Rapporto sulla scuola in Italia 2011

 

La scuola media è davvero l’anello debole della scuola italiana. Lo suggeriscono le rilevazioni internazionali, secondo le quali gli studenti italiani sono quelli che patiscono la più profonda flessione dei propri risultati di apprendimento nel passaggio dalle scuole elementari alla media, come pure la cattiva reputazione che la secondaria di primo grado oggi gode presso l’opinione pubblica, le famiglie e nello stesso mondo della scuola. Lo confermano nuove ricerche realizzate dalla Fondazione Agnelli e rese pubbliche nel suo Rapporto sulla scuola in Italia 2011.

Il Rapporto sulla scuola in Italia 2011 è stato presentato oggi a Roma dal direttore della Fondazione, Andrea Gavosto, presso la sede degli Editori Laterza, per i cui tipi il volume sarà in libreria ai primi di dicembre. Alla presentazione hanno partecipato Alessandro Laterza (amministratore delegato Laterza), Maria Sole Agnelli e John Elkann (presidente e vicepresidente della Fondazione Agnelli).

Il Rapporto mette in luce come sia proprio alle scuole medie che esplodono in modo drammatico i divari di apprendimento determinati dall’origine socio-culturale degli studenti, che invece le scuole elementari riescono a contenere con successo. La probabilità di essere in ritardo alla fine delle medie da parte di uno studente figlio di genitori con licenza media è quattro volte superiore a quella del compagno figlio di genitori laureati, quella di uno studente straniero nato all’estero e scolarizzato in Italia è addirittura venti volte superiore a quella di un italiano. I divari sociali di apprendimento che nascono alle medie rischiano di compromettere il percorso scolastico, specialmente degli studenti di origine più svantaggiata. Questi divari e ritardi diventano, infatti, irrecuperabili alle superiori, generando la grave piaga dell’abbandono, mettendo a rischio il futuro di troppi ragazzi e, in definitiva, privando il Paese di risorse umane preziose in una fase storica così difficile e incerta.

Il Rapporto rivela, inoltre, che gli insegnanti della scuola media sono i più anziani (età media, oltre 52 anni, con moltissimi concentrati nella fascia intorno ai 58 anni) e i meno soddisfatti della loro preparazione complessiva, oltre a essere coinvolti nel più vorticoso turnover di cattedre di tutta la scuola italiana: 35 docenti di scuola media su 100 non insegnano l’anno dopo nella stessa scuola, con le prevedibili conseguenze negative per la continuità didattica dei loro allievi.

Occorre affrontare presto e con energia questa profonda crisi della scuola media, che da molti anni ha smarrito la propria identità e il senso della sua missione (non riuscendo a essere efficace, ma nemmeno equa). Occorre ridarle una missione chiara (essere più efficace, innanzitutto perché più equa) aggiornando le sua offerta pedagogica e didattica, attraverso (1) un forte orientamento alla personalizzazione dell’insegnamento da realizzarsi attraverso un’estensione del tempo scuola con una vera “scuola del pomeriggio”; (2) maggiore attenzione alla progettazione comune degli insegnanti; (3) un arricchimento della “cassetta degli attrezzi” dei docenti che permetta loro soluzioni didattiche che integrino o sostituiscano la lezione frontale (ad es. il cooperative learning); (4) una valorizzazione pedagogica del modello dell’istituto comprensivo (e del curricolo verticale), diffusosi e oggi generalizzato quasi esclusivamente per ragioni di contenimento dei costi, ma di cui le ricerche della Fondazione indicano una evidente superiorità dal punto di vista degli apprendimenti; (5) una seria riflessione nazionale sul tema dell’essenzializzazione delle materie. Perseguendo queste priorità, sarà possibile rendere la scuola secondaria di primo grado più adatta alle esigenze di allievi preadolescenti, nel pieno di una delicata transizione dal punto di vista cognitivo, psicologico e relazionale.

Una scuola media rinnovata, più efficace e insieme più equa, deve essere uno degli obiettivi di politica scolastica fondamentali nel prossimo futuro, a cui dedicare attenzione e investimenti. La prima condizione per realizzarlo è approfittare della finestra di opportunità offerta dal prossimo pensionamento di decine di migliaia di insegnanti delle medie per realizzare un serio e profondo rinnovamento del corpo docente, attraverso soluzioni di reclutamento (chiamata diretta o concorso) orientate in modo specifico alla secondaria di primo grado, che permettano di verificarne l’effettiva preparazione sul piano disciplinare come su quello pedagogico-didattico, quest’ultimo in particolare oggi assai carente.

 

Scarica dal sito la sintesi del Rapporto e una selezione della rassegna stampa.

Files:
Rapporto_Scuola_2011_-_Sintesi.pdf
Fondazione Agnelli

 

 

 

La Fondazione Agnelli boccia la scuola media

 

Viene presentato oggi pomeriggio a Roma il nuovo ‘Rapporto sulla scuola in Italia 2011’ della Fondazione Agnelli alla presenza, tra gli altri, del ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, di Maria Sole Agnelli e di John Elkann, rispettivamente presidente e vicepresidente della Fondazione Agnelli.

Il Rapporto, curato dal direttore della Fondazione Andrea Gavosto, boccia senza mezzi termini la scuola media italiana. Le comparazioni internazionali mostrano che gli studenti italiani alla fine della scuola media sono quelli che registrano la più profonda flessione dei propri risultati di apprendimento rispetto a quelli conseguiti al termine della scuola elementare.

L’indagine evidenzia che gli insegnanti della scuola media risultano i più anziani (età media oltre 52 anni) e i meno soddisfatti della loro preparazione, oltre a essere coinvolti nel più vorticoso giro di cattedre di tutta la scuola italiana: 35 docenti di scuola media su 100 non insegnano l’anno dopo nella stessa scuola, a scapito della continuità didattica dei loro allievi.

Ed è durante la scuola media che esplodono in modo drammatico i divari di apprendimento determinati dall’origine socio-culturale degli studenti (la probabilità di essere in ritardo alle medie per un ragazzo nato all’estero è quasi 20 volte superiore che per un italiano), e gli effetti di questa profonda crisi della scuola media si ripercuotono in modo preoccupante sul proseguimento degli studi.

Che fare? La Fondazione propone, intanto, di rafforzare il tempo pieno nella scuola media e, in prospettiva, di cogliere “l’opportunità offerta dal prossimo pensionamento di decine di migliaia di insegnanti delle medie per realizzare un serio e profondo rinnovamento del corpo docente, attraverso soluzioni di reclutamento (chiamata diretta o concorso) orientate in modo specifico alla secondaria di primo grado, che permettano di verificarne l’effettiva preparazione sul piano disciplinare come su quello pedagogico-didattico, quest’ultimo in particolare oggi assai carente”.






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Scuola media come anello debole?


Che la scuola media (o, più correttamente, secondaria di prima grado) sia l’anello debole del sistema scolastico, come emerge dal Rapporto monografico della Fondazione Agnelli, è un dato confermato dal Partito Democratico, che, per voce della Responsabile Scuola Segreteria Francesca Puglisi , concentra l’attenzione sul delicato aspetto relativo alla dispersione scolastica: “E’ vero, come denuncia il rapporto della Fondazione Agnelli, la drammatica dispersione scolastica che – come ci chiede l’Europa – dobbiamo dimezzare entro il 2020, inizia nella scuola dei preadolescenti. Quelle teste così veloci, i cosiddetti nativi digitali, che dimostrano bisogni sempre più precoci, che a casa navigano in rete, troppo spesso sono costretti a vivere e a studiare in una scuola che assomiglia a una cartolina dell’800 fatta di cattedre, banchi e lunghe ore di lezione frontale”.

Puglisi ritorna poi sulla scarsità di risorse destinate alla scuola: “La vera riforma epocale che serviva alla scuola italiana l’abbiamo già fatta e si chiama “autonomia scolastica”, che ha bisogno di risorse economiche e umane stabili per poter progettare insieme agli insegnanti, ai dirigenti scolastici le innovazioni didattiche che servono per catturare quelle teste così veloci. Scuole aperte il pomeriggio, come propone la fondazione, è anche una delle nostre proposte. I nostri figli devono poter fare a scuola tutto ciò che oggi a scuola non si può fare: studiare da soli o in compagnia, trovare i libri che a volte a casa non hanno, i computer per fare le ricerche, i laboratori per unire al sapere il saper fare, ma anche fare musica e sport. E’ l’idea di una scuola moderna che può nascere dal basso, diffondendo le buone pratiche didattiche che in alcune scuole autonome c’è già. Servono certamente investimenti nelle infrastrutture tecnologiche per le scuole e nella formazione in servizio degli insegnanti“.

I risultati del Rapporto della Fondazione Agnelli trovano d’accordo anche il generale della Cisl scuola Francesco Scrima: “È vero, la scuola media è l’anello più debole del nostro sistema di istruzione, anche perché rivolta ad una delle fasce di età più critiche. Un suo rilancio richiede un investimento straordinario di risorse e di idee”.

