“La teologia del Novecento”

Il libro:

Fulvio Ferrario, “La teologia del Novecento”, Carocci, Roma, 2011, pp. 304, euro 24,00.

 

È uscito quest’anno in Italia un libro sulla teologia del Novecento scritto da un teologo protestante, il valdese Fulvio Ferrario, che colpisce non solo per la rara chiarezza e ricchezza dell’esposizione e per l’efficacia narrativa, ma anche per il rilievo dato ad alcuni grandi teologi che sono, tra i non cattolici, proprio i più vicini alla visione e alla sensibilità dell’attuale papa, lui stesso teologo.

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Il primo è Oscar Cullmann (1902-1999), nato a Strasburgo, vissuto a Basilea e ospite a Roma, negli anni del Concilio Vaticano II, della stessa facoltà teologica valdese nella quale Ferrario insegna.

Ferrario lo annovera “tra i teologi protestanti più apprezzati in campo cattolico”. Pur meno famoso di un Barth, di un Bultmann, di un Bonhoeffer, Cullmann ha lasciato un’impronta forte e durevole.

È lui che ha coniato la formula – divenuta d’uso universale – del “già e non ancora” per esprimere la dialettica tra la salvezza già realizzata da Cristo e l’attesa del compimento finale.

Ed è lui, soprattutto, che ha insistito in ogni sua opera – da “Cristo e il tempo” a “La cristologia del Nuovo Testamento” – sulla continuità tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Cullmann era prima di tutto un grande esegeta delle Sacre Scritture, ma ha sempre coniugato la ricerca filologica e storiografica alla riflessione teologica. E “nella ricerca di questo difficile equilibrio – scrive Ferrario – egli costituisce un modello, in una stagione nella quale la difficoltà di comunicazione tra le due discipline raggiunge livelli pericolosi”.

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Un secondo grande teologo messo in primissimo piano da Ferrario è il tedesco Wolfhart Pannenberg, luterano, 83 anni.

In lui il nesso tra teologia e filosofia è strettissimo. Il Cristo crocifisso e risorto è l’evento capitale – raggiungibile anche dalla scienza storica – che consente di afferrare il senso della storia universale dell’uomo e del mondo. La rivelazione di Dio è storia; e lo smarrimento di questo orizzonte è la radice della crisi della cultura contemporanea. “È abbastanza facile notare – scrive Ferrario – le obiettive convergenze di questa impostazione con molte tesi del magistero cattolico romano”.

Non solo. Anche nella dottrina dei sacramenti e dei ministeri ordinati le riflessioni del protestante Pannenberg si avvicinano a quelle cattoliche. Ferrario sottolinea che “egli ritiene non solo possibile, ma a certe condizioni persino auspicabile, che il protestantesimo riconosca l’importanza del cosiddetto ‘ministero petrino’, cioè del papato”.

Lo stesso avviene nel campo della teologia morale:

“L’orientamento generale del pensiero di Pannenberg e la sua fiducia nelle possibilità teoriche di un’etica filosofica di derivazione aristotelica lo conducono a guardare con un marcato sospetto a molti orientamenti delle società secolarizzate in campo morale, ad esempio in materia di sessualità. In alcune occasioni egli esprime pubblicamente il proprio disaccordo nei confronti di posizioni che gli appaiono troppo ‘permissive’ delle Chiese evangeliche tedesche”.

Ma ciò non trattiene Ferrario dal concludere il profilo di Pannenberg – cioè del più “ratzingeriano” dei grandi teologi protestanti viventi – con questo altissimo apprezzamento:

“Nel contesto postmoderno, il pensiero di Pannenberg detiene un’inattualità che affascina e stimola. L’appello al rigore e alla portata universale della ragione critica, l’insistenza su una visione della fede come ‘grande narrazione’, addirittura storico-universale, costituisce una provocazione nei confronti della retorica di una teologia che vorrebbe ridursi all’autobiografia del teologo. Pannenberg ha in comune con i classici della riflessione teologica l’idea di un pensiero intrepido, che non accetta di fermarsi prima di aver incontrato la realtà di Dio. Ed è questo ardire del concetto che ne fa, al di là di ogni critica, un maestro”.

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Una terza personalità messa in forte rilievo da Ferrario nel capitolo dedicato alla teologia delle Chiese ortodosse è Ioannis Zizioulas, metropolita di Pergamo.

Zizioulas è il vescovo-teologo più autorevole del patriarcato ecumenico di Costantinopoli ed è amico di lunga data di Joseph Ratzinger. “Egli sviluppa – scrive Ferrario – l’idea della Chiesa come comunità che scaturisce dall’eucaristia. E in quanto tale essa è, non in senso teorico ma altamente realistico, corpo terreno del Risorto e partecipazione alla vita trinitaria”.

Non meraviglia, quindi, che “l’ecclesiologia eucaristica di Ioannis di Pergamo è assai utilizzata e apprezzata in ambito ecumenico. Essa è infatti molto organicamente, ed elegantemente, legata all’insieme della visione teologica e permette una comprensione della Chiesa in chiave anzitutto mistico-sacramentale, contro una deriva giuridica della quale, a volte, gli stessi cattolici romani evidenziano almeno alcuni limiti”. Una comprensione della Chiesa alla quale, riconosce Ferrario, “la mentalità protestante reagisce per contro in modo ambivalente”.

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Nella pagina finale del suo avvincente viaggio nella teologia del Novecento, Ferrario cita la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, con la sua rivendicazione di uno spazio pubblico per la teologia nelle moderne università del sapere.

E così conclude:

“Il nostro sguardo alla storia della teologia del Novecento dovrebbe aver mostrato che la teologia è stata ‘pubblica’ proprio quando è stata ecclesiale: quando cioè ha dato espressione intellettualmente critica al tentativo della comunità cristiana di annunciare l’evangelo nel mondo. […]

“I metodi esegetici, storici, filologici impiegati dalla teologia saranno gli stessi delle scienze religiose o delle teorie del cristianesimo che già ora l’affiancano e con le quali il pensiero ecclesiale è chiamato a dialogare serenamente.

“Ma diverso è il compito che la teologia cristiana si ostina a ritenere che le sia assegnato dal suo Signore: quello di contribuire, mediante la riflessione, al ministero della Chiesa, cioè alla predicazione della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, nell’attesa della sua venuta”.

