Il sussidio digitale per l’Avvento-Natale

Un aiuto alle comunità a “sprigionare la forza viva della liturgia, suggerendo strumenti e modalità per una celebrazione sobria, autentica e profonda”.

Così S.E. Mons. Crociata presenta il sussidio per il tempo di Avvento e di Natale del nuovo Anno liturgico, che inizia domenica 2 dicembre. Come già lo scorso anno, si tratta di una versione soltanto digitale: “L’annuncio del Vangelo e la condivisione degli strumenti pastorali si servono anche delle nuove tecnologie: la forza creativa dello Spirito ci spinge a orientare i mezzi di cui disponiamo alla comunicazione e all’educazione, per una crescita autentica delle persone”.

Nell’introdurre il sussidio, il Segretario Generale spiega come “l’Anno della Fede ci inviti a riscoprire la gioia del credere: a questo mirano in particolare le catechesi per gli adulti, che recuperano i temi del Catechismo della Chiesa Cattolica, associandoli alla liturgia festiva”. Un’attenzione particolare è data alla pastorale familiare, all’intimo legame tra fede e carità, alla pratica della missionarietà.

Don Franco Magnani, direttore dell’Ufficio Liturgico Nazionale, rilegge a sua volta il percorso dell’Avvento a partire dal brano evangelico della Visitazione, quale filo che “ci consente di recuperare soprattutto la dimensione della gioia”.

I Santi, modelli efficaci per la nuova evangelizzazione

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 31 ottobre 2012 (ZENIT.org) –


I santi sono dei “modelli efficaci” per la Nuova Evangelizzazione. Lo afferma il Sinodo dei vescovi nella Proposizione 23 consegnata a papa Benedetto XVI.

“La santità – si legge – è una parte importante di ogni impegno evangelizzatore per colui che evangelizza e per il bene di coloro che sono evangelizzati”. Si tratta di un messaggio che è in perfetta armonia con la festa di Tutti i Santi, che la Chiesa celebra domani, 1° novembre.

I padri sinodali dedicano l’intera Proposizione 23 alla santità dei nuovi evangelizzatori. “La chiamata universale alla santità è costitutiva della Nuova Evangelizzazione, che vede nei santi dei modelli efficaci della varietà di forme in cui questa vocazione può essere realizzata”, scrivono i padri sinodali.

“Ciò che è comune nelle diverse storie della santità è la sequela di Cristo; essa si esprime in una vita di fede attiva nella carità che è una proclamazione privilegiata della Chiesa”, continuano i padri.

Il Sinodo individua nella Vergine Maria il modello di tutti i santi: “Noi riconosciamo in Maria un modello di santità che si manifesta negli atti di amore, che vanno fino al dono supremo di se stesso”.

La Proposizione 22 evoca la “conversione” e il “rinnovamento nella santità” necessario nei nuovi evangelizzatori. “Il dramma di sempre e l’intensità dello scontro tra il bene e il male, tra la fede e la paura, dovrebbero essere presentati come il fondamento essenziale, un elemento costitutivo della chiamata alla conversione a Cristo”. Questa lotta prosegue a un livello naturale e soprannaturale. “Ma quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,14).

Numerosi vescovi hanno parlato del bisogno di un rinnovamento nella santità della loro propria vita, se vogliono essere degli agenti veramente efficaci della Nuova Evangelizzazione.

I padri sinodali insistono sulla necessità di questa “conversione personale e comunitaria”, e anche di una conversione “pastorale”.

[Traduzione dal francese a cura di Paul De Maeyer]

Una pastorale giovanile per la vita e la speranza dei giovani

di Riccardo Tonelli

Chi si interessa di pastorale giovanile con un poco di esperienza alle spalle, conosce certamente quello che è capitato, a livello mondiale, nell’ambito della educazione dei giovani alla fede.

Venivamo da stagioni sicure, ben strutturate, fortemente propositive. In fondo, il problema di cosa dire e di cosa fare… non c’era. Sapevamo bene quasi tutto e le difficoltà erano sempre scaricate sui destinatari. Era colpa dei giovani e della loro costitutiva fragilità o era colpa dei tempi, particolarmente difficili, o di qualche soggetto poco impegnato… se le cose non andavano per il verso giusto. Noi “responsabili” avevamo fatto tutto il possibile. E ci sentivamo abbastanza apposto.

Poi tutto è entrato in crisi, come per una folata improvvisa di vento che scombussola i fogli depositati in bell’ordine sul tavolo di lavoro.

Ne abbiamo provate tante, sotto tutti i profili. Spesso avevamo la benedi­zione dei nostri responsabili ufficiali. Qualche volta erano più le preoccupa­zioni che i sostegni.

Un poco alla volta, molte scelte fondamentali si sono consolidate. Sono diventate una specie di riferimento obbligato per coloro che riconoscevano come irrinunciabili determinate linee di azione, teologica ed educativa,. An­che i piccoli gesti e le intuizioni di un momento felice trovano ancoraggio e sostegno in queste motivazioni di fondo.

Alle prime generazioni, che avevano maturato un quadro rinnovato, nel­la fatica di una specie di rigenerazione culturale e prassica, sono subentrate generazioni nuove. Esse ignoravano il cammino precedente. Restavano facil­mente affascinate da modi di dire e di fare. Scavando un poco era facile ren­dersi conto quanto fosse fragile l’ancoraggio e la visione globale di certi modi di fare. Alla constatazione vanno aggiunte la diffusa soggettivizzazione anche culturale e il difficile riconoscimento del dono prezioso di altre esperienze… virtù tipiche di questa nostra stagione culturale.

Questa è una stagione fortunata. Ha però i suoi problemi, ci sono tensioni, ci sono modi assai diversi di affrontare la stessa questione. Ma innegabilmente l’attenzione attuale è alta e le realizzazioni preziose. Nessuno può guardare con nostalgia al passato, come se allora le cose andassero meglio di oggi. Siamo in una stagione felice e impegnativa per la pastorale giovanile. Tutto questo è bello e rende felice il compito di chi lavora nella pastorale giovanile.

Ci mettiamo a pensare e a progettare la pastorale giovanile in questo clima culturale. Lo dobbiamo conoscere e valutare per non restarne influenzati negativamente e soprattutto per progettare sapientemente. Lo so che sto raccontando l’esperienza dell’Italia, ma ho l’impressione che sia facilmente generalizzabile.

1.     Una prospettiva

Il primo compito, secondo il mio modo di pensare, consiste nella scelta di una prospettiva. Ogni istituzione, ogni gruppo, ogni operatore è chiamato a decidere la prospettiva in cui collocarsi: per la ricerca dei problemi da affrontare e per decidere quali risorse utilizzare e come intervenire per risolvere i problemi.

Un esempio può aiutare a spiegare meglio l’affermazione. Chi vuole fotografare un panorama molto ampio, prima di scattare la sua fotografia storica… deve decidere il punto in cui piazzare la sua macchina. La scelta è decisiva: la prospettiva influenza non poco il risultato dell’operazione.

In una stagione di pluralismo è importante mettere le mani avanti dichiarando la propria collocazione.

Questo primo compito sembra più teorico che pratico. Con le tante cose da fare può lasciare l’impressione del tempo perso. Lo considero però indispensabile e urgente (tutt’altro che tempo perso) e decisamente pratico (anche se per il momento sono… sospese tutte le azioni).

Faccio una proposta, suggerendo la prospettiva in cui mi riconosco e che, in questi lunghi anni di servizio alla pastorale giovanile, ho posto come riferimento fondamentale.

Con una battuta la chiamo quella di Pietro che risponde alle attese dello zoppo, incontrato alla Porta Bella del Tempio, raccontandogli la storia di Gesù, specialista nella guarigione degli zoppi e… lo zoppo guarisce e riconosce Gesù.

Mi spiego.

Gli “Atti degli Apostoli” (cap. 3 e 4) raccontano quello che ha combinato Pietro quando ha incontrato la mano tesa di un povero paralitico alla Porta Bella del Tempio e la sua difesa davanti al Sinedrio, quando gli è stato contestato quello che ha fatto, soprattutto a causa del disturbo dell’ordine pubblico, causato dal suo intervento. Dichiara, senza incertezze, che lo zoppo cammina perché tutti sappiano che Gesù è l’unico nome in cui è possibile avere la vita. Lo proclama davanti a coloro che l’avevo ucciso nel nome di Dio, ricordando che Dio l’ha resuscitato, per mostrare con i fatti dove si colloca il suo progetto.

Allo zoppo che chiede elemosina, Pietro parla di Gesù. E lo zoppo guarisce. Pietro non gli dà i pochi spiccioli che lo zoppo si attendeva per arrivare a sera. Gli dà molto di più: l’incontro con Gesù e la guarigione. Lo zoppo è rimasto felicissimo… di non essere stato esaudito. Nell’incontro con Gesù, annunciato da Pietro, ha cambiato la sua vita. Né lui né Pietro sono rimasti prigionieri della rete stretta di domanda e risposta.

Meditando l’esperienza di Pietro, rilancio una convinzione, che giustifica passione e impegno: l’annuncio di Gesù è il grande gesto di amore che possiamo fare nei confronti dei nostri amici, per restituire ad essi vita, consolidare la speranza, sollecitare ad una responsabilità radicale per la causa del regno di Dio. Non può mai diventare un processo di proselitismo e nemmeno qualcosa che assomigli al bisogno di esternare i pregi della squadra per cui facciamo tifo. E’ sempre e solo un gesto di amore, totalmente gratuito e radicalmente decentrato verso gli altri.

Questo mi sembra oggi il punto di prospettiva, da riscoprire, approfondire, rilanciare.

2.     Tre compiti urgenti

La storia di Pietro fornisce la prospettiva in cui collocarsi per costruire un buon progetto di pastorale giovanile.

Non risolve nessun problema e non ci esime dalla fatica di pensare, progettare, lavorare. Se è presa sul serio, diventa però uno stimolo inquietante per un lavoro serio… da togliere il sonno e il respiro.

Da questa prospettiva io colgo tre compiti urgenti. Li consegno alla passione intelligente di chi mi ascolta.

Questi sono i tre compiti decisivi per un progetto di pastorale giovanile:

  1. individuare bene le sfide con cui siamo chiamati a misurarci. Con la battuta della prospettiva proposta: scoprire dove e come zoppicano i giovani, per non sbagliare terapia avendo sbagliato la diagnosi;
  2. selezionare le risorse di cui disponiamo (e sono ancora tante) per impegnarle in un preciso e concreto servizio educativo;
  3. riaffermare l’urgenza della evangelizzazione (nuova nell’ardore e nella qualità) per restituire al Vangelo il dono di essere ancora una “bella notizia” per la vita e la speranza di tutti, capace di far camminare gli zoppi.

Nello sviluppo di questi tre compiti urgenti nasce e si articola tutta la pastorale giovanile: il servizio della comunità ecclesiale verso i giovani per dare ad essi vita e speranza.

Li approfondisco suggerendo qualche interpretazione e qualche linea di azione… nel limite della mia sensibilità ed esperienza.

3.     Dove zoppicano i giovani

E’ indispensabile, prima di tutto, individuare i problemi “veri”.

Spesso i problemi che ci premono addosso sono problemi veri e reali.

Qualche volta, purtroppo, sono problemi falsi.

Possono essere falsi per differenti ragioni: o perché ce li siamo proprio inventati, forse per eccesso di zelo; o perché rappresentano qualcosa che non ha radici solide; o perché sono solo di una fetta di gente, alle prese con i propri problemi per non accorgersi di quelli gravissimi che attraversano l’esistenza dei più.

Ho ricordato che Pietro ha parlato di Gesù allo zoppo… raccontando certamente dei tanti interventi attraverso cui Gesù ha restituito vita alle gambe rattrappite degli zoppi che ha incontrato. Altre indicazioni… avrebbero lasciato indifferente lo zoppo e forse indispettito di questo bel tipo che invece di dargli l’elemosina richiesta, gli ruba i clienti con le sue chiacchiere, devote e inutili.

Partiamo quindi dalla identificazione, seria e motivata, di dove “zoppicano” i giovani: e cioè delle sfide con cui la nostra pastorale giovanile è chiamata a confrontarsi.

Qualcosa di prezioso l’avete fatto.

Invito a ripensarci proprio da questa prospettiva.

Partiamo dalle “sfide”

Per cogliere i problemi veri, la prima operazione da mettere in cantiere consiste nella decisione di individuare in modo riflesso e critico quali sono in concreto le preoccupazioni prioritarie e specifiche. Chiamo questa operazione la definizione delle “sfide”.

Parlare di “sfida” è una precisa scelta di campo. Ci colloca nella realtà quotidiana con un atteggiamento che non è rassegnato ma neppure solo critico e reattivo.

Sfida significa, infatti, un’interpretazione riflessa del vissuto culturale attuale per cogliere i segni di novità presenti e quei dati di fatto che provocano il progetto di esistenza diffuso e generalmente consolidato. La “sfida” è, di conseguenza, un contributo e soprattutto una provocazione che regala contributi preziosi, proprio mentre sollecita ad intervenire coraggiosamente.

La scelta di individuare le sfide per selezionare e organizzare le risorse disponibili è una condizione fondamentale – teologica e antropologica nello stesso tempo – per assicurare un servizio qualificato.

Non sono competente per entrare nel merito, indicando quali sono le sfide con cui confrontarsi. L’avete fatto. E ammiro le conclusioni.

Suggerisco qualche indicazione generale, su cui misurare anche le indicazioni concrete.

In un incontro con la comunità accademica dell’Università di Braga, qualche mese fa, proprio qui in Portogallo, io ho suggerito una mia interpretazione di sintesi dei problemi che attraversano l’essere giovane in questo tempo e che quindi investono violentemente la pastorale giovanile.

La domanda di senso e di speranza

Interpretando, con amore lucido, il vissuto giovanile attuale, affermo la presenza di una diffusa domanda di senso: quello che tutti i giovani cercano, anche nelle espressioni più disturbate, riguarda il senso e la speranza, ragioni di vita e di futuro e la rassicurazione che conforta ogni piccola quotidiana conquista. Constato però che questa ricerca di senso è affannosa e spesso disturbata. Significa che non corrisponde ai nostri parametri spontanei ed esige, almeno in molti casi, una coraggiosa scommessa educativa per definirla in questo modo.

Non mi convince l’affermazione che i giovani del nostro tempo sono in ricerca di esperienze religiose, di spiritualità, di proposte forti e coinvolgenti. Mi sembra una valutazione parziale, che privilegia alcune manifestazioni o tende a generalizzare su alcuni soggetti privilegiati. Forse pesa eccessivamente il mondo delle nostre attese o la nostalgia dei felici ritorni.

