Quei giovani dal Papa che sanno scuotere le nostre paure e le fughe nel privato

Un mare di giovani provenienti da tutto il mondo (si calcola che ai momenti di incontro con Papa Benedetto XVI siano stati oltre un milione e mezzo, di cui più di centomila gli italiani).

Una folla gioiosa e festante per le vie di Madrid. Una stupenda tavolozza di colori, di bandiere, di magliette, di volti, un coro di voci di ogni genere, un fiume in piena di canti, di parole, di risate. E poi, quegli stessi giovani raccolti nel silenzio prolungato dei momenti di adorazione, attenti e riflessivi nei tempi delle catechesi, spontanei e generosi, stanchi e felici, pronti sempre a  ricominciare la giornata con entusiasmo. E noi, vescovi e sacerdoti, educatori e catechisti, insieme con loro, a condividere cibo ed esperienze, testimonianza e fatica, fede e gioia profonde, sin dai giorni dei cosiddetti “gemellaggi” nelle principali città della Spagna. Tutto questo e molto di più è stata la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù (GMG), tenutasi nella capitale spagnola in questo agosto infuocato. Alcuni media hanno dato evidenza a qualche chiassosa contestazione di “laicisti” radicali (certamente non “laici”, se con questo termine si vuole intendere la  posizione di chi rispetta tutte le posizioni e le identità): la violenza verbale (e talvolta non solo) di qualche scalmanato ha trovato la sua smentita migliore nella risposta del tutto non violenta e serena dei giovani, che hanno semplicemente continuato a cantare, testimoniando gioia e amicizia, simpatia e bellezza della loro scelta di fede.


Stando con questi ragazzi, parlando loro con fiducia e trasparenza, ascoltandoli e vedendoli nei tanti momenti di incontro, non ho potuto non chiedermi quale messaggio venga da loro a tutti noi e alla nostra Europa in crisi economica e morale. Provo a dare qualche risposta, certo però  che ciò che si è vissuto in questi giorni a Madrid ha un potenziale di vita e di speranza ben più grande di quanto immediatamente si possa rilevare. In primo luogo questi ragazzi hanno saputo testimoniare che libertà e impegno non solo non si oppongono, ma sono l’una il volto dell’altro: se si pensa ai sacrifici che hanno affrontato (dormendo per giorni in sacco a pelo nelle condizioni anche più proibitive, e mangiando in una maniera che definire sobria è già molto…) e alla gioia con cui li hanno vissuti, ci si rende conto che nessuno avrebbe potuto costringerli a tanto se non ci fosse stata in ciascuno una scelta libera e consapevole di volerci essere. Qui sta la bellezza dei cammini di preparazione che hanno portato questi ragazzi a vivere la GMG, ma qui emerge anche la straordinaria capacità dei nostri giovani di saper fare scelte consapevoli e responsabili di impegno e di dedizione. Vedendoli, mi è venuta tante volte in mente la frase fulminante di Paul Ricoeur a proposito del rapporto fra libertà e necessità: “C’est l’amour qui oblige”. Solo per amore si fa liberamente quello che nessun obbligo esteriore e nessun oro del mondo potrebbe portarti a fare.


Una seconda impressione che ho ricevuto da questi giovani è quella della loro trasparenza, della lealtà e della limpidezza dei loro occhi, dei loro sguardi, del loro cuore. Il loro stare insieme in un clima di amicizia semplice e festoso, dimostra come tanti, veramente tanti giovani di oggi siano molto migliori di come qualcuno vorrebbe dipingerli nel loro insieme. Di fronte allo scenario della politica non solo nostrana, che  suscita tante volte disaffezione e perfino disgusto, soprattutto quando si sente dai responsabili della cosa pubblica l’appello alla solidarietà e alla rinuncia senza vederne le conseguenze nella vita e nello stile propri di chi queste rinunce le chiede, questi ragazzi sono una sfida vivente a credere che un mondo diverso e migliore sia non solo possibile, ma necessario e urgente. Nel volto e nel cuore di questi ragazzi la speranza torna a essere l’anticipazione militante dell’avvenire, la passione per ciò che è possibile e bello per tutti, l’inizio di quel mondo nuovo che tira nel presente degli uomini qualcosa della bellezza del futuro promesso di Dio.


Infine, è la radice profonda del comportamento dei giovani a Madrid che mi sembra debba far pensare tutti: essi ci sono andati per ascoltare parole forti, tutt’altro che accomodanti, come quelle che Benedetto XVI sa dire con la sua intelligenza e la fede del suo cuore. Il loro ascolto, il loro entusiasmo li ha accomunati al di là delle differenze e perfino delle distanze di lingue, di culture, di condizioni sociali e politiche, dimostrazione ineccepibile di come il Vangelo sia ancora oggi e forse ancor più che in altri momenti della storia buona novella per amare, sperare e dare la vita per gli altri. E il Vangelo è sfida e dono a vivere quell’esodo da sé senza ritorno in cui consiste propriamente l’amore: un amore certo impossibile alle sole capacità umane, ma che diventa possibile con la grazia di Dio. Questo possibile, impossibile amore hanno incontrato e annunciato i giovani convenuti a Madrid: l’alternativa al vuoto di valori, all’assenza di senso, all’evasione egoistica e inconsistente, esiste, ed è l’impegno di amore al servizio del bene comune, sostenuto dalla fede e dall’amore che il Dio crocifisso ha offerto alla storia di tutti.

Mi chiedo se da questi giovani non venga a tutti noi una proposta capace di scuotere le nostre paure, i nostri calcoli mediocri, le nostre fughe nel privato. La proposta di un Dio più che mai giovane, attuale e necessario come giovane e necessario è per tutti l’amore, per vivere e dare senso e bellezza alla vita.

in “Il Sole 24 Ore” del 21 agosto 2011


Le parole del Papa



I testi integrali dei discorsi e delle omelie di Benedetto XVI alla Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid, nel sito del Vaticano:   > JMJ 2011 Madrid


GMG di Madrid online!
Racconta live la tua esperienza



iGMG è un’applicazione creata in occasione della Giornata Mondiale delle Gioventù 2011 di Madrid. Ricca di contenuti audio e video sarà la tua compagna di viaggio in questo evento popolato da giovani di tutto il mondo. All’interno di questa applicazione troverai un diario giornaliero che ti permetterà di appuntare, giorno per giorno, i luoghi visitati, le esperienze vissute, una piccola riflessione; inoltre potrai aggiungere gli amici conosciuti, scattare foto o registrare dei video e tenerli “inseriti” nella giornata in modo che questi momenti diventino ricordi indelebili della tua vita. Sarà possibile anche condividere tutto ciò sulla tua bacheca di Facebook.

Guarda l’articolo – 6/07/2011

La prossima GMG da Madir a Rio de Janeiro



Da Madrid il cuore guarda già a Rio de Janeiro, dove si svolgerà la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, dal 23 al 28 luglio 2013.
Nell’udienza generale di mercoledì 24 agosto, il Papa ne ha presentato anche il tema, tolto dal Vangelo: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19).
Con ancora negli occhi e nel cuore la “formidabile esperienza di fraternità e di incontro con il Signore, di condivisione e di crescita nella fede” vissuta tra i circa due milioni di giovani di tutto il mondo che hanno partecipato alla Gmg di Madrid, il Papa ha voluto immediatamente avviare la preparazione del prossimo appuntamentio che avrà una tappa significativa nella prossima domenica delle Palme, quando la Gmg sarà celebrata a livello diocesano attorno all’espressione paolina “Siate sempre lieti nel Signore” (Fil 4,4).
Ripercorrendo i momenti delle giornate di Madrid – “un grande dono” – Benedetto XVI ha espresso le emozioni suscitate dall’entusiasmo con il quale i giovani e la Spagna lo hanno accolto e accompagnato fino alla celebrazione conclusiva, avvenuta domenica scorsa, 21 agosto.
L’impressione più viva che il Papa ha detto di conservare “con gioia nel cuore” è quella che hanno saputo suscitare i circa due milioni di giovani presenti, con la loro disponibilità a portare nel mondo “la speranza che nasce dalla fede”.

Dopo Madrid.

Come Benedetto XVI ha innovato le GMG


Sono almeno tre le novità che con questo papa caratterizzano le Giornate Mondiali della Gioventù:

gli spazi di silenzio, l’età giovanissima, la passione di testimoniare la fede nel mondo.Dopo ogni suo viaggio fuori d’Italia, Benedetto XVI ama tracciarne un bilancio nell’udienza generale del mercoledì successivo.

Fece così dopo la Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia, nell’agosto del 2005:

> Riflessione sul pellegrinaggio a Colonia

Non lo fece invece tre anni dopo, di ritorno da Sydney, perché era luglio e in questo mese le udienze generali sono sospese. Ma il papa commentò più tardi quella sua trasferta australiana nel discorso che tenne alla curia romana per gli auguri di Natale del 2008, riprodotto in questo recente servizio di www.chiesa:

> A Madrid risplende una stella

Questa volta, di ritorno da Madrid, ecco la riflessione che mercoledì 24 agosto Benedetto XVI ha dedicato alla terza Giornata Mondiale della Gioventù del suo pontificato:

> “Oggi vorrei riandare brevemente con il pensiero…”

Da questa e dalle sue precedenti riflessioni, è evidente che Benedetto XVI vede le Giornate Mondiali della Gioventù come un momento saliente della sua missione di successore di Pietro.

A una semplice osservazione esterna, questi ultimi raduni mondiali manifestano almeno tre caratteri distintivi e nuovi, che a Madrid sono apparsi con particolare visibilità.

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Il primo è il silenzio. Un silenzio prolungato, intensissimo, che cala nei momenti chiave, in una marea di giovani che fino a subito prima esplodevano di gioia festante.

La Via Crucis è uno di questi momenti. Un altro, ancor più impressionante, è quello dell’adorazione dell’ostia santa durante la veglia notturna. Un terzo è stato quello della comunione durante la messa conclusiva.

L’adorazione silenziosa dell’ostia santa è un’innovazione introdotta nelle Giornate Mondiali della Gioventù da Benedetto XVI. Il papa si inginocchia e con lui si inginocchiano sulla nuda terra centinaia di migliaia di giovani. Tutti protesi non al papa ma a quel “nostro pane quotidiano” che è Gesù.

Il violento scroscio temporalesco che a Madrid ha preceduto l’adorazione eucaristica, creando notevole scompiglio, ha reso ancor più impressionante l’irrompere di tale silenzio. E altrettanto è accaduto la mattina dopo, nella messa. L’inaspettata cancellazione della distribuzione della comunione – per non chiarite ragioni di sicurezza – non ha prodotto disordine e distrazione nella distesa sterminata dei giovani ma, al contrario, un silenzio di compostezza e intensità sorprendenti, una “comunione spirituale” di massa di cui non si ricordano precedenti.

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Un secondo carattere distintivo di quest’ultima Giornata Mondiale della Gioventù è l’età media molto bassa dei convenuti, 22 anni.

