Il territorio della fede



Il problema della Chiesa in ambito rurale (recentemente affrontato da La Croix) non è solo di oggi.

 

Da trent’anni, la maggior parte delle diocesi francesi ha effettuato cambiamenti territoriali, spesso raggruppando le parrocchie attorno ad una centrale, che avrebbe dovuto diventare il centro delle attività pastorali. In questo ambito si ricorda frequentemente il lavoro del canonico Boulard negli anni ’60 in tutto il Paese. Ne derivò la creazione di équipe di preti, di consigli di laici per  suddividere i compiti. Poi venne il Concilio, le équipe di animazione pastorale con il frequente ricorso al canone 517 § 2, mentre l’Azione cattolica specializzata, le iniziative missionarie continuavano il loro cammino.


Avendo partecipato alla pastorale d’insieme secondo padre Boulard, devo riconoscere che i nostri criteri di analisi rientravano fondamentalmente nella pastorale cultuale e catechetica. Si trattava, sessant’anni fa, di una ruralità tradizionale che stava “decollando” sul piano economico con l’industrializzazione del materiale e delle produzioni agricole, ma anche con la formazione scolastica e universitaria dei giovani rurali, che, per questo, lasciavano il territorio d’origine. Il passaggio dalla Jeunesse agricole catholique (JAC) al Mouvement rural de la jeunesse chrétienne (MRJC) ne è la traduzione più evidente. Ma noi avevamo ancora l’immagine ideale di un insieme stabile attorno alla messa domenicale, all’interno del movimento globale della società.


Oggi, lo spazio rurale è segnato dalla mobilità e dalla fluidità della popolazione che lo abita e di cui una parte importante non lavora sul posto. Siamo ben lontani dalla comunità tradizionale, dove la Chiesa offriva un luogo di incontro e di attività del tempo libero, un luogo di riferimento per la vita morale e spirituale – quello che si definiva una pastorale di inquadramento con riti e punti di riferimento. Secondo quel contesto immaginario, la diminuzione dei preti, dei religiosi, delle religiose diventa una svolta critica.


Ora, il territorio parrocchiale stesso è un luogo di passaggio, in cui, eccetto un nucleo di responsabili che svolgono attività funzionali, ci si incontra in modo irregolare. È la cultura del passaggio, dell’effimero, del mirato. Voler continuare a mantenere delle presenze di preti per svolgervi gli stessi servizi di un tempo è impossibile. Ma soprattutto, tale forma di presenza si rivela inadatta a questa situazione di mobilità.


Se il ministero apostolico del prete svolge un ruolo essenziale nella vita delle comunità fin dalla Chiesa primitiva, quest’ultima è per natura sottomessa a Cristo nella sua totalità e nella sua opera di comunione. Il cardinal Ratzinger, all’inizio degli anni ’80, rifiutando un centralismo episcopale della Chiesa universale, scriveva: “La finalità ecclesiologica essenziale del collegio (episcopale) non è di formare un governo centrale della Chiesa, ma, al contrario, di contribuire ad edificare la Chiesa come un organismo vivente che cresce ed è unità in tutte le sue cellule viventi” (1). La vita della Chiesa non si riduce ad una istituzione da far funzionare a qualsiasi costo, ed in maniera efficiente, se non redditizia. Non ha a che fare con la razionalità amministrativa dei servizi pubblici della società, della gestione del personale o del funzionamento di strutture, essa è presenza in termini di gratuità e di dono. Rientra nell’ordine del significato sacramentale, della messa al mondo e della nascita di un corpo. Per questo bisogna che ci interroghiamo su certe nostre parrocchie nuove centrate più su una forma di servizio da far funzionare che sulla nascita e la crescita di cellule  locali. Voler raggruppare la pastorale sul centro città o su dei capoluoghi di cantone comporta il rischio di legare la nostra presenza agli anziani in pensione, a coloro che hanno buoni salari, ai militanti degli anni ’70. La centralizzazione provoca, che lo si voglia o no, un impoverimento. La vita emerge spesso alla periferia, ai giorni nostri.


L’anno scorso, la conferenza episcopale francese aveva preso in considerazione una sessantina di iniziative che annunciavano forme nuove di presenza in queste terre di mobilità e di fluidità di relazioni: più mirate, più legate ad eventi. Raduni, pellegrinaggi, comunità di giovani responsabili di vita ecclesiale, cresime festive di Pentecoste, ecc., fanno emergere forme di “ecclesialità” diverse da quelle di ieri. Questi germi di tessuto ecclesiale sono la testimonianza di una Chiesa sacramento di salvezza per tutti. Perché la comunità ecclesiale è qualcosa di meglio di un “agglomerato” di individui credenti, di un servizio pubblico della religione come consumo cultuale, è un corpo vivo le cui cellule sono in collegamento nel tessuto di una società in trasformazione culturale permanente.


La coscienza di essere cristiani non può ridursi ad un’appartenenza ideologica, neppure a delle convinzioni legate a dei valori. È fonte di relazioni, porta in germe una vita fraterna e responsabile.
La pastorale è al servizio di tali relazioni, richiede un decentramento dei nostri interessi, secondo una logica di accompagnamento delle persone e non di regolamentazione o di standardizzazione delle pratiche. Paolo non ha imposto alla comunità di Corinto alcuna dipendenza rispetto a Gerusalemme, ma delle relazioni di comunione e di solidarietà. Le Chiese locali sono luoghi dello Spirito, secondo l’Apocalisse, perché lo Spirito si stabilisce in una comunità di radici umane, quelle in cui prende vita la fede.


(1) Cardinal Ratzinger, Église, oecuménisme et politique, Fayard, 1987, p. 74


in “La Croix” del 17 luglio 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

 

La condizione della musica sacra

 

intervista a Pablo Colino, a cura di Orazio La Rocca

Monsignor Pablo Colino dirige il Coro della Filarmonica Romana

 

«Drammatica, disperata, insignificante». Non usa mezzi termini il maestro don Pablo Colino, nel descrivere lo stato di salute della musica eseguita oggi nelle chiese. Anche se poi tiene a precisare che «c’è ancora la possibilità di capovolgere questa pericolosa tendenza al ribasso, potenziando lo studio della musica sacra e dei canti liturgici, a partire dal gregoriano». Monsignor Colino è universalmente noto come musicista e diretore d’orchestra. Dopo anni di servizio in Vaticano, ora dirige il Coro della Filarmonica Romana. Un’autorità, dunque, in materia di musica religiosa, da anni impegnato a «ripulirla» dalle scorie che, a suo parere, l’hanno compromessa. «È papa Benedetto XVI il primo a chiedercelo e a credere in questo impegno», dice. «Tante volte il pontefice mi ha incoraggiato ad andare avanti, perché la musica sacra è un patrimonio universale, radicato nella più genuina tradizione liturgica».


Maestro Colino, perché la musica sacra e liturgica è in crisi?
«Tutto è precipitato dopo il Concilio Vaticano II, con quella superficiale ondata di pseudorinnovamento che ha fatto tanti danni in quasi tutte le nostre chiese. Basta assistere a una qualsiasi celebrazione liturgica, per sentire orride schitarrate, pianole assordanti e cori superficiali. Il tutto diretto da maestri poco preparati. Anche se non mancano incoraggianti eccezioni che, se coltivate, potrebbero far ben sperare per il futuro».


Potrebbe fare qualche esempio?
«Recentemente, a Terni si è svolto un interessante convegno sulla musica sacra, e, per l’occasione, si sono esibite molte corali giovanili e tanti gruppi di artisti specializzati in musiche liturgiche. È stato bello e interessante sentirli. E anche incoraggiante».



Ma c’è una «ricetta» per rilanciare la musica sacra?
«Occorre tornare allo studio serio, rigoroso e appassionato nelle scholae cantorum, nei conservatori e, magari, nelle scuole. La musica sacra è patrimonio universale, una forma d’arte tra le più alte e immortali. E l’Italia ne è piena, avendo dato i natali ai più grandi autori di musiche liturgiche».


E quali dovrebbero essere i programmi in queste scuole?
«È di fondamentale importanza tornare a diffondere la conoscenza diretta del gregoriano e, parallelamente, affinare la preparazione di musicisti, direttori d’orchestra e di corali. Non si va da nessuna parte senza rigore didattico e senza la conoscenza del gregoriano, la madre della musica sacra, ma oserei dire di tutta la musica, anche di quella contemporanea».


Clemente Vismara: un missionario beato


Ha passato la vita in missione. Ha piantato la Chiesa dove mai il cristianesimo era arrivato. Una santità ordinaria, che semplicemente ha  messo in pratica il Discorso della Montagna



La beatificazione di Giovanni Paolo II ha scosso come un ciclone il mondo intero. “Ma vi sono anche altri testimoni esemplari di Cristo, molto meno noti, che la Chiesa addita con gioia alla venerazione dei fedeli”: così ha detto Benedetto XVI al “Regina Cæli” di due domeniche dopo.

Quello dei santi umili e ordinari – anche quelli che non avranno mai l’aureola – è un tema chiave nella predicazione di papa Joseph Ratzinger. Per lui i santi sono “la più grande apologia della nostra fede”. Assieme all’arte e alla musica, ha aggiunto spesso. E molto più degli argomenti di ragione.

Detta da un papa grande teologo e grande ragionatore, l’affermazione può sorprendere. Ma è del tutto in linea con un altro dei suoi tratti caratterizzanti: quello di mettere la teologia al servizio della “fede dei semplici”.

I santi – ha detto Benedetto XVI in più occasioni – “sono quella grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia. Vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni. Lì c’è veramente la luce dalla luce”.

Una di queste luci si accenderà a una più larga attenzione il 26 giugno, giorno della festa del Corpus Domini, quando a Milano sarà beatificato un sacerdote di nome Clemente Vismara, morto nel 1988 all’età di 91 anni, spesi fino all’ultimo in terra di missione, in un angolo remoto della Birmania.

La sua biografia è il racconto di quella santità ordinaria che tanto piace a questo papa che s’è definito “umile lavoratore nella vigna del Signore”.

Il profilo del nuovo beato riprodotto qui sotto è stato scritto da un confratello che l’ha conosciuto molto da vicino: padre Piero Gheddo, anche lui appartenente al Pontificio Istituto Missioni Estere, anche lui da decenni missionario con quello stile “antico” che risale agli stessi apostoli. Non per nulla Giovanni Paolo II chiese a padre Gheddo di scrivergli una traccia per l’enciclica del 1990 “Redemptoris Missio”, mirata a rinvigorire il genuino spirito missionario in un’epoca in cui sembra andato fuori moda.

Nella buddista Birmania, oggi detta Myanmar, i cattolici sono poco più di uno ogni cento abitanti. Ma se la fede cristiana vi si è radicata, lo si deve proprio a un missionario come padre Vismara, prossimo beato.

Lo si deve alla “scia luminosa” irradiata dalla sua santità.

Questo profilo del nuovo beato scritto da padre Gheddo è uscito su “Asia News”, l’agenzia on line dell’istituto missionario al quale padre Vismara apparteneva.

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IL NUOVO BEATO CLEMENTE VISMARA, PATRIARCA DELLA BIRMANIA

di Piero Gheddo

Domenica 26 giugno in Piazza Duomo a Milano verrà beatificato padre Clemente Vismara (1897-1988), che nel 1983, quando compì i suoi sessant’anni di missione in Myanmar, la conferenza episcopale del luogo proclamò “Patriarca della Birmania”.

Nato ad Agrate Brianza nel 1897, partecipa come fante di trincea alla prima guerra mondiale, alla fine della quale è sergente maggiore con tre medaglie al valor militare. Capisce che “la vita ha valore solo se la si dona agli altri” (come scriveva), diventa sacerdote e missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, PIME, nel 1923 e parte per la Birmania. Giunto a Toungoo, l’ultima città con un governatore britannico, si ferma sei mesi a casa del vescovo per imparare l’inglese, poi è destinato a Kengtung, territorio forestale, montuoso, quasi inesplorato e abitato da tribali, ancora sotto il dominio di un re locale (saboà) patrocinato dagli inglesi. In quattordici giorni a cavallo arriva a Kengtung, tre mesi di sosta per imparare qualcosa delle lingue locali e poi il superiore della missione in sei giorni a cavallo lo porta a Monglin, la sua ultima destinazione ai confini tra Laos, Cina e Thailandia.

Era  l’ottobre 1924 e in 32 anni (con la seconda guerra mondiale in mezzo, nella quale cade prigioniero dei giapponesi), Clemente Vismara fonda dal nulla tre parrocchie: Monglin, Mong Phyak e Kenglap. Scriveva ad Agrate: “Qui sono a 120 chilometri da Kengtung, se voglio vedere un altro cristiano debbo guardarmi allo specchio”. Vive con tre orfani in un capannone di fango e paglia. Il suo apostolato è girare i villaggi dei tribali a cavallo, piantare la sua tenda e farsi conoscere: porta medicine, strappa i denti che fanno male, si adatta a vivere con loro, al clima, ai pericoli, al cibo, riso e salsa piccante, la carne se la procurava con battute di caccia. Fin dall’inizio porta a Monglin orfani e bambini abbandonati per educarli. In seguito fondò un orfanotrofio e divenne la casa di 200-250 orfani e orfane. Oggi è invocato “protettore dei bambini” e fa molte grazie che  riguardano i piccoli e le famiglie.

Una vita poverissima e Clemente scriveva: “Qui è peggio che quando ero in trincea sull’Adamello e sul Monte Maio, ma questa guerra l’ho voluta io e debbo combatterla fino in fondo con l’aiuto di Dio. Sono sempre nelle mani di Dio”. A poco a poco nasce una comunità cristiana, arrivano le suore di Maria Bambina ad aiutarlo, fonda scuole e cappelle, officine e risaie, canali d’irrigazione, insegna la falegnameria e la meccanica, costruisce case in muratura e porta nuove coltivazioni, il frumento, il granoturco, il baco da seta, la verdura (carote, cipolle, insalata: “Il padre mangia l’erba”, diceva la gente).

