Da cristiani, per dare valori alla politica

I primi commenti dopo il convegno di Todi
Salvatore Martinez –
Presidente del Rinnovamento nello Spirito
Vorrei partire con due affermazioni di principio. La Chiesa non è, né potrebbe mai trasformarsi in un soggetto politico. Come afferma Benedetto XVI, «perderebbe la sua indipendenza e autorità morale identificandosi con un’unica via politica e con posizioni parziali e opinabili». (Allocuzione alla V Conferenza generale del Celam Aparecida, 14 maggio 2007). La Chiesa non è chiamata alla formazione di partiti: si trasformerebbe in una religione civile.

La comunità cristiana, invece, è chiamata a formare in Cristo uomini nuovi, capaci di fare nuova anche la politica; uomini e donne dal cuore nuovo, capaci di fare nuovo il cuore delle istituzioni politiche. La “legge dell’amore” vale anche per la politica e incombe sulla nostra coscienza di laici cristiani; ci spinge a ridire con nuovo amore la nostra fede nei contesti sociali in cui Cristo manca, è trascurato o è offeso. Del resto il Papa è esplicito: «Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo» (Deus caritas est, 28). Dunque, la costruzione della civiltà dell’amore ci interpella. Spetta a noi discernere come fare, cosa fare perché il messaggio sociale della Chiesa, la sua Dottrina sociale, non vengano sviliti o ignorati, in primis nella formazione di tanti cristiani. Noi abbiamo nella Dottrina sociale della Chiesa un punto di riferimento unitario di giudizio sulla realtà sociale, un pensiero che coniuga fede e ragione in forza della verità in essa contenuta. E io vedo due grandi sfide di fondo per l’impegno dei cattolici in politica.

La prima sfida è impedire che sia marginalizzata la nostra fede cristiana nella vita pubblica delle nazioni. Come ha ricordato Benedetto XVI, «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire» (Caritas in veritate, 7). «Comunità ecclesiale» e «Comunità politica» sono realtà distinte, con rappresentanze distinte, ma devono tornare a dialogare. Noi possiamo far sì che questo dialogo si ristabilisca e sia fecondo, credibile, che riponga al centro l’uomo, in una società a misura d’uomo, per uno sviluppo umano integrale. Non possiamo permettere che la nostra laicità cristiana sia messa a tacere, che venga relegata nella sfera privata.

La seconda sfida della nuova evangelizzazione della politica è data dall’aspetto economico e mercantile della globalizzazione. Si sta ponendo al centro l’aspetto materiale dell’uomo, pregiudicando così l’apertura dell’uomo stesso alla trascendenza, a Dio. Si vorrebbe un «cristianesimo utilitario», utile a risolvere i problemi materiali dell’uomo, riducendo la portata salvifica della nostra fede a un puro umanesimo, a un’atea filantropia. Dio confinato nell’al di là e l’uomo sconfinato nell’insignificanza. L’attuale scenario della storia, ben lo sappiamo, è di profonda crisi economica e politica, una crisi planetaria che è prima di ogni cosa «crisi spirituale». Anche per molti credenti. Ecco perché abbiamo il dovere di pensare a una nuova evangelizzazione degli stili di vita e delle istituzioni che sovrintendono al destino degli uomini e dei popoli.

Ormai da tre anni, il Papa Benedetto XVI invoca nuova generazione di cattolici impegnati nella politica. E sono “cinque”, nel giudizio del Pontefice, le virtù, le attitudini indispensabili da riscontrare o da favorire in coloro che vogliono dedicarsi alla realizzazione del «bene comune» mediante l’impegno politico: 1) «coerenti con la fede professata», non con quelle conformi all’opinione pubblica prevalente; 2)«rigore morale», perché non si può più minimizzare la gravità della «questione morale», anche tra i cattolici; 3) «capacità di giudizio culturale», cioè di discernimento, frutto di studio, di meditazione, di capacità di distinguere un bene individuale dal bene comune; 4) «competenza professionale», perché la politica è un’arte, una vocazione e non ci si improvvisa; 5) «passione di servizio», non per l’onore personale o per la gratificazione di pochi.

In conclusione, ritengo che mai tempo sia stato più favorevole di questo per la nuova evangelizzazione, dopo il vuoto determinatosi con il crollo delle grandi ideologie. «Il nostro è un mondo che deve essere creato a nuovo con fiducia nel pensiero cristiano», affermava l’esule, grande sacerdote e statista, Luigi Sturzo. (The preservation of the faith, Londra, 1938). Siamo la prima generazione del primo secolo del terzo millennio. È nostra responsabilità di fede che questo mondo caotico sia ordinato dallo Spirito di Dio e disponibile agli autentici bisogni dell’uomo.

 

Compito certo, unità possibile

Radicati ed esigenti
Marco Tarquinio
Qualcuno ieri ha sintetizzato il senso di un evento in corso, dicendo che “i cattolici erano tutti a Todi”. Ieri, in realtà, come in ogni giorno nella vita dell’Italia, i cattolici erano ovunque in questo nostro Paese affaticato e vitale, tenace e assediato da troppe crisi. Erano ovunque, radicati e impegnati in forza della fede in Gesù Cristo e di quei princìpi (fondanti dell’umanesimo cristiano e razionalmente condivisibili da tutti), che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha richiamato ancora una volta.

Erano ovunque, i cattolici: ben radicati nei territori e impegnati a fare, intraprendere, progettare, educare, produrre cultura, costruire e mantenere reti di solidarietà, alimentare speranza. Espressioni diverse di una stessa forza serena e vera, di uno stile di servizio e di un disinteressato interesse al bene di tutti e soprattutto di chi è più fragile e in maggiore precarietà.

E perciò, in una fase complessa e tesa come l’attuale, erano anche a Todi. Uomini e donne presenti – in modo senza precedenti nella vicenda del laicato cattolico – a dare volto e voce alla quasi totalità delle esperienze ecclesiali di associazione, di movimento, di cammino, delle istituzioni bancarie e culturali, del mondo della comunicazione. Tutti riuniti nella cittadina umbra per iniziativa del “Forum delle persone e delle associazioni d’ispirazione cattolica nel mondo del lavoro”. Cioè di organizzazioni vaste e generose dei lavoratori, della piccola impresa agricola e artigiana, della cooperazione.

Una «singolarissima assemblea», di gente provocata dall’idea di contribuire a una «buona politica» concretamente orientata  al «bene comune». Un’occasione per dimostrare, in un tempo segnato da potenti processi di disgregazione e incalzato dalla sfiducia, che forze buone e capaci di aggregare persone e suscitare fiducia sono disposte a unirsi, a valorizzare visioni e parole comuni, a dare ritmo a un processo di rinnovamento della presenza pubblica dei cattolici. Una risposta – in via di articolazione – ai ripetuti appelli in tal senso di Papa Benedetto e dei vescovi italiani.

Una mano tesa alle altre forze vive e presenti nella nostra società e una proposta oggettivamente incalzante e profondamente onesta a un mondo politico che ha evidente necessità di riorganizzarsi e di sgombrare – anche, ma non solo, con lo strumento di una legge elettorale che consenta di giudicare chiare proposte di governo e renda agli elettori il potere di scegliere gli eletti – i canali di comunicazione con la realtà del Paese. Uno sforzo indispensabile per fronteggiare con lucidità quella che Lorenzo Ornaghi chiama l’onda montante della «contropolitica», concetto che evoca con grande efficacia non solo un antagonismo aggressivo e polemico, ma un’insidia che grava sulla qualità stessa della nostra democrazia e che evoca la premeditazione di luoghi di governo rischiosamente «altri dalla politica» . 

Certo, chi si aspettava – da Todi, e a Todi – «fuochi  d’artificio» e corali «discese in campo» sarà rimasto deluso.  Chi aveva “deciso” la nascita sic et simpliciter di un «partito cattolico» dirà che è mancato qualcosa di decisivo. Altri, comunque, non vedranno e non capiranno ciò che s’è messo in moto. Non è la prima volta, non sarà l’ultima. Ma i laici cattolici in campo già ci sono in tanti modi, e il “di più” che sentono di dovere e potere dare nel tempo presente è l’obiettivo – e il senso – di un processo in pieno svolgimento.  
C’è una strada da compiere, con libertà responsabile, di buon passo e con sguardo attento e aperto. Senza farsi tentare dalle scorciatoie e senza farsi sviare dalla paura di deludere qualche pressante attesa.

Su questa strada i cattolici portano con sé, nella bisaccia e come bussola, una capacità di visione affinata grazie alla Dottrina sociale della Chiesa e princìpi che – come dice il presidente della Cei – sono il «fondamento stabile, orientativo e garante» del bene comune. Si tratta di quei «valori non negoziabili» che «difficilmente sopportano mediazioni per quanto volenterose». Non tutti apprezzano la tenacia nel tener cara questa consapevolezza e la concezione di unità profonda tra cattolici e tra cattolici e laici che ne può discendere (e che s’è già sperimentata persino negli anni del bipolarismo furioso).