Questo significa che molti di essi vi hanno preso parte per la prima volta. Il loro papa è Benedetto XVI, non Giovanni Paolo II, che hanno conosciuto solo da bambini. Essi sono parte di una generazione di giovani e giovanissimi molto esposta a una cultura secolarizzata. Ma sono nello stesso tempo il segnale che le domande su Dio e i destini ultimi sono vive e presenti anche in questa generazione. E ciò che muove questi giovani sono proprio queste domande, alle quali un papa come Benedetto XVI offre risposte semplici eppure potentemente impegnative e attrattive.

I veterani delle Giornate Mondiali della Gioventù c’erano, a Madrid. Ma soprattutto tra le decine di migliaia di volontari che si sono prestati per l’organizzazione. O tra i numerosi sacerdoti e religiose che hanno accompagnato i giovani, e le cui vocazioni sono sbocciate proprio in precedenti Giornate Mondiali della Gioventù. È ormai assodato che questi appuntamenti sono un vivaio per le future leadership delle comunità cattoliche nel mondo.

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Un terzo carattere distintivo è la proiezione “ad extra” di questi giovani. A loro non interessano affatto le battaglie interne alla Chiesa per un suo ammodernamento al passo con i tempi. Sono lontani anni luce dal “cahier de doléances” di certi loro fratelli maggiori: per i preti sposati, per le donne prete, per la comunione ai divorziati risposati, per l’elezione popolare dei vescovi, per la democrazia nella Chiesa, eccetera eccetera.

Per loro, tutto questo è irrilevante. A loro basta essere cattolici come papa Benedetto fa vedere e capire. Senza diversivi, senza sconti. Se alto è il prezzo con il quale siamo stati salvati, il sangue di Cristo, alta dev’essere anche l’offerta di vita dei veri cristiani.

Non è la riorganizzazione interna della Chiesa, ma la passione di testimoniare la fede nel mondo a muovere questi giovani. Il papa glielo stava per dire con queste parole, nel discorso interrotto dal temporale:

“Cari amici, non abbiate paura del mondo, né del futuro, né della vostra debolezza. Il Signore vi ha concesso di vivere in questo momento della storia, perché grazie alla vostra fede continui a risuonare il suo nome in tutta la terra”.

Il vaticanista americano John L. Allen ha definito i giovani convenuti a Madrid “Evangelical Catholics”:

> Big Picture at World Youth Day: ‘It’s the Evangelicals, stupid!’

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La nota di Catholic News Service a proposito della “comunione spirituale” durante la messa conclusiva:

> ‘Spiritual Communion’: Youths learn a traditional concept the hard way

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Su un’altra innovazione introdotta da Benedetto XVI nell’ultima Giornata Mondiale della Gioventù:

> Papa Benedetto confessore. L’esordio a Madrid

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di Sandro Magister


Altri contributi sulla GMG:

26 agosto 2011

“Un ebreo, Benjamin, due musulmane, Farah e Dieynaba, degli scout col fazzolettone, dei membri del Movimento eucaristico dei giovani, dei fan di Taizé, degli accompagnatori di giovani nella loro diocesi, una persona convertita da poche settimane… I giovani del gruppo Coexister hanno passato la settimana a Madrid. Alla GMG, hanno fatto molti incontri che hanno portato a grandi dibattiti: con i giovani cristiani del mondo intero, ma anche tra loro”
“È molto difficile esprimere una valutazione della GMG da poco terminata a Madrid in questo mese d’agosto 2011, appena scesi dal pullman di ritorno da Madrid… desideravo sostenere e accompagnare i giovani dell’associazione Coexister che avevano deciso di parteciparvi insieme, cattolici, musulmani ed ebrei”

24 agosto 2011

L’arcivescovo di Madrid: «Il Papa si è comportato come un padre, ha voluto incontrare tutti. Abbiamo sperimentato l’espressione concreta della comunione». Yago de la Cierva: nelle difficoltà i ragazzi sono stati un esempio di civiltà.

Annuncio vocazionale che vince la mediocrità di Antonello Mura

– Madrid rilancia l’evangelizzazione

– E anche l’economia sorride

22 agosto 2011

“La massa di ragazzi convenuta dai cinque continenti e da ben 193 Paesi, nonostante prima l’afa, poi la tempesta, quindi la mancanza d’acqua e poi una notte quasi insonne, hanno accolto con gioia e passione ancora ieri mattina Benedetto XVI nell’immenso campo attorno alla base aerea… Per molti osservatori il Papa è uscito dalla Spagna non solo con un successo rafforzato di immagine, ma anche con un risultato politico concreto”
“«Se Dio è buono, perché mi ha caricato di così tanto dolore», chiede il giovane cattolico Pablo, dopo aver visto due milioni di suoi coetanei, cantare e pregare per eccesso di gioia”

21 agosto 2011

Dal Rapporto del Censis emerge un volto dei giovani italiani di oggi ben diverso: “non hanno alcuna fiducia nella lotta collettiva per cambiare il mondo e dunque preferiscono adattarsi.”
“Il mondo va a rotoli, l’Europa barcolla, lo spettro del collasso dell’economia aleggia nel Vecchio Continente, il futuro è incerto soprattutto per le giovani generazioni, ma nell’ultima settimana Madrid è stata pacificamente invasa da un pezzo di umanità che non sembra segnata dalla paura e dal pessimismo”

20 agosto 2011

“Tra questi Antonio, pugliese che studia a Roma, e che tutti i venerdì sera distribuisce la cena alla persone che vivono per strada a Porta Pia. E Irene, al terzo anno di liceo, che a Novara si occupa del catechismo ai bambini rom. E Lena, che ad Anversa tutti i sabati fa un doposcuola per bambini di diverse nazionalità per favorire l’integrazione. Il Papa li ha guardati e benedetti tutti.”
“…Poi però parli con loro (senza microfono) e scopri che le preoccupazioni ci sono, e ci sono anche le sofferenze; c’è a volte la malattia, c’è il senso di precarietà causato dalla mancanza di lavoro. Ma non c’è angoscia. C’è, al contrario, una profonda fiducia nell’uomo e nelle sue risorse, perché tutti vivono una fede che non è fondata su una teoria o su una filosofia. Dicono di aver fatto l’incontro che ha cambiato la loro vita.”
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19 agosto 2011

Benedetto XVI e la verità. “E’ nel dialogo, è nell’incontro con l’alterità che ci si accosta alla verità. Lì imparo a non vedere me stesso e le mie idee come il tutto, come un assoluto. Senza questo atteggiamento, la religione diventa ideologia. Un atteggiamento che, se applicato fino in fondo, avrebbe secondo me conseguenze di vasta portata nella Chiesa cattolica.”
“La Giornata mondiale umanitaria, celebrata oggi, rappresenta un’opportunità per esprimere il nostro apprezzamento e gratitudine per le donne e gli uomini che lavorano in condizioni difficili e, talvolta, pericolose e che dedicano il loro lavoro e le loro vite al servizio dell’umanità”
“Chiede loro [ai giovani] di non cedere «agli impulsi ciechi ed egoisti, alle proposte che lusingano, ma che… lasciano il vuoto»… Nella terra del laico Zapatero mette in guardia da coloro che… si arrogano il diritto di decidere ciò che è la verità, il bene e il male, ciò che giusto o ingiusto, sino a chi è degno di vivere e chi no… la polemica del Papa non è diretta. Non spinge ad uno scontro ideologico con la cultura laica. Rivendica il contributo positivo dei valori cristiani”
“resta particolarmente importante chiarire cosa s´intenda qui con fatto religioso. Perché alcuni dei ragazzi che partecipano alla Giornata non sono credenti; come non tutti coloro che rompono le vetrine sono criminali o tutti coloro che gridano libertà sono democratici… in definitiva, ad attirare tanti giovani a radunarsi è unicamente la razionalità del sacro, un desiderio di ascoltare la verità e di far parlare la coscienza”
“Guardando i volti dei cinquemila autoconvocati dei centri sociali, dei partiti comunista e repubblicano, delle associazioni laiche come anche dei cristiani di base e di altre associazioni cattoliche fermamente contrarie all’opulenza del cerimoniale approntato, e confrontandoli con quelli dei gruppi di pellegrini, fedeli e scout raccolti per festeggiare Benedetto XVI si ha l’impressione di guardare le stesse persone, due facce della stessa medaglia.”
” non è fatta di “bambini papalini” la gioventù che arriva alle Giornate. È’ uno spaccato di carne viva di una generazione (o di una fascia di generazione), che cerca solidarietà, fraternità, autenticità di valori e il difficile dialogo con quel soggetto misterioso chiamato Dio” Ma “Nessuno vuole mai ascoltarli (i giovani) su come loro vorrebbero vedere la Chiesa nel terzo millennio. Vescovi, cardinali e papi li considerano come persone da “orientare”.

18 agosto 2011

“La sera di mercoledì 17 agosto erano parecchie migliaia i partecipanti alla marcia organizzata da più di un centinaio di associazioni di laici, atei e cristiani progressisti, appoggiati dagli “indignati” per denunciare il costo delle Giornate Mondiali della Gioventù (GMG), che si svolgono a Madrid a partire dal 15 agosto.””
“Buenos catolicos y catolicas usan preservativos” “spiace vedere giovani cattolici (quelli con la maglietta rossa e quelli con lo zainetto) non entrare in dialogo e restare separati per una questione di idee. In mezzo ai tanti incontri e alle tante catechesi che si tengono in questi giorni, forse non sarebbe stato male organizzare anche una tavola rotonda…” (ndr.: finalmente un giornalista che fa il suo mestiere: informa e riflette)
“La “profezia” di questa Gmg2011, celebrata solo otto mesi dopo la conclusione di quel 2010 che nella storia della Chiesa verrà certamente ricordato come “l’anno zero” dell’istituzione clericale, consiste anche in quel milione e mezzo di famiglie che, inviando i loro figli poco più adolescenti a Madrid, dimostrano di fidarsi ancora del cattolicesimo. Perché hanno un Papa che, quando parla, è umile e dice sempre la verità.”(ndr.: Non è solo Gesù Cristo la via la verità e la vita? l’enfasi sui numeri sa tanto di prova muscolare più che di prova evangelica)
“Bisogna affrontare il problema con saggezza e prudenza, ma non si può fare finta di niente e accantonare l’intera questione come accaduto negli ultimi anni. Con una crisi sempre più prepotente e in una società così precaria è pericoloso se le persone si sentono escluse, e Londra non è poi così lontana…”
“Può la Chiesa italiana rifiutarsi di affrontare nella fase attuale la questione dell’8 per mille, che pesa sul bilancio dello stato per oltre mille milioni?” “La via maestra, la più dignitosa per la Chiesa, è che la Cei nella seduta del suo prossimo Consiglio permanente a settembre annunci di lasciare allo Stato una quota cospicua dei finanziamenti”.
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17 agosto 2011

