«Offrire testimoni a chi cerca Dio»

Intervista a Mons.
Bruno Forte Chi sono oggi i “cercatori di Dio”? Tutti coloro che hanno nel cuore la domanda della felicità, perché la felicità nell’attesa più profonda del cuore umano non può essere che un amore assoluto, un amore senza riserve, che ci avvolga totalmente: chi crede riconosce tutto questo in Dio.
Ecco perché nella definizione di “cercatori di Dio” non si comprendono soltanto quelli che cercano Dio non conoscendolo, ma anche i credenti, che anche nell’esperienza della fede restano assetati di felicità, di amore assoluto.
Proprio per questo quella formula accomuna tutti, perfino gli indifferenti, quelli che sembrano distratti, lontani, e che però non possono non sentire nel cuore il desiderio di una vita piena, ricca di felicità.
Così questa Lettera si rivolge veramente a tutti, agli uni come corrispondenza a una domanda del cuore, alla nostalgia di Dio, nostalgia di bellezza che è in noi; agli altri, “non cercatori apparenti”, con la speranza di suscitare domande, attese, desiderio.
Oggi sappiamo che c’è una grande richiesta di “religioso”, è quasi diventato anche questo un fenomeno consumistico con una molteplicità di “offerta”.
Rispetto a questo fenomeno, come si colloca la Lettera? Il cosiddetto “ritorno di Dio” in realtà è un fenomeno complesso.
Da una parte c’è certamente la domanda vera e profonda di quanti sono pensosi e alla ricerca di un senso ultimo della vita e della storia, capace di dare colore alla fatica dei giorni; sono quei cercatori di speranza, di cui parla per esempio la Spe salvi di Benedetto XVI, alludendo al bisogno di speranza che c’è in tutti noi.
C’è però anche una forma di questo “ritorno di Dio”, che è una sorta di ricerca di sicurezza, di consolazione a buon mercato.
Evidentemente la Lettera, proprio in quanto parte dalle domande vere, inquieta questo tipo di possibili destinatari, nel senso che li stimola a non accontentarsi di certezze facili, di consolazioni di comodo.
In questo senso vorrebbe al tempo stesso essere una proposta di riflessione ai pensanti e una sorta di sfida e di provocazione a quelli che fuggono la fatica del pensiero e della ricerca.
Proprio così essa ha bisogno di essere mediata da testimoni, proposta come strumento di un primo annuncio a quelli che sono in ricerca pensosa, non negligente, ma anche in modo diverso a quelli che bisogna svegliare alla ricerca e dunque all’apertura del cuore al possibile incontro con Dio.
In che modo questa Lettera si propone come strumento anche per la comunità? In due sensi.
Il primo in quanto tutti siamo destinatari di una riflessione data dalle domande che ci accomunano tutti, felicità e sofferenza, amore e fallimenti, lavoro, festa, giustizia e pace, la stessa sfida di Dio, sono interrogativi rispetto ai quali nessuno di noi può sentirsi estraneo o lontano.
Nello stesso tempo però, nel rivolgersi alla comunità cristiana, la Lettera interpella anche gli operatori pastorali, quelli che in modo speciale si consacrano all’annuncio del Vangelo di Gesù, perché nelle loro mani essa diventa un ponte di dialogo e di amicizia possibile con tutti i cercatori di Dio, e anche una via per accendere o stimolare domande in quelli che sembrano invece fuggirle, sempre all’insegna del rispetto e dell’amicizia per tutti.
Così, questo testo vorrebbe anche esprimere il volto di una Chiesa amica, vicina alla complessità della nostra condizione umana, nei suoi risvolti più alti, inquieti, pensosi, ma anche in quelli umili e quotidiani, a volte negligenti e stanchi come spesso ci capita d’incontrare nell’esperienza umana.
Con tutto ciò, come inquadrebbe questo documento? Questa Lettera si rivela come qualcosa di nuovo.
In effetti noi abbiamo tante forme di proposta catechistica, ma forse mancava uno strumento per il primo annuncio come questo.
Uno strumento, cioè, che non voglia dire tutto del cristianesimo, ma si concentri sul messaggio centrale e sulle vie concrete per farne esperienza – la preghiera la Parola di Dio, i sacramenti, l’amore, il desiderio della vita eterna e della bellezza divina – partendo dalle domande del cuore umano e della società in cui ci troviamo.
In questo senso l’auspicio dei vescovi è di aver offerto alla Chiesa in Italia uno strumento che possa aiutare i cercatori di Dio a fare un passo avanti nell’esperienza del suo volto, e quanti non lo ricercano a svegliarsi, a essere in qualche modo stimolati a questa ricerca su cui si gioca la verità e la bellezza della vita.
Un pensatore ebreo molti anni fa mi diceva: “Vivere è cercare Dio, vivere veramente è trovare Dio”.
La Lettera vorrebbe essere uno strumento per aiutarci a vivere e a vivere veramente.
Salvatore Mazza A tutti coloro «che hanno nel cuore la domanda della felicità».
E dunque, in fondo, a tutti.
A chi cerca Dio non conoscendolo, e a chi crede in lui.
Sono questi i destinatari della Lettera ai cercatori di Dio che la Commissione episcopale per la Dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi diffonde oggi, e che pubblichiamo integralmente come inserto del giornale.
«Una proposta di riflessione ai pensanti – spiega in questa intervista monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e presidente della Commissione Cei che ha redatto la Lettera – e una sorta di sfida e di provocazione a quelli che fuggono la fatica del pensiero e della ricerca».
Uno strumento che si propone «come qualcosa di nuovo», perché «in effetti – osserva Forte – noi abbiamo tante forme di proposta catechistica, ma forse mancava uno strumento per il primo annuncio come questo».
 