Ma questa unità è ben possibile, e Papa Benedetto l’ha indicata come compito per l’uomo del XXI secolo consegnandola in modo memorabile alla riflessione di tutti nel suo recente discorso al Parlamento tedesco. C’è purtroppo chi vorrebbe trasformare quei valori in una bandiera che divide i campi e scatena guerre, magari per suggerire di ammainare il vessillo o per sbatterlo in faccia al “nemico”. È una pretesa sbagliata: lo era ieri, lo è oggi e lo sarà di più domani.

da Avvenire 18 ottobre 2011

“Anno della Fede”

 

ottobre 2012 – novembre 2012 sarà l'”Anno della Fede”

 

Limpide e semplici, come sempre, le parole di Benedetto XVI durante l’omelia della Messa di oggi, celebrata insieme ai partecipanti al convegno sulla Nuova Evangelizzazione:
“La missione della Chiesa, come quella di Cristo, è essenzialmente parlare di Dio, fare memoria della sua sovranità, richiamare a tutti, specialmente ai cristiani che hanno smarrito la propria identità, il diritto di Dio su ciò che gli appartiene, cioè la nostra vita.
Proprio per dare rinnovato impulso alla missione di tutta la Chiesa di condurre gli uomini fuori dal deserto in cui spesso si trovano verso il luogo della vita, l’amicizia con Cristo che ci dona la vita in pienezza, vorrei annunciare in questa Celebrazione eucaristica che ho deciso di indire un “Anno della Fede”, che avrò modo di illustrare con un’apposita Lettera apostolica. Esso inizierà l’11 ottobre 2012, nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, e terminerà il 24 novembre 2013, Solennità di Cristo Re dell’Universo. Sarà un momento di grazia e di impegno per una sempre più piena conversione a Dio, per rafforzare la nostra fede in Lui e per annunciarLo con gioia all’uomo del nostro tempo.

 

La Chiesa non è una associazione religiosa o culturale, nè un’associzione di volontariato, e nemmeno una fornitrice di servizi preziosi per la società, come i richiami alla morale. No! La Chiesa è il Popolo di Dio, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito Santo: inviata da Dio a proseguire l’opera inaugurata dall’Incarnazione, Morte e Risurrezione del Signore Gesù. L’annuncio della Fede in Cristo è il primo e l’ultimo dei pensieri e delle preoccupazioni della Chiesa. Semplice e cristallino: C’è un solo Dio e Gesù Cristo, suo Figlio, è il suo Profeta. “Andate e ditelo a tutti”. Il Papa si è accorto da tempo, come era chiaro dai discorsi tenuti in Germania, che l’emergenza per la Chiesa non è l’emergenza morale dei fedeli, il distacco dalla Tradizione e la ricerca di spiritualità alternative, e nemmeno la pedofilia del Clero: sono tutti sintomi di una malattia più profonda e radicale. La mancanza di Fede, l’eliminazione dell’orizzonte ultimo di Dio in Cristo, questo è il colpo mortale alla Chiesa. Questo fa crollare ogni altra struttura, perchè è il fondamento perenne e insostituibile.
Benedetto XVI sta facendo il suo lavoro. Nei momenti di emergenza lo Spirito Santo attiva il Papa perché faccia l’unica cosa che Cristo gli ha domandato: “Tu…conferma nella fede i tuoi fratelli” (cf Lc 22,32).
Quella del Papa è una “chiamata alle armi”, non per una crociata contro l’Islam o un nemico esterno alla Cristianità, ma per combattere il virus che ha destrutturato la vita di fede di milioni di credenti.
Ciò che il Santo Padre sta dicendo è che il dramma della nostra epoca, per parafrasare Evangelii Nuntiandi di Paolo VI, non è la frattura o il distacco tra fede e vita, è proprio il distacco o l’eliminazione della fede stessa.
Una fede a cui serve non solo l’anima, che è il credere e aderire interiormente a Dio, ma anche un “corpo culturale”, e questa è la religione: senza espressione esterna, pubblica e comunitaria, la fede non può essere comunicata da uomo a uomo e da una generazione all’altra e, in definitiva, perde rilevanza e capacità di guidare le scelte, i comportamenti e le azioni degli uomini. Non è più il tempo di una “fede nascosta”, che non vuol dire cadere nella “fede spettacolo”. Il Papa chiama al “mostrare”, senza timore e con orgoglio, la propria fede in Cristo, creduta e vissuta, conosciuta e sperimentata. L’invisibile di Dio può e deve rendersi ancora e sempre visibile e operante in questo mondo attraverso la Chiesa. L’annuncio è la pietra fondamentale: la fede non può nascere se non c’è l’ascolto e l’ascolto non può darsi senza qualcuno che parli. Non di sé stesso, solo di Gesù.

Testo preso da: Benedetto XVI indice l’anno della Fede. Una scossa alla missione della Chiesa http://www.cantualeantonianum.com/2011/10/benedetto-xvi-indice-lanno-della-fede.html#ixzz1bEppQZEn
http://www.cantualeantonianum.com

 

ARTICOLI E COMMENTI

Benedetto XVI: un anno alla riscoperta della fede (Cardinale)
Mons. Bruno Forte sull’Anno della Fede indetto da Benedetto XVI: chi si estrania dalla storia non è un vero cristiano (Radio Vaticana)

L’anno della fede secondo Papa Ratzinger (Lucetta Scaraffia)

Motu proprio del Papa: c’è l’esigenza di riscoprire la fede (Chirri)

La lettera apostolica di Benedetto XVI. Noi come Lidia, apriamo la nostra casa alla fede (Sequeri)

Il Papa indice l’Anno della Fede (Rome Reports)

Benedetto XVI è troppo cattolico? (Jean-Marie Guénois)

Nel motu proprio Benedetto XVI rafforza la necessità della riscoperta della fede collegandola alle celebrazioni per l’anniversario del Concilio (Magistrelli)

La porta della fede è sempre aperta: pubblicato il Motu proprio che indice l’ Anno della Fede (Angela Ambrogetti)

Domenica mattina la Messa nella Basilica Vaticana. Benedetto XVI ha annunciato un Anno della fede «per dare rinnovato impulso alla missione della Chiesa» (O.R.)

Motu proprio “Porta fidei”, il Papa: tutti i vescovi si uniscano a me per celebrare l’Anno della Fede. La Chiesa non deve temere la scienza. La fede resta aperta, ma gli uomini di oggi pensano ad altro. Non diventare pigri nella fede, riscoprire il Vaticano II (Izzo)

Motu proprio sull’Anno della Fede, il Papa: serve testimonianza pubblica. Riscoprire il Catechismo. Alla Lettera Apostolica seguirà una nota della CDF (Izzo)

Benedetto XVI rilancia l’evangelizzazione (Guénois)

Nuova Evangelizzazione, la Santa Messa e l’Angelus nei servizi di Rome Reports

Anno della fede. Un cammino che dura tutta la vita (Vian)

Il Papa annuncia l’anno della fede (Gaeta)

L’Anno della Fede e il martirio di p. Fausto Tentorio. Il commento di Bernardo Cervellera

Il Papa: «Nessuno diventi pigro nella fede» (Vatican Insider)

Il Papa annuncia l’anno della fede (Gaeta)

L’Anno della Fede e il martirio di p. Fausto Tentorio. Il commento di Bernardo Cervellera

Il Papa: «Nessuno diventi pigro nella fede» (Vatican Insider)

Il Papa abbraccia Suor Veronica Berzosa, fondatrice di Iesu Communio (Rome Reports)

L’Anno della fede (Aurelio Molé)

Pubblicata la Lettera apostolica di Benedetto XVI per l’indizione dell’Anno della fede: credere in Gesù è la via per giungere alla salvezza (Radio Vaticana)

Il Papa indice l’Anno della Fede (Asca)

Attraversare la porta. Dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013 l’Anno della Fede (Sir)

Il credo, la Verità e la ragionevolezza. Quell’Araldo e l’annuncio dei primi Cristiani (Messori)

Il Papa annuncia l’Anno della Fede (Vecchi)

Il Papa: dall’11 ottobre 2012 comincerà l’«Anno della fede» (Ugolotti)

Un “Anno della Fede” per proporre agli uomini del nostro tempo “uno sguardo complessivo sul mondo e sul tempo, uno sguardo veramente libero, pacifico” (Izzo)

L’Anno della Fede partirà l’11 ottobre 2012. 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II

Santa Messa ed Angelus: servizio di Lucio Brunelli

Un anno della fede per rievangelizzare il mondo (Angela Ambrogetti)

Presentato il nuovo sito “www.aleteia.org”, on line dal 19 ottobre, aperto a tutti i cercatori della verità (R.V.)