Certamente ci sono molti giovani impegnati coraggiosamente nella ricerca di una forte esperienza religiosa. Essi fanno parte di quei giovani fortunati che sono stati aiutati a superare le tensioni del tempo che stiamo vivendo. La constatazione rappresenta una preziosa indicazione di prospettiva pastorale. Spesso però è facile constatare che anche questi giovani sono segnati dalle logiche culturali del nostro tempo. Vivono la ricerca di esperienze religiose secondo le modalità tipiche dell’oggi: soggettivizzazione e disincanto, disponibilità e autonomia, separazione tra confessione di fede e scelte etiche.

La diffusa crisi attuale e la inquieta domanda giovanile interpellano noi adulti e soprattutto noi educatori della fede a quel livello di profondità competente ed esigente, in cui possiamo radicare veramente la riconquista di una relazione perduta.

Si tratta di un “grido”, forte, verso noi adulti: un dono che non ci lascia tranquilli e che ci carica violentemente delle responsabilità che non possiamo certamente scaricare su altri e che, nello stesso tempo, ci fa scoprire che è tempo di camminare coraggiosamente assieme, condividendo gioie e inquietudini.

I vecchi modelli non funzionano più. Ripercorrono le strade superate e aumentano il disagio dell’orfanità. Qualcuno stenta a capirlo. I giovani ci chiedono invece di essere adulti nuovi, capaci di camminare con loro e di condividere la ricerca e l’esperienza del senso e della speranza. In fondo… ci fanno un dono impensabile: ci chiamano a diventare sempre più padri e madri, sapendo generare al senso e alla speranza.

4.     Una proposta di organizzazione delle risorse

Sotto la preziosa provocazione delle sfide in atto (e della loro interpretazione in un’esplicita prospettiva di fede) la comunità ecclesiale, impegnata nella pastorale giovanile, organizza le risorse di cui dispone.

Organizzazione delle risorse comporta tre operazioni, urgenti e complementari:

  1. l’inventario delle risorse di cui può disporre
  2. la selezione per definire quali sono utili rispetto al controllo delle sfide e alla loro risoluzione
  3. una nuova organizzazione, per procedere dentro un progetto serio e ben elaborato.

Questi tre compiti sono evidentemente affidati alla vostra competenza e responsabilità organizzativa.

Realizzo il servizio che mi è stato chiesto sottolineando due linee prioritarie di azione. Rappresentano, da una parte, la constatazione felice di risorse che le comunità ecclesiali possiedono in abbondanza. Indicano, dall’altra, una prospettiva prioritaria in cui giocare concretamente e quotidianamente queste risorse.

Sogno una pastorale giovanile rinnovata, capace di selezionare e organizzare le risorse di cui le comunità ecclesiali sono ancora ricche, attorno a questi due compiti, da riconoscere, assumere, realizzare in modo integrato e complementare:

  1. la riscoperta del servizio educativo, in una stagione di emergenza educativa, per restituire senso e ricerca di senso (dove essa fosse spenta), passione per la vita e attenzione ad una matura qualità di vita (dove la qualità della vita fosse troppo lontana da una “vita buona secondo il Vangelo”);
  2. un modello di evangelizzazione, in cui formulare la sollecitazione diffusa verso una “nuova evangelizzazione”: per restituire al Vangelo la forza di bella notizia per la vita e la speranza.

5.     Il servizio educativo: per restituire senso e speranza

Abbiamo discusso molto, anche nell’ambito della pastorale giovanile, sul rapporto tra promozione umana e evangelizzazione. Ne siamo usciti innegabilmente arricchiti. Ma credo che sia tempo perso riprendere oggi la discussione.

Lo dico, ancora una volta, dalla prospettiva globale scelta: Pietro parla esplicitamente di Gesù allo zoppo. La sua proposta è sperimentata dallo zoppo come interessante e vera, quando si è accorto che la vita gli stava tornando nelle gambe rattrappite.

Come si vede, c’è un modo tutto originale di coniugare evangelizzazione e promozione umana: l’annuncio di Gesù, realizzato in un certo modo, rappresenta in concreto un fondamentale intervento di “promozione di vita”, se procede in un movimento tutto originale:

  • interpreta nel profondo la qualità della domanda. Non è di elemosina (come sembrava chiedere lo zoppo), ma ricerca di qualità di vita (come interpreta Pietro e come propone lui stesso);
  • la risposta consiste prima di tutto nella riaffermazione e rilancio dell’educazione, interpretata come ricostruzione della relazione interpersonale;
  • il servizio alla ricostruzione di una nuova e urgente qualità della vita: da cogliere e riaffermare in una stagione di pluralismo e di soggettivizzazione.

Faccio qualche cenno su ciascuno di questi tre temi.

La situazione di emergenza educativa

Da molte parti questo nostro tempo è indicato come caratterizzato da uno stato diffuso di “emergenza educativa”.

Va compreso bene il problema.

Noi accogliamo abitualmente le ragioni di senso e di speranza, le prospettive di futuro e gli inviti alla responsabilità nel presente, attraverso quella relazione che mette in accoglienza reciproca le persone, soprattutto assicura il dialogo dei giovani con le generazioni che li hanno preceduti (genitori, anziani, educatori). Siamo in emergenza quando si rompe questa relazione e non sappiamo più dove andare a ritrovare le ragioni per vivere e per sperare.

Cito alcune annotazioni interessanti da un documento dei Vescovi italiani proprio su questo tema: “Considerando le trasformazioni avvenute nella società, alcuni aspetti, rilevanti dal punto di vista antropologico, influiscono in modo particolare sul processo educativo: l’eclissi del senso di Dio e l’offuscarsi della dimensione dell’interiorità, l’incerta formazione dell’identità personale in un contesto plurale e frammentato, le difficoltà di dialogo tra le generazioni, la separazione tra intelligenza e affettività. Si tratta di nodi critici che vanno compresi e affrontati senza paura, accettando la sfida di trasformarli in altrettante opportunità educative. Le persone fanno sempre più fatica a dare un senso profondo all’esistenza. Ne sono sintomi il disorientamento, il ripiegamento su se stessi e il narcisismo, il desiderio insaziabile di possesso e di consumo, la ricerca del sesso slegato dall’affettività e dall’impegno di vita, l’ansia e la paura, l’incapacità di sperare, il diffondersi dell’infelicità e della depressione. Ciò si riflette anche nello smarrimento del significato autentico dell’educare e della sua insopprimibile necessità. Il mito dell’uomo “che si fa da sé” finisce con il separare la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco amante anche di se stessa e della vita. […] Siamo così condotti alle radici dell’“emergenza educativa”, il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa io nella relazione con il tu e con il noi” (Educare alla vita buona del Vangelo, 9).

Questa situazione condiziona fortemente l’essere giovani. Esiste un atteggiamento comune che attraversa la giovinezza. Lo chiamo una profonda, diffusa situazione di “orfanità”. E’ orfano chi è privo del padre o della madre. In molte nazioni, devastate dalla guerra, sono davvero molti i giovani senza genitori. Da noi, per fortuna, non è così. Molti giovani sono orfani, sperduti nel deserto della vita quotidiana, perché c’è un’orfanità per eccesso di genitori. Cambia persino il numero fisico dei padri e delle madri. Ma soprattutto siamo circondati da proposte che fanno di tutto per prendere il posto dei nostri genitori nella pretesa di darci ragioni di futuro e di speranza. Persino per vendere le cose più banali o solo funzionali, è chiamata in causa la qualità e il senso della vita: qualcuno entra con violenza nella nostra esistenza e pretende di dirci chi siamo e come dobbiamo vivere.

Non possiamo però vivere senza padri e madri autorevoli e significativi. In questa situazione il futuro si fa incerto e la speranza va in profonda crisi. E così dall’orfanità molti cercano di uscire nella disperazione o nel disimpegno. Le esperienze forti funzionano da nuova proposta di paternità.

La risposta: rilancio dell’educazione

All’emergenza educativa poniamo rimedio riscoprendo la via dell’educazione… ma, nello stesso tempo, reinventandola, per una cultura com’è l’attuale, e recuperando dalla cultura attuale tutti i contributi positivi di cui essa è portatrice.

Ecco allora la mia proposta: educare è istituire una relazione tra soggetti diversi (felici… di essere differenti), attraverso cui essi si scambiano frammenti riflessi e motivati di vissuto, per restituirsi reciprocamente quella gioia di vivere, quella libertà di sperare, quella capacità e responsabilità di essere protagonisti della propria e altrui storia, di cui purtroppo siamo continuamente deprivati.

Verso una nuova qualità di vita

Al centro della questione educativa sta una scommessa antropologica: verso quale qualità di vita orientare impegni e responsabilità?

In una stagione com’è la nostra e in dialogo con i giovani del nostro tempo, ho ripensato il centro di un progetto di pastorale giovanile attorno alla categoria della “invocazione”. Essa aiuta ad aprire ogni possibile domanda verso il mistero e suggerisce l’urgenza di offrire proposte che sappiano spalancare ulteriormente la domanda stessa.

Prima di tutto, devo precisare il significato che attribuisco all’espressione “invocazione”. Lo dico con un’immagine: gli esercizi al trapezio, che abbiamo visto, tante volte, sulla pista dei circhi.

In questo esercizio l’atleta si stacca dalla funicella di sicurezza e si slancia nel vuoto. Ad un certo punto protende le sue braccia verso quelle sicure e robuste dell’amico che volteggia a ritmo con lui, pronto ad afferrarlo.

Il trapezio assomiglia moltissimo alla nostra esistenza quotidiana. L’esperienza dell’invocazione è il momento solenne dell’attesa: dopo il «salto mortale» le due braccia si alzano verso qualcuno capace di accoglierle. Nell’esercizio al trapezio nulla avviene per caso. Tutto è risolto in un’esperienza di rischio calcolato e programmato. Ma la sospensione tra morte e vita resta: la vita si protende alla ricerca, carica di speranza, di un sostegno capace di far uscire dalla morte. Questa è l’invocazione: un gesto di vita che cerca ragioni di vita, perché chi lo pone si sente immerso nella morte.

L’invocazione rappresenta, nella mia ipotesi antropologica, il livello più intenso di esperienza umana, quello in cui l’uomo si protende verso l’ulteriore da sé.

L’invocazione è un’esperienza di confine. Essa è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, alla ricerca delle buone ragioni di ogni decisione e scelta importante. Nello stesso tempo essa è già esperienza di trascendenza, spinta verso il mistero dell’esistenza.

Lo è ai primi livelli di maturazione. L’uomo invocante si mostra disposto a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità, persino i diritti sull’esercizio della propria libertà, a qualcuno fuori di sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda, di fondare le esigenze per una qualità autentica di vita.

Lo è soprattutto nell’espressione più matura, quando ormai la ricerca personale si perde nel l’accoglienza del mistero della vita. Ci fidiamo tanto dell’imprevedibile, da affidarci ad un amore assoluto che ci viene dal silenzio e dal futuro.

Il consolidamento e lo sviluppo della capacità di invocazione sono un tipico problema educativo. Riguardano, in altre parole, la qualità della vita e l’influsso dell’ambiente culturale e sociale in cui essa si svolge. Abbiamo bisogno di restituire all’uomo una qualità matura di vita; e lo facciamo entrando, con decisione e competenza, nel crogiolo dei molti progetti d’uomo sui quali si sta frantumando la nostra cultura.

Non tutto però può essere ridotto a interventi solo educativi. L’educatore credente sa che senza l’annuncio di Gesù Cristo e senza la celebrazione del suo incontro personale, l’uomo resta chiuso e intristito nella sua disperazione. Per restituirgli veramente felicità e speranza, siamo invitati ad assicurare l’incontro con il Signore Gesù, la ragione decisiva della nostra vita. Questo incontro è sempre espressione di un dialogo d’amore e di un confronto di libertà, misterioso e indecifrabile. Sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio.

Di qui la convinzione: l’invocazione è una esperienza di vita quotidiana, frutto di intelligenti processi educativi. Può essere educata. Viene educata però in due modalità che possono apparire all’opposto. Viene educata quando l’educatore opera sui germi iniziali di invocazione e attiva processi capaci di svilupparli, fino ad un esito soddisfacente. Viene però educata anche quando l’educatore che fa proposte, ponendo davanti alla persona il mistero in cui la nostra vita è avvolta e la sua personale esperienza di questo mistero, evangelizza, con decisione e coraggio, rispettando modalità comunicative capaci di suscitare libertà e responsabilità.

Sono consapevole che la vita quotidiana, nel suo ritmo normale, è carica di germi di invocazione. Per questo ogni domanda e ogni esperienza si porta dentro frammenti di invocazione. Va accolta, educata e restituita in autenticità al suo protagonista.

L’evangelizzazione, nello stesso tempo, quando risuona dentro la ricerca di senso che attraversa ogni esistenza, può scatenare questo processo di maturazione dell’invocazione; lo sa provocare in coloro che vivono ancora distratti e superficiali; lo satura in coloro che sanno ormai esprimere autenticamente la loro voglia di vita e di felicità.

Educhiamo all’invocazione per permettere alle persone di spalancarsi sul mistero annunciato. Evangelizziamo il Dio di Gesù per dare pane a chi lo cerca e sorgenti d’acqua fresca all’assetato; ma lo annunciamo con forza e coraggio per far crescere la fame e la sete di pienezza di vita.

6.     La qualità dell’annuncio: verso una “nuova evangelizzazione”

Nell’attuale comunità ecclesiale oggi siamo molto attenti ai temi e all’urgenza dell’evangelizzazione. L’abbiamo riscoperta come il dono prezioso che i discepoli di Gesù possono offrire per sostenere la vita e fondare la speranza di tutti.

Per dire tutto questo, parliamo di “nuova evangelizzazione”. Non possiamo dimenticare che la “novità” “richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana” (Benedetto XVI).

Nell’ambito della pastorale giovanile e con i giovani che ci lanciano la provocazione di una sfida di senso e di speranza (come ho appena ricordato), il servizio verso la “nuova evangelizzazione” può essere collocato su tre livelli:

  • evangelizzare come gesto d’amore
  • evangelizzare in un corretto modello comunicativo
  • la proposta della narrazione.

Evangelizzare come gesto d’amore

Ho già ricordato una convinzione importante: l’annuncio di Gesù è il grande gesto di amore che possiamo fare nei confronti dei nostri amici, per restituire ad essi vita, consolidare la speranza, sollecitare ad una responsabilità radicale per la causa del regno di Dio.

