Benedetto XVI: l’eloquenza del silenzio nella comunicazione

Per la 46ma giornata delle comunicazioni sociali del 2012 che si terrà il 20 maggio

Benedetto XVI lancia un messaggio dal titolo “Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione” dove esorta tutti a praticare momenti di silenzio nel dialogo con l’altro, perché, dove vi è un eccesso di comunicazione vi è stordimento e l’uomo è impossibilitato ad entrare in autentico contatto con sè e con l’altro.

Il silenzio deve essere rivalutato e considerato parte integrante della dialettica comunicativa. A tal proposito il papà afferma:

“E’ importante accogliere le persone che formulano questi interrogativi, aprendo la possibilità di un dialogo profondo, fatto di parola, di confronto, ma anche di invito alla riflessione e al silenzio, che, a volte, può essere più eloquente di una risposta affrettata e permette a chi si interroga di scendere nel più profondo di se stesso e aprirsi a quel cammino di risposta che Dio ha iscritto nel cuore dell’uomo.  L’uomo non può accontentarsi di un semplice e tollerante scambio di scettiche opinioni ed esperienze di vita: tutti siamo cercatori di verità e condividiamo questo profondo anelito, tanto più nel nostro tempo in cui “quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali”

(Messaggio integrale per la GIORNATA DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI 2012)

“unità dei cristiani, dono e impegno”

Nell’Angelus Benedetto XVI ricorda l’importanza della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Per camminare insieme occorre l’impegno quotidiano di tutti: «Un dono di Dio che, però, per usare un’espressione che ripeteva spesso il Beato Papa Giovanni Paolo II, diventa anche impegno».

Benedetto XVI, nel corso dell’Angelus di questa domenica che cade a metà della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, richiama i pellegrini giunti in piazza San Pietro a unirsi alla parole di Gesù alla vigilia della sua passione: «Che siano una sola cosa perché il mondo creda».

Con un occhio alle tensioni internazionali e in particolare del Medio Oriente, il Papa ha voluto ricordare che «l’unità che viene da Dio esige il nostro quotidiano impegno di aprirci gli uni agli altri nella carità».

Per la Settimana di quest’anno, cominciata il 18 e che terminerà il 25 gennaio, è stato scelto il tema Tutti saremo trasformati dalla vittoria di Gesù Cristo nostro Signore. I sussidi sono stati preparati da un gruppo polacco. «La Polonia«, ha sottolineato Benedetto XVI, «ha conosciuto una lunga storia di lotte coraggiose contro varie avversità e ha ripetutamente dato prova di grande determinazione, animata dalla fede. Per questo le parole che formano il tema sopra ricordato, hanno una risonanza e una incisività particolari in Polonia. Nel corso dei secoli, i cristiani polacchi hanno spontaneamente intuito una dimensione spirituale nel loro desiderio di libertà ed hanno compreso che la vera vittoria può giungere solo se accompagnata da una profonda trasformazione interiore».

Al termine dell’Angelus il Pontefice ha dato appuntamento al prossimo mercoledì, nella basilica di San Paolo fuori le Mura per la solenne celebrazione dei vespri che conclude la settimana. Con Benedetto XVI saranno presenti anche i rappresentanti delle altre Chiese e Comunità cristiane.

da: Famiglia cristiana  n.4  22 Gennaio 2012

Per leggere in forma integrale l’ Angelus del Papa

video

Ebrei e cattolici insieme per l’unico «sì» alla vita

dialogo tra due fedi

 

 

Giornata del dialogo tra le due fedi

17 gennaio 2012

 

La domanda del Signore a Caino, «Dov’è Abele, tuo fratello?», è come un grido di dolore con cui Dio chiede conto della prima morte violenta nella storia della salvezza. Con il delitto che viene narrato all’inizio del Pentateuco, la Bibbia mostra come il «sì» alla vita e la condanna dell’omicidio siano principi irrinunciabili. Concetti che, dopo il diluvio, il Signore ribadisce quando stabilisce un’alleanza con l’umanità rappresentata da Noè e dalla sua discendenza: «Del sangue versato, ossia della vostra vita, io domanderò».

Ed ecco che il Vivente interverrà, poi, per salvare Isacco legato sul monte Moriah, Giuseppe venduto dai fratelli o il popolo ebraico schiavo in Egitto.

Finché, con il passaggio del Mar Rosso, il patto sul Sinai sancisce in modo definitivo il diritto alla vita.

Lo fa nella prescrizione Non uccidere, sesta Parola del Decalogo (il quinto comandamento secondo la tradizione cattolica) che quest’anno è al centro della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo fra cattolici ed ebrei.

 

L’appuntamento che è giunto alla sua 23ª edizione viene celebrato oggi in Italia. «Le due esperienze religiose – spiega il vescovo di Pistoia, Mansueto Bianchi, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei – sono poste sulla frontiera della vita, della sua origine e del suo significato.

Questo è peraltro un tema caldo nel rapporto con la cultura contemporanea, soprattutto in Occidente. Perciò credo che ebraismo e cattolicesimo siano chiamati ad annunciare con forza la sacralità della vita come dono di Dio».