I tagli al personale e l’assenza di un progetto moderno di istruzione hanno fortemente penalizzato le medie, bruciando quanto di buono fatto alle elementari, sia in termini di apprendimento dei ragazzi che di equità sociale – aggiunge Scrima –. È dimostrato a livello internazionale che dalla crisi economica si esce grazie a investimenti sul capitale umano e dunque sull’istruzione. Ecco perché noi diciamo che è necessario che il governo Monti ridia alla scuola la centralità che merita nell’azione politica. Per la scuola media, in particolare, rilanciamo la nostra proposta di una revisione complessiva del modello didattico e organizzativo che consenta, valorizzando l’autonomia scolastica e la libertà di insegnamento, di creare una scuola accogliente, equa e democratica, motore di sviluppo per i ragazzi e per il Paese”.






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Rassegna Stampa:

Il_Sole_24_Ore_29.11.2011.pdf
La_Repubblica_29.11.2011.pdf
Avvenire_29.11.2011.pdf
La_Stampa_29.11.2011_bis.pdf

 

 

I bambini e la violenza

Bambini meno brillanti a scuola e nello sport, se esposti a violenze: i risultati di una ricerca.

 

Hanno meno competenze scolastiche, faticano a farsi accettare dai coetanei, sono meno abili nelle attività sportive e hanno comportamenti valutati in modo non positivo da adulti e insegnanti. Sono i bambini che sono stati esposti, in maniera diretta o indiretta, a violenza familiare rispetto ai loro coetanei che non hanno mai vissuto esperienze simili.

Il profilo dei bambini esposti a violenze e figli di donne vittime di violenza è stato tracciato da un team di ricercatori provenienti dalle università di quattro diversi paesi europei: Italia, Cipro, Slovacchia e Romania. Inserita nel più ampio progetto “Daphne III programme”, finanziato dalla commissione europea, l’indagine per l’Italia è stata condotta presso l’università degli studi Roma tre presso la quale è stata presentata questa mattina dalla professoressa Sandra Chistolini, ordinario di pedagogia generale e sociale e responsabile scientifico del progetto, insieme al gruppo di ricerca.

Riguardo alle valutazioni fatte dagli insegnanti a proposito delle dimensioni di autopercezione dei bambini (competenze scolastiche, accettazione sociale, abilità sportiva, aspetto fisico, comportamento/condotta e percezione globale di benessere ce il bambino ha di sè), dall’analisi dei dati raccolti emerge che i punteggi più basi sono stati assegnati ai maschi i quali, tuttavia, hanno una più alta considerazione di sè rispetto alle femmine ma tutti, maschi e femmine, sviluppano strategie attive di difesa davanti alla violenza, sono più inclini a sentirsi esclusi dal gruppo anche se non lo desiderano e, rispetto ai bambini non esposti a violenza, tendono a considerare meno la madre come un modello ideale e sentono forte il bisogno di proteggerla.

Per l’indagine sono stati intervistati due gruppi di minori, 40 scelti a caso e 40 esposti a violenza. Il 48% rientra nella fascia d’età 0-11 anni e il 30% ha tra i 12 e i 18 anni. Il resto del campione è composto da donne adulte.




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Minori, il pericolo corre sul web

 

i risutati di una indagine condotta dalla rete EU Kids Online Network in 25 Paesi europei

 

 

La Società Italiana di Pediatria, in occasione degli Stati Generali della Pediatria, ha presentato dati allarmanti sui baby-internauti, emersi da una indagine condotta dalla rete EU Kids Online Network in 25 Paesi europei, Italia compresa, in cui sono stati intervistati oltre 25 mila ragazzi (e per ognuno di loro, uno dei genitori) tra i 9 e i 16 anni.

Aumenta il rischio di pedofilia, cyber-bullismo e ‘sexting’ (lo scambio tra coetanei di immagini a sfondo sessuale), e ad esporsi sono bambini sempre più piccoli”– nota l’indagine.

In seconda, terza elementare, accanto a giochi, fumetti e libri, per i bambini già dai 7 anni c’è Internet, finestra sul mondo e anche sulle sue brutture.

Secondo l’indagine, nel 9% dei casi i giovanissimi trasferiscono anche nella realtà gli incontri fatti in rete, il tutto all’insaputa dei genitori che, in sette casi su 10, ignorano le loro abilità e le loro attività davanti allo schermo.