In breve, il beato Clemente ha fondato la Chiesa in un angolo di mondo dove non ci sono turisti ma solo contrabbandieri d’oppio, stregoni e guerriglieri di varia estrazione; ha portato la pace e stabilizzato sul territorio le tribù nomadi che, attraverso la scuola e l’assistenza sanitaria, si sono elevate e oggi hanno medici e infermiere, artigiani e insegnanti, preti e suore, autorità civili e vescovi. Non pochi si chiamano Clemente e Clementina.

Nel 1956, dopo che aveva fondato la cittadella cristiana di Monglin e convertito una cinquantina  di villaggi alla fede in Cristo, il vescovo lo sposta a Mongping, a 250 chilometri da Monglin nella sterminata diocesi di Kengtung, dove deve ricominciare da zero. Clemente scrive ad un suo fratello: “Obbedisco al vescovo perché capisco che se faccio di testa mia sbaglio”. A sessant’anni dà inizio a una nuova missione e fonda la cittadella cristiana e parrocchia di Mongping, una seconda parrocchia a Tongtà e lascia in eredità altri cinquanta villaggi cattolici.

Muore il 15 giugno 1988 a Mongping ed è sepolto vicino alla chiesa e alla grotta di Lourdes da lui costruite. Sulla sua tomba, visitata anche da molti non cristiani, non mancano mai i fiori freschi e i lumini accesi. Ora, 23 anni dopo,  il 26 giugno 2011, padre Clemente Vismara è proclamato beato della Chiesa universale ed è il primo beato della Birmania. Una causa di beatificazione rapidissima, considerando i tempi lunghi di questi “processi” romani.

Perché padre Clemente Vismara diventa beato? In vita non ha fatto miracoli, non ha avuto visioni o rivelazioni, non era un mistico e nemmeno un teologo, non ha compiuto grandi opere né è emerso per qualità o carismi straordinari. Era un missionario come tutti gli altri, tant’è vero che quando nel PIME si discuteva di iniziare la sua causa di beatificazione, qualche suo confratello della Birmania diceva: “Se fate beato lui dovete fare beati anche tutti noi che abbiamo fatto la sua stessa vita”. Nel 1993 sono andato a Kengtung con due missionari che erano stati con Clemente in Birmania e abbiamo chiesto al vescovo Abraham Than: “Perchè vuol fare beato padre Clemente?”. Ha risposto: “Abbiamo avuto tanti santi missionari del PIME che hanno fondato questa diocesi, compreso il primo vescovo Erminio Bonetta, ancora ricordato come un modello di carità evangelica, e altri il cui ricordo è vivo. Ma per nessuno di essi si sono verificati questa devozione e questo movimento di popolo per dichiararli santi, come per padre Vismara. In questo io vedo un segno di Dio per iniziare il processo conoscitivo diocesano”.

Diceva un suo confratello: “Vismara era straordinario nell’ordinario”. A ottant’anni aveva lo stesso entusiasmo per la sua vocazione di prete e missionario, sereno e gioioso, generoso con tutti, fiducioso nella Provvidenza, un uomo di Dio pur nelle tragiche situazioni in cui è vissuto. Aveva una visione avventurosa e poetica della vocazione missionaria, che l’ha reso un personaggio affascinante attraverso i suoi scritti, forse il missionario italiano più conosciuto del Novecento.

La sua fiducia nella Provvidenza era proverbiale. Non faceva bilanci, né preventivi, non contava mai i soldi che aveva. In un paese in cui la maggioranza della gente in alcuni mesi dell’anno soffre la fame, Clemente dava da mangiare a tutti, non rimandava mai nessuno a mani vuote. I confratelli del PIME e le suore  di Maria Bambina lo rimproveravano di accogliere troppi bambini, vecchi, lebbrosi, handicappati, vedove, squilibrati. Clemente diceva sempre: “Oggi abbiamo mangiato tutti, domani il Signore provvederà”.  Si fidava della Provvidenza, ma scriveva a benefattori di mezzo mondo per avere aiuti e collaborava con articoli a varie riviste. Le sue serate le spendeva scrivendo al lume di candela lettere e articoli (ho raccolto più di 2000 lettere e 600 articoli). Bisogna aggiungere che gli scritti di padre Vismara, poetici, avventurosi, infiammati di amore per i più poveri, hanno suscitato numerose vocazioni sacerdotali, missionarie e religiose non solo in Italia.

Clemente rappresenta bene le virtù dei missionari e i valori da tramandare alle generazioni future. Nell’ultimo mezzo secolo la missione alle genti è cambiata radicalmente, sempre però continuando ad essere quello che Gesù vuole: “Andate in tutto il mondo, annunziate il Vangelo a tutte le creature”. Ma i metodi nuovi (responsabilità della Chiesa locale, inculturazione, dialogo interreligioso, ecc.) debbono essere vissuti nello spirito e nella continuità della Tradizione ecclesiale che risale agli apostoli.

Clemente è uno degli ultimi anelli di questa gloriosa Tradizione apostolica. Era  innamorato di Gesù (pregava molto!) e del suo popolo, specie dei piccoli e degli ultimi e scriveva: “Questi orfani non sono miei ma di Dio, e Dio non lascia mai mancare il necessario”. Viveva alla lettera quanto dice Gesù nel Vangelo: “Non preoccupatevi troppo dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Come ci vestiremo? Sono quelli che non conoscono Dio che si preoccupano di tutte queste cose. Voi invece cercate il regno di Dio e fate la sua volontà: tutto il resto Dio ve lo darà in più” (Matteo 6, 31-34). Utopia? No, in Clemente era una realtà vissuta, che gli portava la gioia nel cuore nonostante tutti i problemi che aveva.

L’ho visitato in Birmania nel 1983, a 86 anni era ancora parroco a Mongping. Volevo intervistarlo sulle sue avventure e mi diceva: “Lascia perdere il mio passato che ho già raccontato tante volte. Parliamo del mio futuro”. E mi parlava dei villaggi da visitare, delle scuole e cappelle da costruire, delle richieste di conversioni che gli venivano da varie parti. Come diceva un confratello: “È morto a 91 anni senza mai essere invecchiato”. Aveva conservato l’entusiasmo dei primi tempi per la sua missione.

Padre Clemente Vismara è uno dei circa 200 missionari del PIME che dal 1867 ad oggi hanno fondato nella Birmania nord-orientale sei delle 14 diocesi di Myanmar: Toungoo, Kengtung, Taunggyi, Lashio, Loikaw e Pekong, con circa 300 mila battezzati, vescovi, preti e suore indigeni, più di metà dei cattolici della Birmania.

Clemente è uno dei tanti che, tutti assieme, rappresentano bene la tradizione missionaria e lo spirito del PIME, che continua ad assistere in vari modi la Chiesa del Myanmar, fra l’altro anche assumendo loro vocazioni missionarie, formandole e inviandole nelle comunità dell’istituto in tutti i continenti per annunziare Cristo e fondare la Chiesa anche in altri popoli.

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L’agenzia on line del Pontificio Istituto Missioni Estere al quale il beato Clemente Vismara apparteneva:

> Asia News

Cristiani perseguitati e persecutori

 

un libro in cui Franco Cardini affronta il tema del rapporto tra cristianesimo e violenza subita e inflitta (Salerno, pp. 186, €12,50).

 


Non facile il compito che si è dato Franco Cardini nel suo recente Cristiani perseguitati e persecutori (Salerno, pp. 186, €12,50): affrontare il tema del rapporto tra cristianesimo e violenza subita e inflitta non attraverso una «conta» delle vittime di persecuzioni religiose nei duemila anni di cristianesimo, né con una contrapposizione del numero di uccisi o dell’efferatezza dei crimini compiuti da parte di opposti schieramenti, ma piuttosto attraverso una ben più approfondita disamina di un nodo e un’epoca cruciali: come e perché tra il I e il VI secolo d.C. i cristiani da perseguitati diventano anche persecutori. Un lavoro accurato da storico onesto e documentato, quale è Cardini, svolto «non al fine di giudicare e tanto meno di condannare, ma, semplicemente, per comprendere».

 

Lo spunto è fornito dall’amara realtà che si è venuta affermando in questi ultimi trent’anni: la rinascita di «appelli a guerre sante», l’apparire di «nuovi carnefici e nuove vittime tali anche e magari soprattutto nel nome di Dio».
Ma l’analisi di quanto accaduto – dalle violenti persecuzioni contro i cristiani nei primi quattro secoli dell’era volgare fino all’affermarsi nei due secoli successivi di una società cristiana anche attraverso l’imposizione di «una fede di pace e d’amore con strumenti che furono … anche quelli dell’intimidazione … e della vera e propria violenza» – porta a un’amara constatazione: «le persecuzioni condotte e i massacri perpetrati nel nome della croce non sono stati né eccezioni confermanti la regola, né fatali ma casuali incidenti di percorso». Sarebbe piuttosto l’inevitabile conseguenza di una fondamentale impossibilità a vivere il Vangelo come cristianità: «il Vangelo non solo non è stato attuato nel cristianesimo, ma questo non si esaurisce affatto in quello».

 

L’equilibrio di giudizio di Cardini, docente di Storia medievale, riesce a svelenire la polemica senza tacere fatti e misfatti e fornisce chiavi di interpretazione solo apparentemente paradossali, come quando ricorda che la società cristiana che si afferma dal IV secolo in poi «è composta per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensì dei persecutori».

 

Certo, il quadro che emerge ha toni amari, ma in questa luce cupa che ferisce la «buona notizia» portata da Gesù di Nazaret assumono un significato ancor più pregnante quei discepoli di Cristo restati «costantemente fedeli alla consegna di pace affidata dal maestro tanto da rinunziare perfino a difendersi». Non si tratta di evocarli quasi a coprire o sminuire i misfatti di altri, servono invece a ricordare che vivere da cristiani non è impresa sovrumana ma umanissima, che nulla e nessuno può impedire a un discepolo di seguire fino in fondo il suo Signore e restare fedele al Vangelo.

 

È quanto due celebrazioni chiave del Giubileo del 2000 mai troppo ricordate: la giornata del perdono e la commemorazione ecumenica dei martiri del XX secolo – hanno idealmente accostato: solo quando la chiesa riconosce i peccati commessi nel nome del cristianesimo può anche gloriarsi della luminosa testimonianza di tanti suoi figli che – con semplicità e risolutezza, con fierezza e senza arroganza alcuna hanno affermato con la loro vita e la loro morte che sì, il Vangelo è vivibile fino in fondo anche quando ogni cosa attorno, perfino in ambito cristiano, sembra spingere a un
compromesso con le forze del male.

 

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 21 maggio 2011

 

 

Dal prologo:



La ricerca storica e magari le ragioni della discussione e perfino della polemica, ispirate talvolta anche da convinzioni o da propensioni anticlericali ma sostenute sovente anche dal ridimensionamento di certi eventi e dall’approfondimento di certe ricerche, ci avevano indotti a ritenere che non sempre i “martiri della fede” fossero stati tanto frequenti e numerosi quanto in passato era stato sostenuto. Gli eventi dell’ultimo trentennio circa hanno presentato invece l’allarmante ritorno di un incubo che credevamo dissolto: nuovi appelli a “guerre sante”, nuovi carnefici e nuove vittime tali anche e magari soprattutto nel nome di Dio. Come dice Pascal, sembra proprio che l’uomo non sia mai tanto capace di fare del male come quando lo commette nel nome di una fede religiosa: una sentenza che mantiene la sua verità anche da quando, cioè dal tardo Settecento in poi, sono sorte le “religioni laiche”.

Vero è altresí che, a partire dall’ultimo quarto circa del XX secolo, abbiamo assistito a una sorta di “ritorno selvaggio di Dio” e a un riaffermarsi di nuove forme di “guerra santa”. Da molti ambienti dell’immenso mondo musulmano alle regioni induiste del subcontinente indiano alla Cina, all’Africa, all’America latina, molti religiosi e anche semplici credenti laici sono stati uccisi: e, sempre piú spesso, si è trattato non solo di cristiani vittime della violenza, ma di vittime della violenza tali proprio in quanto cristiani. In effetti – a parte casi molto particolari e specifici, per esempio in Irlanda o in Libano o in Rwanda – in linea di massima i cristiani hanno rivestito il ruolo, nelle tristi effemeridi degli ultimi anni, mai di carnefici e persecutori bensí sempre di vittime e perseguitati. (…)

Ma, al di là delle forzature e delle vere e proprie calunnie, secondo le idées reçues che al riguardo circolano ordinariamente, episodi come i massacri dei sassoni pagani in età carolingia, le violenze compiute durante le crociate in Terrasanta o la Reconquista iberica, la repressione inquisitoriale, la liquidazione del catarismo nella Linguadoca duecentesca, le campagne dei Cavalieri Teutonici nel Nordest europeo, le stragi di native Americans che accompagnarono la conquista spagnola e portoghese dell’America centrale e meridionale o quella francese, inglese e olandese di quella settentrionale e infine la Riforma e le “guerre di religione” cinque-seicentesche con relative mattanze di “eretici”, cacce alle streghe e “Notti di San Bartolomeo”, altro non furono se non eccezioni confermanti una regola di pietà e di misericordia: incidenti di percorso d’una fede d’amore che di quando in quando ha tuttavia potuto venir meno a se stessa (e ciò varrebbe soprattutto per la Chiesa cattolica) e i cui fedeli hanno agito in contraddizione con la natura della loro religione e con le loro stesse convinzioni. (…)

Le pagine che seguono non intendono affatto costituire un j’accuse non diciamo contro il cristianesimo in quanto tale, ma neppure contro le società che nei secoli si sono dette cristiane o contro le Chiese e le confessioni cristiane storiche. Non si proporranno dunque piú o meno grandguignoleschi cataloghi di errori e di orrori, non si allineeranno argomenti “scandalosi” e recriminatorii, non si procederà ad alcuna macabra e ripugnante computisteria funebre. Ci si limiterà a richiamare i caratteri fondamentali delle persecuzioni delle quali i cristiani furono vittime tra I e IV secolo per mostrare come, nei due secoli successivi, la società divenuta a sua volta cristiana – e composta, non dimentichiamolo, per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensí dei persecutori – si sia affermata a sua volta proponendo, ma anche imponendo, una fede di pace e d’amore con strumenti che furono non certo soltanto, ma tuttavia anche quelli dell’intimidazione, della costrizione legale, della seduzione e perfino della corruzione morale, della legislazione restrittiva o addirittura inibitrice della libertà di coscienza, dell’esibizione della forza militare e della vera e propria violenza. Ne sarebbe derivata una storia lunga secoli, che dall’alto Medioevo all’età coloniale andò di pari passo con l’impegno missionario: senza nulla togliere, beninteso, ai meriti di tanti missionari che anche in tempi recenti e recentissimi si sono sacrificati per amore dei poveri e degli ultimi.