“Per alcuni atei, il mantenere l’identità europea sarebbe un motivo sufficiente per mettere da parte la lunga inimicizia tra loro e le chiese””a differenza degli Stati Uniti – dove le dispute fra atei e credenti sono aspre e persistenti – in Europa i non credenti conservatori hanno trovato alleati pronti in alcuni leader religiosi del continente, in particolare in papa Benedetto XVI”
“Pur mostrandosi all’attacco per quanto riguarda il posto del cattolicesimo in Spagna, il cardinale Antonio Maria Rouco Varela ha fatto molta attenzione a non esprimere critiche nei confronti del governo socialista e a non ricordare le leggi contro le quali la Chiesa si è levata in questi ultimi anni, come il matrimonio omosessuale o la liberalizzazione dell’aborto. Una netta differenza rispetto ad altri discorsi od omelie sentite nel passato”
“il 75% della popolazione spagnola continua a dichiararsi cattolico (tra i giovani il 53%)… ma solo il 15% degli spagnoli va a messa “quasi tutte le domeniche” (tra i giovani il 9%)… Evaristo Villar, prete e teologo… portavoce dell’associazione Redes cristianas (reti cristiane) che parteciperà ad una manifestazione contro la celebrazione delle GMG: “La separazione del trono e dell’altare fa parte del messaggio di Cristo. Ora, la gerarchia cattolica della Chiesa spagnola, che gode di molte sovvenzioni, fa troppa politica e assume posizioni retrograde che dimostrano le sue reticenze a modernizzarsi””
“da Papa teologo ha cercato di trasmettere con immagini vive ai ragazzi della GMG i misteri della fede cattolica, come quando a Colonia, sei anni fa, paragonò il cambiamento che avviene nella consacrazione eucaristica alla fissione nucleare” (ndr.:Non mi sembra che il neoediorialista della Stampa, già vaticanista del Giornale, abbia scelto l’esempio migliore. I misteri della fede non hanno bisogno di queste pseudodelucidazioni scientifiche, che hanno l’effetto di confondere più che di chiarire. Utilizzare poi la fissione nucleare, la rottura del nucleo di un atomo, per “spiegare” l’eucaristia, cioè l’espressione della massima unione possibile, del massimo amore, è davvero troppo. Non è oltretutto un’idea originale, già utilizzata da altri nel passato per “spiegare” l’immagine della sindone, suscitando giustificata ilarità. Un maggiore spirito critico non guasterebbe)



I giovani e la razionalità del sacro

Si fa un gran parlare dei giovani. È, in fondo, la forma retorica più antica e consolidata che si conosca. Tanto è vero che si sprecano sempre affermazioni solenni e proverbiali quando non si
comprende nulla o quasi di un certo fenomeno. Ben più complesso diviene, invece, il discorso non appena si vuole parlare realmente con cognizione di causa delle nuove generazioni, in un contesto, come quello attuale, nel quale non sembra sia più possibile restare nei limiti di una sola cultura o di una specifica civiltà determinata.
Alcuni eventi sono una buona occasione per farlo. Il più espressivo del protagonismo peculiare dei ragazzi è certamente la Giornata Mondiale della Gioventù che si sta svolgendo in questi giorni a Madrid alla presenza di Benedetto XVI. Ho avuto modo di sperimentare personalmente di cosa si tratti in tutte le occasioni in cui ho accompagnato Giovanni Paolo II dai primi energici appuntamenti fino agli ultimi più faticosi. E poi anche a Benedetto XVI in Germania nel 2005. È stupefacente che dopo 28 anni non solo non è finita la spinta partecipativa, ma il coinvolgimento sembra perfino aumentato. Quest’anno, il profilo essenziale dei partecipanti si esprime così: età media intorno ai 22 anni, il 48 per cento studia (di cui il 58 per cento in un’istituzione  universitaria), il 40 per cento lavora, il 6 per cento è disoccupato; uno su dieci è già sposato; il 55 per cento vive in casa coi genitori. Provengono da 187 Paesi diversi. La cifra totale dei  partecipanti supererà il milione di persone.
Il dato è fin troppo chiaro per essere commentato. È un campione rappresentativo, vasto ed eterogeneo di persone normali.
D’altronde, anche in altre occasioni diverse vediamo i giovani raccogliersi insieme per qualche scopo, senza particolari segni distintivi. È il caso, ad esempio, delle proteste inglesi che hanno messo a ferro e fuoco la città di Londra o della Primavera araba nel Magreb. Giovani, sempre giovani, differenti gli uni dagli altri, che agiscono in modo peculiare e per motivi comuni imparagonabili. Ma sempre e solo giovani, senza specifiche qualità.
Ecco così che, leggendo ogni volta le statistiche, si rimane insoddisfatti, sprovvisti di una spiegazione valida sulle ragioni per cui non un bambino o un adulto, ma un ragazzo non più adolescente  decida di dedicare alcuni giorni della propria vita a stare con altri coetanei che non conosce, in una città che non gli è familiare, a vivere un evento di natura religiosa.
Il citato paragone può, in questo senso, aiutare a capire. I movimenti di ribellione britannica, sono espressione di un moral collapse come ha detto in modo sintetico il premier inglese David Cameron. 
Una paradossale assenza di finalità e di principi che si traduce in un nichilismo sconfinato.
Distruggere, lo si capisce bene, è la quintessenza di una rabbia che trova soddisfazione unicamente nella violenza urbana e nel saccheggiare negozi. In quel caso siamo, evidentemente, agli antipodi di Madrid, davanti ad un malessere generazionale che pone interrogativi duri e chiare responsabilità; direi soprattutto a noi adulti.
Ma anche le rivolte politiche in Africa sono animate da una simile spinta generazionale, questa volta evidentemente positiva. Anche lì sono i giovani a farla da protagonista, non volendo più  accettare e tollerare di vivere al di sotto di loro stessi, delle proprie capacità, possibilità, libertà. È lampante che rispetto al primo caso non è il nichilismo a spingere all’azione, ma una giusta volontà di cambiamento, un anelito civile a riempire il vuoto sociale in cui si è costretti a vivere.
Paragonate a queste agitazioni di massa, quanto spinge giovani di tutto il mondo a stare alcuni giorni con il Papa è il desiderio di fare un’esperienza opposta e decisiva rispetto ad ogni altra. Anche se, a ben vedere, vi è una medesima opzione motivazionale forte, alternativa al restarsene a casa o al mare. Mi ricordo che proprio in occasione della giornata dei giovani a Roma nel Giubileo del  2000 Indro Montanelli scrisse che una spiegazione, in casi del genere, non la dà né la sociologia, né la demografia: bisognerebbe entrare nell’ambito della religione. O esiste un fatto che chiamiamo sacro, oppure, in questi casi, non si motiva né si capisce niente di niente.
Logicamente, resta particolarmente importante chiarire cosa s’intenda qui con fatto religioso. Perché alcuni dei ragazzi che partecipano alla Giornata non sono credenti; allo stesso modo che non tutti coloro che rompono le vetrine sono criminali o tutti coloro che gridano libertà sono democratici.
Mi ricordo di aver indagato in passato sulle ragioni di simile affluenza e di aver trovato delle risposte insolite ma coincidenti tra i ragazzi stessi che partecipavano. Alcuni mi rispondevano che nessuno, in società, a scuola o in famiglia, era in grado di dire qualcosa di simile a quello che stavano ascoltando. Alcuni confessavano il dubbio se sarebbero stati in grado di vivere sempre al livello etico che il Papa chiedeva loro, anche se si sentivano per questo, ancora di più, chiamati ad esserci. Tutti, con disarmante semplicità affermavano: «Ma lui (il Papa) ha ragione». Cioè, dice il vero.
Comprendere giornate intense di preghiera e ascolto, non prive di sacrifici per i partecipanti, significa andare al cuore dell’esperienza religiosa. Richiede di superare in modo drastico quel relativismo imperante che spinge a fare solo ciò che le proprie pulsioni (anche la noia) impongono.
Davanti a sé e accanto a sé c’è una ragione che è vera, una spiegazione umana che garantisce di trovare la propria identità, oltre il proprio nulla e oltre i miraggi del convenzionalismo insipido con cui spesso si presenta la politica.
D’altronde, tale spinta forte a afferrare con il pensiero, il cuore e la volontà il senso della vita, è l’essenza della sana ribellione che si chiama “vita interiore”. L’alternativa, non a caso, è il fondamentalismo irrazionale e il relativismo cinico, ma mai, in nessun modo, l’esperienza spirituale.
Perciò, in definitiva, ad attirare tanti giovani a radunarsi è unicamente la razionalità del sacro, un desiderio di ascoltare la verità e di far parlare la coscienza, che solo può soddisfare le fresche aspirazioni di un giovane ad oltrepassare i circoscritti confini determinati dello spazio e del tempo.
E quelli ancora più determinati della banalità.



in “la Repubblica” del 19 agosto 2011

Segnare la svolta di un’epoca. Le parole che mancano ai cattolici


La svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce. Lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. È una «krisis» nel senso del Vangelo: un  «giudizio». Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo. Dunque solletica le paure, incoraggia i minimizzatori, svela la statura dei sovrani, denuncia la sordità di chi ha fatto spallucce per anni, chiama intelligenze politiche e spirituali dal domani.

In questo rimestarsi della storia (per ora incruento, come nel ’29  e nell’89), la Chiesa è parca nel dire le parole che pur possiede. Questi non sono i tempi di Gregorio Magno, che davanti alla fine di un’era, raduna il popolo in basilica per spiegare il profeta Ezechiele. Non sono i tempi di papa Giovanni, che nel montare del fatalismo atomico, scardina i parametri dottrinali della guerra giusta.Sono i tempi nostri, nei quali la generazione del benessere più prepotente sente di lasciare ai propri figli le macerie di un disastro politico e morale. E in questo tempo la Chiesa, nel senso più ampio del termine, è come ritratta: articola lentamente le consunte condanne degli «ismi», sussurra cose ovvie o interessate, quasi che anche per lei fosse così poco leggibile una realtà che urla da ogni orizzonte, Nel Medio Oriente sunnita esplode una jihad nella quale il nome di Dio non viene usato per aggredire, ma per sopportare, senza che chi ne ha giustamente criticato le perversioni violente ne sappia dare una lettura. Un assassino psicotico norvegese trascina fuori dall’oscurità il fondamentalismo di antisemiti classici, omofobici aggressivi, tradizionalisti paranoidi, monoculturalisti fascisti, che il diritto penale e canonico hanno ignorato, prima e dopo quel crimine.


Il genio di personaggi come Pacelli, Adenauer, De Gasperi e Schuman che — parlando in tedesco e pensando in cattolico — hanno dato all’Europa un orizzonte politico di pace, viene irriso per mesi dall’egoismo tedesco senza che il discorso cattolico sappia uscire dal vittimismo delle radici, dall’euforia dei crocifissi e dall’ossessione dei diritti dei gay.