La via della verità. Le parole alla messa per i “nuovi evangelizzatori” e all’Angelus (Sir)

Anno della fede 2012-2013 (Galeazzi)

Suor Veronica, la fondatrice di Jesu Communio, stringe il Papa in un lungo abbraccio (Vidal)

Il Papa: Anno della Fede per affermarne la centralità a 50 anni dal Concilio. Dare a Cesare ma anche a Dio. Cristo è stato ridotto a semplice personaggio storico (Izzo)

“Il 2012 sarà l’Anno della Fede” (Vatican Insider)

Benedetto XVI indice l’anno della Fede. Una scossa alla missione della Chiesa (Cantuale Antonianum)

Papa Ratzinger vuole dare una scrollata ad un certo torpore. La Chiesa si rimette in marcia (Giansoldati)

Missionari generosi e audaci per i nostri tempi: così il Papa all’Angelus (Radio Vaticana)

Il Papa: Ritengo che, trascorso mezzo secolo dall’apertura del Concilio, sia opportuno richiamare la bellezza e la centralità della fede

Criminali a Roma, Santa Sede: “Ferma condanna”. “Offesa la sensibilità dei credenti”

Il Papa annuncia “l’Anno della Fede”. Benedetto XVI: gli uomini di oggi hanno bisogno di Dio e di pace. La certezza della fede non è dato soggettivo ma fatto concreto (Izzo)

Il Papa: 2012 anno della fede (Tg1)

Il Papa indice un “Anno della Fede” per la Nuova Evangelizzazione e la missione ad gentes (AsiaNews)

Il Papa: paesi di antica tradizione cristiana che sembrano diventati indifferenti, se non addirittura ostili alla parola di Dio

Individuati sette ambiti per la nuova evangelizzazione. Lanciato il sito “Aleteia” (Izzo)

Parola sempre viva. I “nuovi evangelizzatori” con il Papa (Sir)

Il Papa ai nuovi evangelizzatori: “Comunicate a tutti la gioia della fede” (Andrea Gagliarducci)

Il Papa: gli uomini di oggi spesso confusi, preferiscono l’effimero alla fede. Mi rallegra vedere tanti mobilitati per la rievangelizzazione (Izzo)

Il Papa e la Nuova Evangelizzazione: La Parola di Dio continua a crescere e a diffondersi (AsiaNews)

Il Papa ai nuovi evangelizzatori: i cristiani siano segni di speranza, testimoni della vera felicità che porta Cristo (Radio Vaticana)

Il Papa: “Mobilitazione straordinaria per la nuova evangelizzazione” (Rolandi)

Aperto in Vaticano il primo incontro internazionale dei responsabili della nuova evangelizzazione (Biccini)

 

La Chiesa che non tace


Domenico Mogavero con Giacomo Galeazzi, La Chiesa che non tace, BUR-Saggi, pp. 206, € 14.

Ci sono libri che hanno la fortuna, o la virtù, di essere segnali di un passaggio d’epoca. Insieme, sintomi della malattia e medicine per curarla, proprio nell’accezione etimologica della parola «crisi». La lunga intervista di Giacomo Galeazzi al vescovo siciliano Domenico Mogavero, edita dalla Rizzoli nella collana «Bur-saggi» ne è un buon esempio. Perché è la testimonianza di come il disagio della Chiesa italiana nell’era del post-ruinismo non sia più relegato tra quei preti del dissenso, ai margini dell’ortodossia confessionale e della disobbedienza ecclesiastica, ma pervada ormai i vertici dell’episcopato e, persino, gli antichi e fedeli collaboratori dell’ex carismatico capo dei vescovi del nostro Paese.
Domenico Mogavero, infatti, è stato per circa 15 anni il «numero tre» della Chiesa italiana, affiancando Camillo Ruini come sottosegretario alla Cei. Un’esperienza che l’attuale vescovo di Mazara  del Vallo non rinnega affatto, ma che, al confronto con la realtà dei problemi di una diocesi di frontiera, viene profondamente ripensata e trasformata dal protagonista del libro con accenti di apprezzabile sincerità e di grande apertura, anche autocritica. Così, stimolato dalle domande tutt’altro che compiacenti di Galeazzi, anzi talvolta consapevolmente provocatorie, il presule siciliano si fa portabandiera di «una Chiesa che non tace», come s’intitola significativamente l’intervista-confessione.
La lettura del testo, alla vigilia dell’importante raduno dei cattolici a Todi fissato per lunedì prossimo, autorizza a pensare come il passaggio del testimone tra Ruini e Bagnasco a capo della Conferenza episcopale italiana annunci un vero e proprio «rompete le righe» in quella specie di militarizzazione dell’episcopato che aveva consentito al cardinale emiliano di guidare con mano fermissima la condotta della Chiesa. Al prezzo, però, di spegnere le voci più innovative e anticonformiste o, perlomeno, di indurle a troppe prudenze diplomatiche.
Indicativa è l’ammissione di Mogavero sul motivo di questo suo spostamento da posizioni «centriste», come le definisce lui stesso, a visioni assimilabili a quelle progressiste, per usare un lessico  mutuato dalla politica: il contatto con la realtà dell’immigrazione maghrebina nella sua diocesi. Un fenomeno che ha fatto di quel territorio un avamposto di pacificazione nel Mediterraneo, un  luogo di cerniera tra cristianesimo e islam, un esempio di come sia possibile la sperimentazione di una convivenza non solo senza grossi traumi, ma capace di produrre un vero arricchimento  reciproco, culturale, sociale e, perché no, anche religioso.
La parabola personale del vescovo di Mazara, perciò, può suggerire anche dove e come potrebbe cominciare il rinnovamento della Chiesa nell’era Bagnasco. Non più dal centralismo illuminato di un cardinale di grande carisma e intelligenza come Camillo Ruini, ma dall’apertura della comunità cattolica a quelle «voci dal fondo» che, dalla concreta esperienza pastorale, riescono più  facilmente a percepire una sensibilità nuova, quella di un mondo che cammina più in fretta della testa degli uomini.

 

Per una Chiesa che non taccia
di Luigi La Spina
in “La Stampa” del 15 ottobre 2011

Siate affamati. Siate folli

 

Discorso di Steve Jobs alla Stanford University di Palo Alto il 12 giugno 2005


Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato a un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie.

La prima storia parla di “unire i puntini”. Ho abbandonato gli studi al Reed College dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perché ho smesso? Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università. Infine, diciassette anni dopo ci andai. Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. Ok, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti.

Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio: il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto, erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’ e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.

Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun pc ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono. Certamente non era possibile all’epoca “unire i puntini” e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo. Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… Questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia parla di amore e di perdita. Fui molto fortunato – ho trovato cosa mi piacesse fare nella vita piuttosto in fretta. Io e Woz fondammo la Apple nel garage dei miei genitori quando avevo appena vent’anni. Abbiamo lavorato duro, e in dieci anni Apple è cresciuta […] sino ad una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti. Avevamo appena rilasciato la nostra migliore creazione – il Macintosh – un anno prima, e avevo appena compiuto trent’anni… quando venni licenziato. Come può una persona esser licenziata da una società che ha fondato? Beh, quando Apple si sviluppò assumemmo una persona – che pensavamo di grande talento – per dirigere la compagnia con me, e per il primo anno le cose andarono bene. In seguito però le nostre visioni sul futuro cominciarono a divergere finché non ci scontrammo. Quando successe, il nostro consiglio di amministrazione si schierò con lui. Così a trent’anni ero a spasso. E in maniera plateale. Ciò che aveva focalizzato la mia intera vita adulta non c’era più, e tutto questo fu devastante.

Non avevo la benché minima idea di cosa avrei fatto, per qualche mese. Sentivo di aver tradito la precedente generazione di imprenditori, che avevo lasciato cadere il testimone che mi era stato passato. Mi incontrai con David Packard e Bob Noyce e provai a scusarmi per aver mandato all’aria tutto così malamente: era stato un vero fallimento pubblico, e arrivai addirittura a pensare di andarmene dalla Silicon Valley. Ma qualcosa cominciò a farsi strada dentro me: amavo ancora quello che avevo fatto, e ciò che era successo alla Apple non aveva cambiato questo di un nulla. Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. Così decisi di ricominciare. Non potevo accorgermene allora, ma venne fuori che essere licenziato dalla Apple era la cosa migliore che mi sarebbe potuta capitare. La pesantezza del successo fu sostituita dalla soavità di essere di nuovo un iniziatore, mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.

Nei cinque anni successivi fondai una Società chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una splendida ragazza che sarebbe diventata mia moglie. La Pixar produsse il primo film di animazione interamente creato al computer, “Toy Story”, ed è ora lo studio di animazione di maggior successo nel mondo. In una mirabile successione di accadimenti, Apple comprò NeXT, ritornai in Apple e la tecnologia che sviluppammo alla NeXT è nel cuore dell’attuale rinascimento di Apple. E io e Laurene abbiamo una splendida famiglia insieme.