Quel che intendiamo qui ricordare è che, all’origine delle pagine piú nere e sconcertanti non già del cristianesimo – che a sua volta non consiste tuttavia semplicemente ed esclusivamente nel rispetto dei valori evangelici –, ma della storia della società cristiana e delle Chiese storiche, non stanno momentanee fasi di obnubilamento bensí lo sviluppo e la conseguenza di premesse intrinseche non ai loro princípi, ma senza dubbio alla loro natura e alla dinamica secondo la quale esse si sono affermate nel mondo.

don Michele Do: “qui è nato un uomo”

don Michele Do

 

 

 

«Quando in un branco un compagno dà una zampata,

l’immediato istinto dell’animale è la ritorsione.

La prima volta che un animale trattiene la zampata,

avverte l’orrore del sangue e non reagisce alla violenza:

qui è nato un uomo».

 

Di lui mi avevano spesso parlato amici comuni, ma anche laici e sacerdoti che accorrevano lassù nel paesino della Val d’Aosta ove aveva trascorso la maggior parte della sua vita, nella purezza assoluta della natura e della sua meditazione e testimonianza. Sto parlando di don Michele Do (1918-2005) e oggi lo rievoco attraverso queste sue righe che vogliono rappresentare simbolicamente quando si compie la vera ominizzazione.

Noi passiamo dallo stato bestiale a quello umano nel momento in cui il nostro pugno lascia cadere a terra il sasso di Caino o la spada della vendetta o la zampata dell’assalto, e proviamo nausea e orrore della violenza.
Questo è, certo, il primo grande passo verso la nascita dell’uomo, ossia la scoperta del perdono e dell’amore. Ma don Michele va oltre e continua così, prospettando un’altra tappa fondamentale:

 

«Quando uno degli animali che procede nel branco,

alza gli occhi e vede le stelle,

quando ne avverte per la prima volta lo stupore, la meraviglia, il mistero,

quando – come dice Fogazzaro – sente su di sé, sul proprio cuore,

il peso delle stelle: qui è nato l’uomo».

 

La nostra realtà è, infatti, bidimensionale. Noi non guardiamo solo orizzontalmente, incontrando con gli occhi le altre
creature; noi abbiamo un altro sguardo che sale verticalmente, verso l’infinito e il Creatore. È questa l’estrema avventura dell’uomo e della donna, affacciarsi sulle immensità del mistero e cercare di raggiungerle. Siamo un microcosmo che può contenere il cosmo e persino l’infinito, come suggeriva Pascal.

 

di Gianfranco Ravasi
in “Avvenire” del 19 maggio 2011

 

 

 

Don Michele Do
di Carlo Carozzo
in “Il Gallo” del maggio 2011

 

Fra le persone che hanno influito sulla mia formazione spirituale di adulto c’è sicuramente Michele Do, un prete che aveva scelto di vivere in montagna a St. Jacques, un paesino della Valle D’Aosta per ripensare nel silenzio e nella solitudine la sua formazione appassionandosi alla lettura, tra l’altro, dei teologi francesi e di alcuni autori del modernismo. Dopo non molto tempo la sua solitudine prese a essere molto frequentata da cristiani in ricerca e da studiosi di spicco come padre Turoldo e Panikkar che salivano fino alla rettoria per scambiare con lui e attingere alla sua sapienza.

 

Uomo dell’amicizia

Personalmente lo conobbi al Gallo verso il 1964 quando, come ogni anno, passava a salutare e conversare con la

nostra Katy Canevaro. Era l’uomo dell’amicizia considerata da lui «sacramento dell’amore di Dio», fedelissimo agli amici che trovavano sempre in lui accoglienza, comprensione delle loro traversie e dei loro dubbi. Dal 1979 ogni anno salivamo in gruppo da lui come discepoli a un discepolo perché, come diceva lui, non c’è altro maestro oltre Gesù. Noi ci attendevamo che ci parlasse di Dio, come poi accadeva, ma prima ci spiazzava con domande rivolte a noi per stimolare la nostra responsabilità e partecipazione alla conversazione.
Non amava scrivere se non qualche lettera agli amici, era l’uomo della parola appassionata, lucida, serena, mentre la voce si incrinava talvolta quando parlava del mistero del male, suo grande tormento.
Ci voleva allora la pazienza e l’amore di due suoi grandi amici, Piero Racca e Silvana Molina, per sbobinare, ordinare e raccogliere in un libro dal titolo Per un’immagine creativa del cristianesimo le sue relazioni in gruppi, omelie, appunti con lunghe prefazioni di Piero e Silvana, un intervento di Giancarlo Bruni e preziose note di Clara Gennaro. Don Michele aveva affrontato e lungamente macinato i grandi interrogativi dell’esistenza, il male, Dio, il senso della vita, l’uomo che considerava abitato da una legge profonda, «una legge ascensionale, di ascensione in ascensione» (p. 157).

 

Un cammino e una fatica che
non possono essere annullati né abbreviati, neppure da Dio. La pienezza divina, l’interiorizzazione di Dio, il diventare uno con Dio, è come il pane che deve essere guadagnato con il sudore della nostra fronte. Leonardo diceva: «Dio cede tutti i suoi beni a prezzo di fatica e il sommo bene, che è Dio, a prezzo di somma fatica». Non si salta a piedi giunti nel regno di Dio e neanche a colpi di miracoli e di sacramenti, neanche con quello del battesimo (p. 224).

La meta, che è diventare, come in Gesú, «uno con Dio» è dunque senza fine, giorno per giorno, età per età, una fatica sfibrante, si potrebbe dire, ma non è cosí perché Dio attrae nell’intimo e ci dona la forza dello Spirito senza di cui si rimane immobili, ripetitivi, vecchi anche a vent’anni. Questo perché Dio, è Dio, l’inesauribile:

Siccome Dio è l’inesauribile, l’uomo non esaurirà mai il suo cammino ascensionale verso la pienezza. Un traguardo appena raggiunto diventa inizio per un nuovo cammino. Questa è la visione cristiana della vita. Dio è nel cuore dell’uomo, è immanente, ma anche trascendente. Gesú ci dice: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli». L’uomo è, dunque, una realtà che deve essere continuamente trascesa e superata. È una gioiosa trascendenza che fa ascendere, trasfigura e veste l’uomo di grazia e di verità fino al suo compimento, quando Dio sarà tutto in tutte le cose e quindi Dio sarà tutto in tutto l’uomo (pp. 155-156).

 

Due letture del cristianesimo

C’è da un lato la lettura tradizionale. La creazione, e quindi l’uomo, nascono perfetti, poi subentra il peccato di Adamo ed è lí la sorgente del male che intacca la natura e l’uomo in profondità al punto che occorrerà il sacrificio espiatorio di Gesú in cui il Verbo si è incarnato, per placare la collera del Padre, è la Redenzione; in questa logica Cristo fonda la chiesa la quale applica a tutti noi con i sacramenti, in particolare con il battesimo, i meriti, la salvezza e la giustificazione ottenuti da Cristo sulla croce. Ma c’è tuttavia anche una seconda lettura:

Dio non crea il mondo e l’uomo nella sua divina pienezza, lo crea come il fiore del campo che nasce dalla povertà originaria della zolla (…) All’inizio del Genesi si dice: «Dio creò il cielo e la terra, ma la terra era vacua, informe, tenebrosa» (Gn 1, 2). In questa lettura non c’è un peccato originale ed originario, c’è una povertà originaria.
E su questa terra povera, vacua, informe e tenebrosa aleggia lo Spirito. E, a mano a mano che la terra si apre e lo Spirito la penetra e la intride, lí incomincia il cammino ascensionale: dal caos originario, alla bellezza e al miracolo del cosmo
(pp. 219-220).

 

Purtroppo nella sua vicenda storica, senza escludere l’oggi, nella pratica e nella riflessione cristiana ha prevalso il giuridismo stretto alleato del moralismo che non solo hanno impoverito il mistero cristiano, ma anche, se non soprattutto, lo hanno alterato facendo di Dio un grande Faraone dispotico e dell’uomo una creatura infima, pressoché impotente e tenebrosa:

Ricordate il prologo di Giovanni: «E la luce venne e le tenebre non l’hanno accolta … ma a coloro che l’hanno accolta, ha dato il potere di diventare figli di Dio». Ecco il miracolo: compiere questo cammino ed essendo figli di Dio poter fare cose che Dio solo sa fare; questo è il potere che ci è stato dato, non il potere che noi abbiamo impoverito interpretandolo carnalmente. Perdonare i nemici, trasfigurare il dolore, immedesimarsi nel prossimo, queste sono cose divine: qui c’è, infatti, un salto oltre il biologico, oltre l’umano (p. 220).

L’essenziale della fede non è soltanto rispettare la morale nei comportamenti, ma prima di tutto lasciarsi guidare dallo Spirito per giungere a «interiorizzare Dio e fare le cose di Dio: questa è la salvezza» (p. 220), siamo quindi lontanissimi, a tutt’altro livello da quello etico e giuridistico!
L’azione liberatrice della creatura costitutivamente imperfetta è quindi una realtà molto profonda perché essa

è qualcosa in via di creazione, in divenire; è, direi, una realtà in cammino, siamo tutti in itinere, siamo degli itineranti, non dei passanti. Nella visione nichilista, invece, noi siamo dei passanti; veniamo da un nulla e torniamo nel nulla, fuochi fatui nella notte, momenti effimeri dell’effimero, siamo pura inconsistenza. Nella visione religiosa cristiana, veniamo, sí, dal nulla, ma siamo pellegrini verso una patria e verso una pienezza. Homo viator, spe herectus, noi siamo ontologicamente tensione verso Dio, in cammino verso Dio. (…)

Il vero grande esodo, è l’esodo dal nulla alla divina pienezza, e, in fondo, alla radice di ogni religiosità, c’è la grande preghiera indú: «guidami, luce benigna, dall’irreale (dal nulla originario) al reale, dalla tenebra alla luce» (pp. 222-223).
Questi itineranti che noi siamo camminano guidati dallo Spirito verso una divina pienezza, una ascesa che non è indolore, né facile, incontra difficoltà, tentazioni, e conosce anche la croce, nessuno può essere sottratto alla  condizione umana, tanto meno i seguaci di un Crocifisso:

Questo cammino ascensionale dal vacuum, dal caos che è in noi si compie nella lotta, nella fatica, nel dolore e nel travaglio. (…) Non c’è strada di circonvallazione che possa evitare la strada che porta al calvario. Il caos, l’inanis, il
vacuum è legge strutturale (pp. 224-226).

A differenza del Dio di Gesú annunciato forse per secoli, questa immagine delineata, annunciata, vissuta da don Michele non desta paura, ma suscita gioia e una grande serenità, quella che egli ha sperimentato durante una gravissima crisi cardiaca nella quale aveva rischiato di morire:

Il volto di Dio, infatti, è infinitamente piú grande e del cuore e del sogno dell’uomo, ma non contro, né il mio cuore, né il mio sogno. Per questa immagine di Dio allora, amici, lietamente do la vita. Cerco in questa direzione. Cerco perché, in fondo, è una ricerca: non ho soluzioni. Di cominciamento in cominciamento, di ripresa in ripresa, di cominciamenti e riprese senza fine (p. 232).

 

Il male e Dio


Nell’età della cristianità durata per secoli la presenza di Dio era quasi un’evidenza, la società e la cultura erano come impastate con le religioni che in qualche modo spiegavano pressoché tutto. Pure per il Dio di Gesú è stato abbastanza cosí, anche se non solo per il popolo, la sua immagine era spesso perversa, era il Dio che premiava i buoni (non sempre però!) e castigava i cattivi, addirittura la peste veniva da Lui. Oggi nel nostro mondo secolarizzato per lo piú non è cosí. Tutt’altro! Oggi si cercano spiegazioni immanenti per tutto, talvolta pure per i miracoli, riconosciuti dalla chiesa dopo
un lungo processo di ricerca, molti pensano che non esistono perché è quello che la scienza non ha ancora spiegato, ma lo farà in futuro. Quindi credere è diventato molto piú difficile, e in particolare per la presenza del male non sempre spiegabile con le negatività dell’uomo e della natura. Il male, infatti, è l’opposto di Dio, se per troppa buona sorte non esistesse

Dio rientrerebbe nel novero di quelle verità che non si rifiutano se non per difetto di intelletto (…) Ma il male c’è, il male esiste. Ed è l’ostacolo: ostacolo non solo che nasconde o muro che impedisce, ma scandalo che piú radicalmente dice non Dio, dice negazione di Dio. Il male non è solo il silenzio, è assenza di Dio (p. 198).

Talvolta pensiamo che per i santi non sia cosí perché hanno uno sguardo piú profondo e, soprattutto, piú libero e fiducioso in Dio. Eppure santa Teresina di Lisieux, oggi dichiarata dal magistero dottore della chiesa, parlava di un buco nero in cui non si vede piú niente ed era il luogo dove lei stava con il corpo e con lo spirito. E inoltre diceva: «Quando io canto la bellezza, la pienezza e la gioia del regno, voi pensate che il velo per me si sia squarciato; ma non è un velo, è un muro che dalla terra si alza fino al cielo. Io canto quello in cui voglio credere» (p. 206).
La constatazione della presenza del male e dei disastri che provoca è dunque una potenza negativa cosí forte e intensa da non sfuggire a una santa dottore della chiesa. Non è incomprensibile perché le devastazioni che produce hanno interrogato l’uomo di tutti i tempi e ogni cultura ha cercato di rispondere all’unde malum di Agostino elaborando le ipotesi e talora anche le spiegazioni piú diverse. Quella cristiana è stata per secoli ed è tuttora, tranne eccezioni di qualche teologo, il peccato di Adamo che ha prodotto una caduta ontologica della creazione a cominciare dall’essere
umano. Don Michele definisce «follia» (p. 231) questa spiegazione se anche salva l’innocenza di Dio. Da dove dunque il male? Ecco che cosa scrive:


La radice del male originario non è una radice morale, il peccato dell’uomo o il peccato di Dio, ma una radice metafisica. La creazione non è segnata dalla colpa né dell’uomo né di Dio; è segnata ontologicamente dal suo nulla originario. Questa, mi pare, è la radice del male che è nella creazione e che è presente anche nell’uomo» (p. 222).