La Giornata si celebra dal 1990 alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. «In un mondo dove i contatti sono sempre più stretti – spiega il presidente dell’Assemblea dei Rabbini – è importante la conoscenza reciproca che rappresenta l’unico strumento per sconfiggere l’ignoranza e quindi i pregiudizi».

E Bianchi chiosa: «Dopo tanti silenzi o tanti gridi che hanno attraversato i secoli, questa iniziativa dona la possibilità di un colloquio che dispone ad ascoltare le ragioni dell’altro e le meraviglie che il Signore opera nella storia di ciascuno. Il dialogo è insieme la gioia e lo stupore dell’incontro, la constatazione della differenza, la speranza di poter procedere insieme verso la direzione che Dio ci indica».

 

messaggio integrale per la giornata del dialogo tra le due fedi

Giacomo Gambassi e Mauro Bianchini

 

Qohelet, il lieve sussurro nel gran silenzio di Dio

Uno pseudonimo ebraico, Qohelet, rimanda al vocabolo qahal, «assemblea», in greco ekklesía, donde il greco-latino  Ecclesiastes è divenuto la titolatura comune nell’Occidente cristiano di un’opera tuttora oggetto di differenti decifrazioni.
Interpretato come testo pessimistico, scettico, considerato espressione dell’ideologia dell’aurea mediocritas,  influenzato dalla filosofia greca del III secolo a. C., ritenuto una guida ascetica di distacco e disprezzo del mondo a  parte della tradizione cristiana, è stato negli ultimi decenni da qualche esegeta riportato nell’alveo rassicurante  dell’ottimismo a causa di alcuni passi, per la precisione sette (2,24-25; 3,12-13; 3,22; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-10), dai  quali emergerebbe un appello al sereno godimento delle scarse gioie che la vita riserva. A questa interpretazione si accosterebbe, paradossalmente, anche lo scrittore francese Albert Camus quando, nel Mito di Sisifo, vede in Don  Giovanni «un uomo nutrito dall’Ecclesiaste», «un pazzo che è un gran saggio» perché «questa vita lo appaga». (…)
La tonalità dominante è quella dell’inconsistenza, emblematicamente incarnata dal vocabolo caro a  Qohelet, hebel/   habel, che risuona ben 38 volte, talora nella forma superlativa habel habalîm, il celebre vanitas vanitatum della  versione latina della Volgata: il termine allude al fumo, al vapore, al soffio e quindi definisce la realtà come vuoto,  vacuità, caducità irreversibile. (…)
L’incrinatura che fa scoprire la presenza dell’hebel nell’essere e nell’esistere si incontra anche nell’intelligenza umana.  Qohelet è un sapiente, uno scriba, un intellettuale (12,9-10); disprezza la stupidità, per ben 85 volte introduce le sue riflessioni in prima persona, consapevole di un’originalità del suo pensiero. Eppure il risultato finale del conoscere è  aspro: grande sapienza è grande tormento, chi più sa più soffre (1,13-18). «Anche il filosofo che crede di guidare il  mondo — scrive un commentatore, Daniel Lys — non guida che il vento. Il paradosso della sapienza è che la sapienza  suprema consiste nel sapere che la sapienza è vento quando pretende di essere suprema».
Non c’è, allora, nessuna differenza tra sapienza e stupidità? No, risponde Qohelet, una differenza c’è ed è terribile: il  sapiente è tormentato, l’ignorante è ilare nella sua beceraggine. Solo l’intelligente vede il vuoto che rode l’essere e la  morte che pervade ogni atto che si compie sotto il sole. (…)
Il Dio di Qohelet è un Deus absconditus: «La immensità di Dio non ha per Qohelet nulla di rallegrante; meraviglia in sé,  resta pura impenetrabilità» (Horst Seebass).
I buoni motivi che Dio — chiamato 32 volte su 40 ha-‘elohîm, cioè «il Dio», in modo freddo e distaccato — può avere  sono per noi privi di incidenza perché ci restano sconosciuti. La sua opera contiene in sé una incomprensibilità tale da  spegnere ogni interrogativo e rendere vana, non solo la contestazione, ma anche ogni tentativo di decifrazione del suo  senso (si veda soprattutto 4,17-5,6).
A questo punto scatta un interrogativo: come possiamo, dopo aver letto tutte le pagine di questo autore dai temi  spesso sconcertanti e fin provocatori, definire Qohelet «parola di Dio»? O ancora, come ha fatto il canone delle  Scritture ebraiche, e quindi la comunità giudaica e cristiana, ad accogliere al proprio interno un testo apparentemente «scandaloso»?
Certo, l’interpretazione «ascetica», che ha usato l’opera come se fosse un appello al distacco dalle cose, ha aiutato  l’inserimento di Qohelet nelle Scritture o, almeno, è servita a smorzarne la provocazione come, d’altronde, appare  nell’epilogo del redattore finale che riduce l’insegnamento di Qohelet alla dogmatica sapienziale classica (12,13-14).
I rabbini per «giustificare» Qohelet sono ricorsi anche ai suoi sette appelli al godimento delle gioie lecite, appelli  distribuiti nell’opera, oppure al fatto curioso e allegorico che la prima e l’ultima parola del libro (rispettivamente:  dibrê, «parole» e ra’, «perverso, cattivo») si ritrovano nella Tôrah, cioè nella Legge!
In realtà, c’è una strada per comprendere come questa teologia così nuda e povera possa a buon diritto far parte ed  essere coerente con la «Rivelazione» biblica. Per la Bibbia, infatti, la parola divina s’incarna e si esprime attraverso la  storia e l’esistenza. Essa, perciò, acquista anche rivestimenti miseri, può farsi domanda, supplica (Salmi), persino  imprecazione (Giobbe) e dubbio (in Qohelet). Si vuole, così, affermare che nella stessa crisi dell’uomo e nel silenzio di  Dio si può nascondere una parola, una presenza, un’epifania segreta divina. Il terreno umano dell’interrogativo amaro, come quello di Giobbe, può essere misteriosamente fecondato da Dio.
La Rivelazione, quindi, può passare attraverso le oscurità di un uomo come Qohelet, disincantato e in crisi di sapienza,   ormai vicino alla frontiera del silenzio e della negazione. Il silenzio di Dio e della vita non è per la Bibbia   ecessariamente una maledizione, ma è una paradossale occasione d’incontro divino lungo strade inedite e   sorprendenti. Qohelet è, dunque, la testimonianza di un Dio povero che ci è vicino, non in virtù della sua onnipotenza,  ma della sua «incarnazione», ed è in questa fratellanza che salva e si rivela.