Sono abbastanza sicuro che niente di tutto questo mi sarebbe accaduto se non fossi stato licenziato dalla Apple. Fu una medicina con un saporaccio, ma presumo che “il paziente” ne avesse bisogno. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti sia stato l’amore per ciò che facevo. […] Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi.

La mia terza storia parla della morte. Quando avevo diciassette anni, ho letto una citazione che recitava: “Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi ci avrai azzeccato”. Mi fece una gran impressione, e da quel momento, per i successivi trentatré anni, mi sono guardato allo specchio ogni giorno e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta era “No” per troppi giorni consecutivi, sapevo di dover cambiare qualcosa. Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto – tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio – sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore.

Un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Effettuai una scansione alle sette e trenta del mattino, e mostrava chiaramente un tumore nel mio pancreas. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che con ogni probabilità era un tipo di cancro incurabile, e avevo un’aspettativa di vita non superiore ai tre-sei mesi. Il mio dottore mi consigliò di tornare a casa “a sistemare i miei affari”, che è un modo per i medici di dirti di prepararti a morire. Significa che devi cercare di dire ai tuoi figli tutto quello che avresti potuto nei successivi dieci anni in pochi mesi. Significa che devi fare in modo che tutto sia a posto, così da rendere la cosa più semplice per la tua famiglia. Significa che devi pronunciare i tuoi “addio”. Ho vissuto con quella spada di Damocle per tutto il giorno. In seguito quella sera ho fatto una biopsia, dove mi infilarono una sonda nella gola, attraverso il mio stomaco fin dentro l’intestino, inserirono una sonda nel pancreas e prelevarono alcune cellule del tumore. Ero in anestesia totale, ma mia moglie, che era lì, mi disse che quando videro le cellule al microscopio, i dottori cominciarono a gridare perché venne fuori che si trattava di una forma molto rara di cancro curabile attraverso la chirurgia. Così mi sono operato e ora sto bene.

Questa è stata la volta in cui mi sono trovato più vicino alla morte, e spero lo sia per molti decenni ancora. Essendoci passato, posso dirvi ora qualcosa con maggiore certezza rispetto a quando la morte per me era solo un puro concetto intellettuale. Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso non voglion morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l’unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo perché è come dovrebbe essere: la morte è la migliore invenzione della vita. E’ l’agente di cambio della vita: fa piazza pulita del vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora “il nuovo” siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete “il vecchio” e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità. Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario. Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava “The whole Earth catalog”, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idealista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali. Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di “The whole Earth catalog”, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.
Siate affamati. Siate folli.

di Steve Jobs

Io sto con il Papa

1. Cosa è diventato il discorso pubblico nel nostro tempo? A quali altezze ci conducono oggi le parole di chi viene ascoltato, perché considerato degno di esserlo?

 

Con Martin Luther King abbiamo scalato montagne che apparivano impervie, con Franklin Delano Roosevelt siamo stati capaci di sconfiggere la bestia della paura e della disperazione collettiva, con Giovanni XXIII abbiamo capito che non è la guerra, ma la pace, la dimensione in cui far esprimere conflitti e differenze. Ma ora? Ora tutto sembra al filo della terra, parole spaventate , senza forza, senza ispirazione, senza anima. Parole corte, per una società corta. Odio, populismo di quart’ordine, rimozione sistematica e deliberata di quel “senso delle cose” senza il quale ogni avventura umana, compresa la stessa esistenza individuale, sembra uno straccio abbandonato. Così il mondo della comunicazione ovunque, della rete che ci avvolge fino a stritolarci, del successo a portata di  mano, dell’Io ipertrofico e tronfio ci riempie di molto per portarci al nulla. La frammentazione sociale, la perdita della linearità del ciclo di vita conquistata nel Novecento dell’occidente – studio  , lavoro, pensione – ci rende fragili e insicuri. E così ci rinchiudiamo in identità spesso autorappresentative, come una coperta da stendere sul capo, per ripararsi dalla globalizzazione del mondo.  Insegne religiose usate come spade e carte d’identità brandite come scudi. Nuove ideologie, senza i recinti delle quali, l’uomo sembra sentirsi nudo e solo. Ma nel brodo di coltura delle ideologie  sono nati Auschwitz e i Gulag, Pol Pot e i Desaparecidos.
Il nuovo millennio, il discorso pubblico, troveranno una via d’uscita alla alternativa secca tra il tutto delle ideologie e il nulla della vita ridotta a merce, a campione senza valore? La politica ha,  per me, questo compito precipuo. Insieme con la soluzione concreta dei problemi concreti degli esseri umani. Ha il compito di fornire un senso “laico” alla domanda di ragione dell’esistenza che  mai, nella storia, è stata risolta dalla contemplazione di sé in uno specchio. Nel bel dialogo tra Aldo Bonomi e Eugenio Borgna, pubblicato da Einaudi in questi giorni, ci si interroga sulle ragioni sociali e psicologiche del dilagare della depressione come malattia contemporanea.
E se ne indicano le cause, in primo luogo lo sfarinamento del sistema delle relazioni sociali e umane. E se ne indicano però anche le soluzioni, in primo luogo la ricostruzione di quella coscienza della comunità di destino, senza la quale ogni inciampo è un precipizio. Alla comunità delle anime ferite bisogna indicare un poliforme orizzonte di senso. Bisogna passare dalla “egologia”,  Zeitgeist del tempo, alla ecologia di un corretto rapporto tra sé e gli altri, tra sé e la natura, tra sé e il tempo, in fondo tra sé e il senso della vita.
Nella presentazione del suo libro a Roma, Eugenio Scalfari ha ricordato la definizione di Kant dell’uomo come “legno storto” e ha giustamente ragionato sulla pericolosità e difficoltà del proposito  di raddrizzarlo e dei fallimenti storici di chi se lo è proposto. Accettare i miliardi di “legni storti” spinge a creare un ambiente dove essi possano riconoscersi e rispettarsi e, per questa via, creare  un contesto “laicamente” diritto. Avremo bisogno urgente di ritrovare il senso di comunità, perché alla depressione individuale sta per saldarsi anche quella dell’economia. E, se vorremo uscirne, dovremo sfidare la paura e ritrovare la speranza.
Per questo io che non credo o che, come ho detto sinceramente “credo di non credere”, ho ascoltato con enorme interesse l’affascinante discorso al Parlamento tedesco di Benedetto XVI nel quale ha lanciato un invito che non può non essere raccolto. E’ necessaria, ha detto Papa Ratzinger, una “discussione pubblica”, in particolare in Europa, sul rapporto tra politica, diritto e ragione:  “Invitare urgentemente ad essa – ha aggiunto – è un’intenzione essenziale di questo discorso”.
Non si può non raccogliere l’invito, innanzi tutto perché di una discussione pubblica sul senso della politica, sui suoi compiti e i suoi limiti, si avverte un bisogno drammatico, in un passaggio  storico come quello che stiamo vivendo, segnato da una crisi profondissima, che come è evidente a tutti non è solo economica e finanziaria, ma anche politica e culturale. Ma c’è una seconda ragione  che va evidenziata: l’invito del Papa è, per l’appunto, a una “discussione pubblica”, alla quale ciascuno partecipa, secondo un metodo critico e non dogmatico, con la sola forza dei suoi argomenti. E  gli argomenti di Ratzinger sono forti, proprio perché aperti. Gli stessi punti solidamente fermi, nella mente e nel cuore del Papa-teologo, colpiscono in modo tanto più penetrante, in quanto  emergono, quasi si fanno largo, tra interrogativi radicali, che non solo non vengono elusi, ma vengono problematizzati in modo non esplicito. Già questa è una indicazione, non solo metodologica: c’è una sola via, sembra dire Papa Benedetto, per affrontare la crisi con spirito costruttivo. Ed è la via del dialogo aperto, del confronto trasparente, a partire dalla comune passione per l’umanità e il  suo destino.