La guerra di Libia suscita proteste periodiche del Papa che cadono nel vuoto di una Chiesa più sensibile allo spiritualismo che alla realtà. E quel pezzo di Africa che annega fra la Sirte e Lampedusa estorce qualche senso di colpa alle anime colte, ma alla fine viene trattato come una fatalità che non deve essere capita, ma accettata. La forza che ha avuto la Chiesa in transizioni di magnitudo comparabile a questa — nel VI secolo si diceva, ma anche nell’XI e nel XVI con le riforme, nel XX con il Concilio — è stata quella di saper leggere i processi storici nella loro globalità: trovarne quella chiave supremamente sintetica che, a partire dall’atto di fede in Gesù Cristo morto e risorto, sa indicare le vie di un nuovo tempo e preparare quel che è già tutto scritto nelle premesse presenti. Oggi questo atto — reso più urgente dal tragico nanismo delle leadership politiche — tarda a farsi sentire.

Eppure solo l’intuito spirituale di una comunità globale come quella cattolica può dire con autorevolezza che, se crolla un’Europa poco amata, non finisce l’euro, ma la pace. Può spiegare alla luce del proprio tesoro di insegnamenti sulla sobrietà e la condivisione che il crollo di uno stile di vita è un’opportunità di giustizia o l’anticamera del cannibalismo economico. Ma la Chiesa sa anche che per ogni profezia c’è un tempo opportuno, un «kairós», perduto il quale resta solo il peso silenzioso della penitenza: anche questa testimoniata dalle lunghe epoche buie della sua storia.

Sarebbe stupido e irriverente pensare che il dire tocchi al Papa o che l’afasia di questi mesi sia la sua. Certo Benedetto XVI ha certo modo di farsi sentire: in questi giorni a Madrid davanti a milioni di ragazzi, soprattutto a Berlino nel discorso al Bundestag di settembre, a ottobre alla preghiera interreligiosa di Assisi. E quel che dice resterà. Ma è dalla Chiesa come communio che il mondo attende una lettura del tempo che mostri la capacità di rompere quella omologazione ai riti del potere e dei media. È la communio che permette di leggere un tempo che deve essere trattenuto dalla tendenza a diventare prebellico proprio da una forza spirituale che lo lega, se sa di essere una forza e se sa di essere spirituale.


in “Corriere della Sera” del 20 agosto 2011

 

 

De Rita: “Fragili e sfiduciati, rinunciano ad indignarsi”

 

 

intervista a Giuseppe De Rita

 


Giovani esclusi da ogni prospettiva di futuro. Ma anche incapaci di scosse perché troppo fragili. E circondati da una società rattrappita. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, ragiona sul presente e futuro della generazione dimenticata dalle manovre e dai mercati.


Una generazione sfiduciata…
«La sfiducia dei giovani si ricollega a una sfiducia nel sistema. Non è la crisi a paralizzarli. Ma la barra abbassata sul futuro da un sistema incapace di tornare a fare sviluppo. Questo crea disagio».


Perché non si indignano?
«Se facessero come a Madrid o al Cairo, non sarebbero capiti. E poi qui non succederà».


Perché?
«Perché non hanno alcuna fiducia nella lotta collettiva per cambiare il mondo e dunque preferiscono adattarsi. E poi perché non esiste alcuna rappresentanza. I sindacati difendono l´articolo 18 e le pensioni. Le altre organizzazioni si occupano dei loro perimetri, i loro orti».


Come si adattano i giovani italiani?
«Nell´unico modo possibile da noi: il sommerso, l´arte di campare comunque, di arrangiarsi. Quella è la strada. Ma il sommerso non crea sviluppo».


In questo la politica non li aiuta.
«La politica conta poco. Anche se le nostre parti sociali non danno speranze o segnali. Solo tavoli. Nel ‘70 c´erano autunni caldi, l´arrivo al potere del Pci, la crisi della chimica e della grande industria, il governatore Baffi costretto a chiedere ai petrolieri di non attraccare al porto di Napoli perché non c´erano soldi. Eppure la scossa individuale alla ripresa portò a un milione di imprese,raddoppiandole».


E oggi la scossa perché non arriva?
«Da una parte la società è tutta rattrappita: imprenditori, Stato, Comuni, spesa pubblica, ripiegati su loro stessi. Dall´altra, i giovani sono fragili psichicamente e nella capacità a vivere la professione.
Anche perché hanno studiato cose che non servono. E questo non li aiuta a fare da sé, a sviluppare una professionalità propria».


La crisi li ha sommersi.
«Certo. Ma il sistema ha retto: il reddito della famiglia, la casa di famiglia e appunto il sommerso. I giovani si sono sentiti protetti e si sono adattati. Ma questo non si tradurrà in piccola impresa e lavoro autonomo, come negli anni ‘70».


in “la Repubblica” del 21 agosto 2011


Una grammatica per dialogare

«Non ritenere vittoria l’usare la violenza contro una forma di culto o un’opinione. Farai dunque così: cesserai di polemizzare con gli altri e parlerai della verità in modo che tutte le cose dette siano inattaccabili… Io sono consapevole di non avere mai polemizzato contro greci o altri, perché penso sia  sufficiente, per uomini onesti, poter conoscere ed esporre il vero in se stesso… Ciascuno infatti afferma di possedere la moneta regale, ma in realtà ha forse appena l’immagine ingannevole di una particella di verità». Milleduecento anni prima che Voltaire intonasse il suo inno alla tolleranza (per altro rivolto in forma orante al «Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e dei tempi»), tra il V e il VI secolo, un oscuro monaco nascosto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita intesseva questo programma di confronto teorico e personale, con l’orizzonte in cui era immerso, un programma concretizzato nei suoi scritti che si rivelavano come un’originale riformulazione della dottrina cristiana usando la strumentazione del pensiero neoplatonico. Siamo partiti così  lontano per proporre un tema che è iscritto nel Dna del cristianesimo, anche se spesso si sono assunti vigorosi anticorpi per estenuarne l’energia. Infatti, era già l’apostolo Pietro che ammoniva così i suoi interlocutori dell’Asia Minore nella prima delle due Lettere a noi giunte sotto il suo patronato: «Siate  pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi, ma questo sia fatto con dolcezza, rispetto e retta coscienza» (3, 15-16).


I nemici del dialogo – questo è appunto il tema a cui rimandavano san Pietro e lo Pseudo-Dionigi –sono molteplici e spesso antitetici tra loro. Da un lato, il fondamentalismo integrista che mette mano subito alla spada per un duello; d’altro lato, il sincretismo che gorgheggia in un duetto confuso e incolore. Da una parte, ecco la rigidità intellettuale scambiata per rigore; d’altra parte, l’approssimazione vaga che impedisce la pesatura delle argomentazioni,  perché sui piatti della bilancia si deposita solo nebbia o mucillagine ideologica. Certo, il dialogo è faticoso, talora arduo, anche perché – come suggerisce l’etimo stesso del vocabolo – è l’attraversamento (dià) di un lógos, ossia di un discorso scomponendone tutti i segmenti argomentativi e, se si vuole, è anche l’incrociarsi (dià) di due lógoi di matrice diversa se non opposta. Ai nostri giorni s’imbocca spesso la via in discesa dello scontro immediato, senza ascolto o verifica dell’altrui pensiero, nella tipica aggressività inconcludente e pirotecnica del talk-show televisivo. La forza dimostrativa più alta è nell’insulto («Capra, capra, capra…!») oppure nel più pacato ma sempre “esclusivo” asserto dello statista vittoriano Disraeli: «Il mio concetto di persona piacevole è quello di una persona che è d’accordo con me». La difficoltà del dialogo raggiunge picchi alti quando di mezzo sono le religioni con le loro concezioni dogmatiche e le loro concrezioni secolari: ci sono ormai volumi e volumi di documenti che attestano il costante e non di rado infruttuoso sforzo di un insonne dialogo interreligioso ed ecumenico.


Per non parlare poi del confronto all’interno della stessa singola confessione religiosa ove i conservatori scagliano anatemi contro chi, a loro avviso, cavalca oltre le frontiere dell’ortodossia e questi ultimi sbeffeggiano e scandalizzano quei tiratardi inconcludenti. Ecco perché è da tenere stretto tra le  mani il libro di un teologo francese, Jean-Marie Ploux, 74 anni, che – sulla base anche di una lunga esperienza pastorale – ha elaborato una sorta di  grammatica del dialogo come impegno irreversibile per il credente. La stessa sorgente della fede cristiana è proprio in un dialogo divino che squarcia il silenzio del nulla e che ha come interlocutore privilegiato la creatura umana.


Sulle tonalità differenti di questo colloquio, che ha appunto «in principio il Lógos» per usare il celebre incipit del Vangelo di Giovanni, si leggono in questo  saggio pagine illuminanti attorno a soggetti che ora elenchiamo soltanto: l’«ospite interiore», accettare la differenza, la libertà e la verità, il «paese  dell’altro», il rischio dell’incontro, la gratuità e così via. All’abbondante sequenza di lezioni, di regole, di eccezioni che questa grammatica ideale propone si  associano anche i capitoli degli «esercizi» pratici: l’incrocio con l’ebraismo, il Dio del Corano, il risveglio del buddhismo, il confronto con coloro che non credono in nessun Dio (un «esercizio», quest’ultimo, che mi coinvolge particolarmente attraverso il progetto di un «Cortile dei Gentili», simbolo giudaico destinato a illustrare il dialogo credenti-atei). Ma Ploux s’impegna anche a declinare i “casi” dell’incontro attorno ai nodi incandescenti della verità scientifica, etica e teologica. E il suo sguardo s’allunga fino ad Assisi, divenuta per merito del beato Giovanni Paolo II l’emblema del dialogo interreligioso e  che Benedetto XVI, il prossimo 27 ottobre, ha voluto riproporre come sede del convergere attorno alla verità e alla pace della folla dei credenti secondo le mille denominazioni, ma anche dei non credenti che s’interrogano sull’«oltre» e sull’«altro» rispetto al «qui» e al «se stessi».


La certezza e la speranza sono, alla fine, quelle che il poeta surrealista francese Paul Eluard ben esprimeva in alcuni suoi versi: «Non verremo alla meta a uno a uno / ma a due a due. / Se ci conosceremo a due a due, noi ci conosceremo / tutti, noi ci ameremo tutti e i figli / un giorno rideranno / della leggenda nera dove un uomo / lacrima in solitudine».


Jean-Marie Ploux, Il dialogo cambia la fede?, Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 296, € 25,00


in “Il Sole 24 Ore” del 21 agosto 2011

Diario di una schiappa


Trasposizione filmica della serie in cinque volumi di “Diario di una schiappa” dello scrittore statunitense Jeff Kinney

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Oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo, delle quali 300.000 in Italia. Sono questi i numeri record che segnano il trionfo planetario della serie in cinque volumi firmata dallo scrittore statunitense Jeff Kinney dal titolo Diario di una schiappa. Secondo solo alla saga letteraria di Harry Potter, questo autentico fenomeno editoriale che ha appassionato milioni di giovanissimi lettori a tutte le latitudini (pubblicata in 40 paesi e tradotta in 35 lingue) non poteva non attirare l’attenzione di qualche produttore cinematografico. Arriva così l’adattamento per il grande schermo del primo volume diretto da Thor Freudenthal, nelle sale nostrane a partire dal 27 luglio e seguito a ruota nel weekend successivo dal secondo capitolo Diario di una schiappa – La legge dei più grandi, che ha visto il passaggio del testimone dietro alla macchina da presa a David Bowers.