 

in “Corriere della Sera” del 25 novembre 2011

Essere cristiani oggi

Se tramonta la trascendenza

Titolo essenziale quello scelto da Giovanni Ferretti per una sua organica raccolta di saggi: Essere cristiani oggi (LDC,  pp. 184, € 11,50) affronta infatti con profondità e immediatezza «il “nostro” cristianesimo nel moderno mondo  secolare», come recita il sottotitolo. Sono considerazioni che l’autore già docente di filosofia teoretica all’Università di  Macerata, di cui è stato anche rettore – ha avuto modo di elaborare in questi ultimi anni facendo tesoro di un dialogo  fecondo tra filosofia e fede cristiana, in cui il suo essere presbitero della diocesi di Torino non ha costituito un ostacolo  ma anzi un prezioso arricchimento. Cogliendo «la crisi ormai irreversibile della cristianità» come uno dei più  significativi «segni dei tempi» che i cristiani dovrebbero sapientemente discernere e affrontare anziché negare,  Ferretti ne analizza le radici e le manifestazioni, trasformandolo da rassegnata constatazione a stimolo virtuoso per un  modo nuovo eppur antico di porsi dei cristiani nella società. Già l’interrogativo che pone in apertura – «tramonto o  trasfigurazione del cristianesimo?» – è eloquente sull’approccio offerto dal volume. Se infatti il «tramonto della trascendenza» è una tendenza culturale e sociologica ben più vasta della minor rilevanza di alcune tradizioni cristiane  nella società contemporanea, questo può aprire nuove prospettive alla comprensione e all’annuncio di Gesù Cristo e  del suo Vangelo: l’uomo Gesù che ha saputo narrare il volto del Padre non costituisce «alcuna opposizione alla piena  fioritura dell’uomo, bensì la massima vicinanza e il massimo impegno alla sua più compiuta umanizzazione», come  paradossalmente ricorda il teologo protestante Paolo Ricca: «Dio si è fatto uomo perché noi non eravamo ancora uomini».

Proprio per questo il discorso offerto da Ferretti non riguarda solo i cristiani ma anche – e direi forse soprattutto – chi  cristiano non è o tale non si ritiene più: «ripensare la risurrezione» in modo anche critico rispetto a un certo  immaginario cristiano non è mero esercizio teorico, ma la possibilità di coglierla come «permanenza in Dio, anche  dopo la morte, della nostra “identità personale”», come meta finale di ogni essere umano e riscatto di ogni faticosa  ricerca di comunione e di gioia condivisa.
Ma la convincente riflessione di Ferretti non si ferma agli aspetti più «rivelativi» della fede cristiana e del suo  coniugarsi con l’oggi della storia: passando attraverso un «ripensamento della carità nella società secolarizzata»,  affronta con lucidità il difficile dialogo con il mondo «laico» sui valori, sulla loro relatività o assolutezza, sulla loro  genesi e condivisione, sulle minacce che li sovrastano e le potenzialità anche e soprattutto civili che essi contengono.  Decisiva in questo ambito delicato è la dialettica tra «l’assoluto della verità» e «il carattere inviolabile della libertà  umana». Per l’autore è quindi evidente che «valori non negoziabili o irrinunciabili non significa e non deve significare “non argomentabili” e tanto meno imponibili all’altro con la forza e la violenza». Un’evidenza che purtroppo non  sempre è riconosciuta da tutti, ma che appare indispensabile per una sana crescita di una società civile libera e  democratica.

Enzo Bianchi

in “La Stampa” del 26 novembre 2011

 

Prima lezione di teologia

 

Giuseppe Ruggieri, Prima lezione di teologia, Laterza, Bario 2011, pp.169 Euro 12,00

 

Descrizione:

La teologia applica la metodologia scientifica al discorso su Dio e vuole quindi accordare il pensiero di questo mondo con il messaggio cristiano. Ma il discorso su Dio nel cristianesimo del Nuovo Testamento non è in ultima analisi una negazione del sapere di questo mondo? E, allora, la teologia è compatibile con il cristianesimo? Ed è possibile una teologia che resti fedele al messaggio di Gesù di Nazaret?

“La teologia, come viene qui intesa, è semplicemente il ‘discorso su Dio’ che gli uomini non riescono a evitare, la cui presenza si riscontra quindi in tutte le culture umane. Tutti gli uomini sono ‘teologi’, parlano cioè di Dio sia affermandolo e pregandolo, ma anche negandolo o dubitando di lui. Ma questo discorso su Dio nella storia degli uomini tutti ha suscitato anche dei discorsi che hanno la caratteristica di essere funzionali, secondari. Nella storia dell’Occidente (ma non solo in essa) al discorso su Dio che si ritrova nel linguaggio comune si è infatti aggiunto un discorso sul discorso che ha avuto sempre una duplice motivazione: la prima, piuttosto critica e negativa, che rende attenti a non trasferire in Dio i sentimenti dell’uomo che spesso sono discutibili e pericolosi; la seconda (che è poi il risvolto della prima), piuttosto positiva, che tende a dare rigore al discorso a partire da ciò che è specifico di Dio in qualunque modo lo si concepisca. E anche questo discorso sul discorso su Dio si chiama teologia”: Giuseppe Ruggieri introduce alla disciplina che studia Dio, prendendo in esame l’esperienza religiosa cristiana nella sua dimensione dottrinale e di riflessione intellettuale.

 

 

Avvento e Natale

on-line il sussidio

E’ on line il sussidio di Avvento-Natale 2011-2012, che viene offerto dagli Uffici pastorali della Segreteria Generale della CEI, quale strumento di lavoro a cui attingere a differenti livelli, con libertà e flessibilità.
“La riscoperta del progetto di Dio, a cui la Liturgia ci chiama nell’Avvento e nel Natale – spiega mons. Crociata nell’Introduzione –  dispiega la sua forza educativa innanzitutto verso i credenti adulti; essi saranno poi autentici formatori anche nei confronti dei giovani e dei bambini”.