Al punto che
la vita è ancora, per tanta parte, vacua, inanis et tenebrosa. Simone Weil vede una «dura legge della necessità», che domina, nella vita domina la negatività, e dunque il non-Dio. Ma siamo in cammino (p. 225).

Appunto, questa è la risorsa per non cadere nel nichilismo e attingere la speranza:
…Occorre salire. L’ascensione è legge fondamentale dell’essere, costitutiva dell’essere: salendo conosco, salendo capisco, ma se non salgo non capisco e non conosco, (…) ma questo cammino, amici, è fatica nostra, è conquista nostra, certo in sinergia con la luce» (p. 226).

Dunque salire. È la «legge ascensionale» di cui tante volte ci ha parlato don Michele. Una legge di vita. Una legge di speranza. Nessun automatismo. È una conquista e, insieme, da lasciar essere in noi. Scavando con intelligenza e cautela per scartare tutto ciò che in noi la impaccia. E allora si sprigiona la vita.

 

Vita  Pastorale n. 2 febbraio 2009 - Home Page

In ricordo del grande sacerdote proveniente dalla diocesi di Alba e vissuto in Valle d’Aosta, è statopubblicato il volume Per un’immagine creativa del cristianesimo, curato dai suoi amici.

 

Da Giordano Bruno alla Shoah quei «mea culpa» a sorpresa

 

 

Papa audace in tante direzioni — dalla lotta al comunismo alla predicazione del Vangelo «fino ai confini della terra» — in nessuna Wojtyla fu sorprendente quanto nel «mea culpa» che culminò nella «Giornata del perdono» del 12 marzo 2000.

Nei confronti di quell’eredità Benedetto XVI si pone come prudente continuatore: in due occasioni ha fatto sua la richiesta di perdono per la Shoah formulata dal predecessore e in un’altra ha formulato un proprio «mea culpa» per il peccato della pedofilia del clero.

«Confessione delle colpe e richiesta di perdono» era intitolata la speciale liturgia che si celebrò in San Pietro la prima domenica di Quaresima dell’anno 2000. Sette rappresentanti della Curia romana leggevano altrettanti «invitatori», ai quali rispondeva il Papa con sette «orazioni», riguardanti i «peccati in generale», le «colpe nel servizio della verità», i «peccati» che hanno diviso la Chiesa, le «colpe nei confronti di Israele», le «colpe commesse con comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni», i «peccati che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano», i «peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona». Ecco la seconda confessione di peccato, riguardante «le colpe nel  servizio della verità», che fu letta dal cardinale Ratzinger: «Preghiamo perché ciascuno di noi, riconoscendo che anche uomini di Chiesa, in nome della fede e della morale, hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici nel pur doveroso impegno di difesa della verità, sappia imitare il Signore Gesù, mite e umile di cuore». Così suonò la quarta delle sette «confessioni», riguardante la persecuzione degli ebrei: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il
tuo nome fosse portato alle genti; noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli e, chiedendo perdono a Dio, vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza». A conclusione di quella liturgia penitenziale, Giovanni Paolo pronunciò cinque «mai più» che suonano come una delle utopie evangeliche più forti che siano state affermate nella nostra epoca disincantata: «Mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi». Dal riesame del caso Galileo (impostato nel novembre del 1969) all’ultimo pronunciamento autocritico, riguardante i tribunali dell’Inquisizione (arrivato il 15 giugno 2004, con la lettera di accompagnamento della pubblicazione degli atti del simposio storico sull’Inquisizione dell’ottobre del 1998) sono oltre un centinaio le circostanze in cui Giovanni Paolo ha riconosciuto «errori» e «colpe» del passato e del presente, o ha invitato i cattolici ad applicarsi a questo «esame». Ai temi già detti vanno aggiunti— tra i principali— la tratta dei neri, il maltrattamento degli indios, la strage degli Ugonotti, il saccheggio di Costantinopoli da parte dei «crociati» nel 1204, il rogo di Giordano Bruno nell’anno 1600. Più volte Benedetto in questi sei anni si è richiamato all’atto penitenziale del  predecessore e in due occasioni (il 12 febbraio del 2009 e il 17 gennaio 2010, durante la visita alla sinagoga di Roma) ha fatto sua e ripetuto alla lettera la richiesta di perdono riguardante gli ebrei. L’ 11 giugno 2010 abbiamo invece avuto una richiesta di perdono formulata in proprio dal Papa teologo e proposta a nome della Chiesa per una colpa dei suoi «figli»: lo ha fatto per un «peccato» di oggi—gli abusi sessuali del clero— e non della storia, come invece tante volte aveva fatto Papa Wojtyla ma come lui ha accompagnato il «mea culpa» con l’impegno a fare in modo che quel misfatto non si verifichi «mai più» . Appare dunque chiaro come in questa pedagogia della penitenza e della purificazione Papa Ratzinger segua le orme del predecessore e nello stesso tempo se ne distingua”.

 

in “Corriere della Sera” del 1 maggio 2011

Karol: un film su Giovanni Paolo II

il film d’animazione Karol è incentrato sulla vita del Pontefice

 

Nel giorno della Beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, anche Boing renderà a suo modo omaggio alla figura di Karol Wojtyla con un lungometraggio prodotto da Mondo Tv. Andrà in onda, infatti, proprio domenica 1° Maggio, in prima serata alle 20.35, il film d’animazione Karol, incentrato sulla vita del Pontefice.

Realizzato con tecniche d’animazione in computer grafica, il film narra le principali vicende che hanno segnato il percorso umano e spirituale di Wojtyla. Una storia ricca di eventi ed emozionante, in cui ampio risalto verrà dato al rapporto tra il Papa e i giovani. Un rapporto da sempre molto intenso, che portò il Pontefice a istituire la Giornata Mondiale della Gioventù, diventata nel corso degli anni occasione d’incontro per milioni di ragazzi.

Il film, che vedrà Luca Ward dare la voce a Papa Giovanni Paolo II, si rivolge non solo ai più piccoli ma a tutta la famiglia, rappresentando un’ulteriore offerta della rete, sempre più premiata dal pubblico. Ad oggi Boing è infatti il canale più seguito nella fascia 4-14 anni, oltre che essere ottava rete nazionale, subito dopo le  reti generaliste Rai, Mediaset e La7.

Si è identificato con la Chiesa perciò ne può essere la voce

Dal volume Giovanni Paolo II pellegrino per il Vangelo (Cinisello Balsamo – Torino, Edizioni Paoline – Editrice Saie, 1988) pubblichiamo integralmente l’articolo nel quale il cardinale Joseph Ratzinger ripercorreva e faceva emergere gli aspetti fondamentali dei primi dieci anni di pontificato di Karol Wojtyla.