Da parte sua, Freudenthal si limita a trasformare in immagini, grazie alla supervisione in fase di scrittura dello stesso Kinney, le divertenti e spericolate avventure fuori e tra i banchi di scuola di Greg, alle prese con i piccoli e grandi problemi dell’universo adolescenziale. La pellicola segue alla lettera lo schema narrativo del libro, vale a dire una raccolta indipendente di episodi che non ha una continuità temporale, piuttosto si sviluppa in una successione di eventi e situazioni che vedono il giovane protagonista impegnato nella ricerca della più ingegnosa delle risoluzioni alla problematica di turno. Il film, alla pari della sua matrice originale, non ha una vera e propria trama guida, ma cerca quantomeno di raccordare i singoli episodi attraverso gli spostamenti nello script effettuati nelle location dai personaggi che vanno a comporre la numerosa galleria di volti creati dallo scrittore americano, riflessi di quello che abitualmente si può ritrovare impresso nell’immaginario comune e nei ricordi di ciascuno di noi (il preside cattivo, i genitori distratti, il professore buono e quello severo, il secchione, il bullo, la bella e la brutta, l’amico del cuore sfigato). Ne nasce un collage di gag e sketch più o meno efficace che strappa di tanto in tanto anche un sorriso, supportato da una serie di frammenti animati molto elementare dal punto di vista della resa. Dietro c’è l’inconfondibile retrogusto disneyano che Kinney e gli autori della pellicola non possono scrollarsi di dosso, vuoi perché lo stesso Greg (interpretato dal bravo Zachary Gordon) e il “mondo” che lo circonda hanno troppe attinenze, corrispondenze e atmosfere simili a quelle esplorate nei decenni dalla celebre Major a stelle e strisce. Così c’è la più classica delle strizzatine d’occhio alla teen-comedy adolescenziale, che tante soddisfazioni ha dato al box office o, in alcuni casi, ossia quando ci si trova al cospetto di qualche allegra bravata, assistiamo a dejà vu che riportano alla mente Piccola peste, Gian Burrasca e Mamma ho perso l’aereo.


La trasposizione filmica di Diario di una schiappa mescola in maniera altalenante queste fonti d’ispirazioni, dando vita a una successione di momenti riusciti che si fanno largo attraverso quelli che non lo sono. Resta il fatto che non ci vuole una palla di vetro per pronosticare un certo riscontro nelle sale nostrane del primo e del secondo capitolo della serie (in preparazione il terzo); unici nemici il caldo e la voglia di mare.


Francesco Del Grosso

 

Video n.1

 

 

Video n.2



Ave Mary

Michela Murgia, Ave Mary.  E la Chiesa inventò la donna, Einaudi, Torino, 2011. € 16.00

 

 


Presentazione

La chiesa è ancora oggi, in Italia, il fattore decisivo nella costruzione dell’immagine della donna. Partendo sempre da casi concreti, citando parabole del Vangelo e pubblicità televisive, icone sacre e icone fashion, encicliche e titoli di giornali femminili, questo libro dimostra che la formazione cattolica di base continua a legittimare la gerarchia tra i sessi, anche in ambiti apparentemente distanti dalla matrice religiosa. Anche tra chi credente non è. Con la consapevolezza delle antiche ferite femminili e la competenza della persona di fede, ma senza mai pretendere di dare facili risposte, Michela Murgia riesce nell’impresa di svelare la trama invisibile che ci lega, credenti e non credenti, nella stessa mistificazione dei rapporti tra uomo e donna.

 

Da tempo si attendeva l’opera terza di Michela Murgia, dopo l’ottimo successo del suo “Acabadora” (Einaudi), caso editoriale e buona operazione di marketing che hanno ben funzionato insieme, perché, di fatto, si tratta di un bel romanzo ben promosso, e la scrittrice sarda stupisce tutti dando alle stampe un saggio: “Ave Mary” (Einaudi 16 euro) che, recita la quarta di copertina, “non è un libro sulla Madonna. È un libro su di me, su mia madre, sulle mie amiche e le loro figlie”. Un bel libro, davvero; scritto bene, con un linguaggio moderno, pop, che fa eco al new journalism americano. Il volume, insomma, si inserisce a buon titolo nel filone dei saggi redatti da scrittori attenti e impegnati (engagé come dicono i francese) che vanta nomi importanti quali Moravia, Vargas, Steinbeck, Ben Jelloun, Vargas Llosa e altri ancora. Il libro tratta del ruolo della donna nella dottrina cristiana e, soprattutto, della rappresentazione simbolica del femminile in ambito religioso. Non è un saggio femminista e la Murgia non smette di ripetere e sbandierare la sua appartenenza al mondo cattolico (è membra, da sempre, di Azione Cattolica). Si tratta di uno scritto che analizza, dal punto di vista di una credente ortodossa, ma critica in quanto donna, come la cultura cristiana e cattolica abbiano imposto a Dio di essere “solo e sempre a immagine dell’uomo, del maschio”. Il libro scorre via con uno stile mai pesante e pedante, con una struttura giornalistica d’inchiesta che è lontana dallo stile tipico del saggio teologico. Molto interessante l’ultimo capitolo dedicato al sacramento del matrimonio e a ciò che ne viene della donna al momento del fatidico si: il modello non è Adamo/Eva, neppure Giuseppe/Maria, ma Cristo/Chiesa, con tutto quello che ne consegue da un punto di vista sociale, civile e religioso. Sono pagine  da leggere, che fanno pensare. Una lettura per tutti, laici e soprattutto religiosi.  Buona lettura.

“All’Azione Cattolica col biondo Nemecsek”
intervista a Michela Murgia, a cura di Mirella Serri
in “La Stampa” del 16 luglio 2011

 

«Regalare libri è come attivare una bomba a orologeria che magari non deflagra subito ma si accende anche molto tempo dopo». Il pacco dono che ha innescato la miccia di Ave Mary polemico
saggio Einaudi di Michela Murgia su Maria di Nazareth, approdato velocemente nelle classifiche – è stato un gentile omaggio di più di dieci anni fa del teologo Lucio Casula. «Si trattava di In memoria di lei, fondamentale ricerca di Elisabeth Schüssler Fiorenza che è rimasta stampigliata nella mia memoria dando origine all’avventura di Ave Mary poiché mi ha aperto gli occhi sul rapporto tra donne e Chiesa», commenta la scrittrice che ha esordito con Il mondo deve sapere (Isbn edizioni), la prima eclatante denuncia dello sfruttamento dei lavoratori dei call center. Da cui  Paolo Virzì ha tratto il film Tutta la vita davanti .

L’anno scorso si è conquistata il Campiello con Accabadora (Einaudi) e ora è entrata nella schiera degli scrittori che – da Piergiorgio Odifreddi a Giulio Mozzi, autore con Valter Binaghi di 10 buoni motivi per essere cattolici (Laurana editore) – si cimentano con temi religiosi («Mozzi l’ho apprezzato, ma Odifreddi, che si dichiara ateo, è meglio che non si occupi di temi che possono essere di pertinenza di un cristiano critico»). Cumula successi letterari ma ha alle spalle una vita di precariato – venditrice di multiproprietà, operatore fiscale, dirigente amministrativo, portiere di notte -, una lunga militanza nell’Azione cattolica, studi di teologia all’istituto di Scienze religiose.
La narratrice di Cabras è, insomma, proprio una tipa tosta e dura al pari di quei cristalli di quarzo bianco e rosa che danno luce alle bellissime spiagge dove è vissuta e cresciuta.

 

La sua carriera di lettrice ha preso avvio tra sapori di mare e anche profumi di fritti delristorante paterno.
«Specialità pesce. Io viaggiavo con un piatto in mano e in tasca Erno Nemecsek, biondo, delicato e magro protagonista dei Ragazzi della via Paal , destinato a morire di polmonite. Nessun libro è innocente, lascia sempre un’impronta indelebile. Erno è il primo morto che incontro nella mia vita, un ragazzino che come me giocava per strada. Un trauma. A farmi compagnia c’era anche Mark Twain con Le avventure di Tom Sawyer, meraviglioso per l’invenzione linguistica. Poi è arrivata la serie degli Harmony che ha avuto un’influenza positiva. Mi identificavo con quelle giovani  donne, protagoniste semplici e sognanti che ambivano a una casa, un giardinetto, tanti bambini ma che trovavano tanti ostacoli sulla loro strada. Oggi circolano molti snobismi. Credo che non si debba disprezzare la letteratura di genere. Federico Moccia, per esempio, dà vita a cliché in cui i giovani si riconoscono, riprende la storia di Giulietta e Romeo e la cala nel presente. Tutto questo invoglia alla lettura».

In famiglia si leggeva?
«Mia madre soprattutto, e mi ha contagiato. Un virus che non sempre ha dato buoni frutti».


Cos’è successo?

«Avevamo un piccolo negozio in cui si vendevano oggetti di artigianato locale ma anche qualche manufatto di valore. E io anche lì davo una mano. Ero tutta immersa in Stephen King che mi teneva con il fiato sospeso quando, nella stanza a fianco alla mia, arrivano i ladri: così concentrata non li sento e loro si portano via un plateau di gioielli».

Un libro cambia la vita, direbbe Marzullo. Qualche volta in peggio.
«Quella della mia famiglia non c’è dubbio. Mi assolsero dalle mie colpe, ma poi arrivò anche un altro libro a mutare il corso della mia esistenza. Mi dedicavo interamente, con grande trasporto, al volontariato nell’Azione cattolica. All’epoca il mio autore preferito era Erri De Luca che mi travolgeva con lo stile semplice e per la grande profondità della riflessione. A seguire i miei corsi di religione a scuola, su Gesù, San Pietro o gli apostoli, c’erano anche allievi che non erano credenti.
Per coinvolgerli mettevo a confronto cinema, musica, arte, letteratura, mostrando le differenze tra i dissacratori Black Sabbath, gruppo heavy metal britannico, e il più tradizionale Jesus Christ Superstar ; oppure tra il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e Gesù di Nazareth di Zeffirelli. Mi cimentai anche nel confronto tra Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori e L’ultima tentazione di Cristo di Nikos Kazantzakis, assai discusso per il suo impegno nel dimostrare che il figlio di Dio, pur privo di peccato, era comunque oggetto di ogni forma di tentazione».


Fu galeotto di sventura?

«Venni chiamata in Curia, io che ero vicepresidente diocesano dell’Azione cattolica di Oristano. Il vescovo mi dice: “Carissima, ti seguo con stima e affetto, ma di Kazantzakis non ne devi parlare”.
L’ho vissuto come un affronto. Giro pagina e cerco altri sbocchi professionali, cominciando ad acquistare competenze come direttore del personale in una centrale termoelettrica».