E con questa limpida sentenza del più autorevole teologo protestante italiano, i molti falsi teologi che oggi affollano il proscenio – per “umanizzare” Gesù invece che predicarlo vero Dio e vero uomo – sono serviti.

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L’autore è professore di dogmatica e discipline affini presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma e docente invitato presso l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia. Dirige la rivista teologica della Facoltà Valdese “Protestantesimo”.

Sandro Magister

 

Cristiani e adulti

 

Due libri che giungono dal cattolicesimo vallone ci danno delle piste perché la Chiesa viva, nonostante le pesantezze dell’istituzione.
La Chiesa è forse in pericolo di vita? L’abisso che si crea tra le pratiche della base e le parole della gerarchia è tale che  “la Chiesa imploderà”, diagnostica Paul Löwenthal. L’ex presidente del Consiglio interdiocesano dei Laici (CIL) del  Belgio francofono conosce bene la vita delle comunità cattoliche.
Nel luo libro Ne laissons pas mourir l’Eglise. Foi chrétienne et identité catholique (Non lasciamo morire la Chiesa.  Fede cristiana e identità cattolica), passa in rassegna tutte le sfide a cui si trova confrontata. Non esita a porre  domande accusatrici ad un magistero ipertrofico che, sempre più, irrigidisce la tradizione. Forse che il magistero è lui  solo esperto in umanità? Che cosa ne fa, della libertà di coscienza? Della misericordia verso coloro che sono in  situazioni dolorose? Del riconoscimento dell’autonomia umana?
Dopo questa constatazione di un fallimento cocente della Chiesa nella modernità… e nei confronti delle persone più  impegnate, l’autore delinea il programma del cristiano adulto: libertà, responsabilità e apertura. Che continui ad agire  e ad impegnarsi: la moltiplicazione delle iniziative finirà per “far vacillare i capi”. Paul Löwenthal si ribella contro una  religione che invita ad osservare delle regole e chiede una Chiesa cattolica… più cristiana. Il discorso è a volte un po’ ripetitivo, ma l’analisi è acuta e colpisce nel segno. Molti cattolici fedeli al Vaticano II saranno d’accordo con lui.

 

Così come si troveranno a loro agio in “L’Eglise quand même. A l’écoute du peuple de Dieu (La Chiesa comunque. In  ascolto del popolo di Dio).Questo testo collettivo nato anch’esso nel CIL (Consiglio interdiocesano dei Laici), unisce  ugualmente analisi severa e amore per la Chiesa. Non è per la qualità letteraria che questo opuscolo è degno di  interesse, ma perché è frutto di una serie di inchieste, di conversazioni, di testimonianze di cattolici che ci svelano il  loro vissuto e le loro riflessioni sul “fare Chiesa” e sulle gioie e le difficoltà che vi vivono.
Presenta una valutazione della situazione, seguita dagli auspici espressi nell’inchiesta: una Chiesa fondata su piccole  comunità conviviali e fraterne che vivono la corresponsabilità in tutti i ministeri in uno spirito democratico. Sapendo  che l’essenziale è che il Vangelo sia meglio annunciato e ascoltato. Il CIL deduce dall’inchiesta dieci punti per dare  indicazioni sul futuro della Chiesa.

 

 

Ne laissons pas mourir l’Église. Foi chrétienne et identité catholique, Paul Löwenthal, Mols, 302
p., 22 €
L’Église quand même. À l’écoute du peuple de Dieu, Conseil interdiocésain des Laïcs, Fidélité, 120
p., 11,95 €

 

in “www.temoignagechretien.fr” del 29 novembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Insieme per rinnovare la catechesi

Si sta svolgendo da lunedì 28 a mercoledì 30 novembre a Roma, presso la Domus Mariae (via Aurelia, 481) il seminario dal titolo “L’ascolto per il discernimento”, organizzato dalla Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi (CEDAC). La Commissione ha in programma una serie di seminari per la verifica e il rilancio della catechesi in Italia e per elaborare un “documento condiviso” per il rinnovamento di percorsi e strumenti.
“Punto di riferimento – spiega il Direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale, Don Guido Benzi – resta il Documento Base Il rinnovamento della catechesi (2 febbraio 1970), che ancora avvertiamo fonte di riflessione per l’azione delle comunità cristiane nell’adempimento delle prospettive pastorali messe in luce dal Concilio Vaticano II. Questo documento, tutt’ora valido sotto il profilo teologico, pedagogico e pastorale, deve tuttavia essere aggiornato per il mutato orizzonte culturale, sociale ed ecclesiale”.
I lavori del seminario si stanno sviluppando intorno a tre nuclei, messi a tema da don Luca Bressan, della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, da fr. Enzo Biemmi, presidente dei Catecheti Europei, e da don Ubaldo Montisci, dell’Università Pontificia Salesiana.
Al centro dell’attenzione innanzitutto la catechesi in Italia nell’orizzonte della nuova evangelizzazione, con la necessità per la Chiesa di abitare questo nuovo clima culturale in modo propositivo, riscoprendo la ricchezza della mistagogia, l’importanza del primo annuncio e la sfida della testimonianza.
In un secondo momento sono stati presi in esame i contenuti, i percorsi, i contesti e gli strumenti della catechesi. Come una comunità credente può accompagnare all’incontro con Cristo e mediare i contenuti cognitivi, celebrativi ed etici della fede? Con quali linguaggi, in modo da evitare gli estremi di un solo approccio razionale, da una parte, o emotivo e narrativo, dall’altra? Quali percorsi per il primo annuncio e l’iniziazione cristiana e attraverso quali concreti strumenti adeguare l’annuncio alle diverse fasce d’età, alle diverse situazioni di vita, alle diverse condizioni rispetto alla fede?
Infine è stato approfondito il discorso sul rinnovamento delle nuove figure di catechista, sulla loro identità e funzione, ma soprattutto sulla loro formazione, progettandola con cura e valorizzando l’apporto delle scienze umane.
Martedì 29 novembre mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, ha presieduto la celebrazione dell’Eucaristia. “La catechesi – ha affermato mons. Crociata -, come la stessa evangelizzazione, non è solo opera di singoli pionieri o di personalità eccezionali (che pure lo Spirito non cessa di suscitare tra noi); essa è impegno di tutta quanta la Chiesa, che nel tessuto quotidiano, e nell’«ora» di ogni giorno, sa riconoscere e gioire, con Gesù, della benevolenza del Padre.”
Chiuderà i lavori mons. Marcello Semeraro, presidente della CEDAC.
In allegato le relazioni disponibili

file attached Introduzione mons. Soravito
file attached Saluto iniziale mons. Semeraro