Se da un lato è in crescita il numero dei reati sul web ai danni di bambini e adolescenti, sono “in vorticoso aumento” anche quelli “commessi su internet dagli stessi minori”, ha spiegato all’istituto degli Innocenti a Firenze, il pm della procura fiorentina Ornella Galeotti. Dati confermati a Roma da Marco Valerio Cervellini, responsabile della campagne di comunicazione della Polizia postale.

Nella maggioranza dei casi si tratta di atti di cyber-bullismo, ingiurie, minacce”, ha spiegato il magistrato, secondo il quale l’escalation è legata, oltre che ovviamente al sempre più diffuso uso di internet tra i minori, soprattutto alla “mancata consapevolezza, da parte di bambini e adolescenti, che, paradossalmente, i reati su web vengono perseguiti in modo più severo e stringente che nel mondo reale esterno”.

Se in quest’ultimo infatti – ha spiegato – talvolta si può sperare di portarli a termine e farla franca, su internet la polizia postale è praticamente in grado di ricostruire ogni singolo atto, mossa e gesto effettuato dal minore. I bambini pensano esattamente il contrario e dunque finiscono per compiere gesti illeciti”.

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Altri contributi

 

“Anche per l’omofobia ho l’impressione che gli adulti piú pericolosi siano gli ignoranti o quelli che hanno qualcosa da nascondere, a volte anche a se stessi. Consiglierei a tutti noi educatori di conoscere e amare se stessi e rispondere a tutte le domande dei ragazzi, avendo il coraggio di dire subito con un sorriso “non lo so” e poi studiare insieme a loro, quando la domanda ci trova impreparati: questo serve contro l’omofobia, ma è essenziale anche per l’insegnamento della fisica»”

Biblioteche ecclesiastiche in rete

Un patrimonio a portata di clic

Il Polo delle biblioteche ecclesiastiche (PBE) nasce nel 2007 e confluisce nel marzo 2010 nel Servizio bibliotecario nazionale. In questo primo anno di attività le nuove adesioni sono state costanti fino a raggiungere il significativo numero di 100 istituti, con già una decina di nuove biblioteche che stanno completando l’iter formativo per l’inserimento.
Ad oggi sono presenti 60 biblioteche diocesane, distribuite sul territorio nazionale con una lieve prevalenza di quelle collocate nel settentrione, mentre il patrimonio complessivo di copie custodite dal Polo sfiora quota 310.000, tutte catalogate secondo criteri riconosciuti a livello internazionale.
L’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici, che tiene le fila di questo imponente lavoro, ha preparato una dettagliata comunicazione per fare il punto dei diversi fronti che vedono impegnato il PBE, dando anche notizia della convenzione firmata lo scorso 15 novembre con l’ICCU, l’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche del Ministero per i beni e le attività culturali.
L’accordo riguarda la descrizione informatizzata dei documenti manoscritti ed accrescerà la sinergia tra le biblioteche ecclesiastiche del PBE e il sistema nazionale, attraverso l’utilizzo del sistema “Manus On-Line”. Al fine di programmare al meglio le attività, è stato predisposto un breve questionario che verrà distribuito nei prossimi giorni alle biblioteche del Polo per raccogliere on line le informazioni circa le collezioni manoscritte e il loro trattamento.

http://www.chiesacattolica.it/

Il 23% dei giovani italiani non studia e non lavora

dal Rapporto sulle Economie Regionali della Banca d’Italia

 

Sono circa 2,2 milioni i giovani che non lavorano e non sono impegnati in corsi di studio o di formazione.

Il dato, in crescita rispetto al passato, emerge dal Rapporto sulle Economie Regionali della Banca d’Italia, presentato ieri.

Nel 2010 la percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni  definiti “Neet” – Not in Education, Employment or Training – è cresciuta al 23,4% del totale rispetto al 20% circa registrato tra il 2005 ed il 2008.

Secondo Bankitalia, “l’aumento è stato più marcato nel Nord e al Centro, meno pronunciato nel Mezzogiorno, dove tuttavia l’incidenza di giovani Neet era prossima al 30 per cento già prima della crisi”.

Tra i Neet, le donne superano il 26 per cento, mentre gli uomini si attestano al 20. La loro percentuale  è superiore tra i non diplomati, ma analizzando la fascia d’età fino ai 35 anni la quota di Neet tra i laureati è del 20,5 per cento.

Il Rapporto, comunque, rileva che la condizione dei giovani che non lavorano e non studiano “è solo in parte collegata al fenomeno della disoccupazione”.

I giovani tra 15 e 29 anni che non studiano e non lavorano risiedono nella maggioranza dei casi con almeno un genitore; nel Mezzogiorno sono tre Neet su quattro.