Questo mi sembra oggi il punto di prospettiva, da riscoprire, approfondire, rilanciare.

L’annuncio di Gesù, come gesto d’amore, caldo e appassionato nei confronti delle persone, non nasce né dalla richiesta dell’interlocutore né dal nostro desiderio apostolico. Nasce dalle logiche del servizio pieno e totale, per ogni persona nel mistero della sua esistenza, e per la storia personale e collettiva di tutti, nella prospettiva di quel progetto che Gesù ha chiamato il “regno di Dio”.

Da questa visione globale, cambiano ritmi e tempi. Non ci può essere più un prima, che prepara, e un “finalmente” che realizza. L’amore ha logiche totalmente diverse. E’ decentrato verso l’altro. Ma misura la qualità del suo servizio sul bene oggettivo della persona amata. Non si ferma perché è rifiutato. Né tanto meno si ridimensiona, per farsi più accettabile. Travolge chi ama, per permettergli di crescere in pienezza e autenticità: come una mamma che toglie dalle mani del figlio che ama, un gioco pericoloso… anche se egli piange e grida, perché glielo impone l’amore concreto che gli porta.

Voler bene ad una persona significa volere profondamente il suo bene, permettere ad una persona di scoprire che la profonda attesa di speranza e di senso che percorre la sua esistenza, ha bisogno di trovare risposte. Non possiamo continuare a spostare il tempo dell’incontro con queste risposte e non possiamo, per nessuna ragione, mandare deluse queste attese. Per questo, proprio a partire dall’amore che ognuno di noi porta ai fratelli che ha la gioia di incontrare, scopriamo che non possiamo rassegnarci a non parlare di Gesù. Il silenzio, in questo caso, diventerebbe una scelta che tradisce l’amore.

L’amore chiede di aiutare ogni persona a diventare sempre di più signore della propria vita. Ma siamo signori della nostra vita, solo quando riusciamo a sperimentarne il suo senso anche nel momento in cui eventi tragici sembrano consegnarci al nonsenso. Siamo signori della nostra vita se siamo capaci di collocarla dentro un progetto più grande che riguarda anche il futuro della nostra esistenza: riusciamo a ritrovare una ragione gioiosa anche di fronte al dolore e alla morte, scopriamo che siamo pienamente noi stessi solo quando riusciamo a morire, come il chicco di grano, perché tutti abbiano la gioia di raccogliere il pane cresciuto nel terreno del mio piccolo servizio.

Parliamo di Gesù non solo perché lo consideriamo un amico importante di cui sentiamo la gioia di regalare a tutti la stessa amicizia… parliamo di Gesù e vorremmo che tutti lo potessero incontrare nel cuore della loro esistenza, perché solo in lui possiamo scoprire che, nonostante tutto, siamo e restiamo signori della nostra vita. Davvero il nome di Gesù è il regalo più grande che possiamo fare a tutti, per restituire a tutti la gioia di vivere e la libertà di sperare.

La comunità ecclesiale non si rassegna se alle persone con cui condividiamo la vita quotidiana il nome di Gesù non interessa. Non si rassegna se davanti all’annuncio esse restano indifferenti, preoccupate di molte altre cose. Sta ad esse vicina, l’inquieta e li interpella, perché solo quando esse hanno incontrato Gesù, possono veramente restare in quella gioia e in quella speranza che vanno cercando, purtroppo tante volte come l’assetato che cerca un sorso d’acqua tra le pietre e il fango dei pozzi aridi.

Dalla prospettiva dell’amore che si fa annuncio, possiamo ripensare veramente a tutto il processo. Sono convinto che un grosso e impegnativo compito ci sia consegnato, sul piano dei contenuti teologici e dei modelli comunicativi.

Evangelizzare in un corretto modello comunicativo

Suggerisco una specie di criteriologia, sottolineando tre condizioni determinanti, anche sul piano operativo, per qualificare il modello comunicativo attraverso cui realizzare l’evangelizzazione.

Prima condizione: comunicazione di una esperienza

La prima condizione consiste in una comunicazione capace di assicurare la condivisione dell’esperienza di colui che narra e di coloro cui si rivolge il racconto.

Tante volte ci siamo impressionati fortemente dal tono delle grandi catechesi apostoliche, come sono documentate dagli Atti e dalle Lettere. Giovanni, per esempio, apre la sua Lettera con una testimonianza solenne: «La vita si è manifestata e noi l’abbiamo veduta. Noi l’abbiamo udita, l’abbiamo vista con i nostri occhi, l’abbiamo contemplata, l’abbiamo toccata con le nostre mani» (1Gv 1,1-2). Anche Paolo ricorda l’esperienza personale quando sottolinea i temi centrali della sua predicazione (si veda, per esempio, 1Cor 15 e 2Cor 12).

Questa è una dimensione qualificante dell’annuncio cristiano: quello che è comunicato proviene da una esperienza personale diretta e si protende verso gli altri con l’intenzione esplicita di suscitare nuove esperienze. Esso non è prima di tutto un messaggio, ma un’esperienza di vita che si fa messaggio, in una catena ininterrotta che riporta all’esperienza fondante che alcuni credenti hanno avuto in Gesù.

Chi evangelizza sa di essere competente solo perché è già stato salvato dalla storia che narra; e questo perché ha ascoltato questa stessa storia da altre persone. La sua parola è quindi un pezzo di vita vissuta, interpretata e trasformata in parole. La storia narrata non riguarda solo eventi o persone del passato, ma anche l’evangelizzatore e coloro cui si rivolge l’annuncio. Essa è in qualche modo la loro storia. Chi evangelizza, lo fa da uomo salvato, che racconta la sua storia per coinvolgere altri in questa stessa esperienza.

Seconda condizione: una comunicazione che spinge alla sequela

In secondo luogo, il modello di evangelizzazione che sto sottolineando si caratterizza per l’intenzione esplicita di coinvolgere anche gli interlocutori nell’esperienza narrata. L’evangelizzazione è, infatti, sempre il racconto di una storia che spinge alla sequela. La sua struttura linguistica non è finalizzata cioè a dare delle informazioni, ma sollecita ad una decisione di vita.

L’invito alla conversione non viene assicurato perché sono diffuse informazioni non ancora note, ma perché l’interlocutore viene chiamato in causa in prima persona. Non può restare indifferente di fronte alla provocazione: le due braccia spalancate del padre che aspetta con ansia il ritorno a casa del figlio perduto, costringono a decidere da che parte si vuole stare. Nasce formazione non sulla misura delle cose nuove apprese, ma nel riconoscimento dello stile di vita cui sono sollecitati coloro che desiderano far parte del movimento dei credenti.

Il significato di queste affermazioni e le ragioni che le giustificano si collegano all’esperienza dei discepoli di Gesù.

Un esempio importante è costituito dalle parabole. Esse non sono il resoconto di avvenimenti, consegnati all’analisi critica dello storico. Non sono preziosi e significativi perché riusciamo a ricostruire il tempo e il luogo in cui si svolge l’avvenimento narrato o perché possiamo verificare la congruenza dei particolari. Sono invece una chiamata personale a coinvolgersi nell’avvenimento per prendere posizione.

La scelta di privilegiare una prospettiva implicativa su quella descrittiva è importante anche per una ragione di competenza. Quando si è chiamati a trasmettere informazioni tecniche, il diritto alla parola è misurato sulla competenza posseduta: chi conosce le cose da dire, può parlare; chi non le conosce bene, deve tacere. Quando invece al centro della comunicazione c’è l’invito alla sequela e al coraggio della conversione, la scienza non basta più. Ci vuole la passione e il coinvolgimento personale. Il diritto alla parola non è riservato solo a coloro che sanno pronunciare enunciati che descrivono in modo corretto e preciso quello cui ci si riferisce. Chi ha vissuto una esperienza salvifica, la racconta agli altri; così facendo aiuta a vivere e precisa lo stile di vita da assumere per poter far parte gioiosamente del movimento di coloro che vogliono vivere nell’esperienza salvifica di Gesù di Nazareth.

Per questa ragione, l’evangelizzazione è sempre interpellante.

Terza condizione: una comunicazione che anticipa nel piccolo quello che si annuncia

In terzo luogo, l’evangelizzazione è una buona comunicazione quando possiede la capacità di produrre ciò che annuncia, per essere segno salvifico. Il racconto si snoda con un coinvolgimento interpersonale così intenso da vivere nell’oggi quello di cui si fa memoria. La storia diventa racconto di speranza.

Non si tratta di ricavare dalla memoria di un calcolatore delle informazioni fredde e impersonali, ma di liberare la forza critica racchiusa nel racconto.

I cristiani sono per vocazione gli annunciatori della speranza, perché testimoni della passione di Dio per la vita di tutti.

Per poter parlare in modo sensato della salvezza di Dio che è Gesù dobbiamo mostrare con i fatti che è possibile crescere come uomini e donne nella libertà e nella responsabilità, capaci di amare in modo oblativo, impegnati per la realizzazione della giustizia, testimoni del senso della sofferenza e della morte. Solo così, possiamo mostrare efficacemente «la forza dello Spirito, quella che può essere vista e udita» (At 2,33), quella che si traduce in gesti che non sono mai posti invano (Gal 3,4). Annunciare la fede significa dunque narrare di un Dio «che dona lo Spirito e opera meraviglie» (Gal 3,4), poggiando questa narrazione «non su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1Cor 2,4).

La comunità ecclesiale condivide la storia e la vita di tutti, per gridare, a parole e con i fatti, dal suo interno la grande promessa di Dio, che la riguarda direttamente: «Fra poco farò qualcosa di nuovo. Anzi ho già incominciato. Non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). Così chi narra di Colui che ha dato la vista ai ciechi e ha fatto camminare gli storpi, fa i conti con la quotidiana fatica di sanare i ciechi e gli storpi di oggi. Anche se annuncia una liberazione definitiva solo nella casa del Padre, tenta di anticiparne i segni nella provvisorietà dell’oggi.

Troppe volte le situazioni tragiche restano nella loro logica disperata ed oppressiva. Sembrano un grido di rivolta contro il Vangelo della vita e della speranza.

Il racconto della storia di Gesù, a differenza dell’argomentazione che tutto spiega e su ogni caso ha la parola sicura, parla con concretezza e con realismo della sofferenza dell’uomo. Non possiede la chiave dialettica per risolvere tutte le situazioni e non ha la pretesa di districare in modo lucido i meandri oscuri della storia. Condivide il cammino faticoso dell’uomo; cerca di superare le contraddizioni in compagnia con tutti; parla, con parole buone, rispettose, riconcilianti, concrete.

La parola evangelizzata mostra con i fatti il Dio della vita: libera e risana, rimettendo a testa alta chi procede distrutto sotto il peso degli avvenimenti, personali e collettivi; restituisce dignità a coloro cui è stata sottratta; dà a tutti la libertà di guardare al futuro, in una speranza operosa, verso quei cieli nuovi e nuove terre dove finalmente ogni lacrima sarà asciugata (Apoc 21).

La proposta della narrazione

In questi anni ho immaginato un modello concreto di comunicazione, capace di rispettare le tre condizioni appena ricordate. Lo chiamo il modello narrativo.

Propongo di realizzare l’evangelizzazione dei giovani “narrando storie che aiutino a vivere”.

E mi spiego con veloci battute, rimandando all’ampia letteratura sull’argomento[1].

Nello stesso evento evangelizzatore dovrebbero intrecciarsi sempre tre differenti storie: l’evento di Dio che si fa vicino a ciascuno di noi, per la nostra vita e la nostra speranza, le attese e le esperienze delle persone cui viene offerto il racconto, l’esperienza, vissuta e sofferta, di chi ritrova la gioia e il coraggio di condividere quello che ha sperimentato nell’incontro salvifico.

Questi tre dati, di peso e di significato tanto diverso, diventano una parola unica, perché l’autenticità e verità di ogni elemento richiede gli altri, in un gioco di rapporti reciproci.

Chi vuole servire la vita e consolidare la speranza non può ridurre la sua proposta a frammenti della propria esistenza. Nessuno può dare la vita piena: né a sé né agli altri. Dolore, incertezza e morte minacciano continuamente ogni pretesa di autosufficienza. Abbiamo bisogno di offrire un riferimento più alto e sicuro, quello dell’unico nome in cui possiamo avere tutti la vita.

L’evangelizzatore racconta quindi i testi della sua fede ecclesiale: le pagine della Scrittura, le storie dei grandi credenti, i documenti della vita della Chiesa, la coscienza attuale della comunità ecclesiale attorno ai problemi di fondo dell’esistenza quotidiana. In questo primo elemento, propone, con coraggio e fermezza, le esigenze oggettive della vita, ricompresa dalla parte della verità donata. Credere alla vita, servirla perché nasca contro ogni situazione di morte, non può certo significare stemperare le esigenze più radicali e nemmeno lasciare campo allo sbando della ricerca senza orizzonti e della pura soggettività.

L’evangelizzatore non riesce però a parlare come se lui non c’entrasse e fosse ormai al di sopra della mischia. La vita è avventura di solidarietà profonda e continua, che neppure la morte fisica riesce ormai a spezzare. Questo coinvolgimento personale gli assicura l’autorevolezza di cui ha bisogno per pronunciare parole esigenti, che giudicano e inquietano con la forza di una esistenza riconquistata in modo riflesso. Anche questa esigenza ricostruisce un frammento della verità della storia narrata. La sottrae dagli spazi del silenzio freddo dei principi per immergerla nella passione calda della salvezza.

I suoi interlocutori non sono i destinatari passivi della comunicazione. Essi diventano protagonisti del racconto stesso. La loro esistenza dà parola al racconto: fornisce la terza delle tre storie, su cui si intreccia l’unica storia. L’evangelizzatore parla di loro in prima persona, delle loro attese e dei loro progetti, anche quando racconta di uomini e donne sprofondati in tempi lontani o quando aiuta a decifrare il percorso della natura e della storia o quando ritesse la trama di una solidarietà che dà volto a gente mai vista.

Come nel testo evangelico, la narrazione coinvolge nella sua struttura l’evento narrato, la vita e la fede del narratore e della comunità narrante, i problemi, le attese e le speranze di coloro a cui il racconto si indirizza. Questo coinvolgimento assicura la funzione performativa della narrazione. Se essa volesse prima di tutto dare informazioni corrette, si richiederebbe la ripetizione delle stesse parole e la riproduzione dei medesimi particolari. Se invece il racconto ci chiede una decisione di vita, è più importante suscitare una forte esperienza evocativa e collegare il racconto alla concreta esistenza. Parole e particolari possono variare, quando è assicurata la radicale fedeltà all’evento narrato, in cui sta la ragione costitutiva della forza salvifica della narrazione.