Altre letture che l’hanno segnata?
«Leggevo grandi russi e grandi italiani. Passavo da Dostoevskij a Salvatore Satta, da Tolstoj a Giuseppe Dessì. Poi è arrivato Kafka e poi c’è stato il periodo della letteratura latinoamericana, da García Márquez a Isabel Allende a Borges. Gli inglesi e gli americani non me li sono mai fatti mancare: dal Grande Gatsby di Fitzgerald a Graham Greene al meraviglioso Cronin de Le chiavi del  regno , racconto delle vicende di padre Francis Chisholm, missionario in Cina. A questi si aggiunge la scoperta di italiani, Moravia, in particolare La noia , Calvino, Primo Levi e poi degli story teller Ken Follett e Wilbur Smith e anche degli ebrei americani, da Philip Roth a Paul Auster».


E’ capitato che altri libri regalati segnassero il corso della sua vita? In campo sentimentale?

«Un coetaneo che pensavo mi corteggiasse mi porta un dono: Stefano Benni Il bar sotto il mare , raccolta di racconti dove il bar è un luogo fantastico, si incontrano misteriosi avventori. Però poi la nostra storia non ha decollato: voleva un rapporto intellettuale. Alle ragazze con cui si desiderava avere un flirt si offrivano cd».


Quando lavorava come portiere di notte leggeva?

«Antropologia, sociologia, psicologia mi accompagnavano fino alle prime luci del mattino. Mi ricordo Filippo D’Arino, Manuale di sparizione , che spiega come in un momento in cui la nostra identità è al centro di reti di controllo telematiche sempre più intrusive e anche di relazioni personali sempre più vincolanti e soffocanti, forse non si vuole altro che sparire. Alternavo il Simposio di Platone e Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo che mette in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista».

Ultimi lidi su cui è sbarcata?
«Sorella di Marco Lodoli mi ha riconciliato con la narrativa. Ho alzato il telefono e anche se non lo conoscevo l’ho chiamato per dirgli quanto mi è piaciuto l’incontro tra la suora Amaranta e “il bambino speciale”, un ragazzino afflitto da una forma di autismo, raccontato con una scrittura agile, piacevole, intensa. Poi c’è Elisa Ruotolo, Ho rubato la pioggia , con il suo affresco di una  provincia campana superstiziosa, terra dove si fanno mestieri inverosimili da tempi immemorabili. E perché si smetta di utilizzare il corpo femminile come luogo simbolico, sia nel bene che nel male, mi piace ricordare il video di Lorella Zanardo dedicato al Corpo delle donne. Meditate gente davanti a certe immagini, mi viene da dire».

Segnali di impegno tra i cattolici

 

 

Una voglia di responsabilità politica

 


Gli anni Novanta hanno trasmesso ai politici del nuovo secolo una certezza: la definitiva scomparsa del partito cattolico. Giuseppe Dossetti affermava nel 1994: «Non ci sarà una generazione di
cattolici al potere; una seconda chance non ci sarà… la Democrazia cristiana non ha più senso». La Dc allora appariva delegittimata (anche se vale ricordare che alle elezioni del 1992 aveva preso il
29,7%dei voti, peraltro suo minimo storico). Sembrava rappresentare il vecchio, il corrotto, la commistione tra politica e vita religiosa. «Democristiano» era divenuta un’espressione dalla valenza negativa. Il nuovo era altrove. I cattolici si divisero, confluendo con Berlusconi (che raccolse buona parte dell’elettorato ex democristiano) o cominciando un viaggio con la sinistra. Presidiare il centro, anche per il sistema elettorale bipolare, è stata impresa difficile. Avvenne la diaspora politica dei cattolici. Scomparve la Repubblica dei partiti (per dirla con Pietro Scoppola), quella anomalia italiana, caratterizzata dalla centralità della Dc e dall’opposizione del partito comunista. L’Italia stava diventando un Paese «normale»? Così è sembrato a tanti, finché negli ultimi tempi è cresciuta la coscienza, ormai diffusa, che la Seconda Repubblica non sia mai veramente nata. Siamo ancora in una lunga transizione, di cui non si vede la fine.

Ultimamente anche il giudizio sui cinquantadue anni di storia della Dc si è trasformato. Non si tratta di occasionali riabilitazioni. Quella vicenda è stata rivisitata da storici come Agostino Giovagnoli, che hanno mostrato come la Dc sia stata il «partito dell’Italia» e della costruzione della democrazia. Anche a livello quotidiano, nelle conversazioni tra la gente si nota un cambiamento semantico: «democristiano» non è più termine negativo, anzi in genere esprime apprezzamento per la professionalità dei politici di quella scuola. A ben vedere il partito cattolico non è stato una meteora politica. Da quando le masse entrarono sulla scena elettorale, dopo la legge sul suffragio universale del 1912, si aprì il problema della rappresentanza cattolica. Ci fu, dal 1919 il popolarismo di Sturzo fino al 1926; poi venne dal 1942 la Dc, per iniziativa di De Gasperi e mons. Montini. Per più di mezzo secolo, l’Italia ha avuto un partito cattolico al centro del sistema. E con esso, due classi dirigenti cattoliche, intrecciate ma distinte: i vescovi e i politici. In alcuni periodi (prima di don Sturzo, durante il fascismo e dopo il 1994) non c’è stata una classe politica cattolica laica. In ogni caso, la Chiesa ha fatto sentire la sua voce in pubblico, impastata com’è con la storia italiana e con gli italiani. Oggi si riparla di una nuova volontà di presenza dei cattolici in politica. Ma dagli anni Novanta la realtà è la diaspora dei politici e degli elettori cattolici. Benedetto XVI ha ripetutamente invitato i cattolici (specie i giovani) a considerare una rinnovata partecipazione alla politica. Negli ultimi decenni però tante energie cattoliche si sono concentrate su vari mondi sociali, evitando la politica, che appariva poco praticabile.

Del resto il cattolicesimo italiano, nel suo aspetto multiforme, rappresenta la più importante rete sociale del Paese, alle cui spalle esiste una tradizione e una rinnovata elaborazione di pensiero e di valori. È un patrimonio non trascurabile in un Paese in cui si sono consumate tante risorse sociali e morali. D’altra parte il mondo dei cattolici vive in presa diretta con le difficoltà e le povertà degli italiani nella crisi economica e si sente poco rappresentato dalla politica. Il card. Bagnasco, come presidente della Cei, ha sottolineato spesso la valenza sociale e il radicamento del cattolicesimo italiano. Siamo allora di fronte alla gestazione di un nuovo partito cattolico? Forse è un fantasma che, da una parte, inquieta e rimette in discussione il centrodestra e, dall’altra, constata la crisi del contagio tra le culture del cattolicesimo democratico e della sinistra all’origine del Pd.

Certo c’è un malessere diffuso tra i cattolici, che si accompagna alla consapevolezza di avere valori, idee e esperienze. È diffusa l’aspirazione a una visione che dia speranza in un tempo di sacrifici  e che ricollochi internazionalmente un Paese ripiegato su se stesso, come ha affermato Lucio Caracciolo su Avvenire. Malessere, aspirazioni, senso di responsabilità hanno messo in movimento da anni un processo tra cattolici: questi stanno riflettendo sulla crisi, raccogliendo stimoli dal contatto quotidiano con i problemi degli italiani (attraverso una fitta rete sociale e pastorale), ma anche riprendendo un patrimonio di riflessione e di etica. I cattolici italiani sono una realtà articolata, in cui i diversi ambienti e organizzazioni, un tempo più autoreferenziali, sono in dialogo maggiormente serrato. Pochi se ne sono accorti. Se il nuovo partito cattolico sembra una notizia d’estate, bisogna però constatare una diffusa voglia di responsabilità di questi ambienti. La Dc non rinasce, ma è in corso — e non da oggi — un processo di condensazione di pensieri e volontà tra i cattolici. Non è facile classificarlo con le attuali categorie della scena politica. Certamente esprime la coscienza che non si può fare politica senza idee, valori, contatto con la gente. Questo processo è forse uno stimolo a che la transizione di questi anni non sia infinita.

 

in “Corriere della Sera” del 15 luglio 2011

 

La difficile rinascita della “cosa bianca”
di Agostino Giovagnoli
in “la Repubblica” del 19 luglio 2011
Torna la Dc? Così sembrerebbe, sentendo le voci che si sono intrecciate, all’interno del mondo cattolico, nelle ultime settimane. L’improvvisa scoperta che la frana del berlusconismo è più rapida
del previsto ha spinto ad immaginare nuove iniziative politiche evocando l’ormai lontana esperienza democristiana. Ma molte circostanze storiche, presenti alle origini della Dc o nel corso della  sua storia, oggi non ci sono più. La Democrazia cristiana è nata nel contesto di un disastro nazionale di enormi proporzioni, la Seconda guerra mondiale, che ha portato lo Stato italiano quasi alla dissoluzione. In altre condizioni, la Santa Sede non avrebbe accolto le pressanti richieste degli Alleati perché la Chiesa si impegnasse a fondo nella ricostruzione italiana, anche sul piano politico.

Nel dopoguerra, inoltre, era ancora vivo tra i cattolici il desiderio di superare definitivamente una estraneità alla vita politica nazionale cominciata con il Risorgimento. I modelli sociali e  politici del secolo breve, poi, li spinsero a formare anch’essi un grande partito di massa e l’aspirazione ad uscire da una secolare condizione di miseria, diffusa nell’Italia del dopoguerra, ha  orientato la Dc verso una politica economicamente interclassista e politicamente inclusiva.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma già questi elementi evidenziano un punto cruciale: nella Dc l’unità politica dei cattolici si è saldata ad un progetto storico strettamente legato alla  ituazione e alle esigenze del tempo. Non a caso, pur con il determinante sostegno della Chiesa, l’iniziativa fu presa e condotta da laici, anzitutto da De Gasperi e dal gruppo degli ex popolari, e in  seguito, con la seconda generazione di La Pira e Dossetti, Fanfani e Moro, l’influenza dei leader democristiani sul mondo cattolico si è ulteriormente accresciuta. Nella Dc, infatti, l’unità dei  cattolici ha svolto – singolarmente – una funzione laica a sostegno dello Stato e proprio tale duplice natura spiega le molte peculiarità di questo partito che è sempre stato al governo e mai  all’opposizione, che non si è mai diviso malgrado le molte tendenze presenti al suo interno, eccetera.

Tutto ciò è stato riassunto dall’espressione “centralità democristiana”. Centralità è altra cosa da centro. La Dc non è stata (solo) un partito di centro, è stata (soprattutto) un partito centrale nel sistema politico e nella società italiana. È stata, insomma, il “partito italiano”. Rifare la Dc oggi non significa solo realizzare nuovamente l’unità politica dei cattolici (impresa già in sé piuttosto difficile), ma perseguire anche un progetto politico “nazionale” (opera ancora più impegnativa) e saldare efficacemente tra loro queste due cose (sfida addirittura eccezionale perché legata a condizioni storiche particolari). Nei molti incontri, dibattiti e interventi di queste settimane è emersa tra i cattolici l’esigenza di interrogarsi sui riflessi politici di una comune sensibilità su temi etici o sociali. In questo senso, si può parlare di una spinta unitaria più forte rispetto ad un passato recente, caratterizzato prevalentemente dalla tendenza alla diaspora. Istituzione  ecclesiastica e associazionismo cattolico, infine, possono favorire ulteriormente tale unità. Ma per rifare la Dc sarebbe anzitutto necessaria una classe politica laica, capace di un disegno di grande respiro storico.