Tra i dati maggiormente significativi, il 33,8% dei Neet ha cercato un’occupazione (ben il 40% nel Nordovest e al Centro, 30% nel Sud) nel corso del 2010.




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5 novembre, seminario a Benevento
Sud, giovani e lavoro: serve un sussulto   versione testuale

“Il lavoro giovanile nel Mezzogiorno d’Italia” è il titolo del seminario di studio dopo la 46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani organizzato per sabato 5 novembre dall’Arcidiocesi di Benevento in collaborazione con il Comitato scientifico ed organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani.

«Il vero sviluppo umano integrale », spiega Mons. Angelo Casile, Direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro, «è impossibile senza uomini retti che si impegnino nella fraternità, nella solidarietà e nella sussidiarietà, che privilegino l’educazione guidata da una visione integrale dell’uomo, per un lavoro “decente” per tutti, nella cooperazione sociale basata sulla convivialità, nell’economia e nella finanza finalizzate al sostegno di un vero sviluppo. Per promuovere il lavoro nelle nostre terre», conclude Casile, «occorre anzi tutto rinnovare i nostri cuori, essere uomini nuovi, per poter usare a pieno della nostra intelligenza e del nostro cuore, talenti che il Signore ci ha donato per farne un dono gratuito e quotidiano a noi stessi, agli altri e a Dio stesso».
I lavori del seminario si svolgeranno dalle ore 9.00 alle ore 17.00 a Benevento, presso la Villa dei Papi, e saranno aperti dai saluti del Presidente della Provincia di Benevento, Aniello Cimitile, e del Sindaco Fausto Pepe, e presieduti dall’Arcivescovo, S. E. Mons. Andrea Mugione.
Gli interventi introduttivi sono stati affidati a S. E. Mons. Arrigo Miglio, Vescovo di Ivrea e Presidente del Comitato scientifico ed organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, e a Ettore Rossi, Direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale sociale di Benevento. Le relazioni del mattino saranno poi tenute da Pietro Fantozzi (Università della Calabria), da Carlo Dell’Aringa (Università Cattolica di Milano), da Mons. Mario Iadanza, Direttore dell’Ufficio diocesano per la cultura e i beni culturali di Benevento, e da Carlo Borgomeo, Presidente della Fondazione per il Sud.
Nel pomeriggio, alle 14.30, avrà inizio una tavola rotonda alla quale parteciperà anche Mons. Casile. Insieme a lui sono stati invitati Adriano Giannola (Presidente SVIMEZ), Marco Musella (Preside di Scienze politiche all’Università Federico II di Napoli), Gennarino Masiello (Vice Presidente Coldiretti) e Giorgio Santini (CISL).
Chiuderà i lavori Edoardo Patriarca, Segretario del Comitato scientifico ed organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani.

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La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi

Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso.
La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine  spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione,   anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un’Italia in cui  l’appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni  religiose.
In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l’esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non  particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta  nell’avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella  propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell’idea di far parte di un mondo di  spiriti e di mistero che trascende l’esperienza terrena.
Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano  ercepiti e ricercati più all’esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei  santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle  pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un’eco attuale (o di un restyling) della religiosità  popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata.  Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile  ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione  ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un’immagine che contrasta l’idea che l’epoca  attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo – parafrasando Peter  Berger – non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta»  che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale.
L’immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal  cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l’80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in  cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l’appartenenza cattolica ha una  funzione rassicurante per la nazione?
Perché molti continuano a identificarsi – pur in modo ambivalente – con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei  cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di  salvezza?
L’idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero,  per confinarlo nell’oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi  dell’esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente  impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un’immagine del  cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come  muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota  di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come  criterio di vita, più per l’educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali.
Nella società dell’insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un  serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si  conciliano con la propria cultura e abitudini.
Parallelamente, l’adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un’identità
nostrana in un’Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul
territorio e enfatizzato dai mass media.
Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell’adesione di molti italiani alla fede della  tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi  ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o  anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell’epoca attuale. L’avvento del pluralismo culturale e religioso non  produce necessariamente l’abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l’espressione. Si può essere  convinti che non c’è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso  sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria  tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive  dell’esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa  di attribuire un’ anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall’altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.