In forza del coinvolgimento personale del narratore, la narrazione non è mai una proposta rassegnata o distaccata. Chi narra la storia di Gesù vuole una scelta di vita: per Gesù, il Signore della vita o per la decisione, folle e suicida, di vivere senza di lui.

Per questo l’indifferenza tormenta sempre chi evangelizza narrando. Egli anticipa nel piccolo le cose meravigliose di cui narra, per interpellare più radicalmente e per coinvolgere più intensamente.

7.      Tra competenza e affidamento: la spiritualità dell’operatore di PG

Concludo la mia riflessione sulla proposta di un progetto di pastorale giovanile, sottolineando una esigenza che mi sta molto a cuore.

Non posso immaginare, infatti, linee di azione sulla pastorale giovanile senza collocare tutto questo all’interno di chiaro e forte progetto di spiritualità.

Questa indicazione riguarda, con la stessa intensità, gli operatori di pastorale giovanile e la qualità della loro proposta.

Il tema è impegnativo e richiederebbe uno sviluppo specifico. Non lo posso fare. Mi basta ricordare l’esigenza.

Faccio riferimento ancora all’esperienza degli apostoli, per trovare prospettive significative anche per l’oggi. Ci aiutano, come sempre, gli “Atti degli Apostoli”.

Gli apostoli sono sollecitati all’azione. E si organizzano per questa prospettiva. Dopo l’Ascensione di Gesù, scendono dal monte e fanno il punto della situazione. Non hanno messo fuori dalla loro vita l’incertezza e quel tanto di trepidazione che non guasta mai quando ci sono imprese solenni da realizzare. Ma ora sono abbastanza pronti.

Pietro, per esempio, riorganizza il gruppo, cercando il successore di Giuda. E lo fa con la sicurezza che gli proviene dal mandato di Gesù, che nessuno gli contesta, nonostante la triste parentesi del tradimento.

Poi, secondo la promessa di Gesù, arriva lo Spirito a completare l’esperienza e a trasformare il cuore, e l’avventura della Chiesa incomincia.

Tra il ritorno dal monte e lo slancio missionario, gli apostoli inseriscono una specie di intermezzo, strano per gente come noi, legata alla fretta e alla efficienza. Si ritirino nel cenacolo per una sosta di preghiera e di contemplazione: “si riunivano regolarmente per la preghiera con le donne, con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (Atti 1, 14). Hanno il compito di testimoniare il Vangelo fino ai confini del mondo… e si bloccano al piano superiore della casa, dedicando tanto tempo ad una attività che assomiglia poco all’attivismo verso cui erano stati sollecitati.

Considero questa esperienza apostolica un dono preziosissimo per aiutarci a cogliere le condizioni di una fedeltà all’incontro e all’affidamento a Gesù, capace di superare paure, incertezze, ritorni e tradimenti. Sembrano dirci: d’accordo… c’è fretta… ma nessuna fretta può far dimenticare quanto sia irrinunciabile contemplare il mistero di Dio nella preghiera.

Forse c’è una innegabile componente di paura. Lo Spirito non li aveva ancora trasformati. Ma di sicuro li aveva segnati profondamente l’esperienza di Gesù, che aveva l’abitudine di passare le notti in preghiera prima delle grandi imprese.

Mi sembra una dimensione fondamentale: una condizione di fedeltà.

Pensandoci, riusciamo persino a decifrare la ragione di questa scelta.

I discepoli sono al servizio della vita e della speranza nel Regno di Dio. Ma tutto questo non può mai essere considerato il frutto dello sforzo umano… anche se lo richiede intensamente. Il Regno promesso è dono. L’aveva detto con forza Gesù: “La causa della vita sta a cuore prima di tutto a Dio: è la sua passione e il suo impegno. Lui la realizza. Lui però l’ha affidata a me; io la consegno a voi, perché siete miei amici”. E subito aggiunge: “Quando abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, dobbiamo avere il coraggio di riconoscerci soltanto dei servi… senza eccessive pretese. Per la vita e la speranza… solo Dio è padrone. Noi siamo soltanto servi… preziosissimi perché la causa della vita è data in consegna a noi, ma soltanto servi, perché il progetto appartiene a Dio”.

E’ una questione impegnativa, su cui non pensiamo mai a sufficienza, premuti dalle mille cose da fare.

Il centro del progetto di pastorale giovanile può essere espresso come un progetto di spiritualità, capace di unificare tutta l’esistenza cristiana, riconciliando pienamente l’amore alla vita, la fedeltà alla Chiesa, la decisione di fare di Gesù il Signore della nostra esistenza.

Potrebbe sembrare inusuale raccogliere il progetto di pastorale giovanile attorno ad un progetto di spiritualità. Anch’io e gli amici con cui in quegli anni ho lavorato, avevamo all’inizio valutato cosa abbastanza strana concentrare le nostre attenzioni attorno ad una proposta di spiritualità. Di solito, quando si parla di spiritualità, si pensa a qualcosa che si aggiunge alla vita quotidiana, spesso riservato soltanto a coloro che hanno deciso di vivere la propria esistenza quotidiana in uno stile tutto speciale. Lo sapevamo e abbiamo fatto la scelta proprio per evitare che spiritualità si riducesse a questa visione parziale. Volevamo riconquistare  il termine “spiritualità” come qualità di tutta l’esistenza cristiana.

Spiritualità vuol dire, infatti, vita quotidiana vissuta, in modo progressivamente consapevole, nello Spirito di Gesù. Mettendo al centro la spiritualità volevamo mettere veramente al centro la nostra vita, accolta con amore e con responsabilità, e il progetto di Gesù su questa nostra vita. È possibile, infatti, risolvere gli inquietanti interrogativi che attraversano l’esistenza quotidiana, solo nel coraggio di confrontarci con la proposta del Vangelo in un incontro personale con Gesù.



[1] Ho appena pubblicato un piccolo libro che vuole documentare questo modo di evangelizzare, offrendo esempi concreti: TONELLI R., Narrare Gesù per aiutare a vivere e a sperare, ElleDiCi, Leumann 2012.

Seminario Internazionale: “Conflitti. Religioni e (non)violenza”

La Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’UPS partecipa ormai da quattro anni al Religion Today Filmfestival, il primo festival itinerante del cinema delle religioni giunto alla XV edizione. Scopo dell’iniziativa, fin dalla sua nascita nel 1997, è la promozione di una cultura del dialogo e della pace.

Il tema Conflitti. Religioni e (non)violenza si mostra oggi con tutta la sua dirompente attualità, ed interpella ad una riflessione profonda sulle vie praticabili per costruire il presente e il futuro delle nostre società.

Il Seminario internazionale “Conflitti. Religioni e (non)violenza” si svolgerà a Roma lunedì 22 ottobre 2012 presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’università Pontificia Salesiana.

Programma

8.45 – Accoglienza

9.00 – Saluti e introduzione

Carlo Nanni: [Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana].

Katia Malatesta: [Direttrice del Religion Today Film Festival].

9.30 – 11.00 – Panel: Conflitti. Religioni e (non) violenza

Modera Katia Malatesta

Intervengono (prima parte)

Farzam Amin Salehi, Iran

The Relation between World cinema and Religion after World-War 2

[Poeta, scrittore, traduttore, giornalista, critico d’arte, sceneggiatore e docente. Nato in una piccola città del Nord dell’Iran, da più di 25 anni insegna varie discipline – tra cui Sceneggiatura e Filosofia e Storia del Cinema – agli studenti universitari e attivisti iraniani. Ha pubblicato molti saggi e articoli su cinema, storia, politica. Il suo intervento farà riferimento a film sia europei che iraniani]

Kjartan Leer Salvesen, Norvegia

Religion, conflict and film. The promise and problems of film in interreligious dialogue.

[Vicario e critico cinematografico. Professore al Volda University College in Norvegia, è responsabile di uno studio chiamato “Film, cultura popolare e visioni dal mondo” e ha pubblicato un libro sulle figure cristologiche nel cinema. È stato direttore del Filmfestival interreligioso “La faccia dell’altro” di Oslo (Norvegia) dal 2009 al 2011]

11 – 11.30 – Intervallo

11.30 – 13.00

Intervengono (seconda parte)

Gilli Mendel, Israele

Israeli Cinema : Short reflections on conflict, religion and violence.

[Direttrice del dipartimento Film e Media Education al Jerusalem Film Center, sede della Jerusalem Cinematheque e dell’Archivio cinematografico d’Israele. Tiene conferenze e sviluppa seminari e programmi usando il cinema per esplorare temi sociali, politici, culturali e storici. È stata consulente artistica dell’Israel Film Fund ed è membro della European Film Academy]

Carlo Tagliabue, Italia

Alla ricerca di una pace possibile: il cinema contemporaneo tra rappresentazione dei conflitti del reale e profezia.

[Regista in  Rai, docente universitario, giornalista e critico cinematografico. Autore di numerosi saggi e volumi.
Direttore Responsabile delle riviste “Ragazzo selvaggio” e “Scrivere di cinema”. Dal 1993 è Presidente del
Centro Studi Cinematografici]

13.00 – Pranzo

Pomeriggio

15.00 – Tavola rotonda

Modera Peter Gonsalves [Docente di Storia della Comunicazione Sociale – FSC]

Intervengono:

Augustine Loorthusamy, Malesia

[Presidente Generale di SIGNIS – World Catholic Association for Communication]

Dialogue as a way towards the solution of conflicts and an education to peaceful relations among religions

e Farzam Amin Salehi, Kjartan Leer Salvesen, Gilli Mendel, Carlo Tagliabue.

16.45 – relazione

Norman Peña [Dottorando FSC]

In the name of God – narratives of violence and values of the 9/11 tragedy

Dialogo con i relatori del Convegno

ore 17.45 – 19.00 – Proiezione di cortometraggi

Introduce: prof. Enrico Cassanelli [Docente di Televisione – FSC]. 

ADMISSIONS, di Harry Kakatsakis, USA, 2011, 21′ (ebraismo/islam, conflitto e riconciliazione con riferimento alla questione israelo-palestinese)

THE PILLARS, di Moustafa Zakaria, EAU, 2012, 16′ (islam)                                  

 JAGJEET, di Kavanjit Singh, India, 2011, 14′ (sikhismo)

THE GIFT, di Evgenij Isachenko, Bielorussia, 2011, 12′ (cristianesimo ortodosso)

 ore 19.15 – Conclusione e ringraziamenti

Prof. Mauro Mantovani [Decano FSC].

Dalla Strenna 2013: la pedagogia della bontà al servizio dei giovani

«Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi» (Fil 4:4)

 

Come Don Bosco educatore, offriamo ai giovani il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà

 

Carissimi Fratelli e Sorelle della Famiglia Salesiana,

Dopo aver centrato l’attenzione sulla storia di Don Bosco ed aver cercato di comprendere meglio tutta la sua vita, segnata dalla predilezione per i giovani, la Strenna 2013 ha come obiettivo quello di approfondire la sua proposta educativa. Concretamente vogliamo avvicinarci a Don Bosco educatore. Si tratta quindi di approfondire ed aggiornare il Sistema Preventivo.

Anche in questo compito, il nostro approccio non è solo intellettuale. È certamente necessario, da una parte, uno studio approfondito della pedagogia salesiana, per aggiornarla secondo la sensibilità e le esigenze del nostro tempo. Oggi, infatti, i contesti sociali, economici, culturali, politici, religiosi, nei quali ci troviamo a vivere la vocazione ed a svolgere la missione salesiana, sono profondamente cambiati. D’altra parte, per una fedeltà carismatica al nostro Padre, è ugualmente necessario fare nostro il contenuto e il metodo della sua offerta educativa e pastorale. Nel contesto della società di oggi siamo chiamati ad essere santi educatori come lui, donando come lui la nostra vita, lavorando con e per i giovani.


ALLA RISCOPERTA DEL SISTEMA PREVENTIVO

Ripensando all’esperienza educativa di Don Bosco, siamo chiamati a riviverla oggi con fedeltà. Ora per una corretta attualizzazione del Sistema Preventivo, più che pensare immediatamente a dei programmi, a delle formule, o ribadire  degli “slogans” generici e buoni per tutte le stagioni, oggi il nostro sforzo sarà, anzitutto, quello di una comprensione storica del metodo di Don Bosco. Si tratta in concreto di analizzare come sia stato diversificato il suo operare per i giovani, per il popolo, per la chiesa, per la società, per la vita religiosa, e anche come diversificato sia stato il suo modo di educare i giovani del primo Oratorio festivo, del piccolo seminario di Valdocco, dei chierici salesiani e non salesiani, dei missionari. Ma si può osservare come già nel primo Oratorio di casa Pinardi fossero presenti alcune importanti intuizioni che saranno successivamente acquisite nella loro valenza più profonda di complessa sintesi umanistico-cristiana:

  1. una struttura flessibile, quale opera di mediazione tra Chiesa, società urbana e fasce popolari giovanili;
  2. il rispetto e la valorizzazione dell’ambiente popolare;
  3. la religione posta a fondamento dell’educazione, secondo l’insegnamento della pedagogia cattolica trasmessa a lui dall’ambiente del Convitto;
  4. l’intreccio dinamico tra formazione religiosa e sviluppo umano, tra catechismo ed educazione;
  5. la convinzione che l’istruzione costituisce lo strumento essenziale per illuminare la mente;
  6. l’educazione, così come la catechesi, che si sviluppa in tutte le espressioni compatibili con la ristrettezza del tempo e delle risorse;
  7. la piena occupazione e valorizzazione del tempo libero;
  8. l’amorevolezza come stile educativo e, più in generale, come stile di vita cristiana.

Una volta conosciuto correttamente il passato storico, occorre tradurre nell’oggi le grandi intuizioni e virtualità del Sistema Preventivo. Bisogna modernizzarne i principi, i concetti, gli orientamenti originari, reinterpretando sul piano teorico e pratico sia le grandi idee di fondo, sia i grandi orientamenti di metodo. E tutto ciò a vantaggio della formazione di giovani “nuovi” del sec. XXI, chiamati a vivere e confrontarsi con una vastissima ed inedita gamma di situazioni e problemi, in tempi decisamente mutati, sui quali le stesse scienze umane sono in fase di riflessione critica.

In particolare, desidero suggerire tre prospettive, analizzando più in profondità la prima di esse.