Filippo Neri: la predicazione quotidiana

La preziosa eredità filippiana fu codificata negli Instituta della congregazione, approvati da Paolo V nel 1612: “Coloro che sono stati scelti per questo ufficio nutrono l’anima degli ascoltatori con un genere di predicazione veramente fruttuoso, adattando soprattutto le parole, con ordinata successione, alla comprensione del popolo, senza concedere nulla alla vuota pomposità e al vano applauso; e confermano l’insegnamento particolarmente citando gli esempi dei Santi e con fatti storici documentati.
Eviteranno inoltre (…) tutti gli argomenti che si addicono più alle scuole che all’Oratorio”.
Già il primo testo costituzionale (1583) stabiliva che cibo fondamentale nella congregazione oratoriana fosse la Scrittura di cui si chiedeva una conoscenza profonda attraverso un perseverante contatto: percupimus eos qui publicis praedicationibus destinandi erunt Scripturae divinae paginas (…) diurna nocturnaque manu diligentissime pertractare.
E gli scritti dei primi oratoriani, con la loro ricchezza di informazione e la penetrazione della Sacra Scrittura, mostrano quanto tale indicazione fosse diligentemente accolta.
“Padre Filippo – si legge nell’Itinerario spirituale dell’Oratorio – con il suo metodo creò una vera scuola nell’ambiente di Roma, dove i predicatori ecclesiastici rivaleggiavano con i classici pagani.
Il Santo insegnava che per predicare, bisogna prima far molta preghiera, dar molta importanza alla pratica della virtù, avere retta intenzione nello studio e ricorrere frequentemente agli esempi presi dalla vita della Chiesa e dei Santi.
Padre Giuliano Giustiniani era solito dire che un prete di Congregazione doveva morire sopra uno di questi “tre legni”: la predella dell’altare, il confessionale, la sedia dei ragionamenti”.
A questo metodo si ispirarono fin da subito i primi che Filippo Neri chiamò a coadiuvarlo nella tractatio Verbi Dei, poiché, come testimonia padre Pompeo Pateri, Filippo “volle che i suoi discepoli si abituassero allo stesso modo a annunciare la Parola di Dio, per ferire più i cuori degli ascoltatori che le orecchie”.
In qualche caso li educò alla semplicità, alla sincerità e a un rapporto di intima confidenza con gli ascoltatori anche con espedienti curiosi: al padre Agostino Manni, anima poetica e di grande sensibilità artistica, incline a farsi prendere la mano dalla vena letteraria, fece ripetere, ad esempio, per sei volte lo stesso elaborato sermone, tanto che i fedeli pensarono che quel padre non sapesse dir altro; a padre Francesco Maria Tarugi, che in un sermone parlò, con enfasi eccessiva e impeto degno della miglior retorica, sull’utilità della sofferenza, padre Filippo, dopo essersi a lungo agitato sulla sedia per fargli comprendere di rientrare nei giusti confini, disse pubblicamente, al termine, che nessuno di loro aveva ancora versato una goccia di sangue per Gesù Cristo.
Per l’attrattiva che esercitava e per i frutti di sincera conversione che produceva, lo stile della predicazione filippiana si diffuse presto anche al di fuori dell’ambiente oratoriano dando il via al rifiorire della predicazione frequente nelle chiese romane: i domenicani della Minerva furono i primi ad assumerlo, fin dal 1562, per iniziativa del loro priore Vincenzo Ercolani, grande amico di padre Filippo; gli scolopi stabilirono nelle loro costituzioni che si usasse la stessa familiare eloquenza “di cui si servono i RR.
pp.
dell’Oratorio alla Vallicella”; fuori Roma, san Carlo Borromeo lo prescrisse ai padri oblati di Milano e san Vincenzo de Paoli lo raccomandò ai suoi missionari.
Interessante, al riguardo, quanto riportato in una deposizione di padre Francesco Bozzio: “Avendo saputo che alcuni religiosi avevano adottato il tipo di predicazione che si faceva nel nostro Oratorio, e poiché un padre diceva che non era lecito usurpare quello che Padre Filippo aveva istituito, il Beato Padre rispose: oh se tutti fossero profeti…” I testi del processo di canonizzazione di Filippo Neri, editi da Giovanni Incisa della Rocchetta e da Nello Vian – verso i quali l’Oratorio conserva, e non solo per questo, un grato ricordo – sono ricchi di testimonianze sul ministero della predicazione di padre Filippo, il quale, già negli anni della giovinezza, aveva suscitato ammirazione parlando nella chiesa romana di San Salvatore in Campo, negli incontri della confraternita della Santissima Trinità.
Prima di citarne alcune, merita ricordare quella contenuta in una lettera che egli ricevette da Napoli nel 1588, agli inizi di quell’Oratorio, fondato da padri provenienti dalla Casa di Roma: “Oggi – scrisse padre Antonio Talpa – il padre messer Francesco Maria [Tarugi] ha parlato familiarmente, poi ha parlato messer Giovenale [Ancina].
Io ne ho sentita tanta consolazione che non potrei dir di più: mi è sembrato di vedere l’Oratorio in quella purezza e semplicità che aveva a San Girolamo.
(…) Desidererei che Vostra Reverenza non solo gli desse la sua approvazione, ma anche che glielo comandasse (…) Il frutto sarà certamente maggiore e minore la fatica, e, quel che più importa, si conserverà la forma di parlare propria dell’Oratorio e si trasmetterà ai posteri: altrimenti si perderebbe, ed è il bene più grande che la nostra Congregazione possiede”.
Nella risposta di Filippo Neri – diretta al Tarugi e affidata, come spesso accadeva, alla penna di Niccolò Gigli, molto caro al santo per il candore e la profonda sintonia di spirito – si legge una preziosa indicazione: “Le dico che il Padre ed i Deputati e gli altri sacerdoti di Congregazione si sono rallegrati quando hanno saputo che Vostra Reverenza ha parlato sopra il libro, secondo l’antico costume dell’Oratorio, quando in spiritu et veritate et simplicitate cordis si predicava, lasciando che lo Spirito Santo infondesse le sue virtù in bocca a chi parlava”.
Francesco M.
Tarugi, ne era ben convinto: tracciando le linee programmatiche su cui sviluppare il testo delle Costituzioni, egli affermava infatti: “Si cerchi di mantenere l’Oratorio più con la devozione che con gli ornamenti del parlare”; e già qualche anno prima, scrivendo nel 1579 a Carlo Borromeo, aveva ricordato che l’Oratorio consiste “nel trattare ogni giorno il Verbo di Dio in modo familiare” precisando che la “familiarità” non doveva essere separata dalla “dignità dovuta” e la “semplicità” non doveva confondersi con la povertà dei contenuti, dal momento che scopo principale dell’Oratorio è “formare un uomo cristiano e tenerlo, con l’aiuto della Grazia, continuamente in esercizio”.
Nelle deposizioni dei testi al processo è presente il ricordo della predicazione di padre Filippo in chiesa, durante le celebrazioni, caratterizzata da fervore e commozione, ma anche da una speciale capacità di leggere negli animi che gli consentiva di parlare a tutti tenendo presente la situazione di ognuno.
Vigerio Aquilino, che attesta di averlo sentito spesso sermoneggiare nella Chiesa Nuova, depone: “Una volta, mentre il Padre predicava pubblicamente, e credo che fosse l’anno 1583, raccontò dettagliatamente il caso di un conflitto spirituale molto stravagante, che diceva essere capitato ad un sacerdote.
E io, che ero presente ed ero ordinato sacerdote sebbene ancora non avessi celebrato la messa, ho capito che il beato Padre faceva per me questo ragionamento, poiché questo conflitto era quello che si agitava in me, punto per punto, come il Padre lo raccontava.
Donde io ne ricevetti ammirazione per il Padre e giovamento per la mia anima”.
Ciò che ancor più colpiva era però il suo “ragionare” nell’Oratorio: “Chi voglia farsi un’idea del predicare di lui – scrive il cardinale Capecelatro – deve risalire su fino a Gesù Cristo e ricordare la semplicità, la bellezza e la facilità grande delle parabole evangeliche”.
Marcello Ferro, tra gli altri, descrive gli incontri in cui san Filippo, esponendo la Parola di Dio, come un “Socrate cristiano”, coinvolgeva i presenti: “Da quando mi posi nelle sue mani, intorno al 1553, mi sono trovato molte volte presente quando il beato Filippo, cominciava a parlare, o proponeva qualche cosa di spirituale e faceva dire agli astanti il loro parere”.
Era toccante il fervore di Filippo: “Si vedeva – ricorda un teste – che nel parlare delle cose di Dio andava tutto in spirito, e molte volte l’ho visto che tremava e si muoveva facendo tremare anche il letto (…) a volte sembrava che tremasse la camera stessa”.
Il fenomeno era iniziato con la misteriosa effusione di Spirito Santo che Filippo ricevette, ancora laico – sarebbe stato ordinato sacerdote solo nel 1551, a trentasei anni – nell’imminenza della Pentecoste del 1544.
Di quell’avvenimento egli custodì gelosamente il segreto – secretum meum mihi diceva – fin quasi al termine della sua vita, ma non sempre fu in grado di nascondere gli improvvisi calori, i tremiti, le estasi e le impressionanti palpitazioni del cuore di cui l’esame autoptico evidenziò l’enorme dilatazione.
Una prorompente commozione accompagnava spesso il fervore, testimonia, tra i molti, Marcello Vitelleschi – “Io ho visto molte volte il Padre piangere, perché non si poteva trattenere” – e l’abate Marco Antonio Maffa attesta che ciò accadeva anche nella predicazione del Padre in chiesa: “L’ho sentito molte volte predicare (…) e come aveva detto dieci parole incominciava a versare lacrime nel parlare dell’amore di Dio, al punto che doveva interrompersi”.
Fu questo il motivo per cui, negli ultimi anni della vita, non parlò più in pubblico.
L’ultima volta che cercò di predicare è ricordata dai testi con particolare commozione: “Mi ricordo ancora – testimonia Alessandro Illuminati, il 2 settembre 1595 – che, circa sei anni sono, mentre si facevano sermoni nell’oratorio il padre salì su la banca da sermoneggiare con tanto spirito, et venne in tanta dirottura de piangere che non possette dire una parola, et discese giù senza dir altro, et mai più ci è salito”.
Da quel momento Filippo, che viveva della Parola di Dio, in modo ancor più efficace divenne tacito predicatore del Verbo, ripetendo, fin sul letto di morte: “Cristo mio, Signor mio, tutto è vanità.
Chi vuol altro che non sia Cristo non sa quel che si voglia, chi cerca altro che Cristo non sa quel che cerca, chi fa e non per Cristo non sa quel che si faccia”.
Schola beati Patris sarà detto dal Gallonio e dai primi oratoriani il cammino dei discepoli di padre Filippo ed il metodo dell’Oratorio, che nell’ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nella assidua pratica sacramentale, nell’ascetica dell’umiltà come base per l’esercizio delle virtù ha il proprio punto di forza.
Senza proclami ufficiali, in tutta semplicità, l’Oratorio assunse il volto della comunità apostolica descritta dagli Atti, come testimoniano, tra i primi, Cesare Baronio e Francesco M.
Tarugi: “Sembrò riapparire, in relazione al tempo presente, il bel volto della comunità apostolica”, “la rinnovazione dello spirito che ebbero i cristiani della primitiva Chiesa”.
(©L’Osservatore Romano – 25-26 maggio 2009) Nella preghiera litanica che il cardinale John Henry Newman compose delineando il volto e la missione di san Filippo Neri, l’invocazione Sancte Philippe, qui Verbum Dei cotidianum distribuisti esprime l’amore di Filippo per la Parola di Dio, ma anche la novità della predicazione quotidiana in un’epoca in cui essa era piuttosto occasionale, tanto che Antonio Gallonio, autore della prima biografia del santo, poté scrivere che Filippo “fu il primo che introdusse in Roma la parola di Dio cotidiana”.
Ciò che attirava all’Oratorio un numero crescente di persone, era, comunque, la semplicità e il modo familiare con cui egli, con evidente distanza dallo stile ampolloso e pieno di artifici retorici della sua epoca, trasmetteva ogni giorno la Parola di Dio.

L’Imperatore d’Austria che Papa Wojtyla tanto ammirava

A Roma, intanto, l’avvocato Andrea Ambrosi, postulatore della causa di beatificazione dell’imperatore Carlo I d’Austria, sta lavorando per l’ultima tappa del processo: la “canonizzazione”, cioè la proclamazione della santità.
Per raggiungere questo traguardo, la Chiesa richiede l’approvazione di un nuovo miracolo, avvenuto dopo che il soggetto era stato proclamato beato.
E questo miracolo per l’imperatore d’Austria Carlo I c’è già.
Riguarda una signora americana, Tamara Staggs, di Orlando, in Florida.
Nel 2002 fu colpita da tumore maligno alla mammella.
Fu operata e sottoposta a chemioterapia, ma nel 2004 il male si ripresentò più grave, con metastasi anche al fegato.
Medicine e terapie risultarono inutili.
La situazione precipitava.
I medici dissero che all’ammalata restavano pochi mesi di vita.
I coniugi Melancon, amici della signora Tamara, ma amici anche della famiglia del beato Carlo, dalla quale avevano ricevuto in dono una reliquia, cominciarono a pregare l’imperatore per la guarigione della signora Tamara.
La cosa sembrava un po’ “difficile” perchè la signora Tamara non era di religione cattolica, ma riuscirono egualmente a coinvolgerla nelle preghiere e, all’improvviso, arrivò la guarigione.
Il 19 gennaio 2005, una TAC evidenziava, in modo del tutto inatteso, la completa scomparsa delle metastasi epatiche.
Successivi controlli, ripetuti periodicamente – l’ultimo nell’ottobre 2008 – hanno dimostrato che del male non c’è più alcuna traccia.
A Orlando è già stato fatto il processo diocesano per questa guarigione con le deposizioni giurate di tutti i testimoni e dei medici.
L’incartamento è già a Roma.
<<Sono trascorsi tre anni dalla guarigione, quindi va ritenuta inconfutabile>>, dice il postulatore avvocato Ambrosi.
<<Ho già fatto esaminare il caso anche a un famoso oncologo dell’Università “La Sapienza” di Roma, che lo ha ritenuto validissimo.
Però, per avere la certezza assoluta, ho deciso di aspettare fino al 2010, cioè cinque anni dopo la guarigione.
E sono certo che questo miracolo farà diventare presto Santo l’imperatore d’Austria>>.
Quando, nel 2004, venne diffusa la notizia che l’Imperatore Carlo I° d’Austria sarebbe stato beatificato, molti, anche in ambito cattolico, si meravigliarono.
Trovavano strano che un imperatore, cioè un uomo appartenente al mondo dei nobili, dei ricchi, dei potenti della terra potesse diventare santo.
I giornali ricordarono figure del passato: Re Stefano d’Ungheria, Sant’Agnese di Praga, Sant’Elisabetta d’Ungheria, Sant’Enrico II imperatore, Santa Brigida di Svezia, San Luigi IX re di Francia, San Ferdinando re del Portogallo eccetera, sottolineando, però, che si trattava di “regnanti” vissuti in tempi molto lontani, quando i processi di beatificazione non erano rigorosi come lo sono ora, mentre Carlo I d’Austria era morto nel 1922, all’inizio del secolo scorso, meno di cento anni prima.
Era un uomo giovane, intelligente, colto, bello, marito di una principessa bellissima, Zita dei Borboni Parma, dalla quale aveva avuto otto figli.
Per la mentalità moderna, sembrava impossibile che una persona del genere avesse esercitato le virtù evangeliche in maniera eroica al punto da meritare la gloria degli altari.
Su di lui inoltre circolavano molti pregiudizi.
Gli storici laici lo avevano sempre definito “un debole e un incapace”.
Salito al trono nel 1916, quando era in pieno svolgimento la Prima guerra mondiale, lo incolpavano di non essere stato capace di vincere la guerra.
Per questo, dopo il conflitto era stato esiliato dal suo Paese.
Ma, poi, alla luce di una grande mole di documenti emersi al processo di beatificazione e di altri studi pubblicati dopo quel processo, si è scoperto invece che l’imperatore Carlo I fu un politico lungimirante, che voleva il “bene vero” dei suoi sudditi, che aveva grandi idee d’avanguardia per l’Europa.
<<Sì, il processo di beatificazione ha molto contribuito a cambiare il giudizio che gli storici avevano sempre dato su mio nonno>>, dice l’Arciduchessa Catharina d’Austria, figlia dell’arciduca Rodolfo.
<<Finalmente, molti studiosi hanno cominciato a mettere da parte i pregiudizi derivanti dal fatto che mio padre era un cattolico praticante, e hanno iniziato a valutarne obbiettivamente le idee politiche, costatando che erano geniali>>.
Trentasei anni, Laureata in Giurisprudenza e specializzata in Scienze politiche, Catharina d’Austria è autrice di vari saggi storici sui personaggi della propria famiglia e, naturalmente, anche lei grande appassionata della storia del suo illustre nonno.
<<Oggi per fortuna, molti riconoscono che mio nonno fu un illuminato pacifista, uno dei primi convinti sostenitori di una Grande Europa Unita, basata non sui conflitti armati ma sulla cooperazione, sul rispetto delle minoranze, delle autonomie, delle culture e delle singole persone.
Se fosse stato ascoltato, l’Europa unita sarebbe nata molto prima, e certamente non ci sarebbero stati gli orrori della terribile Seconda guerra mondiale>>.
L’arciduchessa Catharina d’Austria, che ha sposato un italiano, il conte Massimiliano Secco d’Aragona, cittadino bresciano, è promotrice di varie iniziative a favore della conoscenza vera dell’Imperatore Carlo I d’Austria.
A Brescia, dove spesso vive con il marito e i due figli, Costantino, 8 anni, e Nicolò, 6, ha patrocinato un centro culturale e religioso che ha lo scopo di far conoscere ed apprezzare la vita, l’opera e la santità del Beato Imperatore Carlo d’Austria.
Questo centro ha sede nella parrocchia di San Gottardo, dove si conservano alcune reliquie dell’Imperatore.
Al movimento hanno aderito importanti personalità del mondo cattolico, uomini politici, professori universitari, vescovi e prelati illustri.
In quel centro, gestito dal parroco monsignor Arnaldo Morandi, si tengono convegni, conferenze, dibattiti per approfondire la conoscenza della politica cristiana di Carlo I Imperatore.
<<Io sono la più piccola dei nipoti dell’Imperatore Carlo I>>, dice l’arciduchessa Catharina.
<<Ho imparato a conoscerlo soprattutto attraverso i racconti di mia nonna, l’Imperatrice Zita dei Borboni Parma.
Passava molto tempo nella nostra casa a Bruxelles e io, essendo la più piccola, ero un po’ la sua coccola.
Era religiosissima.
Fu lei a insegnarmi il catechismo e a prepararmi per la Prima Comunione.
Parlava sempre del nonno.
Ne parlava con tale trasporto che era impossibile non rimanere affascinati.
E, dai suoi racconti, mi sono fatta l’idea che il nonno non fu un santo solo da adulto, da imperatore, ma da sempre, da ragazzo, da giovane, da fidanzato.
Un grande santo>>.
A Roma, intanto, l’avvocato Andrea Ambrosi, postulatore della causa di beatificazione dell’imperatore Carlo I d’Austria, sta lavorando per l’ultima tappa del processo: la “canonizzazione”, cioè la proclamazione della santità.
Per raggiungere questo traguardo, la Chiesa richiede l’approvazione di un nuovo miracolo, avvenuto dopo che il soggetto era stato proclamato beato.
E questo miracolo per l’imperatore d’Austria Carlo I c’è già.
Riguarda una signora americana, Tamara Staggs, di Orlando, in Florida.
Nel 2002 fu colpita da tumore maligno alla mammella.
Fu operata e sottoposta a chemioterapia, ma nel 2004 il male si ripresentò più grave, con metastasi anche al fegato.
Medicine e terapie risultarono inutili.
La situazione precipitava.
I medici dissero che all’ammalata restavano pochi mesi di vita.
I coniugi Melancon, amici della signora Tamara, ma amici anche della famiglia del beato Carlo, dalla quale avevano ricevuto in dono una reliquia, cominciarono a pregare l’imperatore per la guarigione della signora Tamara.
La cosa sembrava un po’ “difficile” perchè la signora Tamara non era di religione cattolica, ma riuscirono egualmente a coinvolgerla nelle preghiere e, all’improvviso, arrivò la guarigione.
Il 19 gennaio 2005, una TAC evidenziava, in modo del tutto inatteso, la completa scomparsa delle metastasi epatiche.
Successivi controlli, ripetuti periodicamente – l’ultimo nell’ottobre 2008 – hanno dimostrato che del male non c’è più alcuna traccia.
A Orlando è già stato fatto il processo diocesano per questa guarigione con le deposizioni giurate di tutti i testimoni e dei medici.
L’incartamento è già a Roma.
<<Sono trascorsi tre anni dalla guarigione, quindi va ritenuta inconfutabile>>, dice il postulatore avvocato Ambrosi.
<<Ho già fatto esaminare il caso anche a un famoso oncologo dell’Università “La Sapienza” di Roma, che lo ha ritenuto validissimo.
Però, per avere la certezza assoluta, ho deciso di aspettare fino al 2010, cioè cinque anni dopo la guarigione.
E sono certo che questo miracolo farà diventare presto Santo l’imperatore d’Austria>>.
Renzo Allegri Il primo di aprile di 87 anni fa moriva Carlo d’Asburgo Lorena, ultimo imperatore d’Austria proclamato beato nell’ottobre del 2004.
Alla morte aveva soltanto 34 anni ed era in esilio a Madeira, cacciato dal trono dalle nuove forze politiche che si erano rafforzate nel Paese dopo la prima guerra mondiale e che si opponevano a Carlo perché cattolico osservante e rappresentante di quell’antico Sacro romano impero che difendeva la Chiesa.
Il 2 aprile, invece, ricorre il quarto anniversario della morte di un altro grande, grandissimo uomo: Carlo Wojtyla e cioè Papa Giovanni Paolo II.
In due giorni si ricordano gli anniversari di un imperatore già beato e di un Papa, che dovrebbe essere proclamato beato a breve.
Austriaco il primo, polacco il secondo.
Due eccezionali protagonisti della storia del secolo Ventesimo.
Due persone che non si sono mai conosciute su questa terra, ma che erano legate dalla fede cristiana, dalla pratica eroica delle virtù evangeliche nella vita quotidiana e anche da un sottile e misterioso dettaglio affettivo: avevano avuto al battesimo lo stesso nome, Carlo.
In genere, nei libri biografici di Papa Giovanni Paolo II non si trova alcun cenno a questo dettaglio.
Dai registri parrocchiali si sa che venne battezzato con due nomi: Karol Jozef (Carlo Giuseppe).
Tutti i biografi hanno sempre scritto che il primo nome ricordava il padre del futuro Papa, che si chiamava appunto Karol (Carlo), mentre il secondo, Jozef, gli era stato dato in omaggio al generale Pilsudski, l’eroe fondatore della Repubblica Polacca.
Ma recentemente su questo argomento ho raccolto una testimonianza nuova e inedita.
Uno dei tre figli viventi dell’Imperatore Carlo I Suoi altezza imperiale reale Arciduca Rodolfo, mi ha raccontato che lo stesso Giovanni Paolo II gli ha rivelato perché al battesimo fu chiamato Carlo.
<<Fu durante un’udienza privata che Papa Wojtyla concesse alla mia famiglia>>, mi ha raccontato l’Arciduca Rodolfo.
<<C’erano i miei figli, con le loro famiglie e c’era anche mia madre, l’Imperatrice Zita.
Il Papa ci accolse con grande cordialità.
Parlò con grande entusiasmo di mio padre, l’imperatore Carlo.
E rivolgendosi a mia madre, la chiamava “la mia Imperatrice” e ogni volta si inchinava verso di lei.
Ad un certo momento disse: “Sapete perché al battesimo io fui chiamato Carlo? Proprio perché mio padre aveva una grande ammirazione per l’Imperatore Carlo I, di cui è stato un soldato>>.
Testimonianza molto significativa che spiega la costante ammirazione manifestata sempre da Giovanni Paolo II per l’Imperatore austriaco.
Aveva imparato a conoscerlo dal proprio genitore, Karol Wojtyla senior, che era stato sottufficiale del 56° reggimento di fanteria dell’esercito austroungarico, quindi soldato dell’Imperatore Carlo I°.
Fin da allora, Karol Wojtyla senior aveva intuito la grandezza morale e spirituale del suo imperatore e se ne era entusiasmato al punto da dare al proprio figlio quel nome.
E, mano a mano che il figlio cresceva, gli trasmetteva la vera storia di quell’imperatore, confutando le dicerie e le calunnie diffuse da coloro che lo avevano cacciato dal trono.
Così, anche il futuro Papa imparò ad apprezzare il giovane e sfortunato imperatore austriaco, vedendo in lui una rara e fulgida figura di sovrano giusto e leale, generoso e amorevole, pronto a qualsiasi sacrificio personale per il bene del popolo.
Per questo, da Papa, ne sostenne apertamente e con entusiasmo il processo di beatificazione e quando potè celebrare la solenne cerimonia lo fece con gioia, indicando il sovrano austriaco come modello per tutti gli uomini politici.

Steve K. Ray

Da accanito avversario della Chiesa Cattolica a suo convinto sostenitore e difensore.
Nato e battezzato nella chiesa battista, Steve K.
Ray si è convertito quindici anni fa al cattolicesimo, divenendo nel giro di qualche tempo uno dei più noti apologeti e conferenzieri americani.
Autore di numerosi libri e documentari a sostegno delle verità della Chiesa di Roma, Ray è curatore del sito web www.catholicconvert.com.
La scorsa settimana, dal 20 al 24 aprile, Steve K.
Ray è stato ospite dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA) dove ha tenuto il corso intensivo di apologetica “Le ragioni della fede”, realizzato in collaborazione con il Centro Pascal e l’Istituto Sacerdos.
Intervista allo scrittore e conferenziere Steve K.
Ray Mr.
Ray, quali sono stati i contenuti e le finalità del suo corso? Ray: Sin dal momento della mia conversione mi sono sempre trovato dinnanzi al confronto tra Chiesa cattolica e Chiese protestanti.
Mi rendevo conto della necessità di argomentare, di fornire buone ragioni alla mia scelta.
Quando padre Alfonso Aguilar LC (coordinatore del corso, ndr) mi ha proposto di tenere il corso di apologetica “Le ragioni della fede”, ho accettato con molto entusiasmo.
Il corso, pur aperto a tutti, è indirizzato soprattutto ai seminaristi di nazionalità statunitense e messicana che studiano teologia all’APRA: quando costoro torneranno in patria da sacerdoti dovranno confrontarsi con le argomentazioni e le critiche dei battisti, degli evangelici e delle varie sette.
Chi porta avanti missioni cattoliche in Usa o in Messico corre il rischio inevitabile di essere attaccato per la sua fede.
Quindi l’obiettivo del mio corso è stato quello di parlare a questi uomini, soprattutto in vista del loro futuro apostolato nei loro paesi d’origine.
Rafforzare la fede di un sacerdote è fondamentale poiché la sua predicazione può cambiare la mente e il cuore di centinaia, anche migliaia di fedeli.
I miei corsi e le mie conferenze hanno quindi soprattutto lo scopo di fornire ‘armi e munizioni’ per i futuri sacerdoti e per i cattolici in generale.
Ci vuole raccontare la storia della sua conversione? Ray: Ho sempre creduto in Gesù e nella cristianità e ho sempre letto e amato la Bibbia, tuttavia vedevo il cattolicesimo come fumo negli occhi.
Non riuscivo davvero a trovare nulla di buono nella Chiesa di Roma: per me il Papa era l’Anticristo.
Durante le mie conferenze sono solito dire che la Chiesa Cattolica era per me una splendida quercia coperta da una cortina di fumo, quindi invisibile alla mia vista.
Diventai cattolico quando mi resi conto delle contraddizioni che dilaniavano la stessa comunità protestante: nessuno di loro era d’accordo su come andava interpretata la Bibbia, nessuno era in grado di dire quale fosse l’autentico messaggio delle Sacre Scritture, non c’era nessun vero maestro tra loro, soltanto molte opinioni differenti con relative diatribe e divisioni.
Inoltre nelle Chiese evangeliche c’è solo la predicazione e manca l’Eucaristia.
Non mi ero mai reso conto che l’unica vera interpretazione della Bibbia era patrimonio della Chiesa Cattolica.
L’altro mio dilemma era di carattere morale: ci sono Chiese evangeliche che accettano il divorzio, l’aborto e la contraccezione, per cui se tu accetti questi principi puoi unirti a loro… Tutta questa confusione etica e dottrinale mi rendeva infelice e frustrato.
Fino a quando uno dei miei migliori amici si convertì al cattolicesimo, dopo essere stato a lungo un predicatore protestante, popolare anche al pubblico radiofonico.
Iniziai perciò a polemizzare con lui, argomentando l’erroneità della sua scelta.
“Convertirti al cattolicesimo è la cosa più stupida che potevi fare – gli dissi – sei troppo in gamba per diventare cattolico”.
Tuttavia, più argomentavo e riflettevo, più mi rendevo conto che la Chiesa Cattolica era dalla parte giusta.
Da bambino mi dicevano sempre che la chiesa delle origini era in un certo senso protestante; tuttavia quando ebbi il piacere di leggere le opere dei padri della chiesa (Sant’Ignazio d’Antiochia, San Policarpo e molti altri) mi resi conto che erano davvero cattolici.
Ciò mi rese sbigottito e mi mise in crisi.
Avevo sempre amato e idealizzato la chiesa delle origini, pertanto avvertivo una contraddizione nella mia appartenenza alla chiesa battista.
La mia conversione non fu accettata dai miei amici e con la maggior parte di loro ruppi ogni legame.
Mia moglie Janet, che ha fatto il mio stesso cammino, ha avuto gli stessi problemi.
Sia io che lei abbiamo litigato con le rispettive famiglie e Janet non ha parlato con suo padre per un anno.
La mia conversione ha una data precisa: 1 gennaio 1994.
Quel giorno mi misi a leggere la Bibbia e, dopo averla chiusa, con le lacrime agli occhi mi dissi: “sono un cattolico”.
La cosa incredibile è che fino a quel giorno non ero mai entrato in una chiesa cattolica, né avevo mai conosciuto alcun sacerdote cattolico.
È stata una vera grazia dal Cielo.
La più bella cosa che mi sia capitata nella vita, insieme all’aver sposato Janet.
Che differenze nota tra la fede degli americani e la fede degli europei, in particolare degli italiani? Ray: Le differenze sono notevoli.
Gli Stati Uniti rimangono un paese molto religioso, in cui la spiritualità è sempre molto forte.
La maggioranza della popolazione crede in Dio e in Gesù Cristo, legge la Bibbia, pur essendoci, anche da noi, una buona percentuale di atei, laicisti e intellettuali che rifiutano la fede.
La divisione tra cattolici e protestanti è però altrettanto marcata.
In altre parti del mondo questa divisione è meno accentuata: in Turchia, ad esempio, i cristiani sono una piccolissima minoranza e questo favorisce una maggiore solidarietà tra le diverse chiese.
Negli Usa i cristiani sono numerosissimi ma assai evidenti sono le dispute e le divisioni al loro interno.
In Europa la lacerazione più palese è quella tra laicisti e intellettuali ‘postmoderni’ da un lato e Chiesa Cattolica dall’altro.
Anche tra i cattolici stessi sussistono grosse differenze tra i cattolici ‘liberal’ e i cattolici obbedienti al Papa.
L’Italia va comunque rievangelizzata: un tempo è stata un paese indubbiamente cattolico ma, anche da voi, la miscredenza e il secolarismo hanno preso piede.
C’è chi dice di essere cristiano senza comportarsi come tale.
C’è gente che va ad ascoltare il Papa e ad applaudirlo ma, verosimilmente, dissente dall’insegnamento del Santo Padre, approvando l’aborto e la contraccezione, vivendo per il denaro e per i piaceri del mondo.
Ovviamente questo è un discorso che vale anche per l’America… Ci troviamo a Roma, capitale della cristianità, una città carica di simboli, il cui suolo è stato santificato dal sangue dei martiri.
Cosa rappresenta per lei, americano e cattolico, questa terra? Ray: Venni per la prima volta a Roma da protestante, interessandomi solo della storia e dell’arte.
La Chiesa Cattolica mi era indifferente, non mi interessavano i suoi simboli religiosi, per me erano pura idolatria.
Tutt’altra cosa fu il mio primo pellegrinaggio da cattolico: ogni opera d’arte mi sembrava estremamente ricca, bella ed elegante.
Pensare a Roma, per me, è pensare a tutta l’opera degli apostoli, una linea ininterrotta di tradizioni indissolubilmente legata a ciò che credo.
Quando vengo a Roma penso a San Pietro e San Paolo, qui martirizzati e sepolti, penso al sangue dei martiri che zampilla ovunque e ha dato vita a nuove generazioni di cristiani.
In questa tradizione vedo anche le mie radici.
Le chiese, le statue, gli affreschi, le opere d’arte di questa città sono un segno di quanto bella sia la Chiesa Cattolica.
La Chiesa è una casa per filosofi, artisti, musicisti ma è in fondo la casa di tutti noi.
Ogni volta che vengo qui a Roma ho la sensazione di immergermi in un bagno caldo, di ‘affondare’ nella mia storia personale.

Marzo

L’ideologia di una guerra santa così come si presenta in alcuni libri dell’Antico Testamento fa trasparire un’evoluzione che è parallela all’evoluzione religiosa della fede ebraica.
Una dottrina della guerra sembra risalire all’epoca della conquista e dell’insediamento in Palestina delle tribù di Israele, raccontate nei Libri di Giosuè e dei Giudici.
Gli ebrei andavano in guerra con il loro dio nazionale Yahweh.
I loro successi militari erano la prova della Sua superiorità rispetto alle altre divinità.
L’esaltazione religiosa della conquista popolare caratterizza questa fase che viene abbandonata con l’affermazione della monarchia e la conseguente creazione di un esercito del Regno.
Questa epoca premonarchica fu indicata come modello dal grande movimento di riforma religiosa di cui furono protagonisti i profeti, e le guerre di Israele furono interpretate come le guerre di Yahweh.
Così, le sconfitte che subiva il popolo ebraico furono messe in relazione al tradimento dell’Alleanza e all’adorazione di divinità straniere.
Il Libro del Deuteronomio contiene una vera codificazione della guerra, soprattutto nel capitolo 20 che è interamente dedicato a questo tema.
Vi si afferma che Yahweh «marcia al fianco di Israele»; è da ciò che il popolo eletto deriva la certezza della propria vittoria (Dt 20,2-4).
2 Quando sarete vicini alla battaglia, il sacerdote si farà avanti, parlerà al popolo 3 e gli dirà: Ascolta, Israele! Voi oggi siete prossimi a dar battaglia ai vostri nemici.
Il vostro cuore non venga meno.
Non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro, 4 perché il Signore, vostro Dio, cammina con voi, per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi.
La presenza costante di Yahweh al fianco del popolo ebraico è l’aspetto essenziale della guerra santa: i guerrieri non devono mai temere il loro nemico perché Yahweh può intervenire in mille modi, anche miracolosi (Gs 10,11).
Fra le diverse prescrizioni legate alla guerra nell’Antico Testamento suscita stupore la pratica dell’herem che consisteva nel fare voto di distruggere interamente le cose e i beni di determinati nemici, in caso di vittoria (Nm 21,2; Gs 6,21).
Il Deuteronomio indica anche quali sono i popoli per i quali bisogna applicare l’herem (Dt 20,16-18).
20 Allora il popolo lanciò il grido di guerra e si suonarono le trombe.
Come il popolo udì il suono della tromba ed ebbe lanciato un grande grido di guerra, le mura della città crollarono; il popolo allora salì verso la città, ciascuno diritto davanti a sé, e occuparono la città.
21 Votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l’ariete e l’asino.
(Gs 6,20-21).
Alla fine, quando la disfatta dell’ultimo regno di Israele fu consumata, la prospettiva del castigo lasciò spazio alla speranza e all’attesa della grande guerra escatologica: furono i profeti a sviluppare, accanto a una concezione positiva della guerra santa, anche una negativa, in cui le sconfitte erano comprese come un castigo per il popolo ebraico.
Questa nuova interpretazione è legata alla precedente perché, in un caso come nell’altro, Yahweh è presente nella guerra e castiga coloro che si scostano dalla retta via.
L’aspetto tragico del conflitto è presente in tutti i profeti, ma soprattutto in Geremia ed Ezechiele che furono contemporanei alla caduta di Gerusalemme e del suo tempio.
Il culmine di quella tensione conduce, poco per volta, alla prospettiva escatologica.
L’interpretazione della guerra da parte dei profeti sfocia nell’idea del “giorno di Yahweh”, il “giorno del Signore”, quello in cui Dio manifesterà la sua onnipotenza punendo coloro che si sono allontanati da lui (Is 2,10-12).
10 Entra fra le rocce, nasconditi nella polvere, di fronte al terrore che desta il Signore, allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra.
11 L’uomo abbasserà gli occhi superbi, l’alterigia umana si piegherà; sarà esaltato il Signore, lui solo in quel giorno.
12 Poiché il Signore degli eserciti ha un giorno contro ogni superbo e altero, contro chiunque si innalza, per abbatterlo; 13 contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati, contro tutte le querce del Basan, 14 contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, 15 contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro fortificato, 16 contro tutte le navi di Tarsis e contro tutte le imbarcazioni di lusso.
17 Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia umana; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno.
18 Gli idoli spariranno del tutto.
(Is 2,10-18) Un ultimo sviluppo dell’interpretazione della guerra, che ritroviamo solamente in alcuni profeti, sarà la presa di posizione risolutamente pacifista che nega qualsiasi valore alle armi, intravedendo la sopravvivenza di Israele solo nel ritorno alla vera religione (Os 14,2; Is 31,1-3; 22,8-11; 30,15).
1 Guai a quanti scendono in Egitto per cercar aiuto, e pongono la speranza nei cavalli, confidano nei carri perché numerosi e sulla cavalleria perché molto potente, senza guardare al Santo di Israele e senza cercare il Signore.
2 Eppure anch’egli è capace di mandare sciagure e non rinnega le sue parole.
Egli si alzerà contro la razza dei malvagi e contro l’aiuto dei malfattori.
(Is 31,1-2) Si tratta di una concezione che ha certamente poco a che fare con il moderno pacifismo, e ancor meno con la non-violenza: qui si afferma sostanzialmente il primato delle qualità spirituali sulla forza materiale, e la piccolezza dei mezzi umani di fronte alla volontà divina.
Con Ezechiele ci si incammina nella direzione della speranza di un ritorno a tempi di pace e all’annuncio di una grande guerra legata alla fine dei tempi.
36 Quando vi avrò purificati da tutte le vostre iniquità, vi farò riabitare le vostre città e le vostre rovine saranno ricostruite.
34 Quella terra desolata, che agli occhi di ogni viandante appariva un deserto, sarà di nuovo coltivata 35 e si dirà: La terra, che era desolata, è diventata ora come il giardino dell’Eden, le città rovinate, desolate e sconvolte, ora sono fortificate e abitate.
36 Le nazioni che saranno rimaste attorno a voi sapranno che io, il Signore, ho ricostruito ciò che era distrutto e coltivato di nuovo la terra che era un deserto.
(Ez 36,33-37) Questa tendenza apocalittica proseguirà nei secoli successivi, e troverà il suo pieno sviluppo a partire dal II secolo a.C.
nei testi dell’apocalittica giudaica di cui il Libro di Daniele è un esempio.
Le visioni escatologiche che vi sono contenute sono direttamente legate ai turbamenti sociali e politici di quell’epoca; una delle idee centrali che esse veicolano è l’attesa del Messia: è in questo contesto che nascerà il cristianesimo.
Dopo la caduta del Tempio e la Diaspora il giudaismo ha molto poco considerato il problema della guerra.
La rilettura della Legge e la sua attualizzazione divenne l’occupazione fondamentale dei rabbini e della comunità ebraica e l’impossibilità politica, per duemila anni, di condurre una qualunque forma di guerra portò a una reinterpretazione totale del suo significato.
Con il genocidio perpetuato dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale, un altro personaggio biblico è venuto a imporsi nella coscienza giudaica, quello di Giobbe, l’uomo giusto e innocente che diventa vittima delle peggiori calamità.
Così, confrontandosi con lo sterminio, il giudaismo trova, nella storia biblica, non tanto una risposta alle sue domande, quanto il modello che pone la medesima domanda.
Alcuni pensatori ebrei, come André Neher, hanno così espresso l’interrogativo supremo: «Così come Geremia ebbe il coraggio di identificare in Nabucodonosor un servitore di Dio, allo stesso modo la generazione di Auschwitz avrà lo stesso coraggio di riconoscere in Auschwitz un’aggressione divina?».
La non violenza praticata nel cristianesimo primitivo derivava naturalmente dall’esempio di Gesù e dal comandamento mosaico: «Non uccidere».
L’omicidio era quindi profondamente proibito e ogni omicida era escluso dalla comunità cristiana.
Un simile rifiuto di uccidere era naturalmente incompatibile con il mestiere del soldato e il problema della legittimità del servizio militare dal punto di vista cristiano risale a quest’epoca.
I primi tre secoli della storia della Chiesa si pongono nella prospettiva inaugurata da Cristo stesso: l’ostilità delle autorità alla predicazione cristiana si è perpetuata fino all’editto di Costantino (313) e fu segnata da un’opposizione continua dello stato romano verso la nuova religione, opposizione degenerata spesso in aperta persecuzione.
L’atteggiamento dell’apostolo Paolo fu duplice: da un lato invitava a sottomettersi all’autorità dello stato, nella misura in cui questo partecipava all’ordine del mondo voluto da Dio; dall’altro, lo stato era un fenomeno passeggero al quale non ci si poteva interamente piegare.
La posizione legalista di Paolo si trova espressa in un celebre passo della Lettera ai Romani.
1 Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite.
Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio.
2 Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio.
E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna.
3 I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male.
Vuoi non aver paura dell’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, 4 poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene.
Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male.
(Rm 13,1-4) Il rispetto dell’autorità civile deve essere interpretato come un aspetto dell’atteggiamento generale dei cristiani, che è di rispetto per gli altri; non si tratta di sottomissione cieca al potere.
La legittimità del potere dello stato è solo in funzione della sua capacità di fare il bene.
Paolo, come Gesù, riconosce l’esistenza di un’autorità terrena che non deve essere rovesciata con la violenza e, malgrado le persecuzioni, fu la posizione seguita da tutti i vescovi fino alla conversione di Costantino.
Suvvia, egregi governatori: sarete ancora più egregi presso il popolo se gli immolerete i cristiani.
Orsù, coraggio, tormentateci, torturateci, condannateci, stritolateci: la vostra iniquità è la prova della nostra innocenza! Dio permette che noi soffriamo tutto questo…
Eppure a nulla giova la vostra squisita crudeltà, anzi è un’attrattiva per la nostra religione.
Più siamo mietuti da voi, più cresciamo: il sangue dei cristiani è un seme! (Tertulliano, Apologetico, 50) Anche se l’ostilità anticristiana era generale e periodicamente un editto imperiale scatenava tutte le atrocità contro di essi, si vedono ancora i vescovi e gli apologeti cristiani cantare le lodi dell’imperatore e proclamare la fedeltà dei cristiani alla pace romana.
L’adesione all’impero non poteva essere completa fintanto che questo continuava a celebrare i culti pagani; il giorno in cui l’imperatore si convertì, il cristianesimo da religione perseguitata divenne religione riconosciuta e protetta.
Il legalismo assunse allora un altro aspetto e si assistette all’unione del potere temporale e delle istituzioni religiose.
Fu così che la confusione tra Dio e Cesare, nettamente respinta da Gesù, si trovò personificata nell’imperatore Costantino.
L’alleanza tra Chiesa e stato trasformerà profondamente la prima: il legalismo temperato di Paolo diventerà bramosia di potere, l’eroismo dei martiri sarà sostituito con l’intolleranza e la persecuzione contro i pagani.
L’analisi dei conflitti internazionali mette in evidenza, tra gli altri elementi, anche l’importanza che riveste l’identità culturale dei popoli nella quale si integra l’identità religiosa.
La manifestazione violenta dei sentimenti religiosi diviene a volte uno strumento di lotta contro l’oppressione, la volontà di ritrovare la propria identità.
Lo scatenamento delle passioni comporta grandi pericoli ed è portatore delle peggiori follie omicide.
Ma la dimensione religiosa nella sua essenza, non ha niente a che vedere con questo scatenamento delle passioni, anzi è all’opposto, e non ha niente a che vedere con la guerra.
Religione significa, o dovrebbe significare, “pace”.
Questo è il suo unico oggetto, il messaggio centrale di tutte le religioni a cui bisogna continuamente ritornare.
Questa pace è il vero spazio del religioso, questo è il suo vero campo d’azione anche se è stato a lungo fuorviato (e lo è tuttora) sui campi di battaglia.
La caratteristica dell’ebraismo è lo studio della Torah, del cristianesimo è la fede in Cristo risorto, dell’islam la sottomissione ad Allah, dell’induismo è l’unione con Brahma, del buddismo il Risveglio alla propria natura universale.
In nessun caso si tratta mai di uccidersi.
In questa sede, e nel prossimo mese, cercheremo di evidenziare alcuni elementi centrali nella riflessione sul rapporto tra le religioni e la guerra che permettano di leggere, alla luce della storia e dei testi sacri delle principali religioni, gli eventi contemporanei.
La prima parte è dedicata all’ebraismo e al cristianesimo; il mese prossimo considereremo l’islam, l’induismo e il buddismo.
Il pacifismo della morale evangelica e la non-violenza dei martiri cristiani, pertanto, non sopravvissero a lungo al matrimonio tra Chiesa e stato.
La contraddizione evidente con tutte le violenze commesse nei secoli successivi nel nome di Cristo, non può che stupire chi osserva l’epopea del cristianesimo: conversioni forzate, inquisizione, crociate, guerre di religione costellano la storia dei cristiani la cui missione era proclamare la Buona Novella.
Certamente il cristianesimo non fu la sola religione che si servì della spada come strumento della fede, e la storia dei santi come san Francesco e san Vincenzo de’ Paoli, o il periodo di pace instaurato dalla Chiesa nell’alto Medioevo, stanno lì a ricordarci che il cristianesimo non era sinonimo di distruzione.
Tuttavia la violenza nella storia di questa religione stupisce più delle altre perché si oppone radicalmente all’insegnamento del suo fondatore.
Associata allo stato, la Chiesa fu presa, così, nell’ingranaggio infernale della giustificazione teologica delle azioni commesse dal potere temporale.
Essa stessa divenne la fonte di una nuova violenza, nella sua certezza di essere la sola detentrice di una verità valida per tutta l’umanità.
Ai conflitti tradizionali, si aggiunse la guerra alle divinità pagane e la caccia agli eretici.
Alcuni teologi giunsero fino a elaborare una teoria della “guerra giusta”: il principale promotore di questa fu sant’Agostino.
Egli, formatosi alla più elevata filosofia del suo tempo, dovette misurarsi con la difficoltà di conciliare la guerra con le Sacre Scritture.
Fortemente legato al precetto di “amare i propri nemici”, Agostino considerava l’atto di uccidere, anche solo per difesa, come un peccato; opponeva al regno di questo mondo un Regno spirituale (la Città di Dio), l’unico degno di vera attenzione da parte degli uomini.
Provava una profonda avversione per ogni guerra: Che tutti coloro che riflettono con dolore a questi mali così orribili e così crudeli, riconoscano che la guerra è una calamità; e se qualcuno li accetta o li pensa senza provare dolore morale, la sua sorte è più triste ancora, perché egli ha perduto ogni sentimento umano.
Eppure, al di là del suo pacifismo, Agostino fu costretto a constatare il pericolo reale e concreto rappresentato dalle invasioni barbariche che si apprestavano a distruggere la civiltà romana e le istituzioni della Chiesa (egli morì a Ippona assediata dai Vandali).
Doveva forse consigliare all’insieme dei cristiani di rifiutarsi di prendere le armi? Questa soluzione gli parve impossibile e intraprese quindi la strada della giustificazione della guerra, almeno sotto una certa forma.
Il primo punto della sua dottrina consiste nel distinguere le guerre giuste da quelle ingiuste.
Egli definisce «giuste le guerre che vendicano le ingiustizie quando quel popolo o quello stato a cui la guerra deve essere fatta non ha punito i misfatti dei suoi o non ha restituito ciò che è stato sottratto attraverso le ingiustizie».
Questa affermazione sottintende che, in ogni caso, le guerre difensive debbano essere giustificate.
Il secondo punto consiste nel ritenere la guerra come un mezzo per ottenere la pace; qualsiasi tipo di pace, è da lui così definita: «La pace è la tranquillità nella giustizia».
Questa posizione implica la moderazione nella conduzione della guerra: «Siate dunque pacificatori nella vostra guerra affinché la vostra vittoria conduca coloro che avete vinto a comprendere l’utilità della pace».
Bisogna quindi ricorrere alla guerra solo in caso di grande necessità, come estrema ratio.
La giustificazione della violenza conobbe, in seguito, un successo che Agostino non poteva immaginare.
Grazie a essa le conversioni forzate e gli abusi dell’Inquisizione poterono avvalersi dell’autorità del maestro di Ippona.
Per primo, egli aveva enunciato il famoso principio: Compelle intrare!, cioè “costringili ad entrare!”.
Senza saperlo, Agostino aveva dunque inaugurato per la Chiesa la lunga tradizione del ricorso al braccio secolare contro coloro che voleva punire.
La sua teoria della guerra giusta sarà il fondamento della teoria della guerra per tutto il Medioevo.
Successivamente, il diritto della guerra evolverà nella direzione del diritto generale, senza riferimento diretto alla dottrina cristiana.
Nel XVI secolo il domenicano spagnolo Francesco De Vittoria studierà il problema della guerra a partire dal diritto di ogni nazione, mentre un secolo più tardi, con Grozio, il problema della guerra sarà esaminato sotto l’angolatura del diritto internazionale.
Nel secolo scorso, in occasione delle due guerre mondiali, si è registrata la strenua opposizione dei due pontefici dell’epoca.
Benedetto XV definì la Prima Guerra «la più fosca tragedia della follia umana», mentre Pio XII nel tentativo di scongiurare la Seconda Guerra, così si pronunciava il 24 agosto 1939: «Nulla è perduto con la pace.
Tutto può esserlo con la guerra».
Benché Gesù abbia affermato «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17) la morale evangelica appare spesso ben lontana dalla morale dell’Antico Testamento.
È senza dubbio nel Discorso della Montagna che la morale evangelica raggiunge la più perfetta formulazione.
3 Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
4 Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
5 Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
10 Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
(Mt 5,3-12) Gesù riprende antichi comandamenti dando loro un nuovo vigore, ricercando lo spirito dietro la lettera: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5,21-22).
Gesù non esita a modificare le codificazioni della Legge che appaiono incompatibili con il suo insegnamento: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello» (Mt 5,38-40).
Inoltre, insiste senza sosta sull’amore del prossimo, fino all’estremo dell’amore per i nemici: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,43-44).
Tutte queste parole di Gesù evocano un insegnamento che esalta l’umiltà, la bontà, la pace e che esclude per i suoi seguaci il ricorso alla violenza e alla guerra.
Eppure, altri versetti dei Vangeli mostrano Gesù sotto tutt’altro aspetto.
Anche volendo ignorare alcuni passi di chiara portata apocalittica, ne troviamo altri in aperta contraddizione con la visione delle Beatitudini, come il seguente: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10,34).
Numerosi cristiani, lungo i secoli, non hanno esitato a servirsi di passaggi come questo dei Vangeli per trasgredire la morale del Discorso della Montagna.
Non bisogna però dimenticare che Gesù si esprime in un contesto sociale di forte agitazione, in cui la violenza politico-religiosa covava sotto la cenere, in cui le antiche profezie erano caricate di valenze distruttrici, e in cui le folle che lo seguivano vedevano in lui essenzialmente un liberatore nazionale.
Gesù, comunque, non esita a scontrarsi con i mercanti del Tempio, con gli scribi e i farisei, con i ricchi e gli ipocriti, con tutti coloro che rifiutano l’amore e la giustizia contenuti nella Legge che pretendono di osservare.
Si mostra anche intransigente con i suoi discepoli: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).
Tuttavia, riletti nella prospettiva dell’epoca, certi passaggi non sono in contraddizione con l’insegnamento fondamentale che Gesù propone e che esclude ogni violenza contro il prossimo.
La conferma di questa lettura sta nella sua accettazione delle sofferenze e della morte, senza cercare alcun ricorso alle armi, ma morendo con parole di perdono nei confronti dei suoi carnefici.
1.
Perché possiamo parlare di “guerra santa” nell’esperienza del popolo ebraico del periodo premonarchico? 2.
Quale differente atteggiamento nei confronti della guerra si riscontra nel Libro di Ezechiele rispetto alla concezione precedente? 3.
Quale Libro dell’Antico Testamento è stato maggiormente considerato nel pensiero ebraico successivamente ad Auschwitz e perché? 4.
Perché possiamo parlare, alla luce dei Vangeli, di “pacifismo cristiano”? 5.
Quando, e che cosa ha determinato nella Chiesa, lo smarrimento di questo ideale? 6.
Quali sono i punti fondamentali della teoria della “guerra giusta” secondo Agostino”?

don Enzo di Nomadelfia

La formazione In realtà, il nome di battesimo di don Enzo era Luigi.
Ma don Zeno glielo cambiò in ricordo di un giovane seminarista ucciso dai nazifascisti.
Da allora per tutti è stato solo don Enzo.
Luigi Bertè – questo il suo cognome all’anagrafe – nasce il 3 aprile 1913 a Ponte dell’Olio, in diocesi e provincia di Piacenza.
A 3 anni e mezzo rimane orfano di madre.
Il padre – un operaio con idee socialiste – si sposa una seconda volta per dare una madre ai figli: don Enzo ricorderà la fatica nell’accettare la nuova figura materna, ma proprio questa esperienza lo renderà sensibile alla proposta di don Zeno.
La famiglia è povera e il padre non può permettersi di pagare neppure la retta minima del seminario di Piacenza.
I superiori del seminario riescono a farlo entrare nel Collegio Alberoni della città, a tutto provvede il lascito del fondatore dell’Istituto.
Per rendersi conto del prestigio dell’istituzione basti ricordare che allievi del Collegio e suoi compagni di studio sono i futuri cardinali Casaroli, Oddi, Samorè, Tonini.
Ordinato sacerdote il 13 marzo 1937, Luigi viene inviato come cappellano nella parrocchia di Morfasso (Piacenza), in una comunità con una forte tradizione e sensibilità cristiana, assecondata dallo zelo pastorale di un parroco energico, don Erminio Squeri.
L’incontro Il parroco – che invitava nella sua parrocchia vari sacerdoti per ritiri, tridui, ecc.
– nel maggio del 1942 invita anche don Zeno Saltini.
All’inizio il giovane Luigi, formato al Collegio Alberoni, è urtato dal modo di fare del prete carpigiano.
Pensa che sia stato un errore invitarlo.
Ma quando, più per dovere di coscienza, che per convinzione va ad ascoltare il primo discorso fatto ai giovani, ne rimane conquistato.
E cerca di parlare personalmente con don Zeno.
Il parroco, che ha intuito il desiderio del suo collaboratore, cerca di evitarlo, ma nell’ultimo giorno di permanenza, don Zeno e don Luigi parlarono per undici ore, dalle sei di sera alle cinque del mattino.
L’incontro lo sconvolge, tanto che don Luigi vorrebbe seguire don Zeno, il quale però lo invita a una maggiore riflessione.
Durante il viaggio di ritorno da Piacenza don Zeno gli scrive: “Carissimo, ho sempre presente la nostra notturna conversazione.
Se il Signore ti chiama, non dormirci sopra.
Se nell’eroico cammino qualche Piccolo Apostolo cade, diserta o tradisce, gli altri, nel nome di Gesù proseguono.
Ho sempre notato che il vacillare in questa chiamata tra le miserie più misere della vita moderna, è un cadere.
Tutti quelli che sono entrati nell’orbita del nostro apostolato, sono stati chiamati decisamente e hanno fatto strappi violenti.
Tra i Piccoli Apostoli di vocazione e gli altri, c’è in comune uno schianto…
Vittime i primi dell’Amore, vittime gli altri dell’abbandono; ma tutti vinti, atterrati, risorti.
Addio, oppure arrivederci nella nuova vita, condivisa tra lacrime, lotte, vittorie anche”.
Nella diocesi di Carpi Don Enzo ottiene – con grandi difficoltà – l’incardinazione nella diocesi di Carpi e arriva a San Giacomo Roncole il 21 luglio 1942.
È il primo sacerdote che abbraccia definitivamente la causa e l’opera di don Zeno.
Nel febbraio 1943 altri sacerdoti si uniscono a don Zeno e formano l’Unione dei Sacerdoti Piccoli Apostoli.
Dopo l’8 settembre 1943, don Zeno parte con alcuni giovani per attraversare il fronte e su don Enzo ricadono le responsabilità dell’Opera Piccoli Apostoli, diffusa in varie parrocchie del modenese.
In quei mesi don Enzo, oltre a produrre personalmente alcune carte d’identità false per gli ebrei, tiene i collegamenti con i sacerdoti dell’Opera che creano una rete di solidarietà per la resistenza e per i perseguitati.
Tra i sacerdoti basterebbe ricordare don Arrigo Beccari, don Ennio Tardini, don Ivo Silingardi i quali, per essere riusciti a far arrivare in Svizzera un centinaio di ebrei, furono arrestati.
Don Enzo fa centinaia di chilometri in bicicletta per tenere unita l’Opera, per visitare i confratelli imprigionati a Bologna, per evitare i lavori forzati in Germania ai giovani rimasti.
Alla fine dovrà lui stesso nascondersi perché ricercato.
La fame, i sacrifici e i pericoli vissuti in quegli anni gli procurano uno stato di prostrazione fisica che durerà a lungo.
Fino al 1950 don Enzo rimane parroco di San Giacomo Roncole, anche per mantenere aperti i contatti con i creditori, mentre don Zeno e i Piccoli Apostoli si trasferiscono nell’ex campo di concentramento di Fossoli, dove nasce Nomadelfia.
Nel 1950 don Zeno lo invia a Zambla Alta, in provincia di Bergamo, in una casa di Nomadelfia utilizzata come sanatorio per i giovani arrivati in precarie condizioni fisiche a causa della malnutrizione.
Vi rimane fino al 5 febbraio 1953, un anno dopo il decreto del Sant’Uffizio che impose a don Zeno di lasciare Nomadelfia.
Anche don Enzo – come tutti gli altri sacerdoti – dovrà allontanarsi da Nomadelfia e nei mesi successivi si dedicherà ad aiutare don Zeno nella sistemazione di alcune situazioni difficili che si erano venute a creare dopo lo scioglimento.
A Grosseto Nel novembre del 1953 don Zeno ottiene la laicizzazione pro gratia, richiesta allo scopo di poter continuare a seguire Nomadelfia.
Anche don Enzo e altri sacerdoti vorrebbero percorrere questa strada per condividere le sorti dei figli che hanno accolto insieme a don Zeno, ma non è possibile.
Si prospetta allora il tentativo di realizzare una nuova forma diocesana di convivenza e collaborazione fraterna fra sacerdoti, d’accordo con il vescovo di Grosseto, Paolo Galeazzi.
Idea che anticipava e superava le attuali “unità pastorali” perché prevedeva una comunione di beni tra sacerdoti, che erano vissuti in Nomadelfia, ma che tuttavia viene bloccata dall’intervento del Sant’Uffizio.
Il vescovo, viene deciso, può accogliere questi sacerdoti nella sua diocesi, dove c’è scarsità di clero, ma deve tenerli uno lontano dall’altro.
Alcuni sacerdoti ritornano nel modenese, altri rimangono.
A don Enzo viene assegnata una piccola parrocchia povera e abbandonata, Poggi del Sasso, in cui mancava tutto.
Per don Zeno è la parrocchia adatta a un sacerdote di Nomadelfia.
E don Enzo, lontano dalla sua Nomadelfia, vive con il popolo e riesce a far costruire la chiesa e la canonica.
Nel 1962, dopo la “seconda prima messa” di don Zeno, quando cioè gli viene permesso di riprendere il ministero sacerdotale, qualche sacerdote riesce a tornare a Nomadelfia, ma don Enzo dovrà attendere il 13 ottobre 1969, quando il nuovo vescovo, Primo Gasbarri, gli concede di lasciare la parrocchia.
A fianco del fondatore Dal 1969 al 1981 don Enzo è accanto a don Zeno, che lo porta spesso con sé a condividere i tentativi di lanciare progetti per il futuro di Nomadelfia.
Ma don Enzo dovrà anche sostituire don Zeno per lunghi periodi presso le famiglie che vivono a Subiaco e a La Verna.
Non ci sono impegni particolari, date da ricordare: don Enzo lavora nell’ombra, approfondisce.
Ma sta accanto a don Zeno.
Non può essere con don Zeno quando Giovanni Paolo II assiste a una “Serata” di Nomadelfia a Castel Gandolfo il 12 agosto 1980.
È malato come lo è tante volte.
Ma il 15 gennaio 1981, mentre don Zeno sta morendo, con alcuni figli di Nomadelfia incontra, in maniera imprevista e senza preavviso, Giovanni Paolo II e pregano insieme per il fondatore di Nomadelfia.
Il secondo successore di don Zeno Qualche mese dopo la morte di don Zeno, come è previsto, viene eletto il successore: un sacerdote che porti avanti tale difficile eredità.
Il primo successore è il più giovane don Ennio Tardini, un altro dei sacerdoti della prima ora.
Sembra che per don Enzo si aprano i tempi dello studio e della riflessione per trasmettere alle nuove generazioni la genuinità di quanto lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa in don Zeno.
Ma don Ennio muore in un incidente stradale il 17 novembre 1984.
La pesante eredità ricade su don Enzo, che nel febbraio 1985 è eletto come secondo successore di don Zeno e per diversi anni è contemporaneamente anche parroco di Nomadelfia.
Cosa hanno rappresentato questi anni per Nomadelfia? La scomparsa di due personalità energiche e – si potrebbe dire – vulcaniche come don Zeno e don Ennio lasciano a Nomadelfia un sacerdote con toni più dimessi.
Ma è una personalità per niente secondaria: la sua tenacia, la sua perseveranza portano Nomadelfia a ottenere l’approvazione della Costituzione da parte della Santa Sede nel 2000, dopo aver avuto la gioia di accogliere Giovanni Paolo II, il 21 maggio 1989, nella piccola parrocchia di Nomadelfia.
E questa personalità e la sua sofferenza intanto fanno crescere il popolo, perché Nomadelfia diventa sempre più la condivisione fraterna di una vita, come ha scritto nel suo breve testamento: “Mi permetto di ricordare ai volontari che se non si sforzano ogni giorno di vivere l’Unum invocato da Gesù nell’ultima cena non esiste la nostra fraternità, e non esiste Nomadelfia, perché la nostra fraternità deve permeare i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni: senza Unum si ricade nella vecchia civiltà”.
La fede di don Enzo, il suo legame con la Chiesa e con don Zeno, sono stati la roccia sicura per i nomadelfi in questi anni nel tentativo di realizzare la civiltà dell’amore.
E rappresentano anche il punto di partenza per l’avvenire.
(©L’Osservatore Romano – 5 marzo 2009) Sono stati celebrati nella mattina di mercoledì 4 dal vescovo di Grosseto, Franco Agostinelli, i funerali di don Enzo di Nomadelfia – secondo successore di don Zeno Saltini alla guida della comunità sorta nel dopoguerra per dare famiglia agli orfani e ai bimbi abbandonati – morto alle prime ore di lunedì 2.
Oltre un migliaio di persone hanno partecipato al rito nella chiesa della cittadella toscana ricordando con commozione, affetto e gratitudine la paternità spirituale esercitata per ventiquattro anni da don Enzo.
Nel corso delle esequie – concelebrate dal vescovo di Carpi, Elio Tinti, e di Jesi, Gerardo Rocconi – è stata data lettura del telegramma, a firma del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, con il quale Benedetto XVI, inviando la benedizione apostolica, ricorda la figura dello “zelante sacerdote” scomparso, che negli anni ha seguito le “profetiche orme” di don Zeno.
Assicurando anche un “particolare ricordo nella preghiera”, Benedetto XVI ha incoraggiato i membri della comunità di Nomadelfia a “proseguire uniti” l’impegno della “vita fraterna” e della “testimonianza evangelica”.
Un messaggio è stato inviato inoltre dal cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero – dicastero da cui dipende la comunità di Nomadelfia – il quale anche ha ricordato “l’infaticabile zelo sacerdotale” di don Enzo, “servo buono e fedele”, che ha “contribuito alla realizzazione dell’autentica famiglia cristiana, nell’adesione all’ideale evangelico di don Zeno”.