2. La riflessione proposta da Ratzinger è ormai largamente nota, soprattutto ai lettori di questo giornale. Essa ha al centro l’affermazione che la buona politica, la politica che vuole essere impegno per la giustizia e costruzione delle condizioni di fondo per la pace, è una politica subordinata al diritto, una politica che conosce il suo limite e riconosce la supremazia del diritto, secondo una  visione liberale, pluralista, poliarchica. “Togli il diritto – dice il Papa citando sant’Agostino – e allora cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”. Una politica ridotta a volontà di  potenza, a mera risultante dei rapporti di forza, o anche solo ad arte e tecnica della conquista e della conservazione del potere, è la minaccia più grande per l’umanità: nella migliore delle ipotesi,  avremo cattiva politica, malgoverno, corruzione. Ma il Novecento, per altri versi il secolo delle lotte per la libertà e degli spettacolari progressi della scienza e della tecnica, ci ha anche  insegnato, in modo definitivo, che una politica che perde il senso del limite è capace di spalancare davanti all’umanità l’abisso del male assoluto, di generare il mostro totalitario, la scientifica e  sistematica, intenzionale e organizzata distruzione della dignità e della stessa vita umana. Nessuno lo sa meglio di noi tedeschi, ricorda Ratzinger.
E tuttavia, dire che la politica deve fondarsi sul diritto e non viceversa, significa dire che il principio di maggioranza, che in gran parte della materia da regolare giuridicamente “può essere un  criterio sufficiente”, “nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità” non può bastare. E allora? Come riconoscere ciò che è giusto? Di fronte al  male assoluto dei regimi totalitari, c’è il diritto-dovere alla resistenza. “Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia  veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente”.
Ratzinger vuole essere ancora più chiaro: “Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé”. Anni di discussioni, spesso laceranti, sulle questioni cosiddette “eticamente sensibili”, sono lì a dimostrarlo. Come sono lì a dimostrarlo le non meno dure contrapposizioni, in tutte le sedi multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite, tra il principio di sovranità degli stati e i diritti inviolabili della persona.
La risposta all’interrogativo radicale “come si riconosce ciò che è giusto?” non può venire, secondo Ratzinger, né dal “diritto rivelato”, dalla pretesa di imporre una legge sulla base di un  riferimento alla religione, uno dei pericoli più grandi che minacciano l’umanità contemporanea, né dal “positivismo giuridico”, che relega nella sfera della irrazionalità qualunque dimensione  della razionalità umana non riconducibile a ciò che è verificabile o falsificabile: un riduzionismo scientista, che è stato contestato, dice Ratzinger in uno dei passaggi più sorprendenti del  discorso, dal movimento ambientalista. Quel movimento, ha detto con coraggio, ci ha aiutato a capire che “nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un  materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni”.
La via proposta dal Papa è piuttosto quella di una riscoperta dell’idea di “diritto naturale”, per la quale sono la natura e la ragione le vere fonti del diritto: una linea di pensiero che da Atene e  Roma, attraverso l’incontro col pensiero giudaico e cristiano e poi il filtro dell’Illuminismo, giunge fino alla Dichiarazione universale dei diritti umani e alle grandi costituzioni democratiche  del Dopoguerra.
Non si tratta, come è chiaro, di una formula magica, che garantisce l’evidenza delle soluzioni e l’infallibilità delle decisioni politiche e legislative, ma piuttosto di un orizzonte nel quale collocare il dialogo tra visioni diverse, sul piano politico, filosofico, religioso, per consentire loro di collaborare per la giustizia nella pace.
Una collaborazione, beninteso, che non elimina il conflitto, la dialettica, la competizione, ma le colloca su un terreno di comunicazione, di condivisione di un patrimonio di principi e di valori che possono tenere insieme la società: un’esigenza tanto più forte in società aperte, libere, secolarizzate, non gerarchiche, come quelle moderne.

3. La riflessione e la proposta di Papa Ratzinger, entrambe aperte e problematiche, pur attorno a un nucleo di convinzioni forti e radicate, a me paiono di straordinario interesse e suggestione sul  piano intellettuale e di potenziale fecondità sul piano politico. Tanto più in un paese come il nostro, profondamente segnato dal dialogo, ma anche dalla contrapposizione, tra laici e cattolici, tra credenti e non credenti. Una discussione pubblica, orientata alla riscoperta e alla attualizzazione di un nucleo di principi e valori fondamentali come quelli che sostengono la nostra Carta costituzionale, non a caso anch’essa figlia di uno dei più alti momenti di dialogo che la nostra storia nazionale abbia conosciuto, aiuterebbe a rafforzare l’unità dialettica del paese, tanto più  necessaria in una fase delicata e per molti versi drammatica, come quella che stiamo vivendo.
La traccia proposta da Papa Benedetto a Berlino può risultare preziosa per dar vita, nel nostro paese, a una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti e a scongiurare invece dannose e fuorvianti contrapposizioni. Preziosa è innanzi tutto la “pars destruens” del ragionamento ratzingeriano, quel doppio no, da una parte all’integralismo fondamentalista, alla pretesa di dedurre da  una fede religiosa criteri normativi validi per tutta la società; e dall’altro alla concezione speculare e in definitiva subalterna allo stesso integralismo religioso, secondo la quale la libertà vive solo nella negazione di qualunque principio e valore che non sia l’arbitrio individuale. Si tratta, come è evidente, di due posizioni estreme, tanto presenti nell’autorappresentazione pubblica,  quanto poco rappresentative sia dell’universo dei credenti, cattolici e non solo, irriducibili allo stereotipo del fanatismo integralista e invece da tempo allenati e appassionati al dialogo, al  confronto, alla contaminazione; sia di quello dei non credenti, che a ragione rivendicano la loro capacità di pensare e vivere sulla base di principi e valori che pur non avendo, dal loro punto di vista, un fondamento trascendente, pur non ponendosi in una prospettiva metastorica, non per questo sono meno metapolitici, capaci cioè di dare fondamento non effimero ad una vita etica e ad una  olitica fondata sul diritto.
Penso che sia vitale, per il futuro del nostro paese, incoraggiare e favorire una comune capacità, da parte di credenti e non credenti, di coltivazione dei valori comuni, sulla base di una comune  fiducia nella ragione. La prima condizione perché ciò accada è che i credenti imparino sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, confidando nella ragione, che del resto, nella  loro fede, è essa stessa dono di Dio, logos umano che partecipa del logos divino. La sistematica applicazione di questa regola eviterebbe il cortocircuito integralista, che rende il dialogo impossibile. La seconda, speculare condizione, è che i non credenti, a loro volta, imparino a rispettare fino in fondo i convincimenti religiosi e sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica,  come una condizione di possibilità della libertà degli individui. Attraverso questa regola, la libertà come principio di autodeterminazione si apre alla responsabilità ed evita di ridursi ad egoismo individualistico.

4. Una considerazione finale che ovviamente si allontana dalle riflessioni grandi del Papa per planare su questo passaggio, l’ennesima transizione, della storia italiana. Promuovere una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti è indispensabile anche per scongiurare il rischio che, dopo la fine ormai conclamata del berlusconismo, il bipolarismo italiano si ristrutturi lungo  una linea di frattura etico-religiosa, anziché politico-programmatica.
Non ci si può dividere su ciò su cui ci si dovrebbe unire. Nel celebre dialogo con Habermas, quasi otto anni fa, l’allora cardinale Ratzinger definiva l’incontro dialogico tra credenti e non credenti come “ciò che tiene unito il mondo”, che corre invece il rischio mortale di dividersi lungo una faglia che finirebbe per opporre una religiosità ridotta a fanatismo fondamentalista, a un razionalismo non meno dogmatico e intollerante. Per questo penso che il nuovo protagonismo dei credenti cattolici, delle loro associazioni, movimenti, opere, al servizio di un rilancio e di una ricostruzione di un paese che da decenni non era così fiaccato e umiliato, sarà tanto più fecondo, quanto più saprà irrorare tutto lo schieramento politico. Entrambi i poli di un nuovo bipolarismo,  finalmente liberato dall’ipoteca populista e plebiscitaria del berlusconismo, finalmente articolato su schieramenti costruiti attorno a programmi per il governo e non sulla demonizzazione  dell’avversario, capaci entrambi di reciproca legittimazione e di positiva collaborazione, nella distinzione dei ruoli tra maggioranza e opposizione, dovranno vedere presenti e protagonisti laici e  attolici, credenti e non credenti.
Naturalmente, rendere questo possibile è compito innanzi tutto delle forze politiche. E sul versante del centrosinistra è compito innanzi tutto del Partito democratico, che mai come oggi può comprendere quanto la sua originaria vocazione a unire le diverse culture riformiste, guardando ben oltre i tradizionali confini della sinistra storica e dando vita ad una identità nuova, unitaria  e plurale, l’identità democratica, sia condizione vitale per il suo stesso ruolo nel paese.

 

in “il Foglio” del 1 ottobre 2011

Wangari, la signora della foresta.


Una donna forte, coraggiosa, amante della natura che ha sempre voluto difendere a qualunque costo fine al termine dei suoi giorni. Wangari Maathai, premio Nobel per la pace, è morta ieri a 71 anni .

Il suo nome  dovrebbe apparire sulle T-shirt di milioni di donne del pianeta, perché  è “la donna che piantava gli alberi” e che ha dato lavoro, dignità ed poter a una grande moltitudine di donne nel Kenya e in altre parti del mondo. E’ stata la dimostrazione vivente di quanto possa l’attivismo sociale e il potere dell’immaginazione. Per lei e per quanti ancora credono in un mondo possibile , a misura umana. Un ricordo affettuosissimo di tutti noi che crediamo nella solidarietà, nella giustizia, nella fraternità Ciao, Wangari Maathai, rimarrai nei nostri cuori e sarai la nostra guida nelle lotte per mantenere il nostro pianeta ancora verde.