1. Il rilancio dell’ “onesto cittadino” e del “buon cristiano”

In un mondo profondamente cambiato rispetto a quello dell’ottocento, operare la carità secondo criteri angusti, locali, pragmatici, dimenticando le più ampie dimensioni del bene comune, a raggio nazionale e mondiale, sarebbe una grave lacuna di ordine sociologico ed anche teologico. Concepire la carità solo come elemosina, aiuto d’emergenza, significa rischiare di muoversi nell’ambito di un “falso samaritanesimo”.

Ci si impone pertanto una riflessione profonda, innanzitutto a livello speculativo. Essa deve estendere la sua considerazione a tutti i contenuti relativi al tema della promozione umana, giovanile, popolare, avendo, al contempo, attenzione alle diverse qualificate considerazioni filosofico-antropologiche, teologiche, scientifiche, storiche, metodologiche pertinenti. Questa riflessione, si  deve poi concretizzare sul piano della esperienza e della riflessione operativa dei singoli e delle comunità.

Dovremo procedere nella direzione di una riconferma aggiornata della “scelta socio-politica-educativa” di Don Bosco. Questo non significa promuovere un attivismo ideologico, legato a particolari scelte politiche di partito, ma formare ad una sensibilità sociale e politica, che porta comunque ad investire la propria vita per il bene della comunità sociale, impegnando la vita come missione, con un riferimento costante agli inalienabili valori umani e cristiani. Detto in altri termini, la riconsiderazione della qualità sociale dell’educazione dovrebbe incentivare la creazione di esplicite esperienze di impegno sociale nel senso più ampio.

Chiediamoci: la Congregazione Salesiana, la Famiglia Salesiana, le nostre Ispettorie, gruppi e case stanno facendo tutto il possibile in tale direzione? La loro solidarietà con la gioventù è solo atto di affetto, gesto di donazione, o anche contributo di competenza, risposta razionale, adeguata e pertinente ai bisogni dei giovani e delle classi sociali più deboli?

E altrettanto si dovrebbe dire del rilancio del “buon cristiano”. Don Bosco, “bruciato” dallo zelo per le anime, ha compreso l’ambiguità e la pericolosità della situazione, ne ha contestato i presupposti, ha trovato forme nuove di opporsi al male, pur con le scarse risorse (culturali, economiche…) di cui disponeva. Si tratta di svelare e aiutare a vivere consapevolmente la vocazione di uomo, la verità della persona. E proprio in questo i credenti possono dare il loro contributo più prezioso.

Ma come attualizzare il “buon cristiano” di Don Bosco? Come salvaguardare oggi la totalità umano-cristiana del progetto in iniziative formalmente o prevalentemente religiose e pastorali, contro i pericoli di antichi e nuovi integrismi ed esclusivismi? Come trasformare la tradizionale educazione, il cui contesto era “una società monoreligiosa”, in un’educazione aperta e, al tempo stesso, critica, di fronte al pluralismo contemporaneo? Come educare a vivere in autonomia e nello stesso tempo essere partecipi di un mondo plurireligioso, pluriculturale, plurietnico? A fronte dell’attuale superamento della tradizionale pedagogia dell’obbedienza, adeguata ad un certo tipo di ecclesiologia, come promuovere una pedagogia della libertà e della responsabilità, tesa alla costruzione di persone responsabili, capaci di libere decisioni mature, aperte alla comunicazione interpersonale, inserite attivamente nelle strutture sociali, in atteggiamento non conformistico, ma costruttivamente critico?

2. Il ritorno ai giovani con maggior qualificazione

 

È tra i giovani che Don Bosco ha elaborato il suo stile di vita, il suo patrimonio pastorale e pedagogico, il suo sistema, la sua spiritualità. Missione salesiana è consacrazione, è “predilezione” per i giovani e tale predilezione, al suo stato iniziale, lo sappiamo, è un dono di Dio, ma spetta alla nostra intelligenza ed al nostro cuore svilupparla e perfezionarla.

La fedeltà alla nostra missione poi, per essere incisiva, deve essere posta a contatto con i “nodi” della cultura di oggi, con le matrici della mentalità e dei comportamenti attuali. Siamo di fronte a sfide davvero grandi, che esigono serietà di analisi, pertinenza di osservazioni critiche, confronto culturale approfondito, capacità di condividere psicologicamente ed esistenzialmente la situazione. Ed allora, per limitarci ad alcune domande:

 

a- Chi sono esattamente i giovani ai quali “consacriamo” personalmente e in comunità la nostra vita?

b- Qual è la nostra professionalità pastorale, a livello di riflessione teorica sugli itinerari educativi ed a livello di prassi pastorale?

c- La responsabilità educativa oggi non può essere che collettiva, corale, partecipata. Qual è allora il nostro “punto di aggancio” con la “rete di relazioni” sul territorio e anche oltre il territorio  in cui vivono i nostri giovani?

d- Se qualche volta la Chiesa si trova disarmata di fronte ai giovani, non è che per caso lo sono anche i Salesiani o la Famiglia Salesiana di oggi?

3. Un’educazione di cuore

In questi ultimi decenni forse le nuove generazioni salesiane provano un senso di smarrimento di fronte alle antiche formulazioni del Sistema Preventivo: o perché non sanno come applicarlo oggi, oppure perché inconsapevolmente lo immaginano come un “rapporto paternalistico” con i giovani. Al contrario, quando guardiamo a Don Bosco, visto nella sua realtà vissuta, scopriamo in lui un istintivo e geniale superamento del paternalismo educativo inculcato da molta parte della pedagogia dei secoli a lui precedenti (’500-’700).

 

Possiamo chiederci: oggi i giovani e gli adulti entrano o possono entrare nel cuore dell’educatore salesiano? Che vi scoprono? Un tecnocrate, un abile, ma vacuo comunicatore, oppure una umanità ricca, completata e animata dalla Grazia di Gesù Cristo, nel Corpo Mistico, ecc.?

A partire dalla conoscenza della pedagogia di Don Bosco, i grandi punti di riferimento e gli impegni della Strenna del 2013 sono i seguenti.

  1. 1. Il ‘vangelo della gioia’, che caratterizza tutta la storia di Don Bosco ed è l’anima delle sue molteplici attività. Don Bosco ha intercettato il desiderio di felicità presente nei giovani e ha declinato la loro gioia di vivere nei linguaggi dell’allegria, del cortile e della festa; ma non ha mai cessato di indicare Dio quale fonte della gioia vera.
  1. La pedagogia della bontà. L’amorevolezza di Don Bosco è, senza dubbio, un tratto caratteristico della sua metodologia pedagogica ritenuto valido anche oggi, sia nei contesti ancora cristiani sia in quelli dove vivono giovani appartenenti ad altre religioni. Non è però riducibile solo a un principio pedagogico, ma va riconosciuta come elemento essenziale della nostra spiritualità.

3.  Il Sistema Preventivo. Rappresenta il condensato della saggezza pedagogica di Don Bosco e costituisce il messaggio profetico che egli ha lasciato ai suoi eredi e a tutta la Chiesa. È un’esperienza spirituale ed educativa che si fonda su ragione, religione ed ‘amorevolezza.

  1. L’educazione è cosa del cuore. «La pedagogia di Don Bosco, ha scritto don Pietro Braido, s’identifica con tutta la sua azione; e tutta l’azione con la sua personalità; e tutto Don Bosco è raccolto, in definitiva, nel suo cuore».[1] Ecco la sua grandezza ed il segreto del suo successo come educatore. «Affermare che il suo cuore era donato interamente ai giovani, significa dire che tutta la sua persona, intelligenza, cuore, volontà, forza fisica, tutto il suo essere era orientato a fare loro del bene, a promuoverne la crescita integrale, a desiderarne la salvezza eterna».[2]

5.  La formazione dell’onesto cittadino e del buon cristiano. Formare “buoni cristiani e onesti cittadini” è intenzionalità più volte espressa da Don Bosco per indicare tutto ciò di cui i giovani necessitano per vivere con pienezza la loro esistenza umana e cristiana. Quindi, la presenza educativa nel sociale comprende queste realtà: la sensibilità educativa, le politiche educative, la qualità educativa del vivere sociale, la cultura.

  1. Umanesimo salesiano. Don Bosco sapeva “valo­rizzare tutto il positivo radicato nella vita delle persone, nelle realtà create, negli eventi della storia. Ciò lo portava a cogliere gli autentici valori presenti nel mondo, specie se gra­diti ai giovani; a inserirsi nel flusso della cultura e dello sviluppo umano del proprio tempo, stimolando il bene e rifiutandosi di gemere sui mali; a ricercare con saggezza la cooperazione di molti, convinto che ciascuno ha dei doni che vanno scoperti, riconosciuti e valorizzati; a credere nella forza dell’educazione che sostiene la crescita del giovane e lo incoraggia a diventare onesto cittadino e buon cristiano; ad affidarsi sempre e comunque alla prov­videnza di Dio, percepito e amato come Padre”.[3]
  1. Sistema Preventivo e Diritti Umani. La Congregazione non ha motivo di esistere se non per la salvezza integrale dei giovani. Questa nostra missione, il vangelo e il nostro carisma oggi ci chiedono di percorrere anche la strada dei diritti umani; si tratta di una via e di un linguaggio nuovi che non possiamo trascurare. Il sistema preventivo e i diritti umani interagiscono, arricchendosi l’un l’altro. Il sistema preventivo offre ai diritti umani un approccio educativo unico ed innovativo rispetto al movimento di promozione e protezione dei diritti umani. Allo stesso modo i diritti umani offrono al sistema preventivo nuove frontiere ed opportunità di impatto sociale e culturale come risposta efficace al “dramma dell’umanità moderna, della frattura tra educazione e società, del divario tra scuola e cittadinanza”.[4]
  2. Per una comprensione approfondita e l’attuazione dei punti nodali suindicati sono utilmente da leggere: Il Sistema Preventivo nell’educazione della gioventù, la Lettera da Roma, le Biografie di Domenico Savio, Michele Magone, Francesco Besucco, tutti scritti di Don Bosco che illustrano bene sia la sua esperienza educativa che le sue scelte pedagogiche.

 

Don Pascual Chávez V., SDB

Rettor Maggiore


[1] Cf. P. BRAIDO, Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di Don Bosco, LAS, Roma 1999, p. 181.

[2] P. RUFFINATO, Educhiamo con il cuore di Don Bosco, in “Note di Pastorale Giovanile”, n. 6/2007, p. 9.

[3] Cfr Art. 7 – Carta di identità carismatica della Famiglia Salesiana – Roma 2012

[4] Si veda P. Pascual Chàvez Villanueva, Educazione e cittadinanza. Lectio Magistralis per la Laurea Honoris Causa, Genova, 23 aprile 2007.

Omelia RM 16ago12

“Legami di vita buona” riflessione dal convegno della Azione Cattolica

Il Concilio è il nostro presente e il nostro futuro. È la chiamata a rinnovare il nostro patto di fedeltà alla Chiesa e a dare risposte alle aspettative di questo nostro tempo, carico di drammi e pur fecondo”.

Così il presidente nazionale dell’Azione Cattolica, Franco Miano, ha concluso ieri a Roma il convegno nazionale “Legami di vita buona. Azione Cattolica, Chiesa locale e Chiesa universale”, che dal 21 al 23 settembre ha riunito oltre 350 tra presidenti e assistenti unitari diocesani e regionali di Ac.

Con lo sguardo al nuovo anno associativo, che s’inserisce e si orienta nel cammino tracciato dalla coincidenza di tre grandi eventi – i 50 anni dall’apertura del Concilio, l’inizio dell’Anno della fede e l’imminente inaugurazione del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione -, Miano ha rinnovato la “promessa” dei laici di Ac di “costruire legami di vita buona con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, nel cammino ordinario compiuto da ciascuno di noi nelle diocesi e nelle parrocchie”.

Una fede intelligente. Ogni fondamento di “vita buona”, ha spiegato inaugurando i lavori mons. Domenico Sigalini, assistente generale dell’Azione Cattolica e vescovo di Palestrina, presuppone una “fede intelligente”, poiché “una fede senza intelligenza è un insulto a noi stessi e allo stesso Signore che non vuole automi o persone compiacenti”, bensì “persone vere, intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti servili, compromissori”. Nella sua relazione di apertura, “I laici e il Concilio”, il monaco camaldolese Franco Mosconi ha offerto all’uditorio un “percorso conciliare” basato su tre direttrici “da riscoprire”. A partire dalla speranza, ossia l’avere fisso “un orizzonte escatologico”, per arrivare alla santità, “termine ormai relegato tra gli incensi”, ma che “significa costruire la propria maturità umana come Dio la sogna, guardando il Figlio”. Su di esse si erge come “stella polare” la “Parola di Dio”. Di qui la domanda: “Cosa ne abbiamo fatto della Parola a mezzo secolo dalla ‘Dei Verbum’?”. “Questo arco di tempo – che per la Bibbia è il segno di un’intera generazione – quanto è stato inquietato e trasformato dalla Parola?”. La Parola divina “è come un mare in cui ci si deve immergere”; invece, ha concluso Mosconi, “spesso non incide ferite nella placida superficialità dei nostri giorni”.

Seminatori della Parola. Nell’omelia della celebrazione eucaristica presieduta il 22 settembre, mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, ha ricordato che “dopo Gesù, ognuno di noi è seminatore della Parola di Dio”, e ciò comporta anzitutto “la responsabilità a non essere seminatori qualunque”. “Non ci si improvvisa evangelizzatori, come non ci si improvvisa buoni seminatori: occorre formarsi a questo compito”. “Il buon seminatore – ha ammonito il presule – non è colui che resta immobile. Come Gesù, è in continuo andare incontro all’altro. Dunque, non è più tempo di rimanere chiusi nelle nostre parrocchie. Bisogna uscire e andare lì dove l’uomo vive. Il che non vuol dire andare in Paesi lontani, ma al di là del nostro pianerottolo, dove vive il nostro vicino. Questa è la nuova evangelizzazione”. “L’unica e indivisibile missione della Chiesa – ha precisato mons. Diego Coletti, vescovo di Como – si articola secondo tre prospettive principali, intimamente connesse tra loro”: “Secolare, profetica e pastorale”. La prima consiste nel permeare “dello spirito evangelico la vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti “secolari” (famiglia, lavoro, economia, cultura, politica, scienza…)”. La prospettiva “profetica” si esplica nel manifestare “in grado straordinario, nel proprio stile di vita, le esigenze radicali della sequela di Gesù, indicate nel Vangelo”. “La prospettiva “pastorale” è, infine, il modo di “vivere ed esprimere l’unica e indivisibile missione della Chiesa assumendo, con la forza dello Spirito Santo, il compito di dar vita alla comunità cristiana, nutrirla con la Parola e i sacramenti, coordinarne i carismi e i ministeri, curarne i difetti e le malattie, vigilare per diffonderla e custodirla: in una parola, edificare e condurre la comunità in quanto tale”. 