L’ultima lettera di Alda Merini

Il 1° novembre di due anni fa si spegneva all’ospedale San Paolo di Milano Alda Merini. La notizia mi raggiunse a sera,  mentre rientravo da un viaggio in America Centrale, e a comunicarmela era un giornalista che naturalmente voleva  intervistarmi, riconoscendo la vicinanza che la poetessa aveva testimoniato a più riprese e in pubblico nei miei  confronti. Effettivamente l’amicizia era sorta quando io vivevo a Milano e si era manifestata da parte mia anche in tre  prefazioni che avevo scritto ad altrettanti suoi poemetti di forte intensità spirituale. Ma soprattutto il filo era tenuto  dalle sue interminabili telefonate che intrecciavano il suo affetto per me col libero sfarfallio della sua fantasia e con una  sorprendente caratteristica che la assimilava agli antichi rapsodi o aedi.
La Merini, infatti, creava spesso le sue poesie oralmente e spingeva il suo interlocutore a raccoglierle per scritto o  semplicemente – come nel mio caso – le affidava all’ascolto. Devo riconoscere di essermi pentito di non aver  cristallizzato quella voce nelle righe di un foglio, e d’essermi solo lasciato condurre dal flusso delle sue immagini, così  inquiete e cangianti, delle sue parole iridescenti come in un caleidoscopio, del balenare delle sue intuizioni spesso  folgoranti.
L’ultima telefonata fu da quel l’ospedale ove era ricoverata e ove veniva curata, credo, a fatica, dato il suo  temperamento insofferente di ogni continuità o regolarità, anche terapeutica.
Nello stesso timbro della voce intuivo la fatica che si univa a una sorta di «basso continuo» destinato esplicitamente a  me. Alda, infatti, non si era rassegnata alla mia partenza da Milano per Roma: la considerava come una fuga o un  tradimento nei confronti non solo suoi ma anche di una città che mi amava. Nella sua casa lungo i Navigli, immersa  nella confusione, persino nel degrado, lei mi aveva accolto la prima delle poche volte in cui la visitai, con una vera e  propria festa. Aveva costellato di mazzi di fiori il disordine estremo delle sue cose, aveva convocato un violinista e il  suo cantante preferito che metteva in musica i suoi versi e si era messa lei stessa al pianoforte, che suonava con  passione, per offrirmi un benvenuto caloroso secondo una sua tipica cifra simbolica, ossia l’eccesso nel donare.
Infatti, cercando spesso di rifiutare i suoi molteplici regali, io combattevo quella che chiamo la sua “autodepredazione”, che si manifestava nei confronti di tutti, attuando quel motto, che mi pare fosse di D’Annunzio,  secondo il quale «io ho solo ciò che ho donato». Ma, ritornando a quell’ultimo dialogo telefonico dall’ospedale, un  argomento era stato dominante. Di lì a poco io avrei presentato a Benedetto XVI, nella Cappella Sistina, quasi trecento  artisti provenienti da tutto il mondo, secondo ogni genere di arte. Naturalmente avevo invitato anche lei che  desiderava «dire alcune cose al Papa», come mi ripeteva. Già aveva pensato all’abito da indossare, mutando mille volte  parere e convincendosi alla fine che sarei stato io a trovarle quello adatto. Il 21 novembre 2009, data dell’incontro, si avvicinava e lei, dal letto dell’ospedale, percepiva l’impossibilità di quella sua enuta a Roma e ne  soffriva.
Mi confidò, allora, di essersi decisa a scrivere una lettera a Benedetto XVI che ammirava, pur essendo stata legata  idealmente e appassionatamente alla figura di Giovanni Paolo II.
Evidentemente ritenevo che fosse solo un sogno, nonostante l’ostinazione con cui mi ripeteva di farmi tramite per la  consegna. Lei confermava che l’avrebbe dettata ad alcuni suoi amici e amiche che l’assistevano e che aveva convinto a  preparare dipinti o foto o testi che accompagnassero la sua lettera. In verità, dopo la sua morte, preso com’ero dai  preparativi del l’incontro della Sistina, non pensai più a quel progetto di Alda, né ricevetti mai la lettera che avrei  dovuto presentare al Papa.
La sorpresa è stata forte quando alcuni mesi fa, per una semplice coincidenza – stavo preparando un altro incontro di  Benedetto XVI con gli artisti, in occasione dei suoi 60 anni di sacerdozio, evento che si è realizzato il 4 luglio scorso –  ebbi una fotocopia della lettera che effettivamente Alda Merini aveva dettato il 28 ottobre 2009, a tre giorni di  distanza dalla sua morte. Dattiloscritta su carta intestata dell’«Azienda Ospedaliera San Paolo Polo Universitario –  Ufficio Relazioni col Pubblico», lo scritto reca in finale la sua tipica firma-sigla e al suo interno custodisce tutta la trasparenza dell’umanità, della spiritualità, della storia sofferta della poetessa.
C’è il rimando ai suoi “allievi”, c’è la confessione delle colpe («io sono un guado pieno di errori»), c’è la dimensione  mistica della sua esperienza personale («ho incontrato faccia a faccia il Signore») e c’è anche il riferimento al suo  desiderio frustrato di incontrare nella Sistina il Papa: «Avrei voluto venire da lei ma me l’hanno proibito per la mia  salute e per riguardo ad Ella» (suggestivo questo segno di umiltà nella consapevolezza della sua “sregolatezza”). Ampio  è lo spazio riservato ai sentimenti materni che hanno tormentato tutta la sua esistenza. Le righe sono quasi intrise di lacrime e striate di amarezza e si fanno fin confuse attraverso il velo della sofferenza. Ritorna alla fine la sua confessione di colpa la fa equiparare alla Maddalena. E a suggello – al di là dell’invocazione di rito «per la malattia e la  guarigione di Alda Merini» – ecco un fulminante guizzo poetico: «Abbracci le donne, sono fredde come il ghiaccio».
Credo sia significativo – ora a distanza di anni – far conoscere questa testimonianza di una poetessa che è stata amata  da tanti lettori e lettrici e che è stata ascoltata con emozione da tanti giovani (ne sono stato spesso testimone) quando  in pubblico narrava senza pudore la sua esperienza drammatica nei manicomi, le sue lacerazioni, i suoi ardori, le sue  ascesi mistiche, la sua carnalità spirituale. È anche un modo per esprimerle gratitudine per un ascolto, una stima e un  affetto che mi aveva sempre riservato, giungendo fino al punto di dedicarmi a mia insaputa un’intera sua raccolta  poetica, La clinica dell’abbandono, pubblicata da Einaudi nel 2003.
A conclusione di questo ricordo molto personale mi tornano in mente alcuni versi di uno dei suoi scritti da lei  prediletti, il Magnificat dedicato a Maria la madre di Gesù, raffigurata nel gesto della “Pietà” michelangiolesca, ossia la  “deposizione” del corpo del Figlio, gesto che s’incrocia, però, con la memoria della maternità che accoglie il suo  bambino sulle ginocchia: «Miserere di me, che sono caduta a terra/come una pietra di sogno./Miserere di me, Signore,  che sono un grumo di lacrime./Miserere di me, che sono la tua pietà./Mio figlio,/grande quanto il cielo./Mio  figlio, che dorme sulle mie gambe…».