Giovanni Paolo II è senz’altro colui che, ai nostri tempi, si è incontrato personalmente con il maggior numero di esseri umani. Innumerevoli sono le persone a cui egli ha stretto la mano, a cui ha parlato, con cui ha pregato e che ha benedetto. Se il suo elevato ufficio può creare distanza, la sua personale irradiazione crea invece vicinanza. Anche le persone semplici, incolte, povere non hanno da lui l’impressione della superiorità, dell’irraggiungibilità o del timore, quei sentimenti che colpiscono così sovente chi si trova nelle camere d’aspetto dei potenti, delle autorità. Quando poi si hanno contatti personali con lui, è come se lo si conoscesse da lungo tempo, come se si parlasse con un parente prossimo, con un amico. Il titolo di “Padre” (= Papa) non appare più solo un titolo, ma l’espressione di quel rapporto reale che si prova veramente davanti a lui.
Tutti conoscono Giovanni Paolo II: il suo volto, il suo modo caratteristico di muoversi e di parlare; la sua immersione nella preghiera, la sua spontanea letizia. Certe sue parole si sono incise in maniera indelebile nella memoria, a cominciare dall’appassionato richiamo con cui egli si è presentato all’inizio del suo pontificato: “Spalancate le porte a Cristo, non abbiate paura di lui!”. Oppure queste altre: “Non si può vivere per prova, non si può amare per prova!”. In parole come queste si condensa tutto un pontificato. È come se egli volesse aprire dappertutto vie d’accesso a Cristo, come se desiderasse rendere accessibile a tutti gli uomini il varco verso la vita vera, verso il vero amore. Se, come Paolo, lo si ritrova instancabilmente sempre in cammino, fino “ai confini della terra”, se vuol essere vicino a tutti e non perdere alcuna occasione per annunciare la Buona Novella, non è per scopi pubblicitari o per sete di popolarità, ma perché si realizzi in lui la parola apostolica: Charitas Christi urget nos (II Corinzi, 5, 14). Accanto a lui lo si avverte: gli sta a cuore l’uomo perché gli sta a cuore Dio.
Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati attirare nell’intenso silenzio della sua preghiera, più che non quando si sono analizzati i suoi libri o i suoi discorsi. Giacché, proprio partecipando alla sua preghiera, si attinge ciò che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola. A partire da questo centro ci si spiega anche perché egli, pur essendo un grande intellettuale, che nel dialogo culturale del mondo contemporaneo possiede una voce sua propria e importante, ha conservato anche quella semplicità che gli permette di comunicare con ogni singola persona. Qui si manifesta anche un altro elemento di quella grande capacità di integrazione, che contrassegna il Papa che viene dalla Polonia: l’aver cambiato il classico “noi” dello stile pontificale con l'”io” personale e immediato dello scrittore e dell’oratore. Una simile rivoluzione stilistica non è da sottovalutare. A tutta prima può sembrarci l’ovvia eliminazione di un’usanza antiquata, che non si intonava più ai nostri tempi. Ma non si deve dimenticare che questo “noi” non era solo una formula di retorica cortigiana. Quando parla il Papa, egli non parla a nome proprio. In quel momento, in ultima analisi, non contano niente le teorie o le opinioni private che egli ha elaborato nel corso della sua vita, per quanto alto possa essere il loro livello intellettuale.
Il Papa non parla come un singolo uomo dotto, con il suo io privato o, per così dire, come un solista sulla scena della storia spirituale dell’umanità. Egli parla attingendo dal “noi” della fede di tutta la Chiesa, dietro il quale l’io ha il dovere di scomparire. Mi viene in mente a questo proposito il grande Papa umanista Pio II, Enea Silvio Piccolomini, il quale da Papa doveva talvolta dire, attingendo appunto dal “noi” del suo magistero pontificio, cose in contraddizione con le teorie di quel dotto umanista che precedentemente era stato lui stesso. Quando gli venivano segnalate simili contraddizioni soleva rispondere: Eneam reicite, Pium recipite (“Lasciate stare Enea, prendete Pio, il Papa”).
In un certo senso non è dunque un fenomeno innocuo se l'”io” rimpiazza il “noi”. Ma chi fa la fatica di studiare attentamente tutti gli scritti di Papa Giovanni Paolo II, capisce ben presto che questo Papa sa distinguere molto bene tra le opinioni personali di Karol Wojtyla e il suo insegnamento magisteriale in quanto Papa; egli però sa anche riconoscere che le due cose non sono reciprocamente eterogenee, ma riflettono un’unica personalità imbevuta della fede della Chiesa. L’io, la personalità, è entrata interamente al servizio del “noi”. Non ha degradato il “noi” sul piano soggettivo di opinioni private, ma gli ha semplicemente conferito la densità di una personalità tutta plasmata da questo “noi”, tutta dedita al suo servizio.
Io credo che tale fusione, maturata nella vita e nella riflessione di fede, tra il “noi” e l'”io” fondi in modo essenziale il fascino di questa figura di Papa. La fusione gli consente di muoversi in questo suo sacro ufficio in maniera del tutto libera e naturale; gli consente di essere come Papa interamente se stesso, senza dover temere di far scivolare troppo l’ufficio nel soggettivo.
Ma come è cresciuta questa unità? In che modo una strada personale di fede, di pensiero, di vita conduce a tal punto nel centro della Chiesa? Questa è una domanda che va ben oltre la semplice curiosità biografica. Giacché proprio tale “identificazione” con la Chiesa senza velo alcuno di ipocrisia o di schizofrenia sembra impossibile oggi a molti uomini che sono in travaglio per la fede.
Nella teologia è diventato, nel frattempo, quasi civetteria di moda il muoversi in distanza critica a riguardo della fede della Chiesa e far sentire al lettore che lui, il teologo, non è poi così ingenuo, così acritico e servile da porre il suo pensiero del tutto al servizio di questa fede. In tal modo mentre la fede viene svalutata, le frettolose proposte di questi teologi non ne traggono alcuna rivalutazione; invecchiano in fretta come in fretta sono nate. Nasce allora di nuovo un grande desiderio non solo di ripensare intellettualmente la fede in modo leale, ma anche di poterla vivere in modo nuovo.
La vocazione di Karol Wojtyla maturò quando egli lavorava in un’azienda di produzione chimica, durante gli orrori della guerra e dell’occupazione. Egli stesso ha de-finito questo periodo di quattro anni, vissuto nell’ambiente operaio, come la fase formativa più determinante della sua vita. In tale contesto egli ha studiato la filosofia, apprendendola faticosamente dai libri, e il sapere filosofico gli si presentava di primo acchito come una giungla impenetrabile.
Il suo punto di partenza era stato la filologia, l’amore per la lingua, combinata all’applicazione artistica della lingua, in quanto rappresentazione della realtà in una nuova forma di teatro. È sorta così quella specie particolare di “filosofia” caratteristica del Papa attuale. È un pensiero in dialettica con il concreto, un pensiero fondato sulla grande tradizione, ma sempre alla ricerca della sua verifica nella realtà presente. Un pensiero che scaturisce da uno sguardo artistico e, nello stesso tempo, è guidato dalla cura del pastore: rivolto all’uomo per indicargli la via.
Mi sembra interessante scorrere per un momento la serie cronologica degli autori determinanti nei quali egli si imbatté lungo l’iter della sua formazione. Il primo era stato, come lui stesso riferisce nella sua intervista ad André Frossard, un manuale d’introduzione alla metafisica. Se altri studenti tentano solo di comprendere in qualche modo l’intera logica della struttura concettuale esposta nel testo e di fissarsela in mente in vista dell’esame, in lui ebbe inizio invece la lotta per una reale comprensione, cioè per cogliere il rapporto tra concetto ed esperienza, ed effettivamente si accese, dopo due mesi di duro impegno, il cosiddetto “lampo”: “Scoprii quale senso profondo aveva tutto ciò che io avevo prima solo vissuto e presagito”.
Poi arrivò l’incontro con Max Scheler e, quindi, con la fenomenologia. Questo indirizzo filosofico aveva la preoccupazione, dopo controversie infinite circa i confini e le possibilità del conoscere umano, di vedere di nuovo semplicemente i fenomeni così come appaiono, nella loro varietà e nella loro ricchezza. Questa precisione del vedere, questa intelligenza dell’uomo non a partire da astrazioni e da principi teorici, ma cercando di cogliere nell’amore la sua realtà, è stata ed è rimasta decisiva per il pensiero del Papa. Infine egli scoprì assai presto, prima ancora della vocazione al sacerdozio, l’opera di san Giovanni della Croce, attraverso la quale gli si aprì il mondo dell’interiorità, “dell’anima maturata nella grazia”. L’elemento metafisico, quello mistico, quello fenomenologico e quello estetico, collegandosi insieme, spalancano lo sguardo verso le molteplici dimensioni della realtà e diventano alla fine un’unica percezione sintetica, capace di paragonarsi con tutti i fenomeni e di imparare a comprenderli, proprio trascendendoli. La crisi della teologia postconciliare è in larga misura la crisi dei suoi fondamenti filosofici. La filosofia presentata nelle scuole teologiche mancava di ricchezza percettiva; le mancava la fenomenologia, e le mancava la dimensione mistica. Ma, quando i fondamenti filosofici non vengono chiariti, alla teologia viene a mancare il terreno sotto i piedi. Perché allora non è più chiaro fino a che punto l’uomo conosce davvero la realtà, e quali sono le basi a partire da cui egli possa pensare e parlare.
Così pare a me che sia una disposizione della Provvidenza il fatto che, in questo tempo, è salito alla cattedra di Pietro un “filosofo”, che fa filosofia non come una scienza da manuale, ma partendo dal travaglio necessario per reggere di fronte alla realtà e dall’incontro con l’uomo che cerca e che domanda. Wojtyla è stato ed è l’uomo. Il suo interesse scientifico fu sempre più contrassegnato dalla sua vocazione di pastore. Di qui si comprende come la sua collaborazione alla Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, il cui testo è determinato in modo centrale dalla preoccupazione per l’uomo, è diventata un’esperienza decisiva per il futuro Papa.
“La via della Chiesa è l’uomo”. Questa tematica, concretissima e radicalissima nella sua profondità, si è trovata sempre e ancora si trova al centro del suo pensiero che è insieme azione. Ne è risultato che la questione della teologia morale è divenuta il centro del suo interesse teologico. Anche questa era una importante predisposizione umana in ordine al compito del massimo pastore della Chiesa. Giacché la crisi dell’orientamento filosofico si manifesta dal punto di vista teologico soprattutto come crisi della norma teologico-morale. Qui si trova il collegamento tra filosofia e teologia, il ponte fra la ricerca razionale sull’uomo e il compito teologico, ed è così evidente, che non è possibile sottrarvisi.
Dove crolla l’antica metafisica, anche i comandamenti perdono il loro nesso interiore: allora grande diventa la tentazione di ridurli al piano unicamente storico-culturale. Wojtyla aveva imparato da Scheler a indagare, con una sensibilità umana finora ignota, l’essenza della verginità, del matrimonio, della maternità e della paternità, il linguaggio del corpo e, di conseguenza, l’essenza dell’amore. Egli ha assunto nel suo pensiero le nuove scoperte del personalismo, ma proprio così ha anche imparato nuovamente a capire che il corpo stesso parla, che la creazione parla e ci delinea le vie da percorrere: il pensiero dell’età moderna ha dischiuso per la teologia morale una dimensione nuova, e Wojtyla l’ha percepita in una continua implicazione di riflessione e d’esperienza, di vocazione pastorale e speculativa e l’ha compresa nella sua unità con i grandi temi della tradizione.
Un altro elemento ancora è stato importante per questo cammino di vita e di pensiero, per l’unità di esperienza, pensiero e fede. Tutta la battaglia di quest’uomo non si è svolta dentro un cerchio più o meno privato, unicamente nello spazio interno di una fabbrica o in un seminario. Essa era circonfusa dalle fiamme della grande storia.
La presenza di Wojtyla in fabbrica fu conseguenza dell’arresto dei suoi professori universitari. Il tranquillo corso accademico fu interrotto e sostituito da un durissimo tirocinio in mezzo a un popolo oppresso. L’appartenenza al seminario maggiore del cardinal Sapieha era già, in quanto tale, un atto di resistenza. E così la questione della libertà, della dignità e dei diritti dell’uomo, della responsabilità politica della fede, non penetrò nel pensiero del giovane teologo come un semplice problema teorico. Era la necessità, molto reale e concreta, di quel momento storico.
Ancora una volta la situazione particolare della Polonia, situata nel punto d’intersezione tra est e ovest, era diventata il destino di questo Paese. I critici del Papa osservano con frequenza che egli, come polacco, conosce veramente solo la pietà tradizionale, sentimentale, del suo Paese e non può quindi comprendere pienamente le complicate questioni del mondo occidentale.
Nulla è più insensato di una simile osservazione, che tradisce un’ignoranza completa della storia. Basta leggere l’enciclica Slavorum apostoli per derivarne l’idea che precisamente di questa eredità polacca aveva bisogno il Papa per poter pensare all’interno di una molteplicità di culture. Essendo la Polonia un punto di intersezione delle civiltà, in particolare delle tradizioni germaniche, romaniche, slave e greco-bizantine, la questione del dialogo delle varie culture proprio in Polonia è, per molti aspetti, più ardente che altrove. E così proprio questo Papa è un Papa veramente ecumenico e veramente missionario, preparato provvidenzialmente anche in tale senso per affrontare le questioni del tempo successivo al concilio Vaticano II.
Rifacciamoci ancora una volta all’interesse pastorale e antropologico del Papa. “La via della Chiesa è l’uomo”. Il significato autentico di questa affermazione, spesso malintesa, dell’enciclica sul “Redentore dell’uomo” si può veramente capire se ci si ricorda che per il Papa “l’uomo” in senso pieno è Gesù Cristo. La sua passione per l’uomo non ha nulla a che fare con un antropocentrismo autosufficiente. Qui l’antropocentrismo è aperto verso l’alto.
Ogni antropocentrismo mirante a cancellare Dio come concorrente dell’uomo si è già da tempo capovolto in noia dell’uomo e per l’uomo. L’uomo non può più considerarsi centro del mondo. Ed ha paura di se stesso a motivo della sua propria potenza distruttiva. Quando l’uomo viene collocato al centro escludendovi Dio, l’equilibrio complessivo viene sconvolto: vale allora la parola della lettera ai Romani (8, 19. 21-22), in cui si dice che il mondo viene trascinato nel dolore e nel gemito dell’uomo; guastato in Adamo, è da allora in attesa della comparsa dei figli di Dio, della loro liberazione. Proprio perché al Papa sta a cuore l’uomo, egli vorrebbe aprire le porte a Cristo. Giacché unicamente con la venuta di Cristo i figli di Adamo possono diventare figli di Dio, e l’uomo e la creazione entrare nella loro libertà.
L’antropocentrismo del Papa è quindi, nel suo nucleo più profondo, teocentrismo. Se la sua prima enciclica è apparsa tutta concentrata sull’uomo, le sue tre grandi encicliche si coordinano naturalmente tra di loro in un grande trittico trinitario: l’antropocentrismo è nel Papa teocentrismo, perché egli vive la sua vocazione pastorale a partire dalla preghiera, fa la sua esperienza dell’uomo nella comunione con Dio e a partire da qui egli ha appreso a comprenderla.
Un’ultima osservazione. Il profondo amore del Papa a Maria è certamente, innanzitutto, un’eredità che gli viene dalla sua patria polacca. Ma l’enciclica mariana dimostra quanto questa pietà mariana è stata in lui biblicamente approfondita nella preghiera e nella vita. Nello stesso modo in cui la sua filosofia era stata resa più concreta e vivificata mediante la fenomenologia, ossia attraverso lo sguardo alla realtà che appare, così anche il rapporto con Cristo non rimane per il Papa nell’astratto delle grandi verità dogmatiche, ma diventa un concreto umano incontrarsi con il Signore in tutta la sua realtà e in tal modo logicamente anche un incontrarsi con la Madre, nella quale l’Israele credente e la Chiesa orante sono diventati persona. Ancora una volta è sempre e solo a partire da questa concreta vicinanza, in cui si vede il mistero di Cristo in tutta la ricchezza della sua pienezza divino-umana, che il rapporto col Signore riceve il suo calore e la sua vitalità. E naturalmente è qualcosa che si ripercuote su tutta l’immagine dell’uomo il fatto che questa risposta della fede ha preso figura per sempre in una donna, in Maria.
Che cosa voglio dire con tutto ciò? Il mio scopo era quello di dimostrare l’unità fra mistero e persona nella figura di Papa Giovanni Paolo II. Egli si è realmente “identificato” con la Chiesa, e ne può quindi essere anche la voce. Tutto ciò non è detto per glorificare una creatura umana, ma per dimostrare che il credere non estingue il pensare e non ha bisogno di mettere fra parentesi l’esperienza del nostro tempo. Al contrario: soltanto la fede dona al pensiero la sua apertura e all’esperienza il suo significato. L’uomo non diventa libero quando diviene un solista, ma quando riesce a trovare il grande contesto al quale appartiene. Dieci anni di pontificato di Giovanni Paolo II. L’ampiezza del suo messaggio appare già ora quasi incalcolabile, immensa. Ho voluto tentare di accennare in pochi tratti alle energie portanti che ne costituiscono la forza profonda, e, insieme, rendere così meglio comprensibile la direzione che egli ci indica. Il Signore voglia conservarci a lungo questo Papa, perché ci sia di guida sulla strada verso il terzo millennio della storia cristiana.

(©L’Osservatore Romano 1° maggio 2011)

Il mio Wojtyla segreto

 

intervista a Joaquin Navarro-Valls

 

«Sono seduto accanto a Gianni Agnelli, nella sede della Stampa estera. La segretaria mi porta un bigliettino scritto a mano: il Papa la vorrebbe vedere a pranzo. È uno scherzo. E quando sarebbe?
Subito, tra un’ora». Fu un’ora che sarebbe durata ventidue anni per Joaquin Navarro-Valls, il  giornalista e medico psichiatra spagnolo che sarebbe stato fino alla sera dell’addio alla vita di Giovanni Paolo II, il Beato Wojtyla dal primo maggio prossimo, il decoder quotidiano fra l’eterno e il quotidiano, fra la santità e il giornalismo. Nessun altro, salvo monsignor Dziwisz, oggi cardinale, e le suore di pietra che vidi pregare accanto alla salma esposta nella Sala Clementina, avrebbe trascorso tanto tempo, diviso tanti silenzi, tanti segreti e tante parole con Karol Josef Wojtyla,
quanto Navarro-Valls. Una vita con il Papa, in perenne equilibrio tra la comunicazione pubblica e le stanze segrete, tra il sublime del messaggio e il purgatorio dei mass media.

Era il 1984.
«Davanti a me c’è il capo della Chiesa Cattolica, il successore di Pietro, di cui avevo letto alcuni testi ma che conoscevo soltanto da lontano, come giornalista. Mi chiede se avessi qualche idea per migliorare la comunicazione della Santa Sede».

 

In che lingua parlavate?
«In italiano. La vostra, anzi, la nostra lingua come aveva detto la sera della elezione, parlando dalla Loggia».

 

Lei che idee gli propose?
«Gli dissi che non sapevo che cosa dire, così, su due piedi. E lui, ridendo: e lei me lo dica lo stesso.
Lui taceva, mi studiava con il capo un po’ piegato, quei suoi occhi taglienti, ironici, allegri, lo sguardo che mantenne anche quando gli occhi furono imprigionati nella maschera della sofferenza».

 

Per due decenni, fino a quando l’infermiera suor Tobiana Sobodka riferì di avere sentito il Papa mormorarle all’orecchio in polacco «…pozwólcie mi odejsc do domu Ojca…», «lasciatemi tornare alla casa del Padre», nella sera del 2 aprile 2005, Navarro-Valls avrebbe guardato ogni giorno in quegli occhi, cercando di capire quello che lui stesso non poteva capire, il mistero di un Pontefice destinato al cielo delle beatitudini cristiane.

«Me lo domandavo, agli inizi, anche io chi fosse, che cosa fosse il mistero di Wojtyla. Ha cambiato la storia della politica e della diplomazia, senza essere né un politico né un diplomatico. Ha rivoltato le premesse della filosofia dominante senza esercitare più la professione del filosofo, ha affascinato il mondo dei media prendendo posizioni impopolari. Voleva appassionatamente attirare l’attenzione sul messaggio, ma il mondo sembrava ossessionato dal messaggero. Credevano di amare il cantante, e non si rendevano conto, o non volevano ammetterlo, che in realtà erano attratti dalla musica».