Testimonianza dalla Romania. Il “profilo delle responsabilità cui è chiamato il laico cristiano nel suo servizio alla comunità” è stato delineato da Anna Maria Basile, presidente diocesana di Andria dal 2005 al 2011. A partire da tre verbi, ha spiegato: “Custodire, tramandare, generare ancora” per “capire meglio il tempo e il luogo in cui viviamo”, avere “uno sguardo nuovo”, cercare “nel passato le radici del futuro”. La storia di un’Ac romena “cresciuta in numeri e impegno, in particolare nel far conoscere il ruolo dei laici nella Chiesa e nella società, considerando che i documenti del Concilio sono stati pubblicati in lingua romena solo dal 1990, dopo la caduta del comunismo, a 35 anni sua dalla chiusura”. A raccontarla sono stati la presidente dell’Ac di Iasi, Adriana Ianus, l’assistente don Felix Roca, e il vescovo ausiliare mons. Aurel Percã. Un’esperienza di laicato missionario ed evangelizzatore, “impegnato nell’educazione alla fede e nell’azione di carità” e “particolarmente attento ai temi della famiglia”.


Riportiamo la Lectio divinadi mons. Domenico Sigalini, Assistente generale dell’Azione cattolica e vescovo di Palestrina, al Convegno nazionale dei Presidenti e Assistenti unitari diocesani e regionali dell’Ac, in corso a Roma.

Troppo indurito è il nostro cuore

Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo. Allora egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode! ”. E quelli dicevano fra loro: “Non abbiamo pane”. Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite ? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via? ”. Gli dissero: “Dodici”. “E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via? ”. Gli dissero: “Sette”. E disse loro: “Non capite ancora? ”.(Mc 8, 14-21)

Appena prima di questo brano di vangelo sono state narrate due moltiplicazioni dei pani, al capitolo 6 (vv. 41-43) e al capitolo 8 (vv. 6-8). Hanno destato grande meraviglia e discussioni, piccoli egoismi e grandi progetti materiali. Chi aveva trovato la panacea per tutti i suoi mali: che vuoi di più, ci dà anche da mangiare! Chi aveva pensato che il miracolo poteva essere di casa tutti i giorni con un uomo così. Gesù coglie il rischio e fa fatica a far capire che i suoi miracoli sono segno, soltanto segno. Questo è segno di un altro pane. I farisei continuano a chiedere segni, sicurezze, certezze, ma Gesù offre un segno decisivo per la fede dei cristiani: il pane che è Lui, il pane eucaristico, che è ancora Lui, il pane dell’offerta sacrificale dell’Eucaristia, che è sempre Lui, il pane della vita, che ne è il senso, la pienezza.

Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo.

Ne erano avanzati di pani dopo la prima e la seconda moltiplicazione; Gesù li sollecita a prendere la barca per non fissarsi sui facili successi e sul facile indice di gradimento ottenuto con il miracolo. E i discepoli lasciano a terra tutto quel ben di Dio. Era la scorta per la loro fame, ma la lasciano e si adattano a quel pezzo che è rimasto in barca. E’ solo un pezzo di pane o è il pane della vita che è Gesù? Su questo gioco di simboli si sviluppano le domande dure, incalzanti, mozzafiato di Gesù.

Che pane avevano con sé sulla barca?

Io chi sono per voi? Mi sto facendo in quattro per aiutarvi ad alzare lo sguardo dal piatto e voi ci ficcate dentro pure la vita! Non siete capaci di fare il salto di qualità che deve fare ogni uomo di fronte a tutte le cose. Niente è solo materia, tutto ha un significato che rimanda a Dio. Questo pane non è la sorgente di un litigio per quando gli apostoli sentiranno un buco nello stomaco, ma è la presenza di Gesù. Lui è il pane della vita, il sapore, il senso; il nutrimento, il gusto della casa e del forno, dell’amore di chi lo ha preparato e del lavoro che lo ha reso possibile: è una introduzione umanissima alla sua presenza nel pane e nel vino.

Allora egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!

Il lievito dei farisei e il lievito di Erode sono inseriti in questa scena da Marco come un inciso, prima di proseguire con le domande di Gesù e possono essere letti nel contesto come due preoccupazioni o condizioni per credere alla grandezza del pane che è Gesù: c’è un lievito che traduce la cecità dovuta alle ideologie, o ad atteggiamenti culturali di autosufficienza e un lievito, quello di Erode, che stigmatizza e rappresenta ogni strumentalizzazione del potere. Sono minacce all’accoglienza del pane che è Gesù, al significato del consumarsi per gli altri che è assolutamente opposto a quello che i due lieviti rappresentano.

Se questo pane è poi figura non troppo velata e lontana del pane eucaristico che deve essere spezzato per tutti, i lieviti errati possono essere letti come l’autosufficienza, l’egoismo, il dominio dell’uomo sull’uomo, come fu la vita di Erode. Non sono assolutamente compatibili questi modi di vivere con l’accoglienza di questo pane, con la disponibilità e la comunione fraterna che deve caratterizzare ogni comunità che si raccoglie la domenica attorno al pane eucaristico. Che senso avrebbe spezzare il pane da gente che si ignora, che non si sopporta, che si fa la guerra, che non vive in pace, che cerca in tutti i modi di sopraffare l’altro, di usarlo, pure con i guanti bianchi?.

E quelli dicevano fra loro: “Non abbiamo pane”.

Siamo senza nutrimento, siamo senza concretezza, ci siamo ritrovati euforici, dopo le belle moltiplicazioni dei pani, dopo aver goduto di un successo insperato con la gente, dopo che tutti ci guardavano con invidia perché siamo del giro di Gesù, ma oggi tutto è finito e siamo rimasti soli. Cercavano con gli occhi un forno, invece dovevano guardare a Gesù. Quante volte anche noi davanti a Dio diciamo: non abbiamo più pane

L’abbiamo consumato nell’ingordigia

L’abbiamo creduto un modo di dire di Gesù e non abbiamo conservato quella fede semplice della prima comunione

Non abbiamo pane perché nelle nostre comunità non si fa posto alla sua Parola.

Non abbiamo pane perché abbiamo perso il senso della vita

Non abbiamo pane perché siamo pigri; niente ci soddisfa, e tiriamo a campare

Non abbiamo pane perché ci manca la speranza nella vita

Non abbiamo pane perché sentiamo una fame che non passa con il cibo

Non abbiamo pane perché ci siamo affidati alle superficialità e ora ci lasciano soli

Non abbiamo pane perché la messa domenicale viene dopo le nostre preoccupazioni economiche, di riposo, di relax. Dopo lo spread e i dati della borsa.

Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito?

Inizia qui la serie di domande che anche noi ci vogliamo fare, che Gesù in maniera incalzante fa ai suoi discepoli.

Se scorriamo il testo vediamo che la parola pane o pani è detta almeno sei volte e che almeno sette volte Gesù coglie la loro assoluta incomprensione. Non ci sono dubbi su che cosa voglia dirci il vangelo con questo episodio e val la pena di lasciarci interrogare. Solo rispondendo a queste domande potremo trovare pace.

Discutere, intendere, capire è il desiderio e l’impegno di mettere al servizio della situazione la propria intelligenza e l’intelligenza degli amici: assieme si sta cercando di capire, ma non ci si riesce. L’intelligenza è la prima scintilla che deve scattare quando si tratta di fede; forse è la fame che ha innescato la discussione, forse la rabbia, il dispetto, ma Gesù vuole che si metta testa a quello che si fa e si vuol pensare. Ogni esperienza di fede può avere mille motivi, ma deve passare per il crogiuolo dell’intelligenza. Dio ci ha dato l’intelligenza perché la usiamo sempre fino in fondo. Abbiamo una razionalità che non può essere mandata all’ammasso perché troviamo più comodo fidarci del sentito dire, del sentimento, delle emozioni, delle atmosfere, delle tradizioni.

Una fede senza intelligenza è un  insulto a noi stessi e allo stesso Signore che non vuole automi o persone compiacenti. Vuole persone vere, intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti servili, compromissori. Quanti giovani credono che la fede sia abbandonare la lucidità della ragione, un atto che non regge di fronte alla scienza. Certo, se le conoscenze di Dio e della sua Parola sono ferme alle nozioni rabberciate al catechismo della fanciullezza, non possiamo dire che stiamo usando l’intelligenza. Abbiamo un luogo dove la fede deve fare i conti con l’intelligenza sempre, con la vita concreta, con i fatti quotidiani come la nascita, la morte, la malattia; questo luogo è la vita concreta di una comunità cristiana: la parrocchia

La parrocchia serve una fede che cerca l’intelligenza e che non si dà senza ragioni. Il sapere Dio che offre la parrocchia è intrinsecamente spinto a delinearsi nella vita dell’uomo e in ogni sua domanda, per questo non può non dirsi con parole di uomo, con simboli e linguaggi umani, dentro i significati profondi della vita e di ogni vita, nella quotidianità e nel susseguirsi degli eventi, nella ricerca faticosa di senso e di felicità degli uomini. La mediazione culturale non è un optional per la testimonianza cristiana della fede.

Entra in campo qui un servizio alla fede che deve abitare la cultura.

È autentico servizio alla vita quotidiana della gente, al tessuto di relazioni del territorio, alla costruzione di una società una fede che si fa cultura.

– Che sa rispondere ai grandi interrogativi dell’uomo andando oltre le risposte ben compaginate o didascaliche di ogni catechismo, che si fa domanda prima di essere risposta. E’ una fede che si comunica, qualitativamente diversa da quella che rimane nel chiuso della propria consolazione

– per questo è necessario un passaggio da una cultura inconsapevole, che faceva parte dell’habitat naturale di una società cristiana a una nuova consapevolezza. Forzando, ma non troppo, il concetto si può dire che occorre passare da una generazione di cristiani che hanno ricevuto le risposte senza farsi le domande, a cristiani che si interrogano con tutti gli uomini sul proprio destino, sul senso ultimo della vita. Qui si apre tutto il campo della inculturazione della fede

– un altro livello di necessità dell’esprimersi culturalmente della fede e che è a portata di parrocchia, proprio per la sua popolarità e concretezza, è

* tutto lo sforzo di cambiamento di mentalità assolutamente improrogabile per aiutare i nuovi poveri a ridarsi speranza da sé, entro nuovi modi di pensarsi nel proprio territorio, per uscire dall’usura, per ridare forza alle strutture educative, per innestarsi nelle relazioni umane. E’ ancora fede che si fa cultura se è vero come abbiamo detto sopra, che la carità e forma della fede.

* la consapevolezza che si deve tradurre ogni pensiero, ogni contenuto della fede in un linguaggio laico, in un linguaggio che ha la persona umana al centro dell’attenzione. Bisogna diffidare delle comunicazioni semplicemente cristiane. Il pensiero sociale della Chiesa è tutto traducibile in linguaggio laico. E’ in voga purtroppo una sorta di fondamentalismo che non si applica seriamente a ridire con linguaggio laico le grandezze della fede in Gesù. E’ una scorciatoia che, se da una parte aiuta a sentirsi a posto in coscienza, perché siamo stati capaci di dire con coraggio la nostra fede, dall’altra lascia l’uomo solo ad affrontare il delicato momento del dirsi della fede nella sua vita, nelle sue fatiche quotidiane, nella pressione degli eventi, nei problemi che rimangono spesso aperti non solo per tutta una vita, ma anche per stagioni di storia.

Il nostro cuore è indurito

Gesù fa però anche un’altra domanda, chiama in causa non solo l’intelligenza, ma anche il cuore, anche la capacità di lasciarsi coinvolgere in una  esperienza di dono. Cuore, nel nostro modo di dire è termine che significa amore, dono, l’offerta di tutta la persona. E’ necessario per la completezza di una adesione di vita. Non basta l’intelligenza, occorre la capacità di amare. Gesù fa una domanda che suona come un rimprovero, che ci mette al muro: avete il cuore indurito? Sclerocardia è l’indurimento: sclerosi del cuore. E’ lì bloccato come una pietra. Che cosa può esprimere un pezzo di pietra se non la durezza di una vita che sta altrove, che non si commuove per niente, che non comanda al viso nemmeno un sorriso, alle mani una stretta d’accoglienza, al corpo uno slancio di dedizione? Chi ha il cuore indurito per eccellenza nell’Antico Testamento è il faraone, il padrone dell’Egitto, colui che tiene prigioniero il popolo, che lo sfrutta, che non bada a sofferenze, che calcola il  numero dei mattoni, che comanda la morte dei neonati, che si mette contro Dio, contro il suo piano di salvezza (cfr Es 4, 21). Alla fine di ogni piaga che ritma le speranze e delusioni del popolo di Israele che vuol uscire dall’Egitto c’è un ritornello: il cuore del faraone è ostinato nella sua durezza di cuore. Il salmo 4 dice:  Fino a quando, o uomini, sarete duri di cuore? Perché amate cose vane e cercate la menzogna? Nel vangelo di Matteo (13, 15) si richiamano le parole di Isaia : Voi udrete, ma non comprenderete,  guarderete, ma non vedrete.  Perché il cuore di questo popolo  si è indurito. Ezechiele (2,4) dice:  Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito.

Lo stesso Marco (6,52) appena dopo la moltiplicazione dei pani, nelle stesse condizioni, sulla barca, nella fatica di reggerla col vento contrario, con Gesù che cammina sulle acque e viene in loro aiuto, ancora dice: Ed erano enormemente stupiti in se stessi, perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito.

Insomma Gesù nella sua infinita sapienza e bontà continua a chiedere agli apostoli di aprire il cuore, di mettersi in una condizione di amore, di dono, di accoglienza, di apertura.

Lasciati andare, smollati, vieni giù dalle tue sicurezze, fidati, fa un passo, rischia, dona la tua vita, smettila di stare sulle tue, apriti alla vita, buttati nell’avventura dell’amore, esci dal tuo comodo loculo…Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dá, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso (Deut 15, 7)

A questo cuore indurito serve una cardioterapia, fatta di preghiera, di ascolto della Parola, di relazioni umanissime e di scuola d’amore. La famiglia, l’amicizia, l’innamoramento, il fidanzamento sono tutte cardioterapie se hanno al centro l’amore fino all’ultima goccia di Gesù. Questi apostoli hanno bisogno di una full immersion nel cuore di Gesù. La faranno, ma prima verrà la passione

Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite ?