 

Chi era Wangari Maathai, Nobel per la pace nel 2004

La ‘signora degli alberi’ era nata a Nyeri, in Kenya, nel 1940. Laureata in scienze biologiche ottenne la cattedra di veterinaria all’università di Nairobi. Anche in questo caso prima donna keniota a raggiungere un incarico così prestigioso. In quello stesso cominciò a lavorare al Consiglio nazionale delle donne del Kenya e dal 1981 al 1987 ne divenne la presidentessa.
L’idea di piantare gli alberi divenne reale in quegli anni e così  nacque il Green Belt Movement, un’organizzazione per la salvaguardia dell’ambiente e il miglioramento della qualità della vita delle donne.
La crescita del Green Belt Movement fu rapidissima: alla fine degli anni Ottanta vi furono coinvolte tremila donne. Dal 1986 le iniziative del movimento si allargarono a Tanzania, Uganda, Malawi, Lesotho, Etiopia e Zimbawe.
Negli ultimi 20 anni molti degli obiettivi del Green Belt e di Wangari sono stati raggiunti. In Africa è aumentata la consapevolezza della problematica ambientale e sono stati creati migliaia di posti di lavoro. Alla fine del 1993 le donne del movimento avevano piantato più di 20 milioni di alberi e molte erano diventate “guardaboschi senza diploma”.
Il 10 febbraio 2006 ha partecipato alla Cerimonia di apertura dei XX Giochi olimpici invernali di Torino 2006 portando, per la prima volta nella storia, insieme ad altre 7 celebri donne, la bandiera olimpica. Ha anche partecipato al congresso internazionale Foederatio Pueri Cantores come rappresentante del Kenya. Negli anni la Maathai ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, inclusi il premio ‘Global 500’ del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, il ‘Goldman Enviromental Award’, il premio ‘Africa per i leader’ e il premio per ‘Una società migliore’.( Cfr. Wikipedia, l’enciclopedia libera.)
La ‘signora degli alberi’ si è spenta a 71 anni. Aveva fondato in Kenya il Green Belt Movement (cintura verde), un movimento di attivisti per i diritti civili e delle donne, che lotta per combattere la deforestazione e per l’ambiente. Gli obiettivi principali sono la salvaguardia della biodiversità e la creazione posti di lavoro con un attenzione particolare alla leadership della figura femminile nelle aree rurali. Negli ultimi anni il lavoro di Wangari si è focalizzato sulla situazione dei diritti umani in Kenya. Per il suo impegno democratico, è stata diffamata, perseguita, arrestata e picchiata. Leader del movimento ecofemminista, da anni era deputata del parlamento kenyota.

Wangari Maathai è stata la prima donna africana a ricevere il Nobel per la pace per la sua lotta contro la deforestazione e per “il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace

 


Che cos’è
The Green Belt Movement

La Green Belt Movement è un’associazione creata da Wangari Maathai nel 1977 formata da donne provenienti da aree rurali. Queste donne vennero incoraggiate dalla stessa biologa a piantare alberi di origine indigene, alberi da frutto e piccoli arbusti. In trent’anni crebbero ben 20 milioni di alberi.

La politica riscopra i valori cristiani

Non è mai stato facile essere un cattolico impegnato in politica se si prendono sul serio i tre termini: «cattolico», «impegnato» e «politica». Ma nella ormai lunga stagione della cosiddetta Seconda Repubblica tutto è sembrato complicarsi ancor di più: non perché è venuto meno il partito dei cattolici, ma perché da quasi due decenni sono stati dimenticati o contraddetti alcuni dati fondamentali che avevano guidato i laici cattolici nel loro servizio alla polis, almeno a partire dalla feconda stagione costituzionale repubblicana. Penso all’autonomia delle scelte politiche, da assumersi rispondendo alla propria coscienza, formatasi alla scuola della dottrina sociale cattolica e alle indicazioni provenienti dai documenti conciliari; o alla perdita di eloquenza dei cristiani adulti, ignorati quando non zittiti o irrisi da chi non perdeva occasione per esprimersi in loro vece; o ancora alla messa in discussione del concetto stesso di attività politica: la mediazione, la negoziazione, la convergenza verso il bene comune che sovente deve accontentarsi di denunciare il male e porvi un limite, scegliendo il bene possibile sempre in obbedienza ai principi della democrazia e della pluralità della società che può esprimersi solo con il criterio della maggioranza.
Ora che le chiare parole della presidenza della Conferenza episcopale italiana – ancora una volta accolte da alcuni come tardive, considerate da altri come interferenze indebite, strumentalizzate  a proprio beneficio da altri ancora – hanno aperto scenari più movimentati, il pensiero di molti commentatori è parso appiattirsi su una sola domanda: si va o no verso un nuovo partito cattolico? Credo che a insistere solo su questo interrogativo si faccia un torto sia ai vescovi, che hanno volutamente mantenuto il discorso in termini prepolitici, sia ad alcuni, pochi invero, laici cattolici che in tutti questi anni non hanno smesso di ricercare una sintesi concreta e affidabile tra la loro fede cristiana e le scelte politiche ed economiche da proporre al Paese intero per una migliore convivenza civile. Questo non nega un’afonia di molti cattolici, incapaci di esprimersi e di mostrarsi come ispirati dal vangelo, non nega la grave incoerenza tra vita politica ed etica cristiana  mostrata da altri cattolici, e soprattutto non nega che molti di essi avrebbero potuto già da tempo uscire dal silenzio con eloquente parresia. Che tristezza sentir confessare solo in questi giorni: «Tre parole in più forse noi cattolici avremmo potuto dirle!».
Il problema è ben più ampio di una scelta di schieramento o di alleanze strategiche: si tratta di una rinnovata assunzione di responsabilità verso la collettività, che tenga conto delle mutate condizioni sociali, economiche, demografiche e storiche in Italia e in occidente, ben lontane dall’essersi stabilizzate. Di fronte alle nuove sfide che la politica in senso alto – cioè la gestione della  polis nel presente con lo sguardo proteso alle future generazioni e la mente memore delle lezioni del passato – pone non solo al nostro Paese ma al villaggio globale di cui ormai siamo parte  consapevole, pare necessario più che mai uno spazio organico di confronto tra cristiani – magari anche non solo cattolici… – in cui cercare di discernere come coniugare le istanze evangeliche con il vissuto quotidiano di una società che ormai è ben lungi dall’essere cristiana nella sua totalità. Un luogo in cui quanti hanno a cuore il bene comune e ritengono di avere delle capacità per servirlo, possano formarsi in vista dell’indispensabile dialogo con chi non condivide le stesse convinzione di fede e dell’altrettanto ineludibile azione comune nella società e per il suo benessere morale e materiale.
Quando il cardinal Bagnasco auspica «un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni», dovrebbe essere abbastanza chiaro dalle sue stesse parole che non sta propugnando un partito tanto meno progettando un governo ma, appunto, un interlocutore con la politica: una voce cristiana che, come tale, possa anche manifestarsi articolata e modulata, farsi voce dei senza voce, porre parole e gesti profetici, anche a costo di risultare  sgradita a molti. Da anni segnalo l’esigenza sempre più diffusa tra molti laici cattolici di un «forum», di uno strumento organico dei credenti in cui fare insieme opera di discernimento di  problemi, situazioni critiche e urgenze presenti nella polis, per verificarle alla luce del vangelo e per smascherare al contempo gli «idoli» che sovente seducono anche i cristiani.
Una riflessione che resti tuttavia nell’ambito pre-politico, pre-economico, pre-giuridico: tradurre poi gli aneliti evangelici – realtà ben più esigente dei «valori», a volte così mutevoli nelle loro priorità – in concrete opzioni attraverso leggi e norme spetterà a quanti si impegnano all’interno delle diverse forze politiche, in modo conforme alla propria coscienza, alla storia personale e alla lettura delle vicende che hanno contribuito a rendere il nostro Paese quello che oggi è.
Forse in questo dovremmo essere anche più attenti alle esperienze di altri paesi, europei in particolare, dove la presenza e l’influenza dei cristiani in politica è meno preoccupata di etichette o di certificati di garanzia e più sollecita nell’esprimere i propri convincimenti con un linguaggio e un’azione capaci di essere compresi e condivisi anche al di fuori delle mura confessionali. Non si tratta di ricreare le scuole-quadri, ma di fornire opportunità di riflessione e di formazione di un’opinione il più possibile aderente al messaggio evangelico e al suo farsi carico di ogni essere umano, a partire dal più debole, povero e indifeso.
Sì, per tornare ai tre termini da cui abbiamo preso spunto, il rapporto tra un cattolico e la politica – basato sull’imprescindibile riconoscimento della laicità dello stato – comporta l’impegno, l’assunzione di responsabilità, la scelta consapevole di non ricercare successi o vantaggi personali, di non perseguire privilegi di sorta, nemmeno per conto terzi, ma piuttosto di percorrere giorno dopo giorno, magari mutando il passo e scegliendo nuovi sentieri, il faticoso eppur appassionante «camminare insieme» con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, per il bene anche di chi volontà buona ne ha poca o nulla.