Helder Câmara profeta di giustizia e di pace

Si sono aperte ufficialmente in Brasile le celebrazioni per il centenario della nascita di dom Helder Câmara (1909-1999), l’arcivescovo universalmente conosciuto per il suo impegno a favore dei poveri e per lo sforzo di sensibilizzare le coscienze all’uso della non violenza per il superamento delle ingiustizie.
Nato il 7 febbraio 1909 a Fortaleza, capitale dello Stato del Cearà, è considerato il fondatore della Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), di cui fu segretario generale per dodici anni.
E proprio il presidente dei vescovi brasiliani, dom Geraldo Lyrio Rocha, arcivescovo di Mariana, ha aperto l’anniversario con una messa celebrata sabato 7 a Recife, la città di cui Câmara è stato arcivescovo.
Ma iniziative e celebrazioni si stanno susseguendo in questi giorni un po’ in tutto il Paese.
E un francobollo commemorativo è stato emesso dalle poste brasiliane.
Una messa è stata celebrata a Belo Horizonte, in una delle zone più povere del Paese.
Presieduta dall’arcivescovo, Walmor Oliveira de Azevedo, la celebrazione eucaristica ha visto la partecipazione di diverse centinaia di persone, tra cui i parenti del presule scomparso, e studenti e insegnanti della scuola, fondata nel 2002, e intitolata proprio a dom Helder Câmara.
“Belo Horizonte – ha sottolineato nell’occasione padre Paolo Stumpf Humberto, direttore del collegio – è stato il terreno fertile in cui il messaggio di pace di dom Helder ha portato frutti e continua ancora a portarne.
Egli figura tra i grandi leader che più hanno lottato per la libertà di espressione e per i diritti umani.
È stato la finestra del Brasile sul mondo per denunciare le ingiustizie”.
Particolarmente significativa è stata, soprattutto, l’omelia pronunciata dal presidente della Conferenza episcopale brasiliana, il quale ringraziando Dio per la vita di dom Helder Câmara, lo ha definito come un “profeta” e come un “dono” speciale per la Chiesa e per i fratelli.
L’arcivescovo Geraldo Lyrio Rocha ha ricordato come tutta la vita di dom Helder sia stata segnata dall’affidarsi docile nelle mani del Padre, atteggiamento ben sintetizzato nel motto episcopale che lo stesso dom Helder volle scegliersi: “Nelle Sue mani”.
Una fede salda e operosa ha caratterizzato, dunque, tutto il suo ministero.
“Dom Helder era solito ricordare – ha detto l’arcivescovo presidente della Cnbb – che quando informò la sua famiglia dell’intenzione di diventare sacerdote il padre lo mise in guardia: “Figlio mio, essere sacerdote è molto impegnativo: il sacerdote e l’egoismo non possono vivere insieme””.
Così dopo essersi dedicato per anni all’educazione dei giovani, alla formazione di un laicato maturo come assistente dell’Azione cattolica, diede vita a Rio de Janeiro – di cui dal 1952 è diventato vescovo ausiliare – alla “Crociata di San Sebastiano”, per dare casa e dignità umana alle folle di baraccati della capitale.
Nel 1955, durante il Congresso eucaristico internazionale, a Rio de Janeiro, partecipò attivamente alla creazione del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam).
“Il suo ministero episcopale – ha sottolineato monsignor Lyrio Rocha – è stato caratterizzato dagli stessi sentimenti di Gesù che vedendo la gran folla ha avuto compassione, perché erano come pecore senza pastore (cfr.
Marco, 6, 30-34)”.
Ma gli anni più impegnativi dovevano ancora arrivare.
Sia sul fronte strettamente ecclesiale, con il concilio Vaticano ii, che sul versante interno al Brasile.
Nominato nel 1964, da Paolo vi, arcivescovo di Olinda e Recife, nel nord-est del Brasile, una delle zone più povere del pianeta, quasi contemporaneamente un colpo di Stato militare impose la dittatura.
Al regime erano note le sue posizioni a difesa dei diritti dei poveri, la promozione della giustizia, della democrazia e della libertà di espressione.
Per il nuovo arcivescovo iniziarono anni di sofferenze e persecuzioni, con minacce di morte, accuse, insulti e denigrazioni.
Molti dei suoi collaboratori, sacerdoti e laici, accusati di attività sovversive vennero arrestati, torturati e persino uccisi.
E tra la popolazione si diffuse un clima di paura.
Di fronte a questi fatti – ricorda monsignor Lyrio Rocha – il suo “messaggio è stato intriso del sapore e del contenuto della missione profetica.
Si è presentato come il vescovo di tutti: “Il mio cuore e la mia porta – dirà – sono aperti a tutti, assolutamente tutti.
Cristo è morto per tutti””.
Una posizione non tollerabile dal regime, che nel 1970 – ricorda ancora il presidente della Cnbb – finì per imporre ai mass media il divieto di parlare, a favore o contro, di dom Câmara.
“Se da un lato l’atteggiamento dei militari ha limitato la sua azione di pastore diocesano – ha rilevato monsignor Lyrio Rocha – dall’altro ha lanciato la sua azione profetica al di là dei confini del Brasile, con continui inviti a conferenze in molte parti del mondo.
La sua presenza ha irradiato la fiducia nell’impegno evangelico.
È stato segno di contraddizione e segno di speranza, soprattutto per i più poveri e tutti coloro che lottano per la speranza e la pace”.
Anche la celebrazione del concilio ha offerto a dom Helder la possibilità di diventare un “missionario”, un “pellegrino della giustizia e della pace”.
E infatti – ha ricordato monsignor Lyrio Rocha – “uno speciale rapporto di amicizia si formò con i vescovi più sensibili al tema del Terzo Mondo.
In questo contesto è nato il famoso gruppo di vescovi che si riuniva ogni venerdì sulla missione della Chiesa con i poveri e che, sul finire del concilio si riunì in una catacomba di Roma per firmare il Patto delle Catacombe, in cui ciascuno si impegnava a vivere povero, a respingere emblemi e simboli del potere, in modo da rendere evidente l’opzione evangelica per i poveri”.
Come un san Paolo dei tempi moderni – ha concluso monsignor Lyrio Rocha – si è impegnato nella sua attività missionaria “sperando contro ogni speranza”, come Abramo (cfr.
Lettera ai Romani, 4, 18), incoraggiando le “minoranze abramitiche” alle quali ha insegnato che una società giusta e fraterna si costruisce con la non violenza.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 febbraio 2009)

I 150° della Fondazione della Sua Congregazione.