Sono domande che Gesù fa usando letteralmente le parole dei profeti

Is 6, 9-10 Ascoltate pure, ma senza comprendere,
osservate pure, ma senza conoscere.
Rendi insensibile il cuore di questo popolo,
fallo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi
e non veda con gli occhi
né oda con gli orecchi
né comprenda con il cuore
né si converta in modo da esser guarito”.

Ger 5, 21 “Questo dunque ascoltate,
o popolo stolto e privo di senno,
che ha occhi ma non vede,
che ha orecchi ma non ode.

Ez 12, 12 Il principe, che è in mezzo a loro si caricherà il bagaglio sulle spalle, nell’oscurità, e uscirà per la breccia che verrà fatta nel muro per farlo partire; si coprirà il viso, per non vedere con gli occhi il paese.

Nei discepoli si verifica un’altra volta e chissà per quante volte ancora il dramma dell’antico popolo, dell’uomo che continua a fuggire la premura di Dio, che snobba il suo amore, che chiude gli occhi davanti all’evidenza, che si chiude in se stesso, che butta fuori Dio dalla vita. Gesù si mette così nella linea dello struggente amore di Dio per l’umanità e vuol far capire agli apostoli che in questa azione di assoluta misericordia si vuol collocare.

Gesù si manifesta come colui che realizza il piano di Dio, pensato da secoli, come poi San Paolo cercherà di annunciare a tutti i pagani.

Allora la storia di questi discepoli è la nostra storia, le loro difficoltà sono le nostre, le loro chiusure sono le nostre autosufficienze, i loro dubbi sono i nostri rifiuti a seguire Gesù.

E non vi ricordate….

E’ utile dare risalto anche a questo verbo che spesso torna nelle Sacre Scritture; un verbo legato alla memoria, che per la bibbia non è il riportarsi a cose passate, ma a un fatto vivo e attualmente operante. Così è la memoria della Pasqua, così è l’Eucaristia che è memoria, memoriale della morte e Risurrezione di Gesù, così sono tutti i gesti sacramentali.

Gli apostoli se vorranno fare parte di un nuovo modo di vivere la vita e il rapporto con Dio dovranno esercitare e confrontarsi continuamente con questo significato di memoria. Non siamo cultori di diari, di musei, non siamo antiquari o specialisti del mercato delle pulci dove puoi trovare pezzi antichi a basso prezzo, ma siamo ricostruttori di vita vera, riproduttori di gesti autentici di salvezza, li riviviamo, non li togliamo dalla formalina per guardarli o dall’antitarme per metterli in mostra. L’Eucaristia è qui, è oggi spezzare il pane che è la vita, la morte e la risurrezione di Gesù. Vengono ricordate le sette sporte, le dodici ceste: sono ancora le sporte e le ceste del pane eucaristico che viene spezzato ogni giorno, ogni domenica nell’Eucaristia per i fedeli di oggi. Si dice due volte “pezzi di pane”, perché l’Eucaristia è proprio pane spezzato, fatto in pezzi. L’intento degli evangelisti è chiarissimo e noi oggi ancora viviamo questa gioia di avere tra noi il pane che è Gesù.

E disse loro: “Non capite ancora? ”

Il brano di vangelo termina con un’altra domanda ancora, con una infinita serie di punti interrogativi, di inviti a cambiare testa, a entrare in un altro ordine di idee, di atteggiamenti, di conoscenza di Gesù. Dobbiamo decidere di affidarci interamente a Gesù. E’ tempo di accorgerci della nostra durezza di cuore, di risvegliarci nella verità. Questo brano di vangelo ci dice la forza e l’impegno che esige sempre la lettura della Parola di Dio; è una lettura che continuamente ci provoca, non è fatta per far riposare le orecchie, ma per far cantare il cuore.

Così mi immagino che dicessero tra di loro gli apostoli:

Siamo su quella barca e stiamo riprendendo il cammino con Gesù; è stato veramente emozionante partecipare alle moltiplicazioni dei pani, ma ci siamo fermati al livello dello stomaco. Ci siamo riempiti la pancia, e capivamo a fatica che non erano espedienti per soccorrere la fame di cibo della gente. Noi euforici di questo potere abbiamo avvertito in Gesù una certa tensione. Dopo la prima moltiplicazione ci ha quasi obbligati a metterci in barca per cambiare aria. Ci aveva visti troppo attaccati al successo, non voleva che ci lasciassimo prendere la mano da un eventuale potere e già lì ci ha detto che avevamo un cuore duro. Ma perché?

Poi un’altra moltiplicazione e ci siamo ancora meravigliati. Ancora un altro spostamento in barca, con un solo pane. Non ci eravamo accorti che quel pane era per noi solo Gesù. Non capivamo, Ci ha fatto un fuoco di fila di domande, ci sembrava perfino impaziente. Ci ha detto che abbiamo il cuore malato, duro come una pietra. Ci ha riportato alla storia dei nostri padri che hanno spesso voltato le spalle a Dio. Volete abbandonare Dio anche voi? Volete capire che questo pane sono io, il senso della vita sono io, il Dio che ha fatto cielo e terra si fa incontrare da me?

Gli avremmo creduto pienamente più tardi, quando dopo quell’ultima cena, abbiamo toccato con mano la sua tristezza, ma anche la sua volontà incrollabile di dono fino alla fine, il suo essere pronto a dare la vita volontariamente. Quella sera ci ha fatto capire che nessuno lo stava consegnando anche se lo tradiva o ingannava, nessuno lo stava prendendo con inganno, ma si offriva lui. Da sempre aveva aspettato quel momento. Quel pane oggi per noi è ancora la sua presenza, Lui nella pienezza del dono di sé e sarà sempre la nostra forza, sarà al centro della nostra preghiera, lo contempleremo in adorazione ininterrotta.

Messaggio di Benedetto al XI Incontro Internazionale delle “Equipes Notre Dame”

“GLI SPOSI CRISTIANI SIANO IL VOLTO SORRIDENTE E DOLCE DELLA CHIESA”

Il messaggio di Benedetto XVI ai partecipanti all’XI Incontro Internazionale delle “Equipes Notre Dame”

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 23 luglio 2012 (ZENIT.org).-

Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone ha inviato a nome del Santo Padre Benedetto XVI ai partecipanti all’XI Incontro Internazionale delle Equipes Notre Dame che ha luogo a Brasilia (Brasile) dal 21 al 26 luglio 2012 sul tema: Osare il Vangelo.

***

Eminenza Reverendissima,

il Santo Padre, informato dell’evento dell’XI Incontro Internazionale delle Equipes Notre Dame a Brasilia, mi ha incaricato di trasmettere, con questo messaggio, il suo paterno saluto ai partecipanti e a tutte le coppie del Movimento, che è nato della lungimirante intuizione pastorale del Servo di Dio Henri Caffarel, sacerdote, e la cui missione non ha visto diminuire, con il passare del tempo, la sua attualità e la sua urgenza. Anzi, questa è in certo modo aumentata alla luce dei problemi e delle difficoltà che il matrimonio e la famiglia sperimentano oggi, circondati da un clima di crescente secolarizzazione.

In questo contesto, le coppie delle Equipes Notre Dame proclamano, non solo a parole, ma soprattutto con la loro vita, le verità fondamentali sull’amore umano ed il suo significato più profondo: “Un uomo ed una donna che si amano, il sorriso di bimbo, la pace di un focolare: ecco un discorso senza parole, ma straordinariamente persuasivo, nel quale ogni uomo può già presentire, come per trasparenza, il riflesso di un altro amore e il suo appello infinito” (Paolo VI, Alle coppie delle Equipes Notre Dame, 4 maggio 1970)

Certamente questo ideale può sembrare troppo alto. È per questo che il movimento incoraggia i suoi membri ad attingere costantemente alle sorgenti della grazia del sacramento del matrimonio e della partecipazione all’eucarestia domenicale; al di là delle risorse della grazia dei sacramenti, esso propone loro con grande saggezza un “metodo” ricco di impegni e suggerimenti semplici e concreti per vivere nel quotidiano una spiritualità incarnata di sposi cristiani. Tra questi, possiamo sottolineare “il dovere di sedersi”, cioè un impegno a mantenere periodicamente un tempo di dialogo personale tra i coniugi, durante il quale ciascuno presenta all’altro, con totale sincerità ed in un clima di ascolto reciproco, i problemi e le situazioni più importanti nella vita di coppia. Nel nostro mondo, così segnato dall’individualismo, dall’attivismo, dalla fretta e dalla distrazione, il dialogo sincero e costante tra gli sposi è essenziale per evitare che nascano, crescano e si sedimentino le incomprensioni che, sfortunatamente, spesso finiscono in rotture insanabili, che nessuno più aiuta a ricomporre. Dunque, coltivate questa preziosa abitudine di sedere uno accanto all’altra per parlare e ascoltarvi, per comprendervi l’un l’altro, costantemente, di fronte alle sorprese e alle difficoltà di un lungo cammino.

Fra tre mesi, celebreremo il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, che in molti suoi documenti ha offerto alla Chiesa del nostro tempo un volto rinnovato del valore dell’amore umano, della vita coniugale e familiare; in questa occasione si aprirà l’Anno della Fede, per ritrovare tutta la vivacità e la gioia dell’annuncio della fede nel nostro mondo e nel nostro tempo. Sua Santità Benedetto XVI invita gli sposi cristiani ad essere “il volto sorridente e dolce della Chiesa”, i migliori e più convincenti messaggeri della bellezza dell’amore sostenuto e nutrito dalla fede, dono di Dio offerto con larghezza e generosità a tutti, affinché ogni giorno possano scoprire il senso della loro vita.

Come segno di gratitudine ecclesiale, di incoraggiamento per le nuove sfide che incontriamo, e come garanzia di grazia e luce dell’Altissimo per i lavori dell’XI Incontro Internazionale delle Equipes Notre Dame, il Santo Padre concede a tutti i partecipanti e alle loro famiglie la sua implorata benedizione apostolica.

Approfitto di questa occasione per testimoniare a vostra Eminenza Reverendissima i sentimenti della mia fraterna stima in Cristo Signore.

Vaticano, 5 luglio 2012

Tarcisio Card. Bertone
Segretario di Stato di Sua Santità

Incontro annuale tra UE e comunità religiose

Sostegno alle famiglie, solidarietà tra le generazioni, lotta alle sfide demografiche, questione-immigrazione, problema occupazionale, conciliazione tra lavoro e vita privata: sono molteplici gli argomenti affrontati durante l’incontro annuale tra istituzioni dell’Ue e comunità religiose presenti in Europa, svoltosi oggi presso la Commissione europea a Bruxelles.


L’appuntamento, inquadrato all’articolo 17 del Trattato di Lisbona, è definito come un dialogo regolare, aperto e trasparente, che intende far risuonare nelle sedi comunitarie la voce delle Chiese, in rappresentanza delle fedi religiose del continente e del loro impegno a livello pubblico, sul piano sociale, culturale, educativo, della solidarietà e della convivenza pacifica tra i popoli.

Istituzioni e Chiese. L’incontro di quest’anno aveva per tema “Solidarietà intergenerazionale: verso un quadro per la società di domani in Europa”, anche in relazione al 2012 che la stessa Ue ha dichiarato Anno dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni. José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha fatto gli onori di casa; il vertice è stato co-presieduto da Laszlo Surjan, per il Parlamento europeo, e da Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio Ue. Hanno partecipato oltre venti rappresentanti di comunità credenti, tra cristiani (cattolici, evangelici, ortodossi, anglicani), musulmani, esponenti della religione ebraica, indù e delle comunità bahá’í, provenienti da tutta Europa. Per la delegazione cattolica erano presenti: mons. André-Joseph Léonard, arcivescovo di Malines-Bruxelles; mons. Giovanni Ambrosio, vescovo di Piacenza-Bobbio (Italia), vice presidente della Comece, Commissione degli episcopati della Comunità europea; mons. Virgil Bercea, vescovo di Oradea Mare (Romania), anch’egli vice presidente della Comece; mons. Adolfo Gonzales Montes, vescovo di Almeria (Spagna). La delegazione cattolica arrivava particolarmente preparata all’incontro: infatti l’assemblea Comece della scorsa primavera si era concentrata esattamente su questi argomenti, affermando che il reciproco sostegno tra giovani, adulti e anziani “resta il fondamento dello sviluppo umano e delle nostre società”.

Per un futuro prospero. Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ha affermato al termine del confronto: “Nell’affrontare la crisi economica stiamo facendo il massimo per garantire il giusto equilibrio tra la solidarietà e il senso di responsabilità fra gli Stati membri. Dobbiamo però rivolgere un’attenzione perlomeno equivalente alla solidarietà e al senso di responsabilità tra giovani e anziani. Solo mantenendo la solidarietà fra i popoli e le generazioni al centro dei nostri interventi riusciremo a sormontare la crisi e a porre le basi di un futuro prospero”. Questo “è il collante che tiene unite le nostre comunità. E la posizione delle Chiese e delle comunità religiose permette loro di promuovere la coesione nelle nostre società”. Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, ha dichiarato: “Una generazione persa è una cosa che non possiamo permetterci né a livello socioeconomico né, soprattutto, a livello umano, così come non possiamo permetterci l’esclusione dei più anziani per minore produttività”. “Le Chiese, le sinagoghe, le moschee, i templi, così come le ong, scuole e associazioni ad essi collegate, sono luoghi di aggregazione a livello locale, che possono quindi dare un contributo importante al miglioramento della comprensione e della conoscenza reciproca fra le generazioni”.

La voce dei vescovi cattolici. Mons. André-Joseph Leonard ha affermato che, fra le diverse possibili opzioni (ricorso alle migrazioni, sostegno alle famiglie), per dare un futuro alla società europea “è da preferire l’aiuto alle famiglie, favorendone la stabilità, che è la sola opzione di lungo respiro per uscire dalla crisi”. Ciò implica “decisioni coraggiose in materia di politica fiscale, di aiuti ai nuclei numerosi e altre misure sociali per preservare l’equilibrio tra vita famigliare e lavoro”. In tale contesto, mons. Gianni Ambrosio ha ribadito “la necessità di proteggere la domenica come giorno di riposo settimanale comune in tutta Europa”. “Esso è di importanza fondamentale” per le relazioni tra le persone, per la vita sociale e spirituale di ogni persona, per la comunità locale. Mons. Adolfo Gonzales-Montes, facendo riferimento alla situazione nel suo Paese, la Spagna, ha chiesto “politiche solide e veramente efficaci per contrastare la disoccupazione giovanile” e ha indicato il ruolo-chiave che possono svolgere i fondi europei. Mons. Virgil Bercea, romeno, ha invece posto l’accento sul fatto che molte famiglie dell’est vivono situazioni difficili in quanto molte persone devono emigrare per poter lavorare, e i figli crescono in tal caso senza la vicinanza e il ruolo essenziale dei genitori. In tal senso ha invitato le istituzioni comunitarie “a mettere in opera iniziative che favoriscano lo sviluppo economico e il mercato del lavoro” nei Paesi dell’est.

da: SIR del 12/07/12

Non c’è futuro senza famiglia

L’Italia sta scoprendo in grave ritardo che i dati sulla situazione delle famiglie sono allarmanti. A emergere non è soltanto la difficile situazione economica che molti nuclei familiari stanno affrontando in questi ultimi anni; ancora più compromessa è la dinamica relazionale che vede sempre più confusi i più giovani e sempre più disillusi gli adulti.