in “La Stampa” del 1° novembre 2011

I difensori cristiani della laicità

Per chi guardi indietro non è insensato sperare che qualche idea per un’Italia migliore possa nascere dentro il cattolicesimo, inteso non come machina mobilitante o agenzia di senso, ma come stile, di compagnia della fede e degli  uomini. È già accaduto. Lo ha richiamato il messaggio di Benedetto XVI al presidente Napolitano per il 150°  anniversario dell’Unità d’Italia, con toni seri e troppo frettolosamente liquidati fra le parole di circostanza.
Cent’anni fa la stampa cattolica deplorava le «esplosioni di gioia settaria» in quella Roma che un non negoziabile  «disegno divino» aveva dato al Papa. Solo mezzo secolo fa, Papa Giovanni XXIII potè dire, come scrive nei suoi diari.  «finalmente la prima parola buona, dopo un secolo» al Paese.
E quando Giovanni Battista Montini osò definire «provvidenziale» la fine del potere temporale, in difesa del quale  erano state emarginate le migliori intelligenze della Chiesa cattolica, alla beatificazione di Antonio Rosmini sono  passati 45 anni.
Se oggi il vescovo di Roma e primate d’Italia saluta i festeggiamenti del 150° con un’apertura che ha irritato gli  integristi, è certo per il significato storiografico che Giorgio Napolitano e Giuliano Amato hanno saputo iscrivere in queste celebrazioni, ma non solo. Quando il Papa sottolinea come il conflitto che riguardò lo Stato e la Chiesa deflagrò  nei vertici, ma non riverberò «nella società», smussa la ruvidità dei fatti —la soppressione degli enti ecclesiastici, le  ultime esibizioni della ghigliottina pontificia, le scomuniche dei votanti, l’aggressività delle propagande, il disprezzo e  la censura ecclesiastica per chi riteneva superabile la questione romana e via dicendo. Ma di un fatto prende atto. E  cioè che se la Chiesa ha dato all’Italia una sponda nelle sue grandi crisi (Caporetto, 1’8 settembre, la morte di Aldo  Moro), l’Italia ha insegnato alla Chiesa cattolica che cosa è lo Stato.
Lo ha fatto «all’italiana», naturalmente: ondeggiando fra arroganze antireligiose e blandizie clericofasciste, fra illusioni  concordatarie e scosse del costume, con laicità pediatriche e recriminazioni plurime. Ma lo ha fatto: segnando un  punta di non ritorno nella Costituente e nella Costituzione. È lì che diverse generazioni di cattolici —vuoi quelli che  avevano sofferto del fascismo storico, come Alcide De Gasperi, vuoi quelli che temevano il revival di un fascismo mite,  come Giuseppe Dossetti — hanno potuto chiedersi come far scaturire una lezione dal timbro di vergogna che la tragedia del ventennio lasciava su tutte le culture politiche (le forze risorgimentali destinate a diventare partitini  nell’Italia repubblicana, i partiti del movimento operaio e il popolarismo stesso, votati a diventare organizzazioni di  massa) dimostratesi incapaci di fermare un Mussolini che si definiva «cattolico e anticristiano».
La Santa Sede, sul piano dottrinale, non facilitava il compito. Padre Giovanni Sale ha pubblicato i tre modelli di  costituzione che in Vaticano avevano immaginato per ‘Italia: una costituzione semifranchista, nella quale i valori  cattolici fossero imposti per legge; in subordine una costituzione confessionale fatta di privilegi clericali; alla peggio  una costituzione democratica, nella quale però tre punti (i Patti del 1929, la sanzione del matrimonio indissolubile, la  possibilità di creare scuole private) venissero sanciti.
Sul piano squisitamente politico le dialettiche interne al mondo vaticano aggiungevano poi altre criticità pratiche.  Alcuni esponenti della Curia romana infatti vedevano bene il moltiplicarsi dei partiti cattolici, così da rendere più  efficace il potere di guida e ricatto del mondo che parla sempre a nome del Papa. Altri — sarà il disegno di sempre del  cardinale Giuseppe Siri — pensavano a una organizzazione nella quale laici ossequienti, e se possibile potenti, si  organizzavano per rendere operativi i desiderata dell’autorità ecclesiastica. Altri, come monsignor Montini o  monsignor Dell’Acqua, il cui stretto rapporto con i «professorini» di Dossetti è documentato dal diario di Amintore  Fanfani, credevano invece che un grande partito di italiani cattolici e democratici avrebbe potuto far meglio la  Costituzione: evitare cioè fratture irreversibili ed evitare di riproporre condizioni irricevibili come ai tempi del non  expedit — pena la nascita di uno Stato destinato a rifluire verso un anticomunismo vuoto, dunque, nella sostanza,  fascista.
Capaci di decifrare questa dialettica, i costituenti cattolici riuscirono a far sì che la Santa Sede accettasse una  Repubblica nella quale il cattolicesimo non sarebbe contato perché capace di federare le organizzazioni (come nella  effimera vita dell’Opera dei Congressi, sciolta dal Papa nel 1904); o di esercitare una pressione sui partiti (come  sarebbe stato nei decenni compresi fra i Comitati civici e il Family Day), ma solo se e quando uomini e donne dalla  coscienza adulta (come diceva Pio XII) e dalle mani pulite fossero stati capaci di pensare politicamente le mediazioni  che fanno crescere la società come comunanza di «persone», nella cui tensione — e qui si sentiva l’effetto degli studi  patristici di Lazzati — si realizza la pedagogia stessa del Signore della storia.
Ironia della sorte, la maggior parte di quegli uomini veniva dalla Cattolica, la scuderia dalla quale padre Gemelli  contava di far uscire una classe dirigente clerico-fascista perfetta. E che invece polemizzano perfino con quei popolari  che avevano pagato un prezzo altissimo per i loro errori, come De Gasperi, incarcerato dai fascisti, o Sturzo, mandato  in esilio dalla Chiesa. Eppure sarebbero stati proprio i «professorini» gli architetti della Costituzione che risolveva in  radice il problema della «responsabilità» dei cattolici in politica — che per chi ce l’ha è il più inestirpabile dei valori di  fede e in chi non ce l’ha il più temibile dei vizi. Una generazione capace, nelle sue differenze, di usare il dialogo con  culture politiche non meno inesperte di democrazia, non come una concessione né come una astuzia, ma come un  modo di agire in una società pluralista di cui essere il sale, senza pretendere di farne una saliera.

