Tu chi sei?

Tu quis es? Tu chi sei? È una domanda sull’ identità di un’altra persona.
Chi la pone sul serio, tuttavia, sperimenta in sé gli stessi interrogativi: Tu quis es? Chi pensi di essere? Quale definizione dai di te stesso? Da questa domanda si apre una via all’interiorità.
Di fatto, noi vorremmo conoscere a fondo che cosa muove il nostro fratello o sorella ad agire in un certo modo.
Questo rifluire della domanda su noi stessi ci coglie soprattutto quando interroghiamo le persone che ci sono care o con cui abbiamo una comunità di vita.
Quando poi si tratta di qualcuno da cui dipende la nostra vita e il nostro futuro, questa ricerca può assumere anche un carattere drammatico.
La Scrittura è particolarmente conscia di quanto questa domanda ci interpelli e ci mostra, in particolare nei Vangeli, esempi di questo cammino interiore che può anche giungere a una prova, come quella di Giacobbe con l’angelo (Gen 32) o l’agonia di Gesù nell’Orto degli Ulivi (Mc 14,32- 42).
Questo atteggiamento fondamentale di domanda si pone fin dagli inizi della predicazione di Gesù.
Chi viene a contatto con il suo ministero si stupisce di come Egli possieda la forza del dire, connessa con il potere di fare miracoli.
Il quarto Vangelo ha nella sua prima pagina la domanda «tu quis es?» posta a Giovanni il Battista.
La sua risposta è molto chiara: «Egli confessò e non negò.
Confessò: “Io non sono il Cristo”.
Allora gli chiesero: “Chi sei, dunque? Sei tu Elia?”.
“Non lo sono” disse.
“Sei tu il profeta?”.
“No” rispose.
Gli dissero allora: “Chi sei perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato.
Che cosa dici di te stesso?”» (Gv 1,20-22).
Occorreva una grande umiltà per rispondere così.
Con questo il Vangelo di Giovanni ci fa comprendere come per conoscere il Cristo sia necessario anzitutto sapere chi non si è, ed essere molto sinceri sulle cose che non abbiamo.
I primi che si pongono questa domanda rispetto a Gesù sono i due discepoli dello stesso Giovanni.
Secondo il quarto Vangelo, non osano essere espliciti, ma chiedono timidamente: «Maestro, dove abiti?» e Gesù risponde con una proposta: «Venite e vedrete» (Gv 1,39).
Dunque, per rispondere alla domanda «tu quis es?» occorre avere la capacità di ascoltare e comprendere il mondo della persona in questione.
Natanaele poi viene colpito da grande stupore perché, incontrandolo, Gesù gli dice di averlo visto sotto il fico.
A questo stupore Gesù risponde: «Vedrai cose più grandi di queste» (Gv 1,50).
I capitoli terzo e quarto di Giovanni ci fanno comprendere che è attraverso dubbi e fatiche che si arriva a conoscere l’altro.
Nel terzo Gesù cerca di chiarire le idee a un uomo fondamentalmente buono ma legato da difficoltà e fatiche.
Di fronte alla Samaritana Egli afferma: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è che ti dice dammi da bere, tu avresti chiesto a lui e lui ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10).
La donna, quindi, non è ancora giunta a riconoscere chi gli sta di fronte, ma arriverà alla conoscenza di Gesù evocando la questione messianica e sentendosi rispondere: il Messia «sono io che parlo con te».
Nel capitolo quinto Gesù viene rimproverato dai giudei per aver compiuto un miracolo nel giorno di sabato, e le resistenze alla sua missione si fanno via via più forti.
Chi vuole conoscere intimamente il mistero di Cristo deve pagare un duro prezzo.
Da qui in avanti si ripeteranno queste auto-affermazioni di Gesù con l’uso di termini metaforici.
Egli si presenta come luce del mondo che dona la luce della vita.
In questi capitoli prevalgono le diatribe di coloro che non sono disposti ad accettare la sua testimonianza.
Gesù guarisce il cieco nato e il quarto Vangelo ne trae occasione per esprimere tutte le difficoltà a riconoscere che Gesù sia il Messia.
In seguito Egli paragona se stesso alla porta delle pecore e soprattutto al buon pastore.
Finalmente Gesù si dichiara come la risurrezione e la vita (Gv 11,10-25).
Intanto si sono già formati a proposito della sua persona due schieramenti opposti: quelli che gli credono e valutano positivamente i suoi gesti e, dall’altra parte, quelli che prendono scandalo dalle sue parole e dal suo modo di agire.
Si vede di qui che nella formazione del giudizio su una persona vengono fuori molte ragioni emotive ed è quindi necessario un cuore puro.
In conclusione, per rispondere al «tu quis es?» bisogna: primo, riconoscere coraggiosamente ciò che io non sono; secondo, incontrare l’altro nel suo ambiente e nella sua storia; terzo, avere il senso dello stupore, ossia la capacità di meravigliarsi che suscita la ricerca; quarto, essere disponibili ad andare oltre il visibile; quinto, accettare insieme anche il reale nelle sue manifestazioni meno appariscenti.
Infine, per conoscere un’altra persona bisogna essere disposti a lasciarsi mangiare per dare vita e riceverla.
La domanda «tu quis es?» coinvolge tutta la persona ed è una domanda primaria: conoscersi e conoscere significa lasciarsi attraversare e insieme condurre dall’altro.
in “Corriere della Sera” del 7 dicembre 2010

Vita religiosa e secolarizzazione

La vita religiosa si trova oggi sottoposta a notevoli pressioni.
In particolare, due tipi di condizionamento mi sembra meritino attenzione.
Il primo riguarda la secolarizzazione.
Un fenomeno storico nato in Francia a metà del XVIii secolo, che ha finito per investire tutte le società che volevano entrare nella modernità.
Anche l’apertura al mondo, giustamente proclamata dal concilio Vaticano ii, è stata interpretata, sotto la pressione delle ideologie del momento, come un passaggio necessario alla secolarizzazione.
E di fatto, negli ultimi cinquant’anni, abbiamo assistito a una formidabile iniziativa di auto-secolarizzazione all’interno della Chiesa.
Gli esempi non mancano:  i cristiani sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono ancora alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno messo in atto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi parla ancora dell’escatologia, della vita dopo la morte? Le nostre Chiese si sono impegnate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, ma discutono del peccato, della grazia e delle virtù teologali? Le nostre Chiese hanno fatto ricorso al meglio del proprio ingegno per migliorare la partecipazione dei fedeli alla liturgia, ma quest’ultima non ha perduto, in gran parte, il senso del sacro, vale a dire quel retrogusto di eternità? La nostra generazione, forse senza rendersene conto, non ha forse sognato una “Chiesa dei puri”, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare? Che fine ha fatto, in tale contesto, quella vita religiