, e a volte diventa acuta, in un certo istante, in un pensiero che si sfilaccia, che sbatte contro un ostacolo, che può essere di comprensione (di un’idea che ci sfugge, che ci eccede) o può sorgere mentre si parla con altre persone (dalle quali non si riesce a farsi capire e/o che non si riescono a capire).
Povertà dell’intelligenza, quindi; della capacità di comprensione del mondo, sia sul piano scientifico che su quello metafisico, che resta sempre limitata, per quanto possa essere vasta; della comprensione degli altri, per quanto essi siano intimi e per quanto profonda sia la nostra empatia, e anche di noi stessi (che abbiamo dentro tante ombre e chiaroscuri, segreti, bugie, ferite nascoste, paure inconfessate, desideri clandestini, cedimenti della volontà, ma anche begli imprevisti…).
Questa esperienza si intensifica quando si scrive. Bisogna incessantemente inseguire le parole, raggirarle, a volte litigarci. Le parole sono i nostri attrezzi, insieme sublimi e risibili, per andare incontro agli altri e incontro a noi stessi, per esplorare il tempo, per affrontare l’avventura della vita e l’ignoto della morte, per interrogare il mondo, senza fine, e per vegliare sulla soglia del mistero più estremo, quello di Dio. Soglia dove il linguaggio si esaurisce,  confina nel silenzio, e dove culmina l’esperienza della nostra povertà.


intervista a Sylvie Germain, a cura di François Thuillier
in “Témoignage chrétien” n° 3450 del 23 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Cercando il «neurone di Dio»

 

L’interesse per il rapporto fra cervello ed esperienza religiosa non nasce con la scienza moderna o la filosofia della mente.

 

L’ermeneutica biblica dell’uomo imago Dei, le tradizioni d’Oriente, la teologia del logos, la dottrina dei «sensi» spirituali delle teologie cristiane, la pretesa di «razionalità» della rivelazione coranica costituiscono un patrimonio immenso di figure e interessi. Un patrimonio che spiega perché Cartesio cercasse di localizzare l’anima in una ghiandola del cervello e perché il rapporto della religiosità con la mente e il cervello susciti tanto interesse nel secolo XX.


Sarebbe sbagliato rappresentare questa ricerca come un banale conflitto fede/scienza. Perché per alcuni — non sempre, non tutti — la scienza non è un metodo, ma un giudice al quale si deve chiedere di «dimostrare» vuoi la illusorietà vuoi la solidità dell’atto religioso. Sia chi crede di provare che l’idea Dio è una mera funzione interna al pensare sia chi pensa che proprio l’esistenza di funzionalità «spirituali» nel cervello dovrebbe convincere tutti che un disegno superiore presiede all’evoluzione della nostra razionalità — gli uni e gli altri condividono un terreno che spesso viene chiamato «neuroteologia» (una espressione dello scrittore di fantascienza Aldous Huxley).


Per gli uni e per gli altri l’esperienza religiosa viene identificata con uno stato di appagamento, di felicità quieta, di acquisizione di «senso» come rassicurazione del sé, una «sensazione» pacificata: una visione che la letteratura ben conosce — come spiegava già la descrizione del paradisiaco istante che precede l’attacco epilettico ne L’idiota di Dostoevskij — e che viene assolutizzata.


È una storia che inizia già con William James (1842-191o). Lo psicologo di Harvard, di fede calvinista, affronta il tema in modo apodittico e pragmatista: la mente sana pensa Dio in positivo come un aiuto, mentre la mente malata vive la fede come espressione di angoscia. Più tardi James H. Leuba (1867-1946), rigido «naturalista», trova nella religione, intesa come esperienza estatica, una espressione primitiva e ripetibile anche grazie a sostanze stupefacenti. Queste teorie della psicologia della religione e le loro evoluzioni diventeranno negli anni Cinquanta oggetto di esperimenti, coerenti però con l’idea che la «sensazione» sia la semantica del religioso. E quando Wilder Penfield (1891-1975) scopre che una stimolazione elettrica del lobo temporale destro produce stati estatici, si apre un nuovo filone che si concentra su questa patologia e sulle sue analogie con la meditazione mistica.


In parte questa ricerca si muove in una direzione dichiaratamente antireligiosa. Ancora nel 1994 Laurence O. McKinney scrive che il sentimento religioso, pur nella varietà delle forme che prende, è «universale» solo perché lo sviluppo cerebrale impedisce di recuperare informazioni sufficienti sull’infanzia e questo «vuoto» genera la domanda sul «da dove veniamo», alla quale il fatto religioso s’incarica di rispondere. Da tempo, comunque, un medico canadese — Michael Persinger, che si presenta come un liberatore dalla mistificazione religiosa e viene contestato da manifestazioni di evangelicali inferociti — ricorre a uno «strumento» per dimostrare sperimentalmente la stessa tesi. Inventa un «casco» che produce disturbi magnetici, durante i quali il lobo temporale farebbe «esperienza» di un Dio: finalmente smascherato come effetto elettrico…


Perfettamente funzionante con molti suoi studenti, il «casco» dà solo serie emicranie a volontari di maggior rango e di sicuro ateismo come Richard Dawkins… Tramite la tomografia a emissione di fotone singolo, Andrew Newberg, Eugene D’Aquili e Vince Rause monitorano il cervello di religiosi in meditazione. La scoperta dei centri attivati dalla pratica religiosa dimostra una attività della corteccia prefrontale: il fatto che la meditazione funzioni come una iperquiescenza basta, secondo loro, a dimostrare che «il cervello ha una capacità innata (built-in) di trascendere la percezione di un sé individuale» e che dunque ciò che si chiama usualmen te religiosità è una sua funzione. Il sarcasmo anticartesiano di Spinoza avrebbe senz’altro definito questa scoperta una «qualità più occulta» di quella che si voleva scoprire. Ciò che invece accade è che molti scienziati percorrono la stessa via in senso apologetico: i nomi di Harold Koenig e Esther M. Sternberg sono molto citati da chi, a partire dagli studi sul nesso fra cervello e sistema immunitario, sostiene che la minor incidenza di malattie nella popolazione «religiosa» sarebbe la riprova di una empirica «salutarità» della fede. E James H. Austin, con il suo Zen and the Brain, dimostra gli effetti benefici della meditazione su mente e cervello: cosa che entusiasma i sostenitori di una apologetica del religioso su base scientifica. Perché — è la tesi di Wentzel van Huyssten — l’idea dell’imago Dei sarebbe il codice cifrato di queste scoperte: la religiosità come attitudine essenziale all’essere uomo sarebbe dimostrata dalla neuroteologia, perché direbbe che mente e cervello hanno i codici per comprendere
l’amore di Dio. A questo upgrade della ricerca neurologica a criterio di decostruzione dell’esperienza religiosa, tipica delle spiritualità fondamentaliste, s’è opposto l’appello di teologi e scienziati ad una certa «neuroumiltà». Strumenti di indagine assai raffinati dimostrano soltanto di saper individuare i correlati neuronali degli stati mentali propri dell’esperienza religiosa: né più né meno. Il tentativo di ridurre Dio a movimenti di neuroni e quello di usare i neuroni per dimostrarne l’esistenza si muovono in un vicolo cieco da ambo i lati. Se c’è una zona del cervello attivata dalla meditazione religiosa, ciò non significa che neurologia e teologia hanno cessato di avere compiti diversi e metodi ai quali ciascuna si deve attenere. Dove il teologo difende la libertà dell’individuo, lo scienziato scopre che credenza, agnosticismo e incertezza pongono alla sua ricerca una unica e identica domanda.


in “Corriere della Sera” del 13 giugno 2011

Caro Papa, ti scrivo

 

Scienza e fede Prove di dialogo

Caro Papa, ti scrivo. Un matematico ateo a confronto con il papa teologo (Mondadori, pagine 190, € 17,50).

 

 

«Aspetto la dissoluzione della morte, ma non un’altra vita in un mondo che non verrà»: così termina il «Credo laico» che Piergiorgio Odifreddi, matematico e ateo combattente, propone a pagina 182 di Caro Papa, ti scrivo. Un matematico ateo a confronto con il papa teologo (Mondadori, pagine 190, € 17,50). Non sorprenderebbe granché se un giorno Piergiorgio Odifreddi si convertisse al cristianesimo, al quale appartenne da giovane: raramente si era visto un ateo dichiarato dedicare tanto tempo a discutere con i credenti. Dopo Il Vangelo secondo la Scienza (Einaudi, 1999) e Perché non possiamo essere cristiani (Longanesi, 2007), si era impegnato a dibattere per un mese intero, facendo a piedi il Cammino di Santiago, le ragioni della fede e della scienza con Sergio Valzania e Franco Cardini (La via lattea, pubblicato da Longanesi nel 2008). Ora alza il tiro e incrocia le armi con Papa Ratzinger.

Benedetto XVI per ora non l’ha incontrato, ma non è da escludere che un giorno l’incontro avvenga. La lettera che gli scrive prende come «riferimento» il
capolavoro giovanile del Papa teologo, Introduzione al cristianesimo (Queriniana, 1969). Ratzinger in quel lavoro si confrontava con la scienza ed ecco Odifreddi che affronta le opinioni affermate dal teologo e si adopera a confutarle da matematico. Tende insomma a realizzare — così si esprime il risvolto di copertina — un’introduzione all’ateismo speculare a quella di Ratzinger al cristianesimo.

Lamenta Odifreddi il fatto che il Papa non abbia ricevuto nel 2008 i partecipanti al Festival di Matematica — come egli gli aveva chiesto per lettera — e lamenta che il cardinale Gianfranco Ravasi non abbia invitato lui, Odifreddi, alle prime tornate del «cortile dei gentili». La lettera al Papa sembra porsi come un appello diretto alla massima istanza per avere un’interlocuzione. Ora è vero che Odifreddi — come lo accusa Ravasi — guarda al cristianesimo «con ironia e sarcasmo», ma è vero anche che il confronto a modo suo lo svolge. Questo libro conferma l’atteggiamento già noto con una qualche correzione in direzione di un maggiore rispetto, forse a motivo dell’interlocutore che si è scelto, o forse proprio per propiziare un futuro incontro. Più volte Odifreddi «prende atto» di argomentazioni valide che incontra nel volume ratzingeriano e gli rende «l’onore delle armi», sia per il «coraggio» di affrontare gli «enormi problemi» che la modernità pone alla fede cristiana, sia per il «tentativo» di far incontrare il credente e il non credente «sul terreno dei reciproci dubbi». E questo terreno Odifreddi l’accetta. Ma anche gli muove, nei venti capitoli, una decina di radicali contestazioni.

Sul «progetto intelligente» e l’evoluzionismo, che il Papa condannerebbe senza averne una vera «conoscenza». Così come mostrerebbe di avere «un’immagine disinformata e inadeguata dell’intera impresa scientifica». Sull’indebita fiducia che Ratzinger presta ad Heidegger, che lo indurrebbe a ritenere che «la scienza non pensa». Sul «concetto di verità e di realtà» della scienza di oggi, che il Papa segnalerebbe come depotenziato, mentre è «esattamente» quello dell’antichità. Sulla poligamia e l’omosessualità, sulla castità e la legge del celibato: sostenendo che «contro natura» sono le ultime e non le prime. Sulla «storicità dei Vangeli» e sulla possibilità per noi di accedere al «Gesù storico». Sul «messaggio» di Gesù, che a Odifreddi appare «come una strana mistura di ingenua sapienza, sciocca ciarlataneria e infatuata aggressività». Se il Papa o Ravasi accetteranno il confronto vorrà dire che sono buoni incassatori.



in “Corriere della Sera” del 14 giugno 2011

Liquidazione della religione?

 

«Il fanatismo scientifico»un libro di Richard Schröder

 

Laureato in teologia, docente di filosofia alla Humboldt-Universität di Berlino, giudice costituzionale del Brandeburgo, presidente del senato della Deutsche nationalforschung di Weimar, membro del Consiglio nazionale di etica e dell’Accademia delle scienze di Berlino, insignito di vari premi e lauree honoris causa e altro ancora: a un auto

Primavera araba alla prova delle minoranze

 

 

Dalle coste dell’Atlantico a quelle del Golfo persico, in numerosi Paesi del mondo arabomusulmano donne e uomini stanno chiedendo a gran voce la democratizzazione dei regimi in vigore, e talvolta anche la fine di dittatori che monopolizzano per il loro profitto potere e ricchezze nazionali.

 

 

La maggior parte degli osservatori ha troppo spesso sottovalutato, se non negato, la fortissima aspirazione dei popoli arabi alla democrazia; ora lo straordinario fermento al quale stiamo assistendo dimostra con efficacia l’universalità dei diritti dell’uomo e la compatibilità dell’islam con la democrazia.
Fino ad oggi, smentendo alcuni timori, le rivoluzioni arabe non hanno dato luogo né a manifestazioni xenofobe o anti-occidentali, né a una penetrazione significativa degli islamici.

 

 

La «Rivoluzione dei gelsomini» in Tunisia e le rivolte in piazza Tahrir al Cairo hanno portato, parallelamente e simultaneamente, alla fine dei regimi dittatoriali in vigore, e, insieme, hanno riproposto implicitamente la discussione sull’islamismo politico. Non è riferendosi alla sharìa o al mito di uno Stato teocratico fondato su una concezione fondamentalista dell’islam che i dimostranti hanno sfidato l’ordine. Hanno chiesto, e ottenuto, quello che altri sperano ancora di avere: il multipartitismo, la libertà di stampa, lo svolgimento di vere elezioni democratiche pluraliste.
Durante le manifestazioni, nessuna bandiera americana o israeliana è stata bruciata; nessuno slogan anti-ebreo è stato pronunciato. Piuttosto, sono stati i regimi in vigore, in Libia come in Siria, a denunciare in modo demagogico la «mano straniera», attribuendo al «Grande Satana americanoisraeliano » il vento che li vorrebbe spazzare via. Tutto questo, nel tentativo di delegittimare i movimenti di protesta, sull’esempio dell’Iran. Un “metodo” utilizzato troppe volte per essere ancora credibile, e i manifestanti hanno dimostrato di essere determinati a rifiutare l’anti-imperialismo che i dittatori hanno provato a impugnare. È questo un segnale profondamente incoraggiante.

 

 

Anche se bisogna guardarsi da eccessivi entusiasmi: troppo avvenimenti recenti ci spingono a un’attenta vigilanza. Alla fine del 2010, l’Egitto fu teatro di un sanguinoso attentato contro una chiesa copta ad Alessandria. Nessuno,  llora, poteva immaginare che, solo poche settimane dopo, una folla in cui stavano fianco a fianco musulmani, cristiani e agnostici – perché ce ne sono – avrebbe spinto Hosni Mubarak alle dimissioni. Spetta a questa gente, ormai, agire  affinché una tragedia simile non possa più verificarsi. In Tunisia, all’indomani della caduta dell’ex presidente Ben Ali, un prete cattolico di origine polacca, padre Marek Rybinski, è stato sgozzato nelle aule di una scuola interconfessionale alla Manouba, nella banlieue tunisina, mentre decine di manifestanti islamici organizzavano un raduno davanti alla grande sinagoga di Tunisi e nelle stesse ore in cui un oratorio veniva incendiato vicino a Gabès. In risposta a questi avvenimenti, molte centinaia di tunisini sono scesi in piazza per una «Tunisia laica», mostrando manifesti sui quali si poteva leggere: «Noi siamo tutti ebrei, cristiani e musulmani». Una società viene sempre giudicata in base al trattamento che sa riservare alle altre. Un’affermazione che si applica anche alle nostre stesse società. E questo anche quando le minoranze sono così poco importanti da diventare, per così dire, invisibili. «Sono io il custode di mio fratello?», disse Caino. Bisogna smetterla di interpretare in modo restrittivo ed egocentrico questa domanda. Noi siamo i custodi dei nostri fratelli, ma non solo di essi.

 

 

Non c’è affatto bisogno di essere cristiano per prendere le difese dei copti d’Egitto, degli assiro-caldei dell’Iraq o dei maroniti del Libano. Non c’è affatto bisogno di essere musulmano per prendere le difese degli sciiti della Penisola arabica, dei sunniti iraniani, dei musulmani d’India o di Ceylon, o degli aleviti turchi. Non c’è affatto bisogno di essere ebrei per prendere le difese degli ebrei di Siria o dell’Iran. Questa difesa delle minoranze è innanzitutto interesse delle maggioranze in mezzo alle quali esse vivono; e non si può avere stima di se stessi se si disprezza l’Altro. I nuovi regimi saranno giudicati in base al trattamento che sapranno riservare alle loro minoranze etniche e religiose: cristiani d’Egitto, di Siria, di Giordania e del Libano, curdi della Siria, sciiti degli Emirati del Golfo Persico. La tesi fallace, troppo spesso ascoltata, secondo la quale solo i regimi autoritari sono in grado di garantire la sicurezza, e persino la sopravvivenza, delle loro minoranze merita una secca smentita. È dal posto che verrà riservato alle minoranze in queste società che potremo giudicare la vera natura della «Primavera araba».

di René Guitton (traduzione di Barbara Uglietti)
in “Avvenire” del 29 maggio 2011

 

Videoa allegato:

 

L’ Arcivescovo cattolico greco-melkita  racconta la difficile situazione che sta vivendo il paese mediorientale sulla scia della “primavera araba”. I progetti che la chiesa cattolica sta portando avanti per arginare l’esodo dei giovani cristiani da quelle terre.

 

Potere, regole e vita privata

 

 

La vicenda che ha portato nell’arco di poche ore all’arresto di Dominique Strauss-Kahn appartiene, a pieno diritto, a quegli eventi che segnano in modo definitivo non soltanto la brillante carriera di un uomo politico, ma la biografia stessa di una persona.

 

 

Ora, è abbastanza naturale che, davanti ad accuse tanto gravi quanto quelle di violenza sessuale, la reazione comune sia l’indignazione. In discussione qui, però, non è effettivamente il contegno più o meno irreprensibile di un uomo, ma la violenza da questi impartita ad una donna, per altro palesemente in una condizione sociale e lavorativa più fragile di lui, e quindi particolarmente vulnerabile.
Il caso, al di là delle diverse valutazioni, apre una questione generale che riguarda essenzialmente la difficile coerenza personale, evocata attualmente come in passato, sebbene amplificata dall’onnipresenza dei media. Si tratta della contraddizione tra i comportamenti sociali e personali dei governanti, o, come recitava il titolo di un famoso film di Miklós Jancsó, tra i “vizi privati e le pubbliche virtù”.
Senza voler proporre anacronistici appannaggi o paragoni impossibili, lo scandalo un tempo era come oggi arma di potere e ricatto, tant’è che dappertutto i potenti erano oggetto di critiche e di delegittimazioni shakespeariane. Inoltre, il consenso democratico, cui devono sottoporsi inevitabilmente i politici odierni, ha aggiunto un ulteriore controllo etico, come spiegava Jean Jacques Rousseau nel Contratto sociale. E quindi, reato a parte, non vale la pena propendere per un rigorismo puritano, poco produttivo in assenza di una dimostrata illegalità.
Tuttavia, il problema resta in piedi lo stesso. E optare per una separazione netta, precisa e drastica tra abilità o capacità gestionali – siano esse professionali o politiche – e comportamento individuale diviene assolutamente impossibile, perché totalmente assurda. Questa opinione, d’altronde, non è un prodotto culturale corrente, appartenendo in pieno alla mentalità e, direi perfino, alla cultura giuridica occidentale. Non soltanto Thomas Hobbes nel Leviatano concepì la sfera pubblica come un artificio sostanzialmente distinto dal privato, ma ritenne che l’estraneità delle due dimensioni fosse una condizione prioritaria per rispettare la vera essenza della politica che deve riguardare l’esclusivo esercizio del potere. Il più coerente teorizzatore di questo riduzionismo antropologico è stato Immanuel Kant, il quale nella Critica della ragion pura ha spiegato che l’identità personale è sconosciuta e irraggiungibile, autorizzando senza contraddizione una sorta di “valida incoerenza” nei comportamenti privati, sottoposti, di fatto, solo all’imperativo categorico della moralità pubblica. A ben vedere, quindi, l’attuale moralismo, che si concentra solo sul condannare o giustificare le nefandezze apparenti, presuppone lo stesso smarrimento scettico e originario dell’identità personale, sciolto, questa volta, in un relativismo multiplo, rivelatore sempre delle medesime contraddizioni.
La vera risposta, viceversa, sta nel tornare a parlare e a pensare in termini autenticamente personali.
Noi non siamo dei soggetti che hanno identità variabili e funzionali allo scopo: il mattino un professionista, a colazione un padre di famiglia, la sera un playboy, e così via. Ogni persona possiede in sé il valore e la responsabilità di  un’identità propria, l’Io, la quale non soltanto è e resta permanente, ma va gestita in coscienza e libertà per salvaguardare, tra l’altro, la salute mentale e la completezza stessa della personalità. L’alternativa dolorosa è, per l’appunto, la schizofrenia, la patologia psichiatrica o, usando una metafora letteraria, un’incomunicabilità finale tra il nostro Dottor Jeckyll e l’altrettanto nostro Mister Hyde. Va benissimo, insomma, difendere un amico in difficoltà, come alcuni hanno fatto disperatamente in questi giorni per Strauss-Kahn, specialmente quando il malcapitato è colpevole di un reato gravissimo. Come va benissimo screditare la sua minaccia politica con ogni mezzo. Ma non confondiamo la solidarietà e l’invettiva con la coerenza umana – prima ancora che etica – che è un dovere insostituibile per ciascuno, specialmente se ha assunto volontariamente un’alta responsabilità collettiva.
Il cosiddetto aspetto privato è diverso da quello pubblico e professionale, ma non appartiene ad un’altra persona, bensì alla stessa, la quale – similmente alle altre – deve mirare all’unità d’azione del proprio essere. Perciò, malgrado ogni retta concentrazione per evitare il moralismo, è chiaro che la vita privata di un uomo mi dice moltissimo sul suo essere affidabile o meno dal punto di vista pubblico. A meno che non consideriamo il lavorare una semplice mansione e il governare nulla altro che un potere assoluto, sottraendoci, in tal modo, definitivamente a qualsiasi valutazione antropologica del protagonista al di fuori del relativo e partigiano interesse.

 

di Joaquín Navarro-Valls
in “la Repubblica” del 24 maggio 2011

 

La rivincita della spiritualità

Lasciata fuori (o quasi) l’editoria religiosa dai libri che hanno fatto l’Italia, i temi della spiritualità si prendono la rivincita nelle sale del Lingotto, dove alcuni degli incontri più seguiti di ieri riguardavano appunto questi argomenti. Non è un caso che Erri De Luca, nel pomeriggio, abbia riempito la Sala Oval ed Enzo Bianchi, nella serata, abbia trattenuto nella Sala Rossa molti lettori, nonostante un disguido che ha fatto slittare l’incontro di mezz’ora. Sono stati due degli appuntamenti più seguiti (oltre naturalmente a Umberto Eco, abbonato al tutto esaurito), che hanno convogliato quello che Ernesto Ferrero definisce un bisogno «di fare qualcosa per la collettività e che forse sopperisce a una drammatica assenza di riferimenti nella società». Il volto religioso del Salone è affidato a non credenti come Erri De Luca, che afferma di escludere la divinità dalla sua vita, ma non da quella degli altri; agli uomini di Chiesa più progressisti, quelli che parlano, come Enzo Bianchi, anche agli increduli; ai preti di battaglia impegnati nel sociale, come don Virginio Colmegna e don Giacomo Panizza, anche loro ieri impegnati, allo stand di Ibs, in un incontro,
moderato da Marco Revelli, che ha affrontato i temi caldi dell’immigrazione e dell’accoglienza. Di Chiesa e religione si parla abbondantemente in questo Salone e spesso in chiave critica, soprattutto verso le gerarchie. Oggi toccherà al potere temporale con incontri che certo non saranno indulgenti, a partire dal «dialogo immaginario» del matematico Piergiorgio Odifreddi con Joseph Ratzinger, fino al «Dossier Vaticano» in cui Bruno Ballardini, che affronta l’opera di evangelizzazione della Chiesa come una strategia che adotta gli strumenti del marketing, dialoga con Ferruccio Pinotti,
autore di una controinchiesta su Wojtyla. Domani sarà Michela Murgia a raccontare gli stereotipi in cui la Chiesa ha rinchiuso l’immagine femminile. Ieri però è stato il giorno delle Sacre Scritture. E non è un caso che Erri De Luca, da anni impegnato, ricorda Ferrero, «in un corpo a corpo con parole antiche» per le sue traduzioni della Bibbia, e il priore della comunità monastica di Bose,  Enzo Bianchi, abbiano entrambi analizzato la stessa pagina del Vangelo di Giovanni, quella dell’adultera condannata alla lapidazione che Gesù salva con le parole «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». De Luca, che ha appena pubblicato E disse (Feltrinelli), risale al cuore nel monoteismo, raccontando la storia di Mosé che «va a prendersi» sul Monte Sinai «la notizia della divinità», e la recapita a un popolo che accetta di prendere su di sé quel carico, ma parla anche delle Sante dello scandalo (Giuntina), cinque donne tra cui Maria, una «genealogia che passa attraverso Davide e arriva fino al Messia, figure che hanno avuto un ruolo decisivo nel rapporto con la divinità, mortificato, nel corso, dei secoli, da traduzioni che hanno attribuito alle Scritture una condanna del corpo femminile». Delle donne nella Bibbia parla anche Bianchi, che presenta una pubblicazione liturgica, un Evangeliario secondo il rito romano, pubblicato dal Messaggero di Padova. Un incontro che insiste sulla necessita di «riseminare il Vangelo, liofilizzato nei valori cristiani», dice Ugo Sartorio, direttore del «Messaggero di Sant’Antonio». «Vangelo — ricorda il priore di Bose — significa buona notizia. Non tutta la Bibbia è Vangelo. Ho l’impressione che noi
oggi non sentiamo il Vangelo come una buona notizia perché le stesse Chiese l’hanno imbalsamato, ne hanno fatto un breviario di etica, un deposito di dogmi. Il Vangelo dovrebbe rallegrare, spingere verso la felicità, è una buona notizia, che non si può dare in modo rabbioso, arrogante, nemico. Il fatto è che noi cristiani non sappiamo più dare una buona notizia» .

di Cristina Taglietti
in “Corriere della Sera” del 14 maggio 2011

 

Ripudiare la guerra. davvero

 

«L’Italia ripudia la guerra», dice la nostra Costituzione del 1948 all’articolo 11.

 

Ma non la ripudiano gli italiani, per lo meno quelli che contano sul piano economico e politico. E per questo si continuano a costruire armi, anche dispendiose (come i cacciabombardieri da 16 miliardi di euro), che fanno lavorare e guadagnare molte imprese, e così si va a bombardare in Libia (come già in Iraq ed in Afghanistan), perché ci si copre con l’ombrello dell’Onu o della Nato.
Non è che il ripudio della guerra della Costituzione corrispondesse al disinteresse per la pace. Anzi ripudiare la guerra era un’espressione di amore alla pace, se è vero quanto scriveva nel 1963 papa Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, che è follia (alienum a ratione…fuori dalla ragione) pensare che la guerra possa portare alla giustizia e alla pace. E ne dà, papa Giovanni, anche la ragione: da una parte i terribili mezzi di distruzione di cui si arricchiscono costantemente gli arsenali, dall’altra l’accresciuta possibilità di dialogo e di verifiche sotto la tutela di organismi internazionali.
È proprio questa mancanza di ricerca di dialogo che porta i problemi a situazioni così gravi da rendere pressoché indispensabile l’intervento militare. Ed è quello che sta accadendo con la Libia, con la quale si sono intrattenuti rapporti più che amichevoli con un’iniziale dimostrazione di disinteresse se non di favore (per non «disturbarlo», si disse), cercando poi di non lasciarsi scavalcare dagli europei più decisi, fino ad andare anche noi a bombardare, con l’avallo del presidente della Repubblica. Non solo però ce n’eravamo lavate le mani prima, ma abbiamo continuato a lavarcele anche dopo, senza mai tentare un serio intervento diplomatico e senza darci veramente da fare perché l’Onu o l’Europa se ne facessero promotori. Anche con Hitler si fece così: lo si lasciò fare (vedi Monaco 1938), trovandosi poi nella necessità di fare una guerra per garantire la pace. Si farà così anche con la Siria, per cui si spendono molte parole ma senza seri interventi diplomatici, per giungere poi a dimostrare necessario l’intervento militare? Non sarà esplicita, ma si ha l’impressione di un’implicita convinzione che tanto poi andremo a bombardare, così useremo le nostre armi raffinate (se no, cosa ci stanno a fare?) e poi ne faremo altre ancora più raffinate. E alla fine per lo meno ci guadagneremo.
Quello che manca – a chi governa, ma anche ad ancora troppi cittadini – è la convinzione che la guerra va veramente ripudiata, e che quindi bisogna cercare in tutti i modi gli espedienti politici e diplomatici che la rendano superflua. Se, come dice il proverbio, la necessità aguzza l’ingegno, il dovere di ripudiare la guerra deve farci trovare i modi necessari per giungere alla pace.
L’obiezione comune è che questa è un’utopia, in un mondo di violenza. Eppure si faceva guerra un tempo fra le nostre città, finché lo Stato nazionale le ha rese impossibili, così come sono inimmaginabili oggi le guerre che hanno insanguinato per secoli le Nazioni dell’Europa. E allora si dovrà dare forza e autorità all’Onu come arbitro veramente superiore (ridimensionando i veti che ne minano la democrazia e quindi l’attendibilità) in grado, con una forza di polizia, di garantire una soluzione dei problemi senza il ricorso alla guerra (così, sia pure in altre situazioni, l’Onu riuscì ad evitare nel 1956 la guerra per il Canale di Suez).
Abbiamo ricordato in questi giorni, riflettendo sulla figura di Giovanni Paolo II, che il potere del mondo comunista è caduto senza una guerra. Invece non si è saputo cercare la via nonviolenta per portare la pace in Afganistan ed in Iraq, come lo stesso papa Wojtyla cercava e supplicava, e ci siamo immersi nelle tragedie e nei drammi tuttora in corso. Purtroppo anche noi cristiani, malgrado i forti appelli alla coerenza con il Vangelo per il rifiuto della violenza e per la costruzione di una vera pace basata sulla solidarietà, siamo più sensibili all’idolo di “mammona”, cioè della ricchezza
e del potere, che co nducono inevitabilmente alla guerra.
Vorrei fare eco all’appello del Consiglio Nazionale di Pax Christi per sollecitare tutti a «ripudiare la guerra» con convinzione e con impegno, reagendo, muovendoci, appoggiando le iniziative che sorgono, condizionando la vita sociale e le elezioni, facendoci sentire in ogni modo, obbligando così i politici, i responsabili, a cercare e trovare le vie nonviolente ed efficaci per una pace effettiva.

 

di Mons. Luigi Bettazzi

Vescovo emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi
in “Adista” – Segni Nuovi – n. 40 del 21 maggio 2011

Vite dei Grandi libri religiosi

 

Una nuova collana di Princeton University Press, “Lives of the great religious books”, è dedicata alle “biografie dei grandi libri” delle tradizioni religiose.

 

I libri hanno una vita: lunga, breve, brevissima, a volte abortita, vittima dei meccanismi del mercato della cultura più che di vizi di nascita. Vi sono poi libri che sono “classici” perché hanno dato forma ad una particolare cultura, portano significati in eccesso e in permanenza, resistono ad ogni interpretazione definitiva, e hanno un valore universale. Ricostruire la “biografia di un libro” è quindi importante per comprendere la cultura che lo ha fecondato, accolto, fatto viaggiare e tradurre, ampliare e rivedere, cambiare pubblico e recezione lungo i decenni e i secoli. Una nuova collana di Princeton University Press, “Lives of the great religious books”, è dedicata alle “biografie dei grandi libri” delle tradizioni religiose.

 

Nel programma della collana vi sono, tra gli altri, le Confessioni di Agostino, la Vulgata, Il libro tibetano dei morti, il Libro di Mormon, I Ching, la Bhagavad Gita.
I risultati del progetto editoriale sono di grande interesse, a giudicare dal volume dedicato a Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer da uno dei grandi storici della teologia, Martin E. Marty della University of Chicago (Dietrich Bonhoeffer’s “Letters and Papers from Prison”. A Biography, Princenton UP, 288 pp.). Il volume degli scritti dal carcere del pastore luterano Bonhoeffer, condannato a morte dal regime nazista a pochi giorni dalla fine della guerra nella primavera 1945 per aver collaborato all’attentato a Hitler del 1944, è uno dei testi fondamentali della teologia cristiana del Novecento.

 

Non si stenta a riconoscere la necessità di scrivere una storia di Letters and Papers from Prison. Il pastore e amico di Bonhoeffer, Eberhard Bethge, si risolse a raccogliere in un volume quegli scritti scampati alla censura e alle distruzioni della guerra solo nel 1950, quando per non pochi tedeschi Bonhoeffer era un traditore della patria e fin troppo popolare nella comunista Ddr (una diocesi protestante in Germania occidentale arrivò a proibire di intitolare parrocchie al nome di Dietrich Bonhoeffer). Da allora in poi Resistenza e resa ha acquisito valore universale e ha avuto decine di traduzioni in diverse lingue, in edizioni accresciute (l’ultima delle quali pubblicata in tedesco nel 1998).
La parte più interessante di questa “storia dei libri” riguarda le diverse recezioni e letture – teologiche, ideologiche, politiche – a cui ogni grande testo religioso è stato soggetto nella sua vita.
Alcuni dei testi fondamentali per la storia religiosa d’Italia (come Le piaghe della chiesa di Rosmini, Chiesa e Stato di Jemolo, Lettera a una professoressa di don Milani) meriterebbero simili “biografie”.

 

in “Europa” del 28 aprile 2011