 

in “Corriere della Sera” del 30 ottobre 2011

Rapporto Caritas 2011: cresce la povertà giovanile

 

 

Nell’ambito della Giornata mondiale di lotta alla povertà presso l’università Gregoriana di via della Pilotta a Roma, è stato presentato, l’ultimo rapporto della Caritas intitolato “Poveri di diritti”.

 

Il testo, pubblicato per i tipi della casa editrice Il Mulino, è suddiviso in due parti: i diritti dei poveri previsti dalla Costituzione e a livello internazionale; il ruolo svolto dalla Chiesa nel contrasto della povertà economica.

Alcuni numeri sono stati già resi noti  nei giorni scorsi e dipingono uno scenario a tinte fosche sull’aumento delle situazioni di indigenza nel nostro Paese.

Dal rapporto emerge come la legislazione non privilegia l’incontro tra diritti e doveri, non valorizza le capacità dei singoli, non coinvolge e promuove la partecipazione dei poveri.

8,3 milioni di cittadini, pari al 13,8% della popolazione italiana vivono in condizioni di indigenza. Sono  le famiglie numerose e monogenitoriali i nuclei più colpiti, specialmente se sono al Sud.

In cinque anni, dice il rapporto, la percentuale di giovani con meno di 35 anni è aumentata di quasi il 60% e di questi oltre il 75% non studia e non lavora. E la deprivazione economica trascina con sé altre conseguenze: negazione del diritto al lavoro, alla famiglia, all’abitazione, ma anche alla giustizia, all’educazione, alla salute.

Viene presentato il quadro comparativo delle regioni, con parametri di spesa e risposta. Durante la presentazione del testo, sarà ritagliato uno spazio per le proposte operative per far fruttare gli investimenti e ridare speranze alle persone in difficoltà.

Introduce la presentazione padre François-Xavier Dumortier, rettore della Pontificia Università Gregoriana. Intervengono Mons. Mariano Crociata, segretario generale della C. E. I.; Tiziano Vecchiato, direttore della Fonda­zio­ne -«Emanuela Zan­can­onlus»; Walter Nanni, capo Ufficio Studi e Forma­zio­ne­ di Caritas Italiana; mons. Giuseppe Pasini, presidente della Fondazione “Emanuela Zancan onlus». Concluderà lincontro mons. Vittorio Nozza, direttore di Caritas Italiana.

Coordina don Ivan Maffeis, vicedirettore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni so­cia­­li della Conferenza Episcopale Italiana.


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Nell’onda lunga della crisi economica, cambia il volto della povertà: precarietà e lavoro nero in aumento; le difficoltà dei giovani; le “nuove” povertà degli stranieri; la povertà e la qualità della vita nelle aree montane; la difficile presa in carico istituzionale; le risposte ecclesiali di contrasto e nuovi progetti anti-crisi economica. Sono alcuni dei temi che emergono dal Rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia, curato da Fondazione Zancan e Caritas Italiana, presentato lunedì 17 ottobre.