 

Una musica che all’orecchio del tempo sembrava stonata.
«Perché suonava alla rovescia rispetto agli spartiti dominanti dell’epoca: il pessimismo e la cupezza della nostra esistenza e della nostra condizione umana dietro il benessere materiale del nostro piccolo spicchio di mondo, Europa e Americhe. Il messaggio di Giovanni Paolo II è radicale, rivolta quegli spartiti. Diceva: voi uomini siete molto meglio di quanto la cultura moderna vi faccia credere, siete molto meglio di quanto voi stessi crediate di essere. Dunque non abbiate paura di essere ciò che siete, creature divine».

 

Invadeva i teleschermi, li “bucava”, occupava la televisione ormai divenuta satellitare, dunque globale. Lei non temeva, come curatore della sua immagine, di rischiare l’overdose?
«No, perché sapeva che il segreto per dominare la televisione e non lasciarsene dominare è semplicemente ignorarla, come scrisse il critico televisivo del New York Times quando andammo in America nel 1987. C’era il suo messaggio, c’erano le sue parole, e c’era la fusione tra la forza del suo messaggio e il vissuto esistenziale che si manifestava quando lo comunicava alla gente. Chi lo ascoltava sapeva che quanto diceva era vero. Il suo linguaggio e i suoi gesti esprimevano la verità».

 

Si preparava a questi eventi? Studiava le pose, gli angoli di ripresa, le luci, la scenografia e la sceneggiatura?
«Mai, neppure una volta. Per lui le telecamere, il trucco, le luci non esistevano. Questi atteggiamenti da personaggetti che si fanno spiegare come e dove devono guardare, se fissare l’obbiettivo o guardare fuori, se sorridere o sembrare seri, non lo sfioravano mai. I primi tempi mi preoccupavo, sapendo quanto la telecamera possa essere crudele. Ma per lui comunicare era far apparire la verità, non costruire un’apparenza».

 

La Curia diffidava?
«La Curia, come ogni organizzazione istituzionalizzata, può tendere alle volte a guardare verso il proprio interno. Lui la faceva guardare verso l’esterno».

 

Recalcitravano, le porpore?
«La Curia era non soltanto utile ma necessaria. E lui, come Papa, marcava la strada».

 

Una lunghissima strada. Duecento viaggi dentro l’Italia, poi in centosessanta nazioni fuori dall’Italia.
«Una volta mi disse una cosa che sembrava elementare: “Sa, nel passato era la gente ad andare in parrocchia. Oggi è il parroco che deve andare dalla gente”. Questa, così apparentemente semplice, era una un’illuminazione straordinaria che lui portava con sé da una lunga esperienza nel proprio Paese».

 

Lei che è un credente, un uomo dell’Opus Dei, si rendeva conto di vivere accanto a un santo?
«Lo andavo comprendendo standogli accanto giorno dopo giorno, non avevo dubbi. La fede non l’ho avuta da lui ma accanto a lui il contenuto della fede si “vedeva”, e lo metta tra virgolette perché questo andrebbe spiegato. Quello che cercavo di imparare era come la santità si sarebbe fatta carne in lui, in noi cristiani. Questo lo avrei scoperto soltanto nella convivenza quotidiana».

 

Per esempio?
«La preghiera. Per un credente, la preghiera spesso è un obbligo. Oppure il risultato di una convinzione fondata. Per lui era una necessità, un bisogno, come per noi respirare».

 

Aveva un preghiera preferita?
«Nutriva la sua preghiera con i bisogni degli altri. Gli arrivavano migliaia di messaggi di tutto il mondo, in tutte le lingue: una malattia, un problema famigliare, l’angoscia di un futuro senza futuro… L’ho visto in ginocchio per ore nella sua cappella con questi messaggi in mano: tutte le sofferenze umane come tema della sua conversazione con Dio. Penso che per se stesso non rimanesse alcuno spazio nella sua preghiera. Penso che lui non avesse delle “cose sue”. Solo cose
degli altri».

 

E c’era una costante nel parlare con Dio?
«Lui, che pure aveva riportato l’ottimismo nel mondo incupito e pessimista, custodiva un suo segreto. Era convinto che quello di cui veramente l’essere umano avesse più bisogno era la misericordia di Dio. Per questo la cerimonia di beatificazione avverrà il primo maggio, il giorno della Misericordia. Sembrerebbe un paradosso. Tanto fiducioso, tanto ottimista, lui che apriva orizzonti sterminati alla persona umana, eppure con il senso della limitatezza della creatura umana.
L’ultima messa, celebrata nella stanza in cui morì, era già la messa della domenica, la messa della Divina Misericordia».

 

Come psichiatra, lei, dottor Navarro, è mai caduto nella tentazione di guardare Karol Wojtyla come a un paziente?
«Non c’era materia per considerarlo un paziente. E non c’era tentazione, semmai deformazione professionale, come il sarto che vede un abito o il calzolaio che guarda le scarpe e le valuta, per abitudine. Mi impressionava il magnifico equilibrio interiore tra tutte le sue virtù. Virtù che, quando coabitano in una sola persona, possono anche impazzire. In lui, questa pazzia delle virtù non c’era.
Convivevano senza difficoltà. Per esempio: non sapeva perdere un minuto eppure non aveva mai fretta».

 

Neppure alla vigilia degli incontri più delicati?
«Nemmeno in queste occasioni. Semplicemente, metteva tutto se stesso nella preparazione di questi viaggi. Sapeva mortificarsi senza spettacolarità: rispetto al cibo, per esempio. Il rapporto con il cibo e con le bevande era di indifferenza, ne era quasi infastidito. Andavamo in paesi tropicali, caldissimi, umidi, come l’Indonesia. Era ovvia la disidratazione per il caldo. Il suo medico, io stesso, eravamo preoccupati per la perdita di liquidi. Lui, con straordinaria e discreta eleganza, ritardava di bere».

 

Dormiva bene, quando non soffriva?
«Voleva sempre che si viaggiasse di notte nei voli intercontinentali, per arrivare al mattino sul posto e avere così davanti a sé tutta una giornata di lavoro. Nel suo ultimo viaggio in Messico, e aveva ottant’anni, l’Alitalia gli aveva preparato un lettino dietro una tenda. Noi del seguito – laici, cardinali, monsignori – cercavamo di dormire almeno un po’, raggomitolandoci nei sedili. Quando atterriamo, l’incaricato della compagnia mi avvicina e mi dice: noi avevamo preparato il lettino per il Papa, ma abbiamo visto che è intatto. Era troppo stretto, era scomodo? Non si preoccupi, lo
rassicurai, è stato sveglio tutto il viaggio per prepararsi. Tredici ore di viaggio leggendo, studiando, pregando».

 

Mangiava anche poco?
«Non gli importava molto di ciò che aveva davanti. In certi periodi dell’anno faceva soltanto un pasto completo al giorno. E fino all’ultimo, il giorno prima di ordinare nuovi vescovi o sacerdoti, digiunava».

 

Potrebbe essere una definizione laica della santità il riuscire a vivere nell’equilibrio delle proprie virtù. Era questa serenità la radice, la causa del suo essere un uomo allegro, ironico? «Era un uomo allegro, è verissimo. L’ironia era il suo tratto caratteriale più evidente. Ma la sua  gioiosità non era quella banale delle persone che non sanno fare a meno della risata da barzelletta.
Le fondamenta del suo carattere, che io definisco allegro, stanno tutte in due righe».

 

Di diari? Di confessioni?
«No, della Genesi. Dove si dice che siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza. È chiaro che se ci credi, ma se ci credi davvero davvero, allora, qualunque cosa accada, anche la tragedia più spaventosa, anche Fukushima, non cambia il fatto che il mio fine ultimo di creatura è il lieto fine, l’happy end. Non ce ne possono essere altri. Dio non può tradire le creature fatte a propria immagine e somiglianza. Se hai questa certezza, anche la sofferenza ha un senso».

 

Lo sentiva scherzare?
«Molto. Amava scherzare, stuzzicare e prendere affettuosamente in giro anche i suoi collaboratori, i parroci e i preti diocesani delle parrocchie romane che andava a visitare. Incontrandoli la sera prima, voleva sapere quanti vecchi, quanti bambini, quante donne incinte, quanti malati gravi fossero sotto le loro cure, per poi trovarsi preparato a tutto. Ma come, Santità, gli disse un cardinale quando già stava poco bene, vuole andare a visitare un’altra parrocchia romana? Guardi eminenza che forse lei dimentica che io sono il vescovo di Roma».

 

Cercava sempre il contatto con la gente?
«C’era una grande fisicità in lui, baciava le donne in fronte e coccolava i loro bambini, prendeva sottobraccio i vecchi, afferrava le mani di chi gliele tendeva. “Ma sei proprio tu quello che ho visto in televisione?”, gli domandò un bambino colombiano sfuggito alla sorveglianza e corso sul palco del Papa. Prima che lo riacciuffassero, lui lo abbracciò e tolse al bambino quel dubbio – che a quella età doveva essere importante».

 

Un Papa prete, come sarebbe stato anche Luciani, da cui prese il nome, Giovanni Paolo. Aveva anche lui dubbi sulla morte improvvisa del suo predecessore, nel sonno, appena trenta giorni dopo l’elezione?
«No. Per lui, i sospetti erano letteratura, fiction, non lo interessavano. Mi raccontò invece di come ebbe la notizia della morte di Papa Luciani. Lo seppe dal suo autista, mentre quella mattina andava in visita pastorale a una parrocchia di Cracovia. Lui che era stato nel Conclave pochi giorni prima dovette sapere dall’autista che era morto il Pontefice che aveva eletto».

 

Come reagì?
«Sentì un’immensa tristezza invaderlo, poi lo assalì un’inquietudine enorme che lo scuoteva e che non riusciva a spiegarsi».

 

Forse un presentimento.
«Forse. Ma lui non ripartì per Roma, per il secondo Conclave in poche settimane, pensando di doverci restare come Papa. Non parlava mai di quei due Conclavi. Non disse mai se avesse ricevuto qualche voto anche nel Conclave che elesse Luciani».

 

Anche i santi si arrabbiano?
«Raramente, ma sì, se la ragione è giusta. Le uniche volte in cui l’ho visto arrabbiato, se arrabbiato è la parola corretta, erano sempre situazioni di violenza fisica o morale rivolta contro la gente, come la guerra nel Libano, o nei Balcani. Si tormentava, e tormentava noi chiedendoci che altro può fare il Papa per impedire una guerra. O come sarebbe poi stata l’invasione dell’Iraq, alla quale era molto contrario».

 

Lo disse pubblicamente.
«E anche privatamente. Quando incontrò George W. Bush, gli disse chiaramente: mister President, lei sa quale opinione ho della guerra in Iraq. Discutiamo di altro. Ogni violenza, contro uno o un milione, era una bestemmia diretta all’immagine e alla somiglianza di Dio. Non accettava che l’essere umano cercasse di risolvere le differenze con gli altri attraverso la violenza, come gli animali».

 

Molti grandi santi, antichi e moderni, hanno confessato di avere vacillato, di essere stati aggrediti da dubbi. Lo so che sembra una bestemmia, detta per un Papa e oggi un beato, ma Karol Wojtyla credeva davvero davvero, come dice lei, in Dio?
«Penso che possa rispondere qualsiasi persona che lo abbia visto e seguito. La sua fede la si vedeva.
Alla fine ormai della sua vita, nel 2005, quando dovettero praticargli una tracheotomia all’ospedale Gemelli per permettergli di respirare e quindi non poteva parlare, in sala post-operatoria fece un gesto. Sembrava voler dire qualcosa che non poteva dire. La suora capì. Gli portò un cartoncino con un pennarello. Lui ci scrisse sopra con decisione, a grandi lettere irregolari: TOTUS TUUS. Era mettere per iscritto la sua accettazione di quello che Dio voleva per lui anche in quel momento».

 

Era rassegnato.
«No, era convinto della propria totale appartenenza a Dio, attraverso l’intercessione di Maria. Ho detto convinto, perché questa era stata la motivazione profonda di tutta la sua vita di Papa. Non voleva vincere, voleva convincere, come lui stesso era stato convinto dallo Spirito quando era un giovanotto che giocava a calcio come portiere e remava sul suo adorato kayak in Polonia».

 

Ma il duello contro l’Urss, i regimi, le burocrazie comuniste lo aveva pur vinto.
«Vincere non era una parola che appartenesse alla sua filosofia, al suo orizzonte interiore».

 

Eppure fu costretto a una sfida che al mondo apparve un duello senza quartiere attorno alle sorti della sua Polonia, nel 1980. Il tempo di Solidarnosc e di Lech Walesa…
«In quei anni di tensione Ronald Reagan gli scriveva molto, gli mandava a Roma l’ambasciatore  Vernon Walters, ex generale, uno dei pochi ambasciatori americani che parlassero le lingue, poi il consigliere per la sicurezza nazionale Bob McFarlane. Reagan parlava allora della Russia come “l’impero del male”: un’espressione che il Papa non avrebbe mai usato sapendo che il cristianesimo esisteva in Russia da mille anni prima. Era inevitabile vedere in loro due strade diverse. Il fine che muoveva Giovanni Paolo II non era l’America o l’anticomunismo, e neanche in fondo una qualsiasi
forma di società neo capitalistica e libertaria idealizzata, bensì la dignità assoluta e trascendente della persona umana che è capace di scegliere il proprio destino. La sua originalità era la potenza dei valori antropologici universali e la fede incrollabile nella persona umana in quanto tale».

 

Forse perché il Papa non ha divisioni corazzate, come diceva Stalin.
«Aveva una forza diversa e il Cremlino se ne accorse presto. Non è molto noto ma, in quel 1980, i satelliti spia e gli Awacs fotografavano i movimenti delle truppe della Germania comunista che si dispiegavano sul confine occidentale della Polonia, da dove sarebbe partita l’invasione che tutti temevamo. Io ero a Varsavia in quei giorni e andavo a dormire convinto che mi sarei svegliato con i carri sovietici in strada. Era dicembre e Giovanni Paolo II scrisse una lettera personale e privata a  Leonid Breznev».