Qohelet, il lieve sussurro nel gran silenzio di Dio

Uno pseudonimo ebraico, Qohelet, rimanda al vocabolo qahal, «assemblea», in greco ekklesía, donde il greco-latino  Ecclesiastes è divenuto la titolatura comune nell’Occidente cristiano di un’opera tuttora oggetto di differenti decifrazioni.
Interpretato come testo pessimistico, scettico, considerato espressione dell’ideologia dell’aurea mediocritas,  influenzato dalla filosofia greca del III secolo a. C., ritenuto una guida ascetica di distacco e disprezzo del mondo a  parte della tradizione cristiana, è stato negli ultimi decenni da qualche esegeta riportato nell’alveo rassicurante  dell’ottimismo a causa di alcuni passi, per la precisione sette (2,24-25; 3,12-13; 3,22; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-10), dai  quali emergerebbe un appello al sereno godimento delle scarse gioie che la vita riserva. A questa interpretazione si accosterebbe, paradossalmente, anche lo scrittore francese Albert Camus quando, nel Mito di Sisifo, vede in Don  Giovanni «un uomo nutrito dall’Ecclesiaste», «un pazzo che è un gran saggio» perché «questa vita lo appaga». (…)
La tonalità dominante è quella dell’inconsistenza, emblematicamente incarnata dal vocabolo caro a  Qohelet, hebel/   habel, che risuona ben 38 volte, talora nella forma superlativa habel habalîm, il celebre vanitas vanitatum della  versione latina della Volgata: il termine allude al fumo, al vapore, al soffio e quindi definisce la realtà come vuoto,  vacuità, caducità irreversibile. (…)
L’incrinatura che fa scoprire la presenza dell’hebel nell’essere e nell’esistere si incontra anche nell’intelligenza umana.  Qohelet è un sapiente, uno scriba, un intellettuale (12,9-10); disprezza la stupidità, per ben 85 volte introduce le sue riflessioni in prima persona, consapevole di un’originalità del suo pensiero. Eppure il risultato finale del conoscere è  aspro: grande sapienza è grande tormento, chi più sa più soffre (1,13-18). «Anche il filosofo che crede di guidare il  mondo — scrive un commentatore, Daniel Lys — non guida che il vento. Il paradosso della sapienza è che la sapienza  suprema consiste nel sapere che la sapienza è vento quando pretende di essere suprema».
Non c’è, allora, nessuna differenza tra sapienza e stupidità? No, risponde Qohelet, una differenza c’è ed è terribile: il  sapiente è tormentato, l’ignorante è ilare nella sua beceraggine. Solo l’intelligente vede il vuoto che rode l’essere e la  morte che pervade ogni atto che si compie sotto il sole. (…)
Il Dio di Qohelet è un Deus absconditus: «La immensità di Dio non ha per Qohelet nulla di rallegrante; meraviglia in sé,  resta pura impenetrabilità» (Horst Seebass).
I buoni motivi che Dio — chiamato 32 volte su 40 ha-‘elohîm, cioè «il Dio», in modo freddo e distaccato — può avere  sono per noi privi di incidenza perché ci restano sconosciuti. La sua opera contiene in sé una incomprensibilità tale da  spegnere ogni interrogativo e rendere vana, non solo la contestazione, ma anche ogni tentativo di decifrazione del suo  senso (si veda soprattutto 4,17-5,6).
A questo punto scatta un interrogativo: come possiamo, dopo aver letto tutte le pagine di questo autore dai temi  spesso sconcertanti e fin provocatori, definire Qohelet «parola di Dio»? O ancora, come ha fatto il canone delle  Scritture ebraiche, e quindi la comunità giudaica e cristiana, ad accogliere al proprio interno un testo apparentemente «scandaloso»?
Certo, l’interpretazione «ascetica», che ha usato l’opera come se fosse un appello al distacco dalle cose, ha aiutato  l’inserimento di Qohelet nelle Scritture o, almeno, è servita a smorzarne la provocazione come, d’altronde, appare  nell’epilogo del redattore finale che riduce l’insegnamento di Qohelet alla dogmatica sapienziale classica (12,13-14).
I rabbini per «giustificare» Qohelet sono ricorsi anche ai suoi sette appelli al godimento delle gioie lecite, appelli  distribuiti nell’opera, oppure al fatto curioso e allegorico che la prima e l’ultima parola del libro (rispettivamente:  dibrê, «parole» e ra’, «perverso, cattivo») si ritrovano nella Tôrah, cioè nella Legge!
In realtà, c’è una strada per comprendere come questa teologia così nuda e povera possa a buon diritto far parte ed  essere coerente con la «Rivelazione» biblica. Per la Bibbia, infatti, la parola divina s’incarna e si esprime attraverso la  storia e l’esistenza. Essa, perciò, acquista anche rivestimenti miseri, può farsi domanda, supplica (Salmi), persino  imprecazione (Giobbe) e dubbio (in Qohelet). Si vuole, così, affermare che nella stessa crisi dell’uomo e nel silenzio di  Dio si può nascondere una parola, una presenza, un’epifania segreta divina. Il terreno umano dell’interrogativo amaro, come quello di Giobbe, può essere misteriosamente fecondato da Dio.
La Rivelazione, quindi, può passare attraverso le oscurità di un uomo come Qohelet, disincantato e in crisi di sapienza,   ormai vicino alla frontiera del silenzio e della negazione. Il silenzio di Dio e della vita non è per la Bibbia   ecessariamente una maledizione, ma è una paradossale occasione d’incontro divino lungo strade inedite e   sorprendenti. Qohelet è, dunque, la testimonianza di un Dio povero che ci è vicino, non in virtù della sua onnipotenza,  ma della sua «incarnazione», ed è in questa fratellanza che salva e si rivela.