“Poveri di diritti” è il titolo del Rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia, curato da Fondazione Zancan e Caritas Italiana. Viene presentato lunedì 17 ottobre, alle 11, a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana (P.za della Pilotta, 4). Dopo il saluto del Rettore, p. François-Xavier Dumortier sj, intervengono S.E. Mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana; mons. Giuseppe Pasini, Presidente della Fondazione Emanuela Zancan onlus; mons. Vittorio Nozza, Direttore di Caritas Italiana; Tiziano Vecchiato, Direttore della Fondazione Zancan e Walter Nanni, Capo Ufficio Studi e Formazione di Caritas Italiana. Coordina don Ivan Maffeis, vicedirettore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI.

file attached Intervento di Mons. Crociata alla presentazione del Rapporto

“Il cambiamento demografico”

 

Presentato a Roma il secondo rapporto-proposta curato dal Comitato per il progetto culturale della CEI.

 

Alla presentazione sono intervenuti S.Em. il card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana (in allegato il testo del suo intervento); S.Em. il card. Camillo Ruini, presidente del Comitato per il progetto culturale della CEI; il prof. Giancarlo Blangiardo, ordinario di demografia presso l’Università di Milano-Bicocca; il prof. Antonio Golini, ordinario di demografia presso l’Università “La Sapienza” di Roma; il dott. Giuseppe Laterza, presidente della Casa editrice Laterza; il prof. Francesco D’Agostino, ordinario di filosofia del diritto presso l’Università Tor Vergata di Roma.

 

 

Il volume, come ha spiegato il card. Ruini, si articola in tre parti.
La prima intende fornire una lettura oggettiva del cambiamento, attraverso l’analisi dei fenomeni demografici e delle trasformazioni strutturali della popolazione e delle famiglie.
La seconda parte si spinge alla riflessione sulle cause e sulle relative conseguenze di ordine economico e socio-culturale.
Nella terza parte, infine, vengono avanzate alcune proposte per affrontare la questione del governo del cambiamento demografico.






file attached L’intervento del card. Bagnasco

 

 

Altri Articoli


“Con il «Rapporto-proposta» ‘Il cambiamento demografico’ la Cei avanza analisi e proposte avvalendosi del contributo di esperti. Chiede di cambiare passo. Non è accettabile «aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, quando si prosciugherà il destino di un popolo». Questa volta la Chiesa non si ferma alla difesa dei valori «non negoziabili». Con l’emergenza denatalità pone all’agenda del paese il tema del suo futuro”
“Fu Camillo Ruini a prendere contatto con Giuseppe Laterza. Con l’intento di dare veste laica alle ricerche sociali promosse dai vescovi. Il volume sul declino demografico dell’Italia è il secondo… Veste laica ma senza il contraddittorio che è, invece, costume della Casa editrice. E qualcuno, nella bacheca, ha appeso un brano di don Milani: «Io al mio popolo gli ho tolto la pace… ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti e di passione del mio popolo»”


Minori e internet: rapporto europeo 2011

 

in Europa  il 77% di coloro che utilizzano i social network ha tra i 13 e i 16 anni, il 38% tra i 9 e i 12.

 

È stato presentato dalla Commissione Europea un primo documento, che raccoglie e commenta le azioni messe in atto dai Paesi membri dell’Unione europea relative alla protezione dei minori che utilizzano internet.

Dall’analisi dei dati emerge chiaramente l’impegno delle diverse nazioni a dotarsi di strumenti di contrasto e prevenzione rispetto ai rischi che corrono i minori. Tuttavia, si nota che tali misure appaiono diversificate fra loro e non si riferiscono ancora ad una linea di azione comune.

La Commissione europea, che ha già emanato delle raccomandazioni specifiche nel 1998 e nel 2006, sottolinea quanto sia importante prestare la massima attenzione anche ai contenuti dei videogiochi dedicati ai minori, in particolare quelli acquistabili direttamente on line.

Neelie Kroes, responsabile dell’Agenda Digitale per conto della Commissione europea, ha annunciato, nella conferenza stampa di presentazione del rapporto, una importante iniziativa prevista per la fine dell’anno attraverso la quale facilitare la segnalazione di contenuti dannosi o illeciti e rendere maggiormente consapevoli insegnanti e famiglie circa i rischi  connessi con l’uso delle nuove tecnologie.

Attualmente, in Europa, tra tutti gli utenti Internet che utilizzano i social network il 77% ha tra i 13 e i 16 anni, il 38% tra i 9 e i 12.




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