 

in “La Stampa” del 2 ottobre 2011

Egoisti e distratti nella grande casa del mondo

In un momento in cui tutto sembra spingerci a concentrare la nostra attenzione sui problemi interni del nostro Paese, vorrei puntare il riflettore sull’orizzonte della mondialità. Questa scelta non è dovuta solo al fatto che la crisi che attraversiamo ha radici globali, connessa com’è ai rapporti d’interdipendenza economica e politica che condizionano la vita del pianeta, ma anche e  soprattutto alla constatazione che il “rinnovamento etico” di cui ha parlato Benedetto XVI riferendosi all’Italia e di cui abbiamo immenso bisogno non potrà realizzarsi senza la consapevole  assunzione delle nostre responsabilità nei confronti della grande casa del mondo e di quanti in essa vivono spesso in condizioni di sub-umanità, per lo più dimenticati da tutti. Vorrei richiamare  tre profili essenziali della rilevanza etica e politica della mondialità: i stili di vita e il loro impatto sull’ambiente; il rilievo dell’Italia nel sistema politico ed economico mondiale; i nostri doveri  di solidarietà verso i più deboli del pianeta.
La riflessione sugli stili di vita merita un’attenzione prioritaria quando si parla di mondialità: la consapevolezza che una maggiore sobrietà nei consumi, un uso più attento delle risorse fondamentali e un’educazione alla responsabilità ecologica siano decisive per il futuro comune, è certamente cresciuta in questi anni. La rete delle comunicazioni e l’impatto psicologico di  disastri ambientali su vasta scala – dal petrolio nell’oceano alle contaminazioni radioattive di Chernobyl e Fukushima – ci hanno reso più vigili nella scelta delle mete su cui puntare in campo  energetico, delle prassi da seguire nell’organizzazione della nostra vita quotidiana e nella percezione della gravità dei ritardi e degli inceppamenti nella filiera dello smaltimento e del riutilizzo  dei rifiuti, che quotidianamente la nostra vita associata produce.
Meno evidente è il dovere di curarsi di tutte queste problematiche non solo egoisticamente per star noi meglio, ma anche per migliorare la casa comune di tutti, a livello locale come a livello planetario. Un’educazione all’ecologia ambientale e umana appare sempre più urgente, come risulta non meno importante una spiritualità ecologica, che attinga al dovere originario di custodire  il giardino affidato dal Creatore alla creatura la maturazione di pratiche virtuose personali e collettive nei riguardi dei consumi, della nutrizione, del rispetto della natura, della promozione della vita e della qualità della vita per ogni essere umano, in tutte le fasi del suo sviluppo.
Non meno alta occorre poi mantenere l’attenzione sul rilievo internazionale del nostro Paese. Va detto con onestà che se l’Italia piange in questo campo, l’Europa non ride: l’Unione europea ha risposto per lo più in ordine sparso, spesso in ritardo e senza slanci, alle emergenze che si sono profilate sulla vasta scena del mondo, incapace – come ha affermato il cardinale Bagnasco nella prolusione al Consiglio permanente dei Vescovi italiani il 26 settembre scorso – «di esprimere una visione comunitaria inclusiva dei doveri propri della reciprocità e della solidarietà». A loro  volta, le risposte del nostro Paese alle situazioni di crisi sono sembrate spesso improvvisate, nell’assenza di una vera sinergia con gli altri Paesi dell’Unione, com’è accaduto davanti all’emergenza dell’immigrazione via mare, o con tentennamenti che hanno portato a esiti discutibili, come si è visto nella drammatica vicenda bellica in Libia, dove uno spietato dittatore, prima osannato – perfino con effetti “teatrali” -dalla nostra classe politica, è stato poi indicato con vertiginosa evoluzione come nemico ingombrante e pericoloso. Occorre inoltre ammettere – come dimostrano alcune copertine di media internazionali o titoli di testate leader nei vari mondi linguistici – che «stili di vita difficilmente compatibili con la dignità delle persone e il decoro delle istituzioni e  della vita pubblica», praticati da alcuni nostri rappresentanti sulla scena internazionale, hanno avuto effetti fortemente negativi: come ha ancora affermato il cardinale Bagnasco, essi non solo «ammorbano l’aria e appesantiscono il cammino comune», ma fanno sì che «l’immagine del Paese all’esterno venga pericolosamente fiaccata”. Quanto avremmo bisogno di autorevolezza morale e politica e di credibilità internazionale! Quanto è urgente individuare persone affidabili che si gettino nella mischia per spirito di servizio e passione civile e non per proprio interesse e  vantaggio!
Ai doveri di solidarietà verso i più deboli del pianeta, infine, dovrebbero richiamarci le gravi emergenze in atto, fra le quali basti segnalare la fame nel Corno d’Africa. Nella sua antica esperienza, la Chiesa dedica in particolare il mese di ottobre a risvegliare l’attenzione e l’impegno per l’azione missionaria, che -proprio in quanto si pone al servizio della buona novella  dell’amore di Dio per tutto l’uomo e per ogni uomo – è spesso anzitutto impegno di promozione umana e di soccorso a chi versa in drammatiche situazioni di bisogno e di non umanità. Nei media, per  lo più, i riflettori vengono puntati sulla gravità delle urgenze solo in alcune fasi e per ragioni contingenti di cronaca o di interesse politico. Perfmo nelle maggiori testate giornalistiche è  difficile riscontrare un’attenzione costante a questi problemi, che funga da stimolo critico e da strumento di coscientizzazione ai doveri della solidarietà. A volte si ha la sensazione di.muoversi in orizzonti privi di colpi d’ala, segnati dall’indifferenza di fronte ai mali di chi ci è geograficamente lontano, e che spesso patisce le conseguenze negative di un ordine economico internazionale di cui al contrario noi beneficiamo. È utopia pensare a un’etica della comunicazione che responsabilizzi ai doveri della solidarietà internazionale, e ci faccia sentire cittadini del “villaggio globale”, tale non solo nella rete delle informazioni e degli interessi, ma anche nell’attenzione ai bisogni dei più deboli e agli interventi in loro favore? È ambizione vana sognare un Paese dove la  mondialità sia avvertita diffusamente come interrogativo sui nostri stili di vita e stimolo a una condivisione che raggiunga i più lontani bisogni della famiglia umana nell’unica grande casa del  mondo? Chi può farlo s’impegni a restituire al Paese una simile attenzione e contribuisca a mettere al servizio di tutti nel villaggio globale le potenzialità della nostra storia, della cultura e  dell’arte italiana, del patrimonio spirituale da cui veniamo, che ci caratterizza ben più profondamente degli squallidi comportamenti che hanno occupato le prime pagine lei giornali in queste settimane.

Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto

in “Il sole 24 Ore” del 2 ottobre 2011

Il mondo cattolico e la politica

 


 

De Rita: “È ora, un cattolico torni a guidare il Paese”
intervista a Giuseppe De Rita, a cura di Fabio Martini
in “La Stampa” del 30 settembre 2011

Ma davvero la Chiesa italiana sta preparando un’Opa sul futuro centrodestra? Giuseppe De Rita sorride: «I tempi della Chiesa e del mondo cattolico sono molto lenti. In queste settimane sembra che  siano in atto delle accelerazioni, ma è in corso una ruminazione», eppure alla fine di questo pensamento il fondatore del Censis, che sarà uno dei relatori del convegno di Todi promosso dalla Cei, pone un traguardo ambizioso: è ora che un cattolico, un giovane cattolico, torni alla guida del Paese. Classe 1932, fondatore del Censis, De Rita da 40 anni è lettore profetico della realtà sociale, ma anche un cattolico liberale che ha sempre seguito con attenzione le vicende della Chiesa.


Nell’ultima prolusione il cardinale Bagnasco lascia capire che la Cei intende star dentro la stagione che si aprirà con l’uscita di scena di Berlusconi: è così?

«La Chiesa sta ruminando la fine di tre cicli. La conclusione del ciclo berlusconiano. Quella di un centrodestra che non è riuscito ad essere un vero centrodestra, dal mercato ai valori. E rumina anche la fine del ciclo della soggettività, che certo ha creato grandi cose – la piccola industria, il lavoro indipendente e professionale, tutto il “fai da te” italiano – ma ha generato anche il soggettivismo etico: ciò che deprime, asciuga comportamenti e valori».

Ruminare per arrivare dove?
«Non se ne uscirà, dicendo: fate il partito cattolico che tutto risolve. Il mondo cattolico non è un mondo unitario, perché comprende la dimensione ecclesiale e parrocchiale, una realtà di grandi associazioni categoriali e poi c’è quella decina o centinaio di persone che fanno politica in senso professionale che però rappresentano sempre meno gli altri mondi, come facevano i politici democristiani. Tutto questo meccanismo non è ancora in grado di esprimere una linea politica. Ma in due anni sono stati fatti molti passi avanti. Tre anni fa non sarebbe stato possibile neppure  fare Todi: per farlo bisognava chiedere il permesso a Bertone. Invece lo si farà e con una grande partecipazione».