 

in “Corriere della Sera” del 25 novembre 2011

La fede e l’istituzione ecclesiale in Occidente. Perché la Chiesa?

Il cristianesimo al quale la maggioranza dei nostri contemporanei rimane legata, almeno nell’Occidente secolarizzato, è ormai un cristianesimo senza Dio e senza Chiesa. Davanti a tale considerazione, per quanti si sentono coinvolti in un’esperienza credente espressa anche in forma ecclesiale diventa urgente la domanda sulla finalità e la ragion d’essere della Chiesa oggi. «Se il cristianesimo è stato un fattore storico di civilizzazione, la sua pertinenza è caduca quando questa civilizzazione si trasforma, come sta avvenendo nel mondo contemporaneo?», si chiede Raymond Lemieux. Si tratta di verificare se l’esperienza cristiana sia fatta per garantire processi di civilizzazione o per partecipare all’umanizzazione del mondo. Una tappa previa importante sarà costituita dal ripensare il trittico «Chiesa-Regno-mondo». È sul versante di questa impresa che Denis Müller – procedendo da una prospettiva protestante, ma distanziandosi sia dal giuridicismo cattolico sia dall’evenemenzialismo protestante – ripercorre il formarsi dell’ecclesiologia contemporanea, restituendo un’articolazione teologica ecumenica della secondarietà e della necessità della Chiesa in rapporto al regno di Dio con un decentramento cristologico ed escatologico.

 

Regno-att. n.18, 2011, p.628

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Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia

 

VIII convegno nazionale delle associazioni locali Scienza&Vita

 

Pubblichiamo stralci della lectio magistralis del cardinale arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana che il 18 novembre scorso ha aperto a Roma “Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia”, VIII convegno nazionale delle associazioni locali Scienza&Vita. Alla tavola rotonda, moderata dal direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio, hanno partecipato gli onorevoli Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani, Pier Ferdinando Casini, Roberto Maroni

 

Nella gabbia invisibile del narcisismo

“Siamo tutti consapevoli della delicatezza dell’argomento in gioco, così come delle visioni diverse che spesso si confrontano, tanto da essere considerata – la vita umana – uno di quegli argomenti “divisivi” di cui è meglio non parlare, come se l’ordine sociale, basato sulla giustizia, potesse reggersi sull’ingiustizia che deriva dal non affrontare ciò che fondamentale, consapevoli che, storicamente, “se non abbiamo fatto abbastanza nel mondo, non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza” (Cei, La Chiesa Italiana e le prospettive del Paese, 1981, n. 13).
Tutti ci rendiamo conto che siamo dentro ad una crisi internazionale che non risparmia nessuno, e che nessuno, nel mondo, può atteggiarsi da supponente maestro degli altri. I grandi problemi dell’economia e della finanza, del lavoro e della solidarietà, della pace e dell’uso sostenibile della natura, attanagliano pesantemente persone, famiglie e collettività, specialmente i giovani. Su questi versanti, che declinano la cosiddetta “etica sociale”, la sensibilità e la presenza della Chiesa sono da sempre sotto gli occhi di tutti. Fanno parte del messaggio cristiano come inderogabile conseguenza: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Giovanni, 4, 20). ? una rete che si avvale di risorse provvidenziali e di quell’amore gratuito che nessuna legge può garantire poiché l’amore viene dal cuore e dall’Alto.
Ma oggi dobbiamo puntare la nostra attenzione sulla vita umana nella sua nudità: è evidente che gli aspetti citati fanno parte dell’esistenza concreta di ogni persona, ma essi non devono oscurare la vita nei momenti della sua maggiore fragilità e quindi di più pericolosa esposizione. Per questo credo sia inevitabile allargare, seppur brevemente, l’orizzonte per poter meglio affrontare il tema della vita umana nella sua assoluta indisponibilità o, se si vuole, sacralità. Per poter parlare di qualcosa, infatti, bisogna innanzitutto chiederci se esiste qualcosa fuori di noi. E, se esiste, possiamo conoscerla? Oppure siamo dentro ad una realtà unicamente costruita dal soggetto pensante, siamo alle prese solo con le nostre opinioni individuali, senza una presa diretta sulla realtà oggettiva? È il problema antico ma non scontato della conoscenza. Come rispondere? Dando fiducia al mondo e all’uomo! La conoscenza, infatti, parte da un atto positivo, di fiducia: fa appello al senso comune, all’esperienza universale. È più naturale, logico, istintivo, porre questo atto di fiducia oppure sfiduciare l’universo? È dunque un atto di sintonia, di comunione preriflessa con il mondo il punto di partenza del nostro rapportarci con il mondo, non il rinchiuderci nel sospetto e nel dubbio metodico e universale che – forse con aria di profonda intelligenza – accusa di fanatismo chi affermi che la verità esiste ed è conoscibile. La storia umana della conoscenza – nonostante grovigli a volte sofferti – corre sostanzialmente su questo filo e testimonia che, ogni qualvolta lo scetticismo si è imposto, gli esiti personali e sociali non sono stati più felici.
Il figlio di questo atteggiamento è lo scetticismo che genera inevitabilmente quel nulla di significato e di valore, quello svuotamento della vita e del mondo che già Nietzsche aveva annunciato. In realtà egli lo fa derivare dalla dichiarata “morte di Dio”, ma quando la ragione viene cancellata dall’orizzonte, anche la fede si indebolisce: “Cerco Dio! cerco Dio! Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” (Nietzsche, La gaia scienza, Mondadori 1971, pagg. 125-126). Il nichilismo di senso e di valori nasce da una visione materialista dell’uomo e del mondo, e si alimenta allo spettro ridente del consumismo che porta a concepire l’esistenza come una spasmodica spremitura di soddisfazioni e godimenti fino all’estremo. Ma ben presto – lo vediamo nella cronaca – ne deriva una immane svalutazione della vita. Essa non è più custodita dal sigillo della sacralità e così quando non è più gradita o risulta faticosa la si vorrebbe eliminare.
Oggi si tende a pensare che, sul piano dell’etica, ognuno è costruttore di ciò che per lui, soggettivamente, ha importanza e significato; che il nostro compito è quello di comporre i diversi, a volte opposti, valori; che l’importante – quando va bene – è disturbare gli altri il meno possibile. Ma non esiste qualcosa a cui l’uomo possa rifarsi nella sua conoscenza e quindi adeguarsi raggiungendo così la verità? È fuori dubbio che non pochi di quelli che chiamiamo valori appartengono alla sfera della soggettività individuale e sociale. Ma è tutto solo così? Non esiste nulla di oggettivo in grado di essere metro della verità morale, che possa regolare, normare i miei comportamenti? Di solito, fino ad un certo punto di questo ragionare tutti si è concordi, ma quando entra in gioco la questione del “valido per tutti”, allora si accende una spia e sorge in noi una trincea difensiva quasi si sentisse in pericolo la propria libertà individuale, nervo sensibile dell’anima moderna.
Se l’uomo si realizza attraverso l’esercizio della propria libertà (in actu exercito), bisogna chiederci se qualunque forma di esercizio realizza la persona oppure no. A ben vedere, come qualunque agire non si qualifica da sé ma è qualificato da ciò verso cui tende – camminare per fare una passeggiata non è lo stesso che camminare per andare a fare una rapina – così la libertà, se per un verso è valore in se stesso in quanto è condizione di responsabilità, per altro verso non è la sorgente della bontà morale. Il fatto che un atto sia una mia scelta non qualifica l’agire come buono, vero, giusto.
Inoltre, non bisogna dimenticare che la bontà e il male morale non sono astrazioni lontane alle quali sacrificare gli uomini nei loro desideri individuali; il bene è tale perché mi fa crescere come persona mentre il male mi diminuisce nella mia umanità. Oggi la tendenza diffusa è rendere la libertà individuale un valore assoluto, sciolto non solo da vincoli e norme ma anche indipendente dalla verità di ciò che sceglie; in tale modo però essa si rivolta contro l’uomo e perde se stessa, diventa prigioniera di se stessa come ogni personalità narcisista. Ecco perché il Signore Gesù ricorda che la verità libera la libertà e rende libero l’uomo. Oggi vi è una certa allergia per ciò che si presenta come assoluto, cioè oggettivo, universale e definitivo: sembra di sentirsi come in una gabbia insopportabile. Ma, dobbiamo chiederci, qual è la vera prigione: l’assolutismo di una libertà individualista o l’assolutezza della verità?”.

(©L’Osservatore Romano 20 novembre 2011)

 

 

Il Card. Bagnasco a “Scienza & Vita”
Se la vita rimane miracolo indisponibile

“Dalla responsabilità e dai modi di affronto della vita nei suoi vari momenti si ha una prima e decisiva misura del livello umano della convivenza”. La Lectio Magistralis del Card. Angelo Bagnasco ha aperto venerdì 18 novembre a Roma l’ottavo Convegno nazionale dell’Associazione Scienza & Vita.
Punto cruciale, ha ricordato il Presidente della CEI, è “se la libertà individuale abbia o non abbia qualcosa di più alto a cui riferirsi e a cui obbedire” e che ne fonda l’assoluta indisponibilità.

file attached 2011.11.18 Relazione Scienza e Vita.doc

 


La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi

Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso.
La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine  spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione,   anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un’Italia in cui  l’appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni  religiose.
In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l’esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non  particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta  nell’avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella  propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell’idea di far parte di un mondo di  spiriti e di mistero che trascende l’esperienza terrena.
Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano  ercepiti e ricercati più all’esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei  santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle  pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un’eco attuale (o di un restyling) della religiosità  popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata.  Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile  ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione  ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un’immagine che contrasta l’idea che l’epoca  attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo – parafrasando Peter  Berger – non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta»  che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale.
L’immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal  cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l’80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in  cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l’appartenenza cattolica ha una  funzione rassicurante per la nazione?
Perché molti continuano a identificarsi – pur in modo ambivalente – con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei  cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di  salvezza?
L’idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero,  per confinarlo nell’oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi  dell’esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente  impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un’immagine del  cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come  muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota  di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come  criterio di vita, più per l’educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali.
Nella società dell’insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un  serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si  conciliano con la propria cultura e abitudini.
Parallelamente, l’adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un’identità
nostrana in un’Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul
territorio e enfatizzato dai mass media.
Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell’adesione di molti italiani alla fede della  tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi  ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o  anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell’epoca attuale. L’avvento del pluralismo culturale e religioso non  produce necessariamente l’abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l’espressione. Si può essere  convinti che non c’è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso  sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria  tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive  dell’esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa  di attribuire un’ anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall’altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.

in “La Stampa” del 1° novembre 2011

Con il nuovo Evangeliario la liturgia diventa arte

 

Nel congedarsi dalla diocesi di Milano, il cardinale Martini – vescovo della Parola in una stagione di immagini distorte –   ha voluto che l’ultima iniziativa del suo ministero pastorale fosse la «Casa della carità»: un luogo che rendesse  manifesto il chinarsi dei cristiani sulle sofferenze dei poveri. Il suo successore, il cardinale Tettamanzi – vescovo della  carità in una stagione di indifferenza verso il prossimo – ha voluto che l’ultimo dono alla diocesi fosse il libro del  Vangelo, la Parola posta al cuore della celebrazione liturgica, un libro che rendesse manifesto il piegarsi dell’orecchio  dei cristiani alla Parola proclamata. Così, nella scia di san Paolo, il cardinale Tettamanzi ha inteso «affidare alla Parola»  i cristiani della sua diocesi e lo ha fatto attraverso un «Evangeliario», concepito e realizzato come compendio della sua  sollecitudine di pastore e del suo amore di padre.
Ma cos’è un evangeliario? «Questo è il Libro della vita, / questa la fonte e l’origine dei libri.

Qui scintillano i quattro fiumi dall’unica sorgente». Nei versi anonimi vergati sulle prime pagine di un manoscritto del  IX secolo cogliamo il significato e il valore che le chiese cristiane, sin dall’antichità, hanno attribuito all’evangeliario,  cioè a quel libro, destinato al culto liturgico, che contiene il testo dei quattro Vangeli, suddiviso secondo l’ordine delle  pericopi che vengono proclamate nel susseguirsi dei giorni, delle domeniche e delle feste dell’anno liturgico. Sì, i  cristiani hanno sempre riconosciuto uno statuto particolare a questo libro che custodisce l’«attestazione» delle parole del Signore Gesù, raccolte dagli apostoli e dalle prime comunità cristiane e trasmesse sino a noi.
Non si tratta semplicemente di un libro, ma del Libro per eccellenza, non riducibile a una mera suppellettile per il  culto: nella fede della Chiesa che si esprime nella liturgia, questo oggetto è riconosciuto come simbolo vivo, come  «sacramento» e «icona» del Cristo risorto, che si fa presente in mezzo alla sua comunità, che parla al suo cuore e  spezza il pane delle Scritture. Per questo, attraverso i secoli, il libro del Vangelo quadriforme è stato circondato da  eculiari segni di onore e venerazione nelle diverse tradizioni liturgiche: affidato alla ministerialità del diacono, portato solennemente in processione fra lumi, incensi e canti di acclamazione, intronizzato sul leggio più alto degli amboni,  salutato con il bacio da parte dei ministri e talora dei fedeli. Il libro, inserito nel dinamismo celebrativo all’interno del  «sito» liturgico della proclamazione, rende per così dire visibile ai nostri occhi e udibile alle nostre orecchie la  presenza del Figlio e Verbo di Dio, che ha assunto la visibilità della nostra carne e l’udibilità delle nostre parole umane  per narrare agli uomini la misericordia e la condiscendenza del Padre.
È proprio all’interno di questa secolare tradizione che si inscrive anche la progettazione e realizzazione del nuovo  Evangeliario Ambrosiano, promossa dal cardinale Dionigi Tettamanzi. Un evangeliario «nuovo» sotto diversi punti di  vista: contiene infatti la nuova traduzione liturgica della Scrittura approvata dalla Conferenza episcopale italiana;  inoltre segue la scelta delle letture evangeliche selezionate secondo la recente riforma del Lezionario ambrosiano  pubblicato nel 2008; ed è nuovo, infine, per la scelta audace della Chiesa di tornare a farsi interlocutrice e  committente nei confronti della tecnica e dell’arte contemporanee. Frutto di un lavoro di équipe, che con la consulenza di esperti, biblisti e liturgisti ha chiamato un architetto (Pierluigi Cerri) e sei artisti (Giovanni Chiaramonte,  Nicola De Maria, Mimmo Paladino, Nicola Samorì, Ettore Spalletti e Nicola Villa) a dare forma e volume, colore, figura  e visibilità segnica alle «parole di vita eterna» dei santi Vangeli, senza trascurare una certa omogeneità del progetto  decorativo. I testi evangelici – che si susseguono organizzandosi intorno ai grandi poli dei Misteri dell’Incarnazione,  della Pasqua e della Pentecoste – sono suddivisi in tre tomi, segno questo di un’attenzione pastorale concreta all’uso  liturgico dell’Evangeliario, che deve coniugare la «nobile bellezza» della forma con le esigenze di praticità e di  maneggevolezza richieste da un libro rituale.
Questo ambizioso progetto – illustrato ora dalla mostra «La bellezza nella Parola: il nuovo Evangeliario Ambrosiano e  capolavori antichi» (Milano, 5 novembre – 11 dicembre) manifesta dunque lo sforzo sinergico della Chiesa e del genio  contemporaneo, per dare vita a un’autentica ars liturgica , frutto di una sapiente «cospirazione» fra la ricerca di nuove  espressività, la preservazione della coerenza simbolica, l’alleanza culturale tra la fede cristiana, la creatività e l’abilità  tecnica dell’operare umano, e la fedeltà alla tradizione della Chiesa. Sì, la liturgia ha bisogno di questa diaconia della  bellezza: bellezza della materia, bellezza dell’arte umana, bellezza ordinata alla carità, bellezza che sa narrare la bellezza  ella presenza e dell’azione del Signore vivente. Si tratta indubbiamente di una bellezza che esige un cammino  di discernimento, un cammino ascetico mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni  bellezza, la quale sempre  rimanda a Dio, lui che è l’«autore della bellezza». Solo così la bellezza dei simboli e dell’arte nella liturgia potrà essere rivelativa di Dio, della sua azione, del suo amore fedele per questa creazione e per l’umanità  intera.
Davvero negli ultimi trent’anni di ministero pastorale a Milano sono state «scritte» pagine esemplari di primato della  parola di Dio e di carità operosa verso gli ultimi: ora sono simbolicamente raccolte e offerte a tutti attraverso un’opera  d’arte che non esiteremmo a definire l’«Evangeliario della carità».

in “La Stampa” del 3 novembre 2011

 

 

Altri contributi

 

“Il cardinale Tettamanzi ha voluto offrire alla sua Chiesa un singolare dono di bellezza: un evangeliario artistico… Tutt’altro che accidentale è il rapporto fra fede e bellezza… Non a caso né per incidente di percorso il “logos” della fede si apre all'”hymnos”, la riflessione alla preghiera, l’esperienza di Dio nell’invocazione e nella carità alle forme dell’arte, in cui risplende l’umile bellezza dell’Altissimo”
“«L’arte presenta [rende presente] la bellezza, lo splendore, la gloria, la maestà, il plus che è nelle cose e che si ritira quando dite che la luna è solo terra e le nuvole sono solo acqua». Queste parole di padre Bernard Lonergan identificano con chiarezza l’esperienza dell’incontro con l’opera d’arte.” Promosso dal predecessore Tettamanzi, il libro sposa il Vangelo alle immagini di Mimmo Paladino, Nicola De Maria, Ettore Spalletti, Giovanni Chiaramonte, Nicola
Villa e Nicola Samorì.
“Il dono di un nuovo Evangeliario alla Diocesi di Milano è il gesto con il quale intendo lasciare un segno preciso e forte: la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa e dei cristiani… Desiderandolo come segno importante per la cultura e la spiritualità del nostro tempo, ho voluto che si esprimesse nella lingua delle donne e degli uomini di oggi… l’Evangeliario è stato per me un percorrere i sentieri della bellezza, attraverso la ricerca degli autori tradotta in forme e colori”
Tra “fede e arte, è necessario ora andare oltre i sospetti e ritornare a incontrarsi. La chiesa milanese presenta in questi giorni un nuovo Evangeliario Ambrosiano: “arte e fede “apparentemente non servono a nulla, tranne che a insegnare il senso della vita””

Il Cantico dei cantici letto dalle tre grandi fedi

Cantico dei cantici, un convegno a Venezia
di Viviana Kasam

Del Cantico dei Cantici si parlerà per tre giorni a Venezia, dal 3 al 6 novembre, in un convegno organizzato  dall’Università Ebraica di Gerusalemme che metterà a confronto studiosi delle religioni, filosofi, scrittori per esaminare il Cantico in tutti i suoi aspetti: quello letterario/poetico, quello mistico, quello filosofico, e il rapporto con altre tradizioni in cui il sesso può essere una strada per raggiungere l’estasi spirituale (per esempio il buddismo tantrico).
Ai seminari in inglese in francese (non è prevista la traduzione in italiano) parteciperanno Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di Kabbalah , la scrittrice francese Eliette Abécassis, i filosofi Ami Bouganim e Monique Canto- Sperber (che insegna all’Ecole Normale Supérieure di Parigi), Yair Zakovitch, uno dei più quotati esperti biblici, Marco  Ceresa docente di letteratura cinese e studi culturali dell’Asia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Guy Stroumsa,  professore di religioni comparate dell’Università Ebraica di Gerusalemme, il presidente della stessa Università Menachem Ben Sasson, specialista di ermeneutica biblica, Clemence Boulouque, scrittrice specializzata in Kabbalah e  misticismo e Haim Baharier, noto per le sue vertiginose lezioni di ermeneutica biblica. E il giornalista Gad Lerner, che  parteciperà a un dibattito di grande attualità, domenica mattina, su sesso e potere.

 

 

Intervista a Moshe Idel, Haim Baharier e Enzo Bianchi

a cura di Viviana Kasam

Il Cantico dei Cantici: il poema d’amore più conosciuto, più commentato, più tradotto nella Storia, e anche il più  misterioso. Che cosa significa il titolo? Perché un poema così fortemente erotico è stato assunto sin dall’antichità  (Concilio di Yavnè, 90 d.C.), nel canone dell’Antico Testamento? E come mai nelle tradizioni religiose dell’occidente,  quella ebraica, quella cattolica, quella cristiana, la letteralità del testo, che descrive senza mezzi termini un amplesso, è  tata “freudianamente” rimossa in favore di una interpretazione mistica spesso tirata per i capelli, così forzata nel  diniego dell’evidenza da apparire quasi assurda ad un occhio laico e smaliziato?
Giriamo i quesiti a Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di mistica ebraica, che insegna alla cattedra che fu  di Gershom Scholem, Haim Baharier, famoso per le sue lezioni di ermeneutica biblica diventate cult, e Padre Enzo  Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, scrittore, editore di Qiqajon, profondo conoscitore e interprete delle Scritture.

 

Perché il titolo?
Baharier: Se abbracciamo ciò che dice Rashi al riguardo si tratterebbe di una valutazione qualitativa: un canto sopra ogni canto. Oppure un canto per tutti i canti. Seguendo invece il commento di Rabbi Israel Salanter, il Cantico dei  Cantici è un testo paradigmatico della pluralità dei significati e nello stesso tempo dell’univocità: ossia una voce  profonda, separata, sempre identificabile.
Bianchi: Questo titolo – che coincide con la prima riga del testo: “Cantico dei Cantici, che è di Salomone” – è un  superlativo, dunque indica “il canto per eccellenza”, il più sublime tra tutti i canti cantati in Israele. I rabbini dicevano  che c’è una corrispondenza tra questa espressione e il Santo dei Santi, ovvero il luogo più interno del Tempio, sede  della presenza di Dio. E’ un modo simbolico per affermare che la parola di Dio è presente più che mai in questo piccolo  gioiello letterario.


Dunque l’autore fu davvero il re Salomone?

Baharier: Dal punto di vista storico saremmo legittimati ad avere dei dubbi. Se però immaginiamo una sorta di casting  dobbiamo ammettere che il ruolo di autore del Cantico ben si addice a Re Salomone.
Idel: Ritengo di no, il testo è probabilmente più tardo di qualche secolo rispetto al regno di Salomone, ma questa  attribuzione è stata fondamentale per far adottare il Cantico nel canone biblico.
Bianchi: Non è realistico attribuirlo al Re Salomone. Però c’è un senso logico in questa attribuzione, legato al fatto che  nel testo viene citato alcune volte (per l’esattezza sei) proprio il Re Salomone. Approfondendo questo dato, potremmo  chiederci: per una innamorata il suo amato non è forse sempre un re? In quest’ottica è bello pensare che i due  ersonaggi siano in qualche modo un re e una regina, anche se nella realtà materiale del testo sono più probabilmente  un pastorello e una pastorella. L’amore descritto è quello di due ragazzi, è l’amore di tutti i ragazzi innamorati. L’autore, hiunque egli sia, è certamente un poeta raffinato, capace di descrivere l’amore con grande maestria.

 

Ma di quale amore stiamo parlando: amore sacro, amore profano, o entrambi?
Idel: Secondo il suo significato originario, è un canto erotico secolare, che solo più tardi è stato allegorizzato sia nella  tradizione ebraica che in quella cristiana, per adattarsi a nuovi valori religiosi emersi più tardi, a partire dal primo  secolo dopo Cristo.
Bianchi: Direi che il Cantico celebra l’amore umano in tutte le sue infinite sfaccettature, alle quali si può alludere solo in  chiave poetica: la lontananza, il cercarsi, il rincorrersi, il ritrovarsi, l’amplesso… E’ significativo che il nome di Dio  compaia solo alla fine, quando si dice che l’amore è una fiammata, è un fuoco divino. In questo senso, nella tradizione  ebraica il Cantico è diventato ben presto simbolico dell’amore di Dio per il suo popolo; nella tradizione cristiana è  normalmente simbolico dell’amore tra Cristo e la Chiesa o, in ambienti monastici, tra Dio, tra Cristo e il singolo credente. In questo cammino il senso letterale del Cantico fu totalmente oscurato. Quando però si trattò di inserire  questo poema nel canone dell’Antico Testamento molti si opposero, proprio per gli espliciti riferimenti al sesso  contenuti in queste pagine. Fu Rabbi Akiva a farcelo entrare, durante il Concilio di Javne (fine del I secolo d.C.), insistendo sull’interpretazione simbolica di cui si diceva.
Celebri sono le parole da lui usate per giustificare tale inserimento: “Il mondo intero non è degno del giorno in cui il  Cantico dei Cantici è stato donato a Israele: tutte le Scritture infatti sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi!”