 

Come Leone Magno con Attila? Per ordinargli in nome di Dio di non toccare la Polonia?
«No, sarebbe forse stato un errore, avrebbe fatto infuriare il Cremlino e offeso l’orgoglio dei sovietici. Gli scrisse, con grande chiarezza e con la conoscenza diretta che aveva di quei regimi e della loro mentalità, solo per ricordargli che appena cinque anni prima, nel 1975, lui stesso, Breznev, aveva firmato a Helsinki un trattato solenne in cui l’Urss si impegnava a non interferire negli affari interni di ogni altra nazione europea. Dunque, se avesse invaso la Polonia avrebbe violato la sua stessa parola, la parola dell’Unione Sovietica».

 

E Breznev rispose?
«Sì, ma non con una lettera, né per via diplomatica. La sua vera risposta fu la rinuncia all’azione di forza. Eppure Breznev sapeva, come sapevamo tutti, che lasciare la Polonia al proprio destino sarebbe stata la fine per la stessa Unione Sovietica e che il sogno del Papa, che era un’Europa dall’Atlantico agli Urali, ma senza il dominio di una potenza, si sarebbe inesorabilmente avvicinato».

 

La lettera segreta di Giovanni Paolo II fece quello che le potenze militari e la Guerra fredda non avevano saputo fare.
«Quando andammo a Praga nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, il presidente Vaclav Havel ricevette il Papa all’aeroporto e, da buon letterato, gli disse: “Io non so se so che cosa è un miracolo. Ma oggi mi sembra di vedere un miracolo”».

 

Un miracolo politico, diplomatico, strategico. Il profeta disarmato che distrugge la massima potenza militare del mondo.
«Questo era chiaro, ma non si deve pensare a lui come a un leader politico in abito religioso, deciso a cambiare regimi e confini. Non salì sulla cattedra di Pietro per liberare l’Europa dell’Est dal comunismo, ma per diffondere il messaggio dell’assoluta centralità della persona umana, della creatura, che esiste come tale perché ha un creatore, e in quella verità deve ritrovarsi. Questa era l’essenza postmoderna, post-ideologica, post-esistenzialista, dunque implicitamente post-marxista e leninista, l’essenza cristiana della sua predicazione».

 

Ci fu però un’altra risposta, un anno dopo la resa sovietica di fronte alla Polonia. In Piazza San Pietro. Il giorno 13 maggio del 1981. Ali Agca.
«La sofferenza era già entrata nella sua vita da anni ma probabilmente quello fu il suo primo incontro, brutale, inaspettato, con il dolore fisico: uomo robusto e sano, non lo aveva davvero mai affrontato. La prima di una serie tremenda di prove».

 

La corsa all’ospedale Gemelli, destinato a diventare il “Vaticano 2”. Il complicato lavoro dei chirurghi sull’intestino, perforato da due dei quattro proiettili sparati dall’aggressore, con colostomia temporanea.
«Era ancora cosciente, sull’ambulanza. Perse i sensi arrivando in ospedale, per la perdita di sangue e il crollo della pressione sanguigna. Ma riuscì in un momento di lucidità a dire ai medici di lasciargli al collo lo scapolare, il rettangolo di stoffa dei carmelitani dedicato alla Vergine. Fu operato con lo scapolare addosso, quella volta e in tutti gli interventi successivi che dovette subire».

 

Ebbe la certezza dell’intervento provvidenziale, «materno» come lo definì, della Madonna per deviare le pallottole e non colpire organi vitali. Ci fu chi lo accusò di un peccato di superbia, per averlo pensato.

«È esattamente il contrario. Per una persona che ha il senso della totale dedizione alla Madonna, è
semmai un riconoscere di aver ricevuto un dono e di avere un debito».

Ma qualche dubbio doveva averlo.
«Non sull’attentato ma sul possibile collegamento dell’attentato con il terzo segreto di Fatima. Per questo prima di far pubblicare quel testo anni dopo, mandò il cardinale Tarcisio Bertone, allora segretario della Dottrina della fede sotto il cardinale Ratzinger, in missione da suor Lucia, l’ultima superstite dei tre bambini che videro la Madonna. Voleva essere certo, sapere se l’ultimo segreto fosse davvero la profezia dell’attentato al Papa. Bertone chiese a suor Lucia se questa interpretazione fosse coerente con quello che la Madonna le aveva rivelato. Suor Lucia rispose di sì; che era coerente con quanto lei aveva scritto con l’ingenuità di una bambina di allora dieci anni che lo aveva visto attraverso questa immagine. Fece inviare a Fatima il bossolo di un proiettile sparato da Agca che ora è incastonato all’interno della corona della Vergine nel santuario».

 

Credette dunque alla «mano materna che aveva deviato un’altra mano». Ma chi aveva mosso invece la mano assassina di Agca? I servizi segreti bulgari appaltati da Mosca utilizzando una marionetta turca? Il Papa lo pensava?
«Rispondo con quello che disse lui stesso andando per la prima volta in visita in Bulgaria dopo la fine del regime: non considero il carissimo popolo bulgaro responsabile collettivamente».

 

Era un uomo solo, come si dice tanto spesso dei potenti e dei veri grandi?
«No, non lo era né di fatto né per carattere. Raramente era da solo o con il suo segretario, durante i pasti. Riceveva vecchi amici, collaboratori, intellettuali… Erano occasioni stupende per conversazioni informali. C’era nella sua vita sempre ampio spazio per l’interazione. Giovanni Paolo II non era mai solo, perché non voleva esserlo. Però questa facilità nei contatti umani non lo privava della solitudine riflessiva, il pensare da solo».

 

Nessun amico, nessun cardinale, neppure l’amatissimo cardinale Ratzinger, nessun addetto stampa possono però mai essere tua madre, tuo fratello.
«Ricordo che quando una volta gli domandai chi lo avesse accompagnato il giorno in cui fu ordinato sacerdote, lui mi rispose: “A quell’età avevo già perso tutte le persone che avrei potuto amare”. Sul tavolino accanto al suo letto di morte c’era la piccola foto del padre e della madre che gli era stata regalata in uno dei viaggi all’estero».

 

L’incontro con la sofferenza morale era avvenuto molto presto, da ragazzo. La salita sul monte della sofferenza fisica sarebbe cominciata quel giorno in piazza San Pietro e non si sarebbe più fermata fino al morbo di Parkinson, l’umiliazione finale del suo messaggio, il male che colpisce la gestualità, l’espressività. Perché attendeste tanti anni, dodici, per ammettere che ne era stato colpito?
«Perché non ce n’era bisogno. Il Parkinson, con quel tremore incontrollabile alle mani e la rigidità dei muscoli facciali, è una malattia che qualunque studente di medicina del primo anno, qualunque persona che ne sia stata colpita o che abbia un parente che ne sia stato colpito, può diagnosticare guardando un minuto la persona che ne soffre. Lei pensa che è necessario presentare una persona incinta di sei mesi dicendo che è incinta? Lo si vede; è evidente. Anche nella patologia, Wojtyla non poteva e non voleva nascondere nulla».

 

Vedeste insieme, e a volte lei da solo, i cosiddetti grandi del mondo. Lei andò in missione a Mosca, poi a Pechino per coronare il sogno di un viaggio in Russia e in Cina… «Che non si fecero….». …e a Cuba dove invece riusciste.
«Parlai a lungo, dalle otto di sera alle due del mattino, con Fidel Castro, e così si sistemarono alcune precondizioni al viaggio del Papa. Nei colloqui privati non gli parlai mai della sua educazione presso i Gesuiti, fu lui a ricordarla a me».

 

Si rendeva conto, il Papa, che avrebbe celebrato messe in chiese in cui si mescolavano tranquillamente il cristianesimo con la santeria, le Madonne con i Serpenti di Mare?
«Lo sapeva benissimo. E questa conoscenza era una ragione in più per quel viaggio. La gente aveva bisogno delle sue parole, del suo insegnamento che non trovavano da nessuna parte per la scarsità del clero, l’isolamento cubano e le difficoltà di formarsi».

 

Le diceva tutto, sui suoi colloqui privati con capi di stato o di governo?
«Raccontava i termini dei colloqui e lasciava decidere che cosa era necessario dire all’opinione pubblica. Naturalmente faceva con tutti loro riflessioni profonde di carattere etico. Un giorno  ricevette un capo di stato autocrate e violento. Uscendo, dopo il colloquio, commentò quasi tra sé: “Sembra quasi un agnellino”».

 

Come vedeva gli Stati Uniti, i suoi presidenti?
«Ammirava moltissime cose dell’America, l’apertura, la mobilità sociale, il senso religioso che pervade la vita e non solo la Costituzione. Ha conosciuto e incontrato cinque presidenti americani.
Si comportava allo stesso modo con tutti, con Carter, con Reagan, con Bush padre, con Clinton, con Bush figlio. Di Bush giovane apprezzava, per esempio, la legge che ritirava i finanziamenti pubblici alla ricerca sulle staminali embrionali, non le guerre».

 

Dunque non poteva apprezzare molto Clinton, che era dichiaratamente pro aborto.
«Il presidente Clinton aveva una certa simpatia naturale. E Clinton, che ammirava Wojtyla, ha scritto: “Non vorrei mai fare una campagna elettorale contro di lui”».

 

E con Reagan?
«Si sono incontrati diverse volte. Parlavano in profondità ma avevano due missioni diverse anche se alla fine storicamente hanno coinciso. Erano come due linee parallele: la diplomazia della forza e la forza delle virtù».

 

Come guardava all’Italia, alla vita politica italiana?
«Con enorme tenerezza. In Italia facemmo più di duecento viaggi, visite, pellegrinaggi, e quella sua scelta celebre di rivolgersi alla folla in Piazza San Pietro usando l’italiano…».

 

… se sbaglio mi coriggerete?
«…Appunto. Fu la testimonianza di quell’affetto, del riconoscimento all’Italia che aveva donato mezzo millennio di papi. Seguiva la politica italiana ma non le scaramucce quotidiane. L’ho detto, non era un politico. Quando andò in Parlamento si rivolse alla nazione italiana, non a questo o quel gruppo; parlò di valori, non di destra o sinistra. Guardava spesso i titoli dei telegiornali alla sera e poi basta. Ma il capitolo di una sua amicizia italiana è tutto da ricordare».

 

Sandro Pertini.
«Sì, il presidente Pertini. Nel giorno dell’attentato, Pertini si fece portare all’ospedale Gemelli e restò in attesa dell’esito dell’intervento, come un parente prossimo, tempestando di domande medici e infermieri, lui che non era credente. Restò fino alle rassicurazioni dell’équipe dei chirurghi. Soltanto dopo cinque ore tornò al Quirinale».

 

Wojtyla ricambiò questo gesto?
«Ci provò. Quando seppe che l’ex presidente stava morendo, nel 1990, il Papa andò discretamente nell’ospedale dove era ricoverato. Chiese di vederlo, di parlargli per un’ultima volta perché lui sapeva che Pertini lo avrebbe voluto salutare».

 

Forse sperava in una conversione sul letto di morte.
«Questo non lo so. Non conosco i pensieri del Papa né quelli di Pertini. Forse voleva soltanto confortare un moribondo, da uomo a uomo. Se avesse voluto anche il conforto religioso, il Papa sarebbe stato lì, il prete accanto al moribondo».

 

Riuscì a vederlo, prima che morisse?
«No. Non lo lasciarono entrare nella stanza dell’amico. Quando il Papa si sentì negare il permesso, chiese soltanto che gli portassero una sedia. Se la fece sistemare nel corridoio sul quale dava la stanza del Presidente e rimase a pregare in silenzio e in solitudine, per il vecchio amico che se ne stava andando. Dopo parecchio tempo si alzò e disse che tutto era già fatto. E, altrettanto discretamente, tornò in Vaticano. Non volle dare nessuna pubblicità alla cosa».

 

C’era, anche in tanti che avrebbero voluto ascoltare la sua voce, la delusione per il suo conservatorismo dottrinale e inflessibile in materia di amore, di sesso, di omosessualità, di sacerdozio femminile, di celibato sacerdotale. Sembrava stridere così violentemente con la sua persona pubblica, con la fisicità di cui abbiamo parlato. Eppure era entrato in seminario a diciannove anni, dunque aveva visto e conosciuto la vita.
«Concordo con il giudizio di tanti studiosi – dentro e fuori la geografia cattolica – che il più originale contributo del pensiero di Wojtyla è la sua concezione della persona umana. Ne parlammo molto.
Prima ancora di parlare di peccato, di legge divina, di morale, Wojtyla vedeva la natura umana, della quale tutti siamo portatori. Oggi, “natura umana” è un’espressione politicamente scorretta, si tende di più a parlare di “genere”, di “costruzione sociale” come antagonista alla natura. Ma anche se la cultura prende origine nell’azione, questo non vuole dire che non sia naturale. E la natura umana ha una sua eloquenza evidente».

 

Negarlo sembra la negazione della libertà morale, dunque della salvazione?
«Giovanni Paolo II pensava che all’essere umano – e soltanto all’essere umano – appartiene anche il dover essere. Questo fa dell’uomo una “persona”. Anche gli animali sono, ma non devono essere niente altro di ciò che sono; la loro perfezione è biologica. Nell’uomo la perfezione non è di natura biologica ma morale. Naturalmente si può rifiutare la questione del “dover essere” ma in questo caso l’uomo sta rifiutando se stesso, sta rifiutando di essere ciò che è».

 

Era quella intransigenza che i critici avvertivano dietro la sua personalità, la sua figura così affascinante?
«Non c’era nessuna contraddizione, se ci pensiamo. L’intransigenza morale, sui principi che hanno a che vedere con la verità, che non era intellettualmente negoziabile, si accompagnava sempre alla sua infinita, illimitata pietas, alla comprensione, alla tolleranza per la persona. La discussione è sulle idee e, alla fine, sulla verità; la persona merita di più che la discussione. E questo lo portava esattamente a quello di cui l’essere umano aveva per lui un bisogno assoluto: la misericordia, soprattutto quella divina».

 

Ma prima la devi accettare, questa misericordia?
«Certo e la puoi rifiutare, ma allora si entra nel vuoto della solitudine assoluta, nel buio più completo. Quando lo sentivo parlare, si vedeva insieme la profondità della sua fede e la ricchezza del suo pensiero. O se si vuole, della enorme ragionevolezza della religione e della fede».