in “Il Sole 24 Ore” del 13 novembre 2011

Io sono come la Maddalena
di Alda Merini
Ospedale San Paolo
Milano, 28 ottobre 2009

Sua Santità Benedetto XVI
Santo Padre, mentre La ringrazio, La prego di tenere conto dei continui omaggi molto belli fatti da alcuni miei allievi,  fra i quali Giuliano, i quali, pur onorandoLa, sono assai lontani da Lei. Noi poveri peccatori cerchiamo di onorarLa con  disegni e preghiere, ma non vorremmo toccare l’ambito della superbia in cui è facile cadere. Grazie a Dio il  Cristianesimo trionfa ma attenti alle false meretrici e peccatrici perché Dio ama i peccatori come noi.
Io sono un guado pieno di errori che ho fatto e di cui mi pento.
Santo Padre ho sentito la Terra Santa perché ho incontrato faccia a faccia il Signore. Io sono vissuta nella sporcizia, ho  servito San Francesco e avrei voluto venire da Lei ma me lo hanno proibito per la mia salute e per riguardo ad Ella.  «Peccatore come sono» ma madre sicura che non meritava 4 figli. Sono belli ma non cattolici, alcuni di loro non sanno  di essere battezzati. Vanno a derubare la loro mamma ma sono sempre doni caro Santo Padre. Questi buoni ladroni  sono la mia consolazione e moriranno con me, con i miei dolori.
Hanno pianto, non avevano la mamma.
Ma la mamma è sempre stata con loro, non li ha mai abbandonati. Oh dolce è stato il mio destino al quale ho lasciato i  miei anni. Come è vera la storia di Maddalena, anche io come Maddalena.
Abbracci le donne sono fredde come il ghiaccio. Per la malattia e la guarigione di Alda Merini

Il Cantico dei cantici letto dalle tre grandi fedi

Cantico dei cantici, un convegno a Venezia
di Viviana Kasam

Del Cantico dei Cantici si parlerà per tre giorni a Venezia, dal 3 al 6 novembre, in un convegno organizzato  dall’Università Ebraica di Gerusalemme che metterà a confronto studiosi delle religioni, filosofi, scrittori per esaminare il Cantico in tutti i suoi aspetti: quello letterario/poetico, quello mistico, quello filosofico, e il rapporto con altre tradizioni in cui il sesso può essere una strada per raggiungere l’estasi spirituale (per esempio il buddismo tantrico).
Ai seminari in inglese in francese (non è prevista la traduzione in italiano) parteciperanno Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di Kabbalah , la scrittrice francese Eliette Abécassis, i filosofi Ami Bouganim e Monique Canto- Sperber (che insegna all’Ecole Normale Supérieure di Parigi), Yair Zakovitch, uno dei più quotati esperti biblici, Marco  Ceresa docente di letteratura cinese e studi culturali dell’Asia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Guy Stroumsa,  professore di religioni comparate dell’Università Ebraica di Gerusalemme, il presidente della stessa Università Menachem Ben Sasson, specialista di ermeneutica biblica, Clemence Boulouque, scrittrice specializzata in Kabbalah e  misticismo e Haim Baharier, noto per le sue vertiginose lezioni di ermeneutica biblica. E il giornalista Gad Lerner, che  parteciperà a un dibattito di grande attualità, domenica mattina, su sesso e potere.

 

 

Intervista a Moshe Idel, Haim Baharier e Enzo Bianchi

a cura di Viviana Kasam

Il Cantico dei Cantici: il poema d’amore più conosciuto, più commentato, più tradotto nella Storia, e anche il più  misterioso. Che cosa significa il titolo? Perché un poema così fortemente erotico è stato assunto sin dall’antichità  (Concilio di Yavnè, 90 d.C.), nel canone dell’Antico Testamento? E come mai nelle tradizioni religiose dell’occidente,  quella ebraica, quella cattolica, quella cristiana, la letteralità del testo, che descrive senza mezzi termini un amplesso, è  tata “freudianamente” rimossa in favore di una interpretazione mistica spesso tirata per i capelli, così forzata nel  diniego dell’evidenza da apparire quasi assurda ad un occhio laico e smaliziato?
Giriamo i quesiti a Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di mistica ebraica, che insegna alla cattedra che fu  di Gershom Scholem, Haim Baharier, famoso per le sue lezioni di ermeneutica biblica diventate cult, e Padre Enzo  Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, scrittore, editore di Qiqajon, profondo conoscitore e interprete delle Scritture.

 

Perché il titolo?
Baharier: Se abbracciamo ciò che dice Rashi al riguardo si tratterebbe di una valutazione qualitativa: un canto sopra ogni canto. Oppure un canto per tutti i canti. Seguendo invece il commento di Rabbi Israel Salanter, il Cantico dei  Cantici è un testo paradigmatico della pluralità dei significati e nello stesso tempo dell’univocità: ossia una voce  profonda, separata, sempre identificabile.
Bianchi: Questo titolo – che coincide con la prima riga del testo: “Cantico dei Cantici, che è di Salomone” – è un  superlativo, dunque indica “il canto per eccellenza”, il più sublime tra tutti i canti cantati in Israele. I rabbini dicevano  che c’è una corrispondenza tra questa espressione e il Santo dei Santi, ovvero il luogo più interno del Tempio, sede  della presenza di Dio. E’ un modo simbolico per affermare che la parola di Dio è presente più che mai in questo piccolo  gioiello letterario.