Che cosa sta succedendo? Succede che quasi metà dei giovani italiani, tra i 25 e i 34 anni, vive  ancora con i genitori. Succede che solo 1 coppia su 3 in Italia ha figli (vent’anni fa era 1 coppia su 2). Succede che diminuiscono i matrimoni, aumentano i divorzi e si diffondono forme “nuove” di convivenza: single con single, single con figli, nuclei allargati.

La questione economica è certamente importante. Molti commentatori la usano diffusamente per spiegare questi dati. Ma c’è molto di più: a causare queste condizioni è una distorsione del senso stesso di famiglia, che è tutta antropologica. L’emancipazione della donna è diventata lotta contro il maschio ed emancipazione della maternità.

Quale miglior modo per emanciparsi dalla maternità che equiparare rapporti aperti alla vita e fecondi a rapporti infecondi? L’indifferenza sessuale (teoria del gender) è il nuovo nome dell’infecondità. In tempi difficili le famiglie numerose erano per i padri e le madri una chiara risposta comunitaria alla crisi, una risposta di fiducia nella propria forza di generare ed educare una prole in grado di lavorare, migliorare la qualità della vita, “risollevare” la famiglia nell’ascensore sociale. Un figlio era come messaggio di salvezza e di riconciliazione del mondo.

Oggi i dati dell’Istat ci dicono che l’ascensore sociale è bloccato, anzi, volge inevitabilmente verso il basso. Le coppie sono scoraggiate a fare figli perché non credono di poter garantire loro una vita “dignitosa”. La poca fiducia in se stessi, un certo egoismo che si sviluppa nei momenti di difficoltà e tensione, l’incapacità di reagire e pensare ad un futuro diverso: ecco i veri fattori che scoraggiano a “fare famiglia”. I figli, quelli da fare o quelli già fatti, sono le prime vittime di tutto questo.

Un Paese a crescita zero che non sa più dialogare con i giovani e sacrifica sull’altare del relativismo le nuove forze che rinnovano una società e la fanno crescere. Si diffonde la cultura “gender” che nega la differenza sessuale e promuove nei dibattiti televisivi, nelle telenovelas, nelle sit-com, nelle fiction e nelle pubblicità l’indifferenza sessuale.

Allo stesso tempo sempre più spesso i media ci fanno assistere a vere e proprie parodie delle famiglie “tradizionali”, mostrando contesti familiari plastificati e senza tensioni, da sogno, che sono in contrasto con le fisiologiche difficoltà che tutte le famiglie normali vivono nel loro contesto quotidiano. È una sorta di “anti-genesi”, una vera “ferita antropologica”.

In questo contesto diventa necessario anteporre l’ecologia delle relazioni umane a tutte le nostre priorità. Per salvare l’uomo stesso e il senso del suo stare nel mondo. È un lavoro lungo che trova un valido supporto nella Dottrina Sociale della Chiesa. Basta ricordare il beato Giuseppe Toniolo, a cui la sezione di Agorà di questo numero è interamente dedicata. Infatti, vi si  riportano le relazioni svolte nel Laboratorio DSC dedicato alla beatificazione di questo straordinario protagonista del cattolicesimo sociale.

Toniolo esprime bene la sintesi tra famiglia, lavoro e festa nel essere insieme padre, docente universitario, autentico campione di solidarietà sociale. Aspetti tutti riassunti in una tenera lettera mandata ad un suo allievo, nel 1879, in cui Toniolo così scriveva: “Ci sono degli amori che deprimono e che dissipano; altri che sospingono all’operosità buona e proficua. Le auguro quei conforti veri e inestimabili, che accompagnano sempre il connubio cristiano, e di cui io (contro i miei meriti) feci e faccio esperimento”.

Unire dunque: famiglia, lavoro e impegno sociale. Ancora oggi ci sono moltissime strozzature alla capacità lavorativa delle famiglie, soprattutto delle donne. Basti pensare al grave ritardo in cui ci troviamo, rispetto alle economie più avanzate, nella presenza capillare e diffusa di asili nido che possano permettere alle madri di armonizzare la vita lavorativa e quella familiare (ad oggi quasi una madre su tre abbandona il lavoro dopo la nascita del primo figlio).

Come avvertiva, nel 2004, l’allora Presidente Ciampi: “una società evoluta non può rinunciare né all’impegno pubblico della donna, né al suo ruolo di madre. Le culle vuote sono il vero problema della società italiana”.

Proposte concrete possono trovarsi, così come è stato fatto nel recente rapporto “La famiglia in Italia” dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia. Il rapporto individua diversi strumenti per mettere insieme famiglia e lavoro: locali e spazi dei luoghi di lavoro dedicati ai figli, l’uso dei congedi genitoriali, gli aiuti alle famiglie che si prendono cura degli anziani non autosufficienti, i sostegni alle famiglie fragili (con minori in tutela o a rischio di allontanamento, in cui i genitori sono separati/divorziati, famiglie migranti).

A questi vanno aggiunti il rilancio del modello economico-sociale che è l’impresa familiare e di quello cooperativo tra più famiglie che lo stesso Toniolo amava richiamare nei suoi studi. Sono punti essenziali, se si vuole parlare di “politiche familiari” così come intese nella letteratura scientifica utilizzata nelle rilevazioni OCSE: politiche destinate a creare e ricollocare risorse per i nuclei famigliari e per i figli a carico.

Bisogna rendere amici della famiglia il lavoro, la scuola, l’ospedale, il negozio, i centri per gli anziani. Bisogna tornare al family mainstreaming contro le pressioni della cultura gender. Bisogna ritornare ad un pensiero globale sulla famiglia e abbandonare definitivamente l’attuale pensiero frammentato sulle “famiglie” che, incapace di fare sintesi, crea divisioni e trincee.

Se i tentativi di eliminare l’aut-aut lavoro o famiglia sono primi passi utili a risolvere alcune criticità nel breve periodo, non si deve trascurare l’aspetto spirituale e relazionale delle famiglie, aspetto ben più complesso, almeno in apparenza. Ad essere trascurata è l’importanza di strumenti molto semplici che sanno mettere insieme famiglie e comunità e che necessitano di un urgente ritorno nel panorama sociale.

Il primo e più immediato modo per stare insieme è la festa. Festa è stata il VII Incontro delle Famiglie, tenutosi a Milano dal 30 maggio al 3 giugno, che ha visto partecipare famiglie da tutto il pianeta in un contesto di gioia, dialogo e spiritualità che non si vedeva da molto tempo.

Famiglie, lavoro e festa. Tutto insieme, senza nessuna scelta di priorità che esclude il resto. Lo stesso Benedetto XVI, nella lettera di introduzione a questo grande evento, così si è espresso: “Il lavoro e la festa sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra i coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr Gen 1-2) ci dice che famiglia, lavoro e giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana.”

L’aver visto molte famiglie insieme ha ridato un forte rinnovamento di speranza. Si fanno così avanti nuove forme di collaborazioni: famiglie giovani che si danno una mano e fanno comunità, comunità parrocchiali che organizzano corsi post-matrimoniali per supportare e aiutare le coppie nei loro momenti più critici, la riscoperta del racconto, della testimonianza di vita nell’educazione dei figli. La rinascita della fratellanza e del rispetto, il ritorno alla dimensione sociale del nucleo familiare che scopre, piano piano, di non essere più un’isola.

La festa è un fattore di reciproca riconciliazione che non va più messo in secondo piano. Attualissima è la lezione del Vangelo nella parabola del figliol prodigo, in cui la festa diventa il momento che sancisce il ritorno del figlio “perduto” nella casa del padre che, nel rispetto di quella che è la sussidiarietà, lo aveva lasciato partire. Ammazzare il vitello grasso, vestirsi dell’abito più bello, l’anello più prezioso. Onorare, santificare le feste e stare insieme.

Stare in famiglia, in fondo, non è altro che riscoprire e ritrovare la capacità di amare: se stessi, i propri familiari, gli altri. La famiglia quale segno d’amore per la società. La Dottrina Sociale ce lo ricorda a chiare lettere: “La famiglia, comunità naturale in cui si esperimenta la socialità umana, contribuisce in modo unico e insostituibile al bene della società.

La comunità familiare, infatti, nasce dalla comunione delle persone: La “comunione” riguarda la relazione personale tra l’“io” e il “tu”. La “comunità” invece supera questo schema nella direzione di una “società”, di un “noi”. La famiglia, comunità di persone, è pertanto la prima “società” umana.”(Compendio DSC, 213).

A Milano, davanti a oltre un milione di persone, il Papa ha incoraggiato e sostenuto non il paradigma della famiglia da cartolina, ma quella che vive concretamente la realtà sociale e subisce tutti i drammi della crisi, delle incomprensioni, delle separazioni. Va letta così l’attenzione particolare dedicata ai divorziati, di cui Benedetto XVI coglie tutta la sofferenza.

Nella sua Omelia di Domenica 3 giugno, davanti ad una folla oceanica, il Papa ha ricordato alle famiglie: “Nella misura in cui vivrete l’amore reciproco e verso tutti, diventerete un Vangelo vivo, una vera Chiesa domestica”. Immancabile anche un richiamo alla necessità di “armonizzare i tempi del lavoro e le esigenze della famiglia, la professione e la maternità, il lavoro e la festa.”

La festa milanese ha mostrato che il cuore della società sono le relazioni tra persone e non l’individualismo né lo statalismo. Lo ha mostrato concretamente in variegate forme e senza stare sulla difensiva. Il Vangelo e la DSC ci salvano dagli “svuotamenti sociali”, dal consumismo che diventa illusoria ragione escatologica e da un assistenzialismo che annulla la partecipazione democratica.

Oltre un secolo fa Giuseppe Toniolo ricordava ai cattolici il loro ruolo di protagonisti per costruire una società migliore. Nel 1886 Toniolo così diceva: “I cattolici dovranno combattere da una parte l’economia individualista e liberista e dall’altra l’economia panteista o il socialismo di Stato. Solo per virtù di tali principi essi riusciranno a salvare ad un tempo le ragioni della libertà individuale privata e quelle del progresso del corpo sociale: ragioni oggidì alternamente compromesse da un liberalismo che dissolve e da una statolatria che soffoca e uccide.”

Durante la festa delle Famiglie, Benedetto XVI si è rivolto ai politici per riscoprire, insieme, il senso di uno Stato per i cittadini. Egli ha ricordato, nel suo incontro con le autorità, che per lo Stato “appare preziosa una costruttiva collaborazione con la Chiesa, senza dubbio non per una confusione delle finalità e dei ruoli diversi e distinti del potere civile e della stessa Chiesa, ma per l’apporto che questa ha offerto e tuttora può offrire alla società con la sua esperienza, la sua dottrina, la sua tradizione, le sue istituzioni e le sue opere con cui si è posta al servizio del popolo.”

Ancora una volta si ribadisce che la tradizione della Chiesa e la DSC possono guidarci nella riscoperta di quello che è il senso del nostro stare insieme con gli altri. Non ci dà ricette, né semplici liste di priorità. Ci fornisce una bussola, dei principi su cui fondare l’agire del cristiano e degli uomini di buona volontà.

Una bussola i cui punti cardinali sono principio-persona, sussidiarietà, solidarietà, bene comune. La famiglia è la sintesi più potente di questi cardini, l’orizzonte verso cui politica, impegno sociale, lavoro culturale, devono tornare a guardare se il futuro lo si vuole costruire e non soltanto declamare.

di Claudio Gentili, Direttore de “La Società”

ROMA, martedì, 26 giugno 2012 (ZENIT.org) –

Indizione dell’anno della fede. L’annuncio del Santo Padre

Il Papa, nella Messa per i nuovi evangelizzatori, nella Basilica Vaticana, ha indetto un Anno della Fede. Queste le sue parole:

“Proprio per dare rinnovato impulso alla missione di tutta la Chiesa di condurre gli uomini fuori dal deserto in cui spesso si trovano verso il luogo della vita, l’amicizia con Cristo che ci dona la vita in pienezza, vorrei annunciare in questa Celebrazione eucaristica che ho deciso di indire un “Anno della Fede”, che avrò modo di illustrare con un’appositaLettera apostolica. Esso inizierà l’11 ottobre 2012, nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, e terminerà il 24 novembre 2013, Solennità di Cristo Re dell’Universo. Sarà un momento di grazia e di impegno per una sempre più piena conversione a Dio, per rafforzare la nostra fede in Lui e per annunciarLo con gioia all’uomo del nostro tempo”.

All’Angelus il Papa ha ribadito:

“Come già ho fatto poc’anzi durante l’omelia della Messa, approfitto volentieri di questa occasione per annunciare che ho deciso di indire uno speciale Anno della Fede, che avrà inizio l’11 ottobre 2012 – 50° anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II – e si concluderà il 24 novembre 2013, Solennità di Cristo Re dell’universo. 
Le motivazioni, le finalità e le linee direttrici di questo “Anno”, le ho esposte in una Lettera Apostolica che verrà pubblicata nei prossimi giorni. Il Servo di Dio Paolo VI indisse un analogo “Anno della fede” nel 1967, in occasione del diciannovesimo centenario del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo, e in un periodo di grandi rivolgimenti culturali. Ritengo che, trascorso mezzo secolo dall’apertura del Concilio, legata alla felice memoria del Beato Giovanni XXIII, sia opportuno richiamare la bellezza e la centralità della fede, l’esigenza di rafforzarla e approfondirla a livello personale e comunitario, e farlo in prospettiva non tanto celebrativa, ma piuttosto missionaria, nella prospettiva, appunto, della missione ad gentes e della nuova evangelizzazione”
.

Parole del Papa alla preghiera dell’Angelus, 16 ottobre 2011 (Audio)

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