in “www.ilsole24ore.com” del 30 ottobre 2011

 

 

Altri contributi

 

“Dopo tanta caccia al vuoto di Dio, sembra Ceronetti aggrapparsi alla preda di quelle consonanti materiche dei dossi e delle pietraie semitiche, quasi per scongiurare l’aveu della conclusione: «Forse perché sei la sera, la morte velata – Cantico, sacro Cantico – di te ho paura”. Il suo non dar tregua al testo…, il suo annerire di contrasti violenti i fondali… non fa che aumentare il fascino della tradizione del Cantico”
“La mia verità attuale sul ‘Cantico’ è questa: il ‘Cantico’ non è un testo mistico. Ha un doppio senso, ne è farcito, ma non un doppio fondo. Canta l’amore bucolico in modi che in nulla corrispondono ai nostri, di vivere e di concepire l’amore… Il Dio biblico integrale cercàtelo altrove: nei Profeti, nel libro dei Salmi, nell’Esodo, se vi può consolare…”

 

 

Halloween, la notte dei relativisti «Un rito che non ci appartiene»

 

L’anatema di due cardinali: snatura le feste della Chiesa.

 

Halloween nemica delle feste cattoliche di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti? Il dilemma si ripresenta da anni ad ogni fine ottobre.
Ma nel 2011 una differenza c’è. Riguarda la durezza con cui l’Arcidiocesi di Bologna del cardinale Carlo Caffarra ha  parlato di «brutta resa al relativismo dilagante», con tanto di nota sull’edizione bolognese di Avvenire, per la  manifestazione organizzata in piazza Re Enzo a base di zucche da intarsiare per Halloween dalla Coldiretti, associazione  di area cattolica. La curia invita a usare le zucche «per la vellutata o il ripieno dei tortelli». A Torino l’arcivescovo  Cesare Nosiglia rincara la dose: «La prossima festa dei Santi e la commemorazione dei fedeli defunti, tanto care alla tradizione anche familiare del popolo cristiano, da anni sono contaminate da Halloween. Tale festa non ha nulla a che  vedere con la visione cristiana della vita e della morte e il fatto che si tenga in prossimità delle feste dei santi e del  suffragio ai defunti rischia sul piano educativo di snaturarne il messaggio spirituale, religioso, umano e sociale che  questi momenti forti della fede cristiana portano con sé. Halloween fa dello spiritismo e del senso del macabro il suo  centro ispiratore».
Vincenzo Pace, docente di Sociologia della religione all’università di Padova, replica con una riflessione ottimista ma  che consegna un dubbio alla Chiesa: «Halloween non ha affatto soppiantato quella di Tutti i Santi. Il culto che la base  cattolica riserva proprio ai Santi è tuttora solidissimo. Io vivo a Padova e vedo cosa avviene ogni giorno alla Basilica di  ant’Antonio. La tradizione del pellegrinaggio perdura così come, ripeto, non conosce crisi il culto dei Santi. Direi  che resiste più della figura dello stesso Papa…». Affermazione interessante, visto che viene da un sociologo della religione. Pace respinge anche il nodo del relativismo: «Ricordo che le stesse figure dei santi sono relative, ciascuno ha il proprio “ambito” in cui esercita, secondo i credenti, una influenza».
Pippo Corigliano, scrittore (il suo «Preferisco il Paradiso» edito da Mondadori ha superato le 20 mila copie), per  uarant’anni responsabile delle relazioni esterne dell’Opus Dei, si schiera con i vescovi: «Hanno ragione, Halloween è  una moda importata dall’America che, come tutte le mode, inducono alla superficialità. La bonomia buongustaia  bolognese fa capolino anche in questo caso perché la nota della Curia invita a usare le zucche per i tortellini o per la  “vellutata”…». Detto questo, aggiunge Corigliano, «le feste di Tutti i Santi e della Commemorazione dei defunti sono comunque momenti sanamente inquietanti perché inducono a riflettere sull’aldilà. È bene ricordare che Gesù è stato  chiaro: esiste la vita eterna e l’immagine che usa più di frequente per illustrarla è quella del banchetto, cioè una  riunione di famiglia e di amici in cui si mangia e si sta bene assieme». Dunque una festa… «Un modo per far capire che  in Dio staremo bene e non ci mancherà nulla. Sarà come mangiare dei tortellini di zucca e anche meglio. In tutta Italia  si confezionano i dolci dei morti sotto forme molto svariate. L’importante è imitare Gesù nel suo amare tutti, altrimenti  ci sarebbe anche l’inferno col suo “pianto e stridore di denti”. Ma speriamo che l’argomento non ci riguardi».
Più problematico Brunetto Salvarani, teologo e critico letterario, impegnato nel dialogo interreligioso, direttore della  collana Emi «Parole delle fedi»: «Ritengo che il problema sia più ampio della questione legata ad Halloween e a una  possibile accusa di relativismo. C’è una questione di omologazione del tempo. Fino agli anni immediatamente  successivi alla Seconda guerra mondiale, in Italia gran parte dei credenti erano anche praticanti e, attorno alle  parrocchie, scandivano il tempo della propria vita con le festività». E ora, professor Salvarani? «Tutto diverso.
La pratica nelle chiese è quella che vediamo. Assistiamo a una sorta di nomadismo culturale, religioso e spirituale che  denota una trasformazione complessiva. Occorre porsi il problema se talune festività cattoliche abbiano perso la forza  di “parlare” ai fedeli».
Cosa dovrebbe fare il mondo cattolico? «Ci viene offerta un’occasione per stare dentro questa trasformazione, per  intercettarne i dati eventualmente positivi. La mutazione non dovrebbe vedere la Chiesa cattolica come semplice  spettatrice, se non addirittura come parte ostile. In una contingenza simile, non si può stare l’un contro l’altro armati».

in “Corriere della Sera” del 31 ottobre 2011