Dunque l’autore fu davvero il re Salomone?

Baharier: Dal punto di vista storico saremmo legittimati ad avere dei dubbi. Se però immaginiamo una sorta di casting  dobbiamo ammettere che il ruolo di autore del Cantico ben si addice a Re Salomone.
Idel: Ritengo di no, il testo è probabilmente più tardo di qualche secolo rispetto al regno di Salomone, ma questa  attribuzione è stata fondamentale per far adottare il Cantico nel canone biblico.
Bianchi: Non è realistico attribuirlo al Re Salomone. Però c’è un senso logico in questa attribuzione, legato al fatto che  nel testo viene citato alcune volte (per l’esattezza sei) proprio il Re Salomone. Approfondendo questo dato, potremmo  chiederci: per una innamorata il suo amato non è forse sempre un re? In quest’ottica è bello pensare che i due  ersonaggi siano in qualche modo un re e una regina, anche se nella realtà materiale del testo sono più probabilmente  un pastorello e una pastorella. L’amore descritto è quello di due ragazzi, è l’amore di tutti i ragazzi innamorati. L’autore, hiunque egli sia, è certamente un poeta raffinato, capace di descrivere l’amore con grande maestria.

 

Ma di quale amore stiamo parlando: amore sacro, amore profano, o entrambi?
Idel: Secondo il suo significato originario, è un canto erotico secolare, che solo più tardi è stato allegorizzato sia nella  tradizione ebraica che in quella cristiana, per adattarsi a nuovi valori religiosi emersi più tardi, a partire dal primo  secolo dopo Cristo.
Bianchi: Direi che il Cantico celebra l’amore umano in tutte le sue infinite sfaccettature, alle quali si può alludere solo in  chiave poetica: la lontananza, il cercarsi, il rincorrersi, il ritrovarsi, l’amplesso… E’ significativo che il nome di Dio  compaia solo alla fine, quando si dice che l’amore è una fiammata, è un fuoco divino. In questo senso, nella tradizione  ebraica il Cantico è diventato ben presto simbolico dell’amore di Dio per il suo popolo; nella tradizione cristiana è  normalmente simbolico dell’amore tra Cristo e la Chiesa o, in ambienti monastici, tra Dio, tra Cristo e il singolo credente. In questo cammino il senso letterale del Cantico fu totalmente oscurato. Quando però si trattò di inserire  questo poema nel canone dell’Antico Testamento molti si opposero, proprio per gli espliciti riferimenti al sesso  contenuti in queste pagine. Fu Rabbi Akiva a farcelo entrare, durante il Concilio di Javne (fine del I secolo d.C.), insistendo sull’interpretazione simbolica di cui si diceva.
Celebri sono le parole da lui usate per giustificare tale inserimento: “Il mondo intero non è degno del giorno in cui il  Cantico dei Cantici è stato donato a Israele: tutte le Scritture infatti sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi!”

in “www.ilsole24ore.com” del 30 ottobre 2011

 

 

Altri contributi

 

“Dopo tanta caccia al vuoto di Dio, sembra Ceronetti aggrapparsi alla preda di quelle consonanti materiche dei dossi e delle pietraie semitiche, quasi per scongiurare l’aveu della conclusione: «Forse perché sei la sera, la morte velata – Cantico, sacro Cantico – di te ho paura”. Il suo non dar tregua al testo…, il suo annerire di contrasti violenti i fondali… non fa che aumentare il fascino della tradizione del Cantico”
“La mia verità attuale sul ‘Cantico’ è questa: il ‘Cantico’ non è un testo mistico. Ha un doppio senso, ne è farcito, ma non un doppio fondo. Canta l’amore bucolico in modi che in nulla corrispondono ai nostri, di vivere e di concepire l’amore… Il Dio biblico integrale cercàtelo altrove: nei Profeti, nel libro dei Salmi, nell’Esodo, se vi può consolare…”

 

 