 

Un uomo allegro che predicava non il diritto a non soffrire, come scrive oggi la scienza, ma quasi il dovere di soffrire?
«Direi piuttosto, l’inevitabilità della sofferenza. Con un realismo ottimista ma non ingenuo, pensava che imparare a vivere è anche imparare a soffrire. La sofferenza è l’ambito dell’umano, è la condizione del nostro essere, è ciò di cui abbiamo paura. Non soltanto la sofferenza fisica, ma quella spicciola, quotidiana, il figlio che ti fa penare, il sogno che non si avvera, l’amico che ti tradisce, il mondo che sembra impazzire, tutto quello che ci fa soffrire ma che non ci farà mai andare da un medico perché nessun medico può curare o lenire queste cose».

 

Eppure l’insegnamento della Chiesa sembra essere così spaventato da questo nostro corpo, dalle sue pulsioni, dai suoi desideri.
«Non per Wojtyla. E io penso nemmeno per la Chiesa. Non aveva nessuna paura del corpo.
Accarezzava e benediva la pancia delle donne incinte, faceva sport – quando poteva, e cioè non con la frequenza necessaria – lottava tenacemente per tenere in funzione il proprio corpo anche quando era logoro e già non rispondeva agli impulsi. Amava il corpo perché con il corpo l’essere umano si inserisce nella storia: nella storia umana e in quella della salvezza. Ma a questo amore per il corpo si aggiungeva il rispetto che un corpo – il proprio e quello degli altri – merita proprio perché non è un ammasso di cellule ma la condizione storica della persona. Di tutto questo rimane un suo magnifico libro – Uomo e donna lo creò – che è già un classico non soltanto della letteratura cristiana ma anche del pensiero umano».

 

Anche a rischio di apparire crudeli, ingenerosi, verso chi risponde ad altri richiami, a chi vorrebbe scegliere la propria fine?
«Anche a rischio di questo perché la più terribile delle crudeltà sarebbe ingannare trattando gli altri come cose anziché come persone».

 

Un rischio che il successore, Papa Ratzinger, corre anche di più, non mostrando quella fisicità, quella corporeità che Wojtyla esprimeva.
«Ma questo è soltanto l’aspetto esteriore. Si dovrebbe riflettere su quanto profonda fosse la sintonia fra questi due uomini pur tanto diversi fra loro. Era stato lui a chiedere a Ratzinger, nel 1981, di venire a Roma, e poi a trattenerlo anche dopo l’età del pensionamento quasi, direi, contro la sua volontà».

Aveva bisogno di lui?
«Probabilmente, sì».

 

Si può parlare di un capolavoro del pontificato di Wojtyla?
«Per me, il suo capolavoro è stato quello che verrà confermato nella sua beatificazione. Il capolavoro che, con l’aiuto di Dio, lui ha compiuto in se stesso: aver detto di sì fino all’ultimo momento a tutto quello che Dio gli chiedeva. La sua totale disponibilità ad essere quello che Dio gli domandava che fosse, sia quando era un giovane uomo vigoroso sia quando non ce la faceva più.
Quando voleva parlare alla finestra e non ci riusciva e si agitava prima di calmarsi. Totus tuus, non ce la faccio più, e subito dopo Totus tuus. Questo era il presagio di santità che vedevo in lui, come mi avevate chiesto all’inizio, fino al momento in cui si arrese all’ultima volontà divina, che era quella di tornare alla casa del Padre. Non scelse di morire. Scelse – ancora una volta nella sua vita – di accettare quello che un Altro aveva scelto per lui».

 

Erano le 21,37 del 2 aprile 2005, quando il tracciato cardiografico si appiattì e il dottor Buzzonetti, medico pontificio, certificò la fine. Alla finestra della sua stanza nel Palazzo apostolico, fu accesa la piccola candela della tradizione polacca per i morti. Suor Tobiana gli posò la mano sulla testa.
Attorno al letto di morte del Papa, «senza che ci fosse stato prima un accordo» dice ora Joaquin Navarro-Valls, suore, infermieri, preti cominciarono a intonare il Te Deum laudamus, non una nenia funebre, ma l’inno cristiano più solenne e trionfale del ringraziamento. Ringraziamento non per una morte, ma per tutta la vita straordinaria nell’ordinario quotidiano che l’aveva preceduta.
La piazza, là sotto, era piena, ma silenziosa. Le voci del «Santo subito» avrebbero presto riempito quel silenzio.

 

in “la Repubblica” del 24 aprile 2011

 

 


 

 

 

 

 

 

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Wojtyla beato di Massimo Faggioli in Europa del 30 aprile 2011

“questa beatificazione è anche la presa d’atto che il pontificato di Giovanni Paolo II ha ridetto il cattolicesimo contemporaneo, che non si lascia ridurre ad un’unica ed esclusiva dimensione teologica o ideologica: con buona pace degli atei devoti, dei lefebvriani di complemento à la de Mattei, e dei chierici del dissenso di Micromega”
  • La verità di Wojtyla intervista a Joaquìn Navarro-Valls a cura di Aldo Maria Valli in Europa del 30 aprile 2011
Anticipiano alcuni stralci dell’intervista di Aldo Maria Valli con Joaquín Navarro-Valls che apparirà nel fascicolo di maggio della rivista “Studi cattolici”. “Lui diceva loro che erano molto superiori alle ipotesi che la cultura moderna offriva su loro stessi. Sapeva aprire loro orizzonti antropologici e religiosi che nessuno osava proporre ai giovani.”
“Domani tutti costoro… guarderanno – mi domando – in alto e penseranno che una storia umana si è definitivamente conclusa e c’è un altrove? Penseranno alla beatitudine di Giovanni Paolo II? A cos’altro penseranno? «Sta in silenzio davanti al Signore e spera» recita l’inizio del Salmo 36. È un Salmo bellissimo, colmo di conforto. Ma anche colmo di vuoto, nella semplicità di questo versetto, per i cristiani. Perché i cristiani devono credere e sperare in cose impossibili…”
“Un’opzione rischiosa ma al contempo feconda è stata quella scelta da Alberto Melloni… che ha individuato «Le cinque perle di Giovanni Paolo II» (Mondadori), cioè «i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia», come recita il sottotitolo… mi sembra che la «perla» chiave che ha in sé la capacità di suscitare le altre sia proprio la prima: la valorizzazione del Vaticano II…”
“da Papa Wojtyla può venire un messaggio anche per la festa del lavoro. Per cui si può ben immaginare e auspicare un filo diretto che da Piazza S. Pietro giunge a Piazza S.Giovannni.”
“Tra i motivi di grande attualità dell’azione svolta da Giovanni Paolo II c’è soprattutto il tema dell’accoglienza. (…) Una lezione tanto piu utile e necessaria oggi che anche nella comunità ecclesiale, sul tema immigrazione, non tutte le sensibilità sono armonizzate, vista anche la contiguità, assai discutibile, con alcune posizioni politiche. (…)

 

29 aprile 2011

 

Per “essere in comunione con Roma”, “essere presenti”, “rendere omaggio” o semplicemente “dire grazie a Giovanni Paolo II” … numerosi momenti di preghiera e celebrazioni ritrasmesse su grandi schermi… Dediche di vie, centri pastorali, vetrate di chiese… statue (di m. 1,30 a Neudorf, m. 1,80 a Aix, di m. 3 a Fourvière, di m. 3,80 a Parigi…) … e anche un flash-mob di danza…
Gli “anni di Giovanni Paolo II” restano per molti cattolici sinonimo di dinamismo e fierezza. “Beatificando rapidamente Giovanni Paolo II, il Vaticano si sforza di riattivare quel momento di grazia che si è da allora assopito, sottolinea Portier. Bisogna ricordarsi che, dopo il pontificato depressivo di Paolo VI, quello di Giovanni Paolo II ha mostrato che la Chiesa poteva ancora essere piena di vitalità, sicura di se stessa, capace di guadagnare punti sullo scacchiere demografico e politico”
“Almeno in due campi – predicazione della pace e rapporto con le religioni non cristiane – Papa Wojtyla è andato in avanscoperta, oltre le indicazioni che erano venute dal Vaticano II. Quando i due temi coincidevano – come nelle tre «giornate» interreligiose di Assisi: 27 ottobre 1986, 9-10 gennaio 1993, 24 gennaio 2002 – egli si affidava al genio dei gesti simbolici.”
“Il malessere della Chiesa si è aggravato a causa del fatto che essa non ha accettato di cambiare. Piuttosto essa è regredita nell’utero materno, si è aggrappata alla Roccia Polacca per non avere le vertigini. Il rischio è che questa beatificazione si trasformi, nella gestione di alcuni settori cattolici identitari, in un tentativo di riprodurre il wojtylismo e dunque il nuovo regime di cristianità oltre Wojtyla, bloccando ulteriormente i cambiamenti. A meno che Benedetto XVI non trovi il coraggio di rovesciare il piatto”

 

28 aprile 2011

 

“i santi, tutti i santi, sono uomini e come tali non possono essere perfetti”. Sbaglia dunque il Vaticano che da tempo cerca di staccare Wojtyla dal suo pontificato: “Impossibile staccare l’uomo dalle sue azioni” e per questo Wojtyla va beatificato.
Il 1 Maggio Giovanni Paolo II verrà beatificato: due voci opposte a confronto. ” Io considero Karol Wojtyla il più grande oscurantista del XX secolo. …. Il nemico è l’illuminismo: questo è il filo rosso di tutta la sua predicazione. La presunzione, mostruosa secondo lui, che l’uomo prenda in mano il proprio destino prescindendo dall’obbedienza a Dio”(Flores D’Arcais “Nella memoria popolare,…, non attecchisce l’idea del papa oscurantista. Ha aperto nuovi orizzonti al cattolicesimo. Il rapporto con gli ebrei: …. Ha posto con forza la questione dei diritti sindacali sul finire del secolo XX, specie dopo la caduta del comunismo… L’autocritica sugli errori del passato …”(Politi)
“C’è chi dice che è stato fatto beato troppo presto. Concorda? «aspettare uno o due anni in più non avrebbe molto significato. Esiste nei confronti di Wojtyla un certo revisionismo: la sua grandezza scandalizza la stretta misura sia di alcuni laici sia di alcuni ecclesiastici. Per altro verso, lui si è sempre sentito un uomo del Concilio Vaticano II, come è evidente anche dal suo testamento»”

Coerenti con se stessi e con Dio

 

 

a colloquio con Arturo Paoli

 

Che cosa significa essere autentici?
L’autenticità è la prima qualità della persona. Autentici equivale a veri. Fin dall’infanzia la realtà ci inclina a degli adattamenti: la mamma è una donna debole e quindi quando voglio ottenere qualcosa da lei so come fare perché il no diventi sì; il papà è un uomo che si arrabbia ed è arrivato a picchiarmi. Così imparo a nascondergli quello che penso, dico e faccio. Crescendo mi rendo conto che questa è la legge del vivere sociale. Mi avvicino alla autenticità quando un grande ideale dirige le mie energie interiori e le concentra in un punto. Non conosco una definizione della persona
autentica migliore di quella data da Paolo nella lettera agli Efesini (4,15): fare la verità nell’amore.

 

Come ci si educa all’autenticità?
Ci si educa attraverso la fedeltà. Io credo che l’autenticità sia un valore religioso nel senso che la prima coerenza dobbiamo averla con Dio, che non si può ingannare. Questo non vuol dire non commettere peccati perché dobbiamo sempre riconoscere la nostra fragilità e la nostra debolezza, ma quando non vi è coerenza tra ciò che siamo e ciò che appare di noi è la prova che non amiamo seriamente le persone che ci circondano. È il fallimento della vita, E purtroppo capita spesso.

 

Ma esiste la possibilità di cambiare?
Penso che la Chiesa allontani le persone per la sua eccessiva intransigenza su certi principi che la persona non è in condizione di seguire. Non significa lasciar andare le cose, ma accettare la debolezza della persona umana, invece di respingerla attraverso l’affermazione intransigente dei principi cristiani. Il nostro fratello Giorgio Gonella, nel suo libro sul deserto, ha scritto un bellissimo capitolo sulla misericordia di Dio: Dio non dice va tutto bene, ma il suo atteggiamento è espresso perfettamente dall’episodio di Gesù in casa del fariseo quando entra la donna peccatrice. Il
fariseo si scandalizza, gli dice: se tu conoscessi questa donna, Gesù in effetti la conosce ma conosce anche il suo dolore, la sua sofferenza, il suo pianto che ha una forza di conversione e trasformazione della sua vita che lei stessa non si aspettava. Certamente ci sono ambienti in cui si è facilmente trascinati dal negativo, ma c’è sempre la possibilità del ritorno che cancella il passato, una possibilità di cambiamento.

 

A proposito di luoghi dove cercare la propria autenticità: tu sei stato diverse volte a Romena,
che impressione ne hai ricavato?
Una impressione ottima perché la forza di aggregazione che ha don Gigi è piuttosto singolare, ed essa si deve alla sua ampiezza di vedute, alla sua libertà di accoglienza per cui la persona sente di andare in un luogo che non lo costringe ad assumere forme inautentiche. Come lui ho sempre desiderato che la gente venga, veda, che non sia obbligata ad assumere atteggiamenti diversi da quelli della vita ordinaria. Tra le tante iniziative che propone ce n’è una molto bella, che ho conosciuto da poco, che è consolare le persone che hanno avuto lutti gravi, perdite laceranti, e che
ricevono realmente molto conforto.

 

Quale contributo può offrire una realtà come Romena alla chiesa e alla società?
La Chiesa può ricevere una grande ricchezza: la rinascita della fede da parte di molte persone che sono vissute per anni trascurando la fede e che si riavvicinano perché trovano un ambiente familiare, fatto di semplicità e autenticità a cui possono aderire con entusiasmo.

 

*Silvia Pettiti, giornalista, ha recentemente pubblicato una bella biografia di Arturo Paoli raccontando i suoi 98 anni di vita spesi per gli altri, specie per i poveri delle favelas del Sudamerica. Il libro si intitola “Ne valeva la pena”, Edizioni Paoline.

 

in “http://www.romena.it/” dell’aprile 2011