Al momento – tra i cattolici, come pure altrove – appare invece ancora embrionale una riflessione storica e politica adeguata alle sfide dell’ora. L’impressione è che, al di là delle intenzioni, anche  ora chi parla di “rifare la Dc” possa prevalere di fatto il più limitato obiettivo di creare un partito di centro, vicino all’istituzione ecclesiastica, facilmente minoritario o di dimensioni limitate, impegnato su specifiche battaglie etiche, oscillante fra governo e opposizione, ecc. Si tratta di altra cosa rispetto ad un partito centrale, a vocazione nazionale e con un progetto politico laico, “condannato”, per così dire, a guidare il Paese per un lungo periodo, prima del lungo declino e del tracollo finale.

Non tutti i cattolici, peraltro, pensano ad un partito che esprima prioritariamente le loro posizioni.
C’è, infatti, chi guarda piuttosto ad un acquisire maggiore peso nei diversi schieramenti, favorendo convergenze su questioni specifiche. Ci si propone di far nascere un’area di centro, divisa tra  partiti diversi ma unita da una visione cattolica del bene comune e animata da cattolici provenienti dal mondo associativo, economico e sindacale. In questo caso, la distanza dalla Dc è evidenziata soprattutto dalla rinuncia ad un progetto politico forte e dal rischio della subalternità a gruppi di potere, politici od economici, che ricorda il clerico-moderatismo di inizio novecento. La Dc,  invece, ambiva a mostrare, attraverso il confronto con gli altri e la prova dei fatti, la validità dei valori espressi dalla cultura politica dei cattolici. Rifare oggi la Democrazia cristiana, insomma,  è tutt’altro che facile.

 

 

Altri contributi  sul tema:

 

“tra le «condizioni» per formare la «nuova generazione di politici cattolici» auspicata dal Papa, c’è «il superamento dell’ideologia della diaspora»… c’è «l’instaurazione di nuove relazioni tra mondo politico, ecclesiale e civile». Una frase che consegna alla storia la stagione ruiniana dei «rapporti» tra «vertici»… «occorre pensare a un reale protagonismo del laicato»… andare verso un nuovo «codice di Camaldoli»”
Don Pino De Masi è vicario generale della Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi “«’Libera’ è impegnata da anni nella difficile battaglia per il riutilizzo dei beni confiscati. Con i sequestri e le acquisizioni si ottengono due risultati: si ridimensiona il potenziale economico delle cosche e si mette in moto una vera e propria rivoluzione culturale… centinaia di giovani non emigrano più, fedeli alla consegna che si sono dati: che a lasciare la Calabria debbano essere le ‘ndrine, e non loro».”
“L’imponente spostamento di voti dalla Lega e dal Pdl alle posizioni opposte, è spiegabile solo col mutato atteggiamento dei cattolici praticanti,”
“non di un nuovo partito si sente il bisogno, ma in generale di un nuovo modo di fare politica, il che in primo luogo vuol dire nuove modalità di selezione della classe dirigente e garanzia, per i cittadini, di un’effettiva possibilità di scelta dei propri rappresentanti.”
“Anche nellaChiesa sta montando il disagio. L’accoglienza di quelle voci che rifiutano di essere considerate contestatrici è già ravvisata anche qui – guarda caso – nelle Costituzioni del Concilio Vaticano II. Perché allora non ci poniamo tutti la domanda: “Se non ora quando?”.

 

 

Nucleare addio, parola di teologo


Intervista a Robert Spaemann a cura di Guido Kalberer

 


La Germania abbandona l’energia atomica. Cosa ne pensa?
«Meglio tardi che mai. Ma l’uscita è solo in una legge e non al 100%. Se ci saranno difficoltà di approvvigionamento energetico la legge potrà cambiare o si potrà rimandare lo spegnimento dei reattori. L’unico modo di prevenire queste eventualità è prescrivere l’abbandono dell’energia atomica nella Costituzione».

È ciò che lei propone?
«Sì, benché io non sia favorevole a scrivere nella Costituzione obiettivi politici di attualità. Ma in questo caso la posta in gioco supera ogni normale metro di paragone umano».

Le energie alternative potranno soddisfare il fabbisogno?
«Se non riusciamo a coprire in modo alternativo il fabbisogno energetico, dovremmo ridurre il fabbisogno.
Non possiamo dare per scontato di avere a disposizione in qualunque momento qualunque quantità di energia. È desiderabile ma non possiamo pretenderlo. Se possiamo produrre energia solo con  una tecnologia che minaccia il genere umano, allora è necessario disporre diversamente».

Quindi dobbiamo fare rinunce?
«Sì. Solo quando l’uomo è con le spalle al muro diventa inventivo. È stato sempre così. Finché si pensa che in caso di emergenza si può fare affidamento su ciò che già esiste, non si mobilitano tutte le forze. Solo la certezza che l’energia atomica non è più in gioco attiverà l’ingegno creativo».

Come risponde a chi dice che non è possibile vivere senza energia atomica?
«Questa sarebbe una costrizione oggettiva, ma non è un argomento: le costrizioni sono oggettive quando vogliamo un certo risultato. Allora si è obbligati a fare una cosa e non altre. Se però questa cosa si rivela impraticabile, bisogna cercare alternative. Chi non lo fa è ostile a innovare».

Occorrono disastri per spingere l’uomo a pensare diversamente?
«Sembra di sì. Questo immenso pericolo avrebbe potuto essere riconosciuto molto prima, considerando che nessuna assicurazione è disposta ad assumersene il rischio».

A cosa serve che Svizzera e Germania abbandonino l’energia atomica se la Russia ha in programma 30 nuovi reattori?
«In primo luogo, abbiamo un beneficio locale spegnendo i nostri reattori. È diverso se un reattore va fuori controllo nel nostro Paese o in Giappone. Si può ridurre il rischio locale, senza dover risolvere il problema globale. Poi possiamo essere un esempio. Qualcuno deve pur cominciare; se la Germania saprà fare a meno dell’energia atomica, ciò avrà ripercussioni sul mondo intero».

Quali sono gli argomenti contro l’energia atomica?
«Soprattutto l’incontrollabilità. Chi assicura che si può fare un uso pacifico dell’energia atomica pone sempre condizioni: per esempio che non avvengano guerre o attentati.
Ma il porre condizioni dimostra che l’uomo non sa controllare questa tecnologia. Si immagina un mondo perfetto in cui le maggiori fonti di pericolo vengono nascoste. E ciò che resta lo si dichiara sicuro. Ma ci sono anche argomenti filosofici. Cosa fa l’uomo quando si serve dell’energia atomica?
L’energia degli atomi è alla base della nostra esistenza materiale. Serve a mantenere la realtà quale essa è. E lo fa pacificamente e senza il nostro intervento. Quando sottraiamo questa energia alla sua funzione naturale, quando scindiamo i nuclei degli atomi e ne liberiamo la forza, tocchiamo qualcosa che ci trascende. È arroganza dire che ce la faremo».

L’uomo si sopravvaluta?
«Sì. C’è una situazione analoga in cui i miei argomenti sono altrettanto categorici: è la manipolazione del genoma umano. Proprio come con l’atomo, anche qui tocchiamo una struttura di base della nostra realtà non come materiale, ma come esseri viventi. Con la costruzione di nuove combinazioni genetiche possiamo mettere in moto processi di cui perdiamo il controllo».

Lei argomenta qui come Jürgen Habermas. L’uomo non può progettare il risultato della sua procreazione.
«Su questo siamo d’accordo.
L’umanità si dividerebbe in due classi: chi fa e chi è fatto. E ciò avrebbe conseguenze imprevedibili».

Lei è contrario anche perché ciò sarebbe una manipolazione del Creato?
«Si deve condurre il dibattito su basi puramente razionali. Ma l’argomento diventa più forte se si evoca il concetto di Creato: permette di imbrigliare la superbia dell’uomo che crede di poter fare
tutto».

Hans Jonas prescrive un’etica della responsabilità verso le generazioni future. Condivide il concetto?
«Sì. In relazione alle generazioni future c’è soprattutto il problema dei rifiuti radioattivi. I responsabili delle tecnologie atomiche dicono sempre: troveremo un deposito definitivo.
Qui si fa della suggestione basandola in modo irresponsabile su un ‘principio speranza’.
Sembrerebbe che Dio abbia il dovere di metterci sempre a disposizione ciò che risponde ai nostri bisogni momentanei. Oltre al dovere di considerare i rischi immediati posti da una centrale atomica, vi è l’obbligo di non costruire un reattore, prima di aver trovato un deposito definitivo per le scorie radioattive».

Dove vede il problema principale dei rifiuti radioattivi?
«Come si può oggi garantire per migliaia di anni la sicurezza di un deposito radioattivo definitivo?
Non abbiamo alcuna responsabilità positiva per le persone che popoleranno il pianeta nel futuro, ma non ci è permesso di rovinare la loro esistenza in modi già prevedibili, per esempio con la contaminazione atomica in aree che diventano così invivibili. Abbiamo l’ingenua e diffusa idea che, a differenza del passato, la nostra civiltà scientifico-tecnologica continuerà all’infinito. È assurdo. Il nostro sapere attuale sarà interamente tramandato e sarà a disposizione delle generazioni future?
Oggi non sappiamo più come sia stato possibile realizzare Stonehenge (sito neolitico con megaliti posti in circolo, ndt). Forse i nostri discendenti non conosceranno più i pericoli ai quali noi consapevolmente li esponiamo.
Non può essere questa la nostra eredità. È sconsiderato aumentare con l’energia atomica il potenziale di pericolo che la natura già contiene».

Lei non riesce a trovare niente di buono nell’energia atomica.
«La prima fissione nucleare servì ad annientare esseri umani. Non è un caso che con la prima applicazione dell’energia atomica si siano sterminate centinaia di migliaia di persone a Hiroshima. ‘Funziona davvero’, fu la prima reazione di Carl Friedrich von Weizsäcker (fisico nucleare e filosofotedesco). L’orrore venne più tardi. Se gli scienziati sono solo scienziati, non saranno capaci di aiutarci».

Per lei non c’è progresso, ma progressi. Cosa vuol dire?
«L’Europa vive da secoli della menzogna del progresso al singolare. Progresso vuol dire: migliore, più veloce, più brillante.
Sono cresciuto nel periodo nazista e fui assillato fino alla nausea con lo slogan ‘Con noi avanza la nuova era’. L’ideologia del progresso la proclamavano anche i nazisti. Il mio scetticismo verso il progresso risale a quel periodo buio: essere poco progressivo mi sembrava meglio che mettere le persone in campi di concentramento e ucciderle. Il progresso può essere meraviglioso, ma anche terribile. Da una parte ci sono progressi nella tecnica anestetica, dall’altra progressi della bomba atomica. A chi nomina il progresso dico: progresso di cosa e in quale direzione?».

Il pensiero cristiano ci porterebbe avanti?
«Certo! In tempi in cui la religione cristiana è stata dominante, non si pensava a un futuro infinito, come si fa oggi. Si aspettava la fine del mondo. Come descritto nel Nuovo Testamento, la storia termina con il ritorno di Cristo. Sì, credo che l’esistenza dell’umanità non durerà così a lungo; e ciò più per ragioni immanenti che non religiose. Il mio scetticismo sul fatto che l’umanità  sopravviverà è alimentato dal modo in cui l’uomo prende ora in mano il suo destino».

Come cristiano lei crede all’Apocalisse. Se siamo destinati a finire, a cosa serve lottare contro l’energia atomica?
«La sua domanda si basa sull’idea erronea che se una cosa accade in natura possiamo farla anche noi: se in natura ci sono vulcani, possiamo anche noi fare vulcani; se in natura un ramo cade su un uomo, allora anche noi possiamo fare lo stesso.

Non sappiamo cosa vuole la natura e quali siano i piani di Dio. Siccome Lenin credeva di conoscere il fine della storia, diceva che coloro che lavorano a rendere felice l’umanità non possono essere sottomessi a regole morali. L’arroganza è nel credere che qualcuno conosca quale sia il fine della storia. La concezione cristiana del termine della storia invece implica un’irruzione dall’esterno e non un immanente paradiso come risultato di uno sviluppo continuo. Il regno di Dio è la conseguenza di una fine improvvisa della storia precedente».

(traduzione di Marco Morosini)

in “Avvenire” del 19 lulgio 2011

Sì all’abbronzatura finta, no a interventi al naso

 

 

Un teologo morale inglese spiega perché si dovrebbe riflettere attentamente prima di chiedere interventi di chirurgia estetica.



Ornare il proprio corpo è una cosa antica quasi quanto l’umanità stessa. Essere come Dio ti ha fatto, storicamente parlando, non è stato mai abbastanza per la maggior parte delle culture del pianeta.
Invece di accontentarsi di star bene così, la gente da tempo immemorabile si è abituata a perforare, tatuare, rimuovere chirurgicamente certe estremità, anche tutte, si presume nella convinzione che queste azioni potessero migliorare il proprio corpo.


Molto prima che si giungesse all’età moderna con la sua capacità di trasformare le fattezze umane mediante la chirurgia plastica ed estetica, le culture primitive stavano già facendo questo. Ötzi, l’Uomo rinvenuto dal ghiaccio in Tirolo, il cui cadavere risale al Neolitico, ha dei tatuaggi, così come molte mummie dell’antico Egitto, risalenti a circa 2.000 anni fa. Anche in questo caso, ci sono prove che le mutilazioni genitali femminili (come si chiamano ora) risalgano ad almeno due millenni fa, e la circoncisione maschile deve essere ancora più antica. E non si sa chi fu il primo a bucare il lobo dell’orecchio per indossare gli orecchini. Queste sono solo alcune comuni modifiche del corpo, diffuse ancora oggi da noi: per fortuna l’idea di indossare anelli al collo per allungarlo non è andata diffondendosi oltre la cosiddetta “donna giraffa” della regione del Paudang in Myanmar.


Ma è nella nostra epoca che l’ornamento del corpo decolla sul serio. Con la chirurgia moderna poi si può fare molto di più. Lifting, miglioramenti al seno, riduzione del seno, interventi al naso, tutti questi sono diventati non solo possibili, ma vengono considerati persino di routine. E sappiamo tutti di chi ha intrapreso queste procedure troppo lontano nel tempo. Basta andare a vedere su Google le immagini di Michael Jackson da giovane per constatare gli interventi chirurgici cui è andato incontro, producendo quell’aspetto che i giornalisti amavano definire “bizzarre”. Lo stesso vale per quella signora chiamata “la sposa di Wildenstein”, una donna che si è letteralmente rovinata il volto con il ripetersi di procedure cosmetiche.


Prima di soccombere di fronte all’orrore di tutto questo – e questi esempi estremi sono davvero agghiaccianti – è importante sottolineare la differenza tra la chirurgia plastica e chirurgia estetica. La chirurgia plastica si occupa del recupero di forma e funzione di alcune parti del corpo. Molto di tutto questo è davvero essenziale – il trattamento delle vittime di ustioni e la ricostruzione, per esempio, di volo e mani dopo un incidente. Gli interventi di chirurgia cosmetica – alle volte chiamati chirurgia estetica – sono invece interventi chirurgici volti a migliorare l’aspetto di una persona. Questo a volte può anche essere lodevole: se qualcuno ha una deformità che deteriora gravemente la qualità della propria vita, è perfettamente accettabile: se il rischio di un intervento chirurgico è proporzionato al beneficio che si otterrà, per correggere la deformità, è positivo.


L’idea di proporzionalità costi/benefici è uno strumento importante dal punto di vista morale nel considerare se tali operazioni debbano andare avanti. Qualcuno la cui vita è stata resa difficile per via di un naso troppo grande potrebbe giudicare l’intervento chirurgico un piccolo prezzo da pagare,
nel caso che la rinoplastica possa migliorare in qualche modo la socializzazione. Qui, un chirurgo e uno psicologo avrebbero bisogno di consultare il paziente circa la strada migliore da intraprendere.
Ma cosa accade quando qualcuno vuole soltanto ottenere un aspetto esteticamente migliore, e pensa che il modo migliore per ottenerlo sia un naso più piccolo o un seno più prosperoso? Si può dire che il problema della chirurgia sia giustificato dalle ragioni avanzate sopra?


Come regola generale, la chirurgia non deve essere mai intrapresa senza un motivo serio. I motivi psicologici possono anche essere anche di grave entità, ma il desiderio di un aspetto migliore è immediatamente da ritenersi sospetto. Le apparenze sono per loro natura molto superficiali.
Cambiamo i nostri vestiti regolarmente, e alteriamo il nostro “look” – questo è un fatto che riguarda la moda in sé – ma possiamo davvero, ritenerci nel giusto se consideriamo il desiderio di cambiare, anche di molto, la nostra stessa carne ? Questa sembrerebbe essere non solo una misura estrema, ma fondamentalmente sbagliata. Il modo con cui si guarda a questioni di natura fisica – sarebbe sciocco negarlo – non dovrebbe importare più di tanto. Guardiamo a quanti mezzi abbiamo per indossare il make-up o sfoggiare un’abbronzatura, anche finta, ma risparmiamo il bisturi su noi stessi.
Indossare il make-up, anche andare dal parrucchiere, è un po’ come arrendersi alla pressione sociale per un aspetto più attraente, ma il ridurre chirurgicamente il proprio naso per apparire migliori davvero alla lunga ha il sapore di una resa. A questo punto potrebbe essere utile ricordare le parole
del grande Ann Widdecombe: “Ho trentadue denti, mi sento losca, brutta, sovrappeso, una zitella: che diavolo?”. Eppure lei era come Dio l’ha fatta, e noi siamo tutti quanti nelle sue stesse condizioni.


Ora il desiderio di modificare il proprio aspetto di per sé non è sbagliato, ma occorre valutarne anche la proporzionalità, vale a dire ci sono alcune altre considerazioni morali da valutare. Prima di tutto, si vuole davvero operare un cambiamento? Questo desiderio è il frutto di una decisione matura e deliberata? O in questo si è solo costretti dalla pressione esterna? A volte questo tipo di pressione è fin troppo facile da riconoscere (come nei casi di ragazze forzatamente sottoposte a mutilazioni genitali femminili), a volte, come in Occidente, è molto più sottile, ma comunque reale.
In secondo luogo, alcune procedure chirurgiche sono semplicemente sbagliate. Le mutilazioni genitali femminili costituiscono un buon esempio di questo: si tratta di un comportamento intrinsecamente negativo, sbagliato in sé, a prescindere dalle circostanze. Il motivo è che tale procedura non può mai essere per il bene della persona che viene “tagliata” in questo modo. Dal punto di vista medico può portare a complicazioni future, in modalità diverse: è impossibile pertanto vedere questo come qualcosa che sia un bene per la ragazza che lo riceve, ma piuttosto è qualcosa che la ragazza si vede imporre dalla società per un suo presunto bene. La circoncisione maschile, che può anche avere benefici per la salute, non è sbagliata di per sé, e può essere anche  giusta, a patto però che si svolga nelle condizioni adatte. Alcune procedure cosmetiche sono banali, nel senso che sono facilmente reversibili – come il taglio dei capelli, o la rasatura. Altre sono gravi, e se non ci sono motivi seri che le giustifichino, sono da ritenersi sbagliate.


Le donne (perché accade quasi sempre alle donne) devono resistere alla pressione a conformarsi a una forma particolare del corpo, di solito una forma del corpo che esse stesse, se fossero lasciate loro a decidere di loro stesse, non si sarebbero mai sognate di scegliere. Pensate alla figura della clessidra, così popolare nel XIX secolo. Alcune donne hanno una figura a clessidra naturale, ma altre hanno fatto interventi innaturali per ottenerne l’aspetto, come l’ingestione di tenie o la rimozione chirurgica di alcune costole. Questo non solo è contrario alla virtù della prudenza, ma rappresenta anche uno sforzo sproporzionato e, a guardare bene, rappresenta una pericolosa forma di ossessione del sé, del proprio aspetto fisico.


Francamente, il nostro modo di presentarci non è poi così determinante. La bellezza è solo una cosa esteriore e, come dice San Paolo: “Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, ma come si conviene a donne che onorano Dio con opere buone” (1 Tim 2,9-10). Questo dell’Apostolo non è il pensiero di un musone o un guastafeste, ma di uno che parla con buon senso. E’ il come sei dentro, ciò che conta veramente. Così che l’eccessiva enfasi sull’apparenza rappresenta quasi una forma di idolatria.


La maggior parte delle persone che leggono questo articolo probabilmente hanno dedicato anche oggi parte del loro tempo al proprio aspetto: anch’io ho spazzolato i capelli e mi sono lavato i denti, questa mattina, non solo per il mio bene, ma anche per quanti mi stanno intorno. Non sto sostenendo l’idea di vestire in maniera spartana, come messo in mostra dalla defunta moglie di Mao. Sto solo dicendo che abbiamo bisogno di mantenere una proporzione nelle cose, e che questo potrebbe riguardare soprattutto quanti si sentono sotto pressione per cercare di rispondere a diverse “presunte” necessità dettate dal costume sociale.

 


Padre Alexander Lucie-Smith è un teologo morale e autore di Narrative Theology and Moral
Theology (Ashgate, 2007).


in “Catholic Herald” del 4 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)