VERBALE DELL’ATTO DI FONDAZIONE DELLA CONGREGAZIONE SALESIANA Torino, 18 dicembre 1859 Testo critico preparato dall’Istituto Storico salesiano Nel Nome di Nostro Signor Gesù Cristo Amen 1859.
L’anno del Signore mille ottocento cinquantanove alli diciotto di Dicembre in questo Oratorio di S.
Francesco di Sales nella camera del Sacerdote Bosco Gioanni alle ore 9 pomeridiane si radunavano, esso, il Sacerdote Alasonatti Vittorio, i chierici Savio Angelo Diacono, Rua Michele Suddiacono, Cagliero Gioanni, Francesia Gio Battista, Provera Francesco, Ghivarello Carlo, Lazzero Giuseppe, Bonetti Gioanni, Anfossi Gioanni, Marcellino Luigi, Cerruti Francesco, Durando Celestino, Pettiva Secondo, Rovetto Antonio, Bongiovanni Cesare Giuseppe, il giovane Chiapale Luigi, tutti allo scopo ed in uno spirito di promuovere e conservare lo spirito di vera carità che richiedesi nell’opera degli Oratorii per la gioventù abbandonata e pericolante, la quale in questi calamitosi tempi viene in mille maniere sedotta a danno della società e precipitata nell’empietà ed irreligione.
Piacque pertanto ai medesimi Congregati di erigersi in Società o Congregazione che avendo di mira il vicendevole ajuto per la santificazione propria si proponesse di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime specialmente delle più bisognose d’istruzione e di educazione │ ed approvato di comune consenso il disegno proposto, fatta breve preghiera ed invocato il lume dello Spirito Santo, procedevano alla elezione dei Membri che dovessero costituire la direzione della società per questa e per nuove Congregazioni se a Dio piacerà favorirne l’incremento.
Pregarono pertanto unanimi Lui iniziatore e promotore a gradire la carica di Superiore Maggiore siccome del tutto a Lui conveniente, il quale avendola accettata colla riserva della facoltà di nominarsi il prefetto, poiché nessuno vi si oppose, pronunziò che gli pareva non dovesse muovere dall’uffizio di prefetto lo Scrivente il quale finqui teneva tal carica nella casa.
Si pensò quindi tosto al modo di elezione per gli altri Socii che concorrono alla Direzione, e si convenne di adottare la votazione a suffragi secreti per più breve via a costituirne il Consiglio, il quale doveva essere composto di un Direttore Spirituale, dell’Economo e di tre Consiglieri in compagnia dei due predescritti uffiziali.
Or fatto Segretario a questo scopo lo Scrivente, ei protesta di aver fedelmente adempito l’uffizio │ commessogli di comune fiducia, attribuendo il suffragio a ciascuno dei Soci secondoché veniva nominato in votazione; e quindi essergli risultato nella elezione del direttore Spirituale all’unanimità la scelta nel Chierico Suddiacono Rua Michele che non se ne ricusava.
Il che ripetutosi per l’Economo, riuscì e fu riconosciuto il Diacono Angelo Savio il quale promise altresì di assumersene il relativo impegno.
Restavano ancora da eleggere i tre consiglieri; pel primo dei quali fattasi al solito la votazione venne il cherico Cagliero Giovanni.
Il secondo consigliere sortì il chierico Gio Bonetti.
Pel terzo ed ultimo essendo riusciti eguali i suffragi a favore dei chierici Ghivarello Carlo e Provera Francesco, fattasi altra votazione la maggioranza risultò pel chierico Ghivarello, e così fu definitivamente costituito il corpo di amministrazione per la nostra Società.
Il quale fatto come venne finqui complessivamente esposto fu letto in piena Congrega di tutti i prelodati Soci ed ufficiali per ora nominati, i quali riconosciutane la veracità, concordi fermarono che se ne conservasse l’originale, a cui per l’autenticità si sottoscrisse il Superiore Maggiore e come Segretario Sac.
Bosco Gio.
Alasonatti Vittorio Sac.
Prefetto

Olivier Clément

Olivier Clément si è spento la sera del 15 gennaio.
Erano anni che non usciva più dalla sua casa in un vivace quartiere popolare di Parigi.
La malattia l’aveva provato, ma aveva ancora un grande interesse per la vita, i fatti del mondo, le vicende della Chiesa.
Quando l’ho salutato, poco prima che si spegnesse, ho guardato la grande finestra della sua camera, da cui si vede la città fino alla Tour Eiffel, pensando ai suoi ultimi anni di ‘eremita’ alla finestra del mondo.
Il suo cenno di saluto esprimeva la simpatia e l’amicizia che hanno caratterizzato la sua vita.
Qualche anno fa aveva scritto: «La vecchiaia favorisce un’altra conoscenza, quella che l’Oriente considera come l’unione dell’intelligenza e del cuore».
Scompare con Clément (nato nel 1921) una figura europea di spicco, unica e originale.
Il suo pensiero è figlio di un innesto complesso e ben riuscito.
Le sue radici sono in ambiente laico e non credente.
Ha vissuto a Parigi, in una città al plurale, ricca ma con tanti aspetti di deserto umano.
Ha sentito l’angoscia degli orizzonti stretti dell’uomo contemporaneo; si è incamminato nei sentieri della ricerca spirituale.
Ha incontrato la fede cristiana nella Chiesa ortodossa.
La sua ricerca inquieta si è sviluppata nel clima della seconda guerra mondiale.
La guerra è, per tanti grandi spiriti, un tempo fecondo di intuizioni.
La generazione della guerra conta tanti ‘maestri spirituali’ che hanno detto molto all’Europa, tentata dal ripiegamento.
Clément é divenuto cristiano, accogliendo il Vangelo dall’Oriente.
Dopo la rivoluzione bolscevica, tanti russi si erano spostati in Francia.
La cultura russa, la fede della Santa Russia, si è innestata in Francia.
Si pensi a Mat’ Maria, monaca, amica dei poveri, morta nel lager nazista per aver aiutato gli ebrei.
Clément ha raccolto la testimonianza di grandi credenti, tra cui Lossky, Berdjaev, Evdokimov.
Il suo passaggio alla fede è stato accompagnato da padre Sofrony, monaco del Monte Athos, di cui Clément dice: «Mi ha fatto comprendere che il cristianesimo non è una ideologia, ma la resurrezione».
Clément si è abbeverato a una fonte cristiana lontana dal suo mondo, che lo ha condotto all’amore della Bibbia e dei Padri.
La sua storia è particolare, ma ogni conversione vera porta lontano.
Eppure Clément è un occidentale che non si traveste.
Non troviamo in lui niente di esotico.
La sua opera è vissuta respirando a due polmoni, con l’Oriente e con l’Occidente.
Ma, da questa sintesi straordinaria, scaturisce un umanesimo cristiano, la cui eredità resta preziosa.
Olivier Clèment ha speso una vita facendo sue le domande di tanti e cercando luce nella liturgia e nei Padri della Chiesa.
La sua libertà interiore lo porta a prendere sul serio tanti.
Le sue domande sono le nostre: quelle delle generazioni degli anni Sessanta, di chi si confronta con la modernità, di chi sente il peso del totalitarismo scientifico, di chi avverte il limite della psicologia e della psicanalisi, di chi percepisce la debolezza delle ideologie, ma anche di chi sente la vita infragilita… Significativa è la sua storia nella crisi del ’68, attento ai giovani chiassosi per le vie di Parigi, accanto al liceo dove insegnava.
Per lui il ’68 fu una grande messa in scena ‘liturgica’ della rivoluzione, con il rifiuto generalizzato del padre, cioè della tradizione.
Clément scarnifica l’utopia del ’68, ma non rinuncia a credere che si possa cambiare il mondo.
Anzi si convince che è la via del cuore a cambiare l’uomo.
Per questo bisogna accogliere la fede dei Padri.
Così, nel ’68, fece un’esperienza tanto diversa: a Istanbul, per un libro-intervista, interrogò il patriarca di Costantinopoli, Athenagoras.
All’epoca della rivolta contro il padre, il teologo quarantacinquenne si mise in ascolto del patriarca più che ottantenne: ne scoprì l’indomita forza spirituale, non rassegnata alla disunione dei cristiani, all’odio tra le nazioni, al vuoto della vita di tanti.
Nella stagione della contestazione o dell’uccisione dei padri, durante il ’68, Clément dialogò con il vecchio padre.
Ne nacque un libro, che rappresenta un capolavoro di spiritualità e di storia.
Da un albero antico, egli traeva linfa per sperare.
Sono care a Clément le parole di Berdjaev, poste all’inizio del suo libro La Révolte de l’Esprit (un titolo che appare una sfida in un tempo in cui si dissolvono le ideologie e i giovani cercano ‘paradisi’ artificiali): «Non ci si può rivoltare che in nome della realtà ultima, dello Spirito, cioè in nome di Dio».
Clément non è uno spirituale fuori dalla storia e senza sogni sul mondo.
Ha il senso della storia e il gusto di indagarla: vuol dire provarne a coglierne anche le profondità.
Qui si scopre una forza di cambiamento, non percepibile alla superficie.
La resurrezione di Cristo fa che la storia non divenga un inferno: «Se la storia non è nutrita di eternità, diventa una zoologia», conclude.
Dio non ha abbandonato la povera e dolorosa storia degli uomini.
Così lo sguardo del cristiano non è cieco davanti al dolore né chiuso nella gabbia del pessimismo o illuso da utopici paradisi in terra.
Ne sono testimonianza i testi della Via Crucis al Colosseo che scrisse nel ’98 per Giovanni Paolo II.
Clément ha cantato in tutta la sua opera la bellezza e l’attualità del cristianesimo.
Ha sentito che è la speranza per il nostro tempo.
Ma soprattutto è stato un credente vero che, con sapienza, ha realizzato in sé un’umanità, amica di Dio e amica degli uomini.
Andrea Riccardi

San Bonaventura da Bagnoregio

La Chiesa “è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione” da parte di coloro che seguono la via dei precetti evangelici.
Lo ha detto il Papa all’udienza generale di mercoledì 3 marzo, nell’Aula Paolo vi, parlando di san Bonaventura da Bagnoregio.
Cari fratelli e sorelle, quest’oggi vorrei parlare di san Bonaventura da Bagnoregio.
Vi confido che, nel proporvi questo argomento, avverto una certa nostalgia, perché ripenso alle ricerche che, da giovane studioso, ho condotto proprio su questo autore, a me particolarmente caro.
La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione.
Con molta gioia qualche mese fa mi sono recato in pellegrinaggio al suo luogo natio, Bagnoregio, una cittadina italiana, nel Lazio, che ne custodisce con venerazione la memoria.
 Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia.
Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.
Si chiamava Giovanni da Fidanza.
Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta.
Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte.
Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato.
E Giovanni guarì.
La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi.
Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi.
A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale:  “Che cosa devo fare della mia vita?”.
Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco.
Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta:  in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo.
Scriveva così in una lettera indirizzata ad un altro frate:  “Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa.
La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo” (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura.
Introduzione generale, Roma 1990, p.
29).
Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura.
Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi.
Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di “baccelliere biblico” e di “baccelliere sentenziario”.
Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa.
È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora.
La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo.
Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura.
Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.
In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman.
Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata.
Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, di cui ho parlato nelle catechesi precedenti, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli.
Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia.
Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica.
In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso.
Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale:  la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione.
Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro iv, nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina.
Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.
Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi.
Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso:  erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino.
Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito.
Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna.
Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori.
Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori.
Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni.
Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento.
Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco.
Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor.
La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, “Legenda” significa un testo autorevole, “da leggersi” ufficialmente.
Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.
Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale:  Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo.
Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui.
Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco.
Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo ii.
Tale programma, egli scriveva nella Lettera Novo Millennio ineunte, si incentra “in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” (n.
29).
Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento.
Il Papa Gregorio x lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale.
Gli chiese anche di preparare un importantissimo evento ecclesiale:  il ii Concilio Ecumenico di Lione, che aveva come scopo il ristabilimento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca.
Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché morì durante il suo svolgimento.
Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo:  “Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini…
Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare” (cfr.
J.G.
Bougerol, Bonaventura, in A.
Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana.
Vol.
vi.
L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p.
91).
Raccogliamo l’eredità di questo santo Dottore della Chiesa, che ci ricorda il senso della nostra vita con le seguenti parole:  “Sulla terra…
possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi…
entreremo nel gaudio di Dio” (La conoscenza di Cristo, q.
6, conclusione, in Opere di San Bonaventura.
Opuscoli Teologici / 1, Roma 1993, p.
187).
  (©L’Osservatore Romano – 4 marzo 2010)