E’ finita la stagione nella quale la Chiesa faceva lobby per questa o quella legge?

«Io non ho mai amato la Chiesa che fa lobby però quando nel 1994 saltano tutti gli equilibri, alla fine hanno detto: vediamo quali sono gli interessi. Ruini l’ha illustrata come una svolta di cultura  ed era una svolta di lobbismo, ma non è stato un errore grave, perché sarebbe rimasta soltanto una Chiesa di testimoni, di gente che non voleva sporcarsi le mani».


Si dice: esce Berlusconi e la Cei favorirà la nascita di un nuovo partito più vicino alla Chiesa…

«Non è detto che i cattolici italiani, ruminando, si trovino alla fine nel Ppe. Ma penso che l’unica possibile collocazione dei cattolici sia nel centrodestra. Non è soltanto un posizionamento tattico,
perché lì c’è da prendere l’eredità di Berlusconi, ma per effetto di un rapporto costante con la società, i cattolici sono sempre stati una parte moderata».


Nel Pd l’amalgama non è riuscita? Le pare che i cattolici, se non facevano come certi leader dei partiti contadini dell’Est, rischino di finire un po’ emarginati?

«Quelli della sinistra cattolica, da Mattei a De Mita, erano moderati che guardavano a sinistra. Ma se tu li metti in un partito che non può dichiararsi moderato, o fanno casino, o fanno prevalere le posizioni personali: da Bindi a Franceschini, da Letta a Fioroni, non riescono ad avere una posizione comune non solo per protagonismo ma perché non è possibile avere una posizione di sinistra cattolica».

Cosa spera che prenda corpo da tutto questo nuovo fermento?
«In Italia abbiamo avuto, oltre a quella cattolica, due grandi eredità fondanti: quella laicorisorgimentale, espressa da Ciampi; quella comunista che è stata portata dentro la cultura e l’identità italiana da Napolitano. Gli ultimi due Presidenti esprimono identità del passato. Ciò di cui l’Italia ha bisogno non è un Presidente cattolico od ex Dc in quanto tali, ma che faccia identità in avanti. Un cattolico di 40-45 anni. Se la Chiesa si mettesse in testa una cosa di questo genere potrebbe dire: guardate, noi non c’entriamo, quel che conta è l’identità nuova, la cultura fondante del futuro dell’Italia e chi la impersonerà. Questa è una buona carta per ricominciare a far politica».

 

 

 

 

Il mondo cattolico alle prese con il nuovo
di Marco Follini
in “Corriere della Sera” del 1° ottobre 2011

Caro direttore, come attesta anche il confronto avviato sulle colonne del Corriere della Sera i cattolici hanno avuto meriti straordinari nella storia repubblicana. Sono stati i democristiani a dare l’impronta più profonda alla nostra democrazia e ad incamminare il nostro Paese lungo un percorso di modernità. Meriti che le cronache non proprio esaltanti degli ultimi anni fanno rifulgere  perfino di più.
Tutti questi meriti bastano a far pensare che a una nuova generazione di politici cattolici sia riconosciuto, non dico un privilegio, ma qualche diritto in più in vista dell’opera di ricostruzione del
nostro Paese? Non credo proprio. Non è scritto da nessuna parte che il nostro futuro debba somigliare al nostro passato, né che i discendenti di quella storia tanto gloriosa abbiano la strada spianata davanti a sé.
Occorre semmai ricordare che l’affermazione del movimento politico dei cattolici avvenne nel dopoguerra sotto il segno di due condizioni assai particolari. La prima condizione fu che quel movimento si presentò con un’idea ben precisa di come il Paese dovesse modellarsi. Tutto il lavoro di elaborazione che quella generazione aveva svolto (il codice di Camaldoli) aveva dentro di sé un’anima, una visione. Era un progetto lungamente e profondamente pensato. La seconda condizione fu che la vittoria era tutt’altro che scontata, e direi neppure prevista. Era un’idea del Paese, appunto, e non un’agenda di governo. Una ricerca libera e sofferta, e non una passeggiata sul  tappeto rosso. E quell’idea finì per mettere radici proprio perché il suo valore era nella sua  convinzione e non nella sua utilità. O meglio, l’utilità fu resa possibile dalla profondità della convinzione.
Qui sta oggi il punto debole. La nostra generazione non ha ancora prodotto la sua idea. Ci  aggrappiamo con gratitudine (e una certa furbizia) ai ricordi che il passato ci lascia in eredità.

Coltiviamo a grandi linee una sensibilità, un’attitudine verso una società inclusiva, verso un potere mite e limitato, verso un’economia sociale di mercato, verso politiche di coesione. Ma non c’è  un progetto, non ancora.
Direi che in una parola  ci manca largamente la consapevolezza di quanto il mondo sia cambiato in questi ultimi anni, e di quanto il suo cambiamento abbia messo fuori gioco le formule di una volta. Comprese le nostre. È novità la globalizzazione, e con essa l’idea che il nostro Paese debba trovare nella divisione internazionale del lavoro una sua più specifica vocazione. È novità (di  queste settimane, se così posso dire) il fatto che nell’economia globale possano fallire gli Stati, cosa mai neppure immaginata prima. È novità il declino di una politica munifica e generosa, di quella sorta di «democrazia della spesa» che ancora oggi fa parte dell’agenda della gran parte di noi. Tutte cose che il nostro stesso dibattito evoca di rado, semmai sfiora appena. E che invece  decideranno del destino italiano, e anche del nostro.
Dopo la guerra i cattolici si sono affacciati alla politica promettendo la libertà che il fascismo aveva violato e che il comunismo minacciava, offrendo solidarietà ai ceti più deboli, prospettando  la crescita dell’economia e contando che il potere pubblico mettesse a disposizione le risorse per fare tutto questo. Oggi il potere ci garantisce molto meno. È qui la cruna dell’ago in cui dovremo  cercare di passare.

 

 

ALTRI CONTRIBUTI

 

“I fermenti di responsabilità e partecipazione che emergono dal mondo cattolico sono un’importante novità positiva per l’Italia. Noi non cadremo mai nel ridicolo… di voler arruolare la Chiesa italiana… il Pd è un partito di laici e di cattolici, che riconosce i propri valori in quelli di un umanesimo forte, che ascolta con rispetto e attenzione le preoccupazioni della Chiesa riguardo alla vita del Paese, nella peculiarità del suo magistero”

 

“Una lettera aperta di nove esponenti del Pdl al cardinale Bagnasco pubblicata sulla seconda pagina di Avvenire (come «ulteriore importante contributo al dibattito») con un titolo significativo: «Il valore a tutto tondo di un’alta riflessione morale». Gli stessi nove politici, cattolici e laici… che nel pomeriggio hanno commentato positivamente quanto affermato dal segretario generale della Cei Mariano Crociata («La Cei non fa i governi né li manda a casa»)”
“La tensione verso l’unità è una forza ineliminabile della comunità cristiana…. Ma il pluralismo delle opzioni è anch’esso un portato del Concilio, espressione dell’ottimismo della fede e terreno di testimonianza. Come sciogliere allora il nodo? Il punto è che la risposta a questa domanda devono darla innanzitutto i laici. I laici credenti per ciò che compete alle loro coscienze e responsabilità. I laici non credenti nel concorrere a definire le offerte politiche. Sarebbe clericalismo attendere dai vertici ecclesiali la scelta dello schema A o B e rivolgersi solo a loro nel tentativo di condizionarli.”

 

“Come già in altre occasioni, è stato il segretario di Stato, Bertone a offrire una sponda all’esecutivo in difficoltà… In Segreteria di Stato (più indulgente della Cei verso le bufere giudiziarie del premier) l’esecutivo di centrodestra «incassa» un’opportunità per rimanere l’interlocutore privilegiato”

 

“Le conseguenze di questo appello [di Bagnasco] sono più preoccupanti per il maggior partito del centrosinistra, all’interno del quale i cattolici manifestano da tempo il loro disagio, che non per il centrodestra, che pur essendo penalizzato dalla condanna dei «comportamenti licenziosi» di Berlusconi, ha nel post-democristiano Alfano un interlocutore qualificato per cercare di riallacciare il dialogo con le Gerarchie”
“la giustificazione storico-politica della nascita stessa del Partito democratico è stata la confluenza e l’incontro tra il riformismo cattolico e il riformismo socialista… Che cosa resta di quel mito fondativo? … [anche se] il mondo cattolico è troppo vasto, articolato, frammentato e anche laicizzato perché si possa ragionevolmente pensare di ricondurlo a unità sul terreno della politica… il «soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica» preannunciato da Andrea Riccardi… sarebbe con ogni probabilità un interlocutore esigente”

“«A proposito di rapporti tra Chiesa e politica. A 75 anni i vescovi danno le dimissioni. E i presidenti del Consiglio?». Il «tweet» di Popoli, mensile