Don Guanella, prete del fare

Nell’anno in cui don Luigi Guanella vedeva la luce, il 1842, moriva san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Nella sua vita egli avrebbe collaborato con san Giovanni Bosco. Nei suoi stessi anni santa Francesca Cabrini attraversava l’oceano  per essere accanto alla miseria degli emigranti italiani in America, e la stessa opera era compiuta dal vescovo di  Piacenza, Giovanni Battista Scalabrini.
Dopo la sua morte avvenuta nel 1915, sarebbe brillata la figura di don Luigi Orione, del quale Silone ha lasciato un  memorabile ritratto personale in Uscita di sicurezza (1965), frutto di un incontro con lui allora giovane ateo. Lo scorso  nno è stato proclamato beato don Carlo Gnocchi, il prete milanese che aveva dedicato la sua missione alle  piccole vittime della guerra e a una folla di malati. Ancora oggi è viva l’opera e la memoria di don Zeno Saltini, l’artefice  i Nomadelfia…
Potremmo continuare a lungo in questo elenco, risalendo anche nel passato. Abbiamo voluto riservare oggi uno spazio  articolare a un genere letterario che in passato ebbe una straordinaria fortuna e che ora sopravvive ai margini  della cultura più paludata, cioè l’agiografia.
Lo facciamo con una biografia dedicata appunto a don Guanella, un sacerdote della diocesi di Como, nato sulle  montagne confinanti con la Svizzera, a Campodolcino (Sondrio). Oggi la sua immagine salirà solennemente sulla facciata di San Pietro a Roma quando Benedetto XVI lo dichiarerà santo della Chiesa cattolica. Appartiene a quella  “nube di testimoni” – per usare una suggestiva espressione della neotestamentaria Lettera agli Ebrei (12,1) – che hanno  messo in pratica senza glossa il precetto cristiano fondamentale della carità, soprattutto nei confronti degli ultimi della terra.
La loro pagina evangelica di riferimento è stato il capitolo 25 del Vangelo di Matteo nei versetti 31- 46, quando Gesù  “sceneggia” l’approdo estremo della storia in quello che la tradizione ha chiamato «il giudizio finale». Una pagina di  straordinaria potenza che è suggellata da una frase lapidaria rivolta dal Cristo giudice supremo ai giusti: «In verità vi  dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me». E chi fossero questi  “piccoli” lo dicevano già gli stessi giusti quando, rivolgendosi a Cristo un po’ sorpresi, gli domandavano: «Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?

Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto  malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». Sfilano, così, le famose «opere di misericordia corporale e spirituale» che sono l’incarnazione del comando evangelico dell’amore e che sono la cartina di tornasole dell’autentica santità. Forse non è del tutto ineccepibile teologicamente, ma ha un’indubbia verità il verso pascoliano dei Nuovi poemetti  (1909) che affermava: «Chi prega è santo, ma chi fa, più santo».
Luigi Guanella fu un cristiano esplicito, sacerdote cattolico, ordinato nel 1866 da un presule in esilio, mons. Frascolla,  primo vescovo di Foggia, incarcerato prima e agli arresti domiciliari poi a Como, a causa dei contrasti risorgimentali  tra Chiesa e Stato. L’incontro con don Bosco e un temporaneo ingresso tra i Salesiani tra il 1875 e il 1878 lo  prepareranno a quella missione che fiorirà da un germoglio minimo, un gruppetto di giovani donne che, a partire dal 1886, inizieranno ad assistere orfani e bambini e poi si rivolgeranno a derelitti e bisognosi di ogni genere, sconfinando anche in Svizzera, bonificando persino aree paludose per costituire villaggi o colonie autonome, approdando anche a  Roma ove decisiva sarà l’amicizia di papa Pio X. Frattanto si univano a don Guanella anche dieci sacerdoti e così, accanto alle Figlie di Santa Maria della Provvidenza, sorgerà anche la comunità dei Servi della Carità, che  popolarmente saranno denominati come i Guanelliani.
Gli autori della biografia, Michela Carrozzino, che è un’esperta nell’ambito della disabilità, e Cristina Siccardi, che è  ormai una veterana nel genere agiografico, seguono in forma narrativa ma anche con rigore documentario il percorso di questo semplice e appassionato sacerdote.
Egli non esiterà a raggiungere nel 1912 gli Stati Uniti per dedicarsi anche agli emigrati italiani, ma i suoi viaggi  ‘avevano  ià condotto in Terrasanta, a Londra, a Treviri. Alle soglie della morte, nel gennaio 1915, accorrerà in  Marsica, devastata dal terremoto, per impegnare i suoi sacerdoti e le sue suore in un’opera di assistenza. Il suo corpo  era da tempo debilitato dal diabete mellito, alla fine l’aveva colpito anche una paralisi che l’aveva ferito nella parola. Il   24 ottobre 1915, a 73 anni, si spegneva nella casa di Como dalla quale era partita la sua avventura spirituale e  caritativa. Il santo Luigi Guanella si definiva «un atomo perduto nello spazio», ma questo microscopico seme era destinato a generare l’evangelico albero maestoso della carità sul quale si posano gli uccelli del cielo. Parliamo delle  persone dalle disabilità più atroci e, in particolare, vorrei evocare (anche per una mia esperienza diretta) la straordinaria attenzione rivolta dai Guanelliani ai malati mentali: a Roma in una loro grande struttura ho potuto  scoprire la finezza e l’originalità del loro impegno nel seguire questo orizzonte così drammatico della sofferenza umana.

Uno dei capitoli della biografia si intitola appunto «Liberare i poveri dal manicomio» e don Guanella aveva intuito la  necessità del sostenere le famiglie in quest’opera delicata perché i disabili mentali hanno «il diritto di crescere, vivere e  morire dentro le pareti del domestico focolare».

in “Il Sole 24 Ore” del 23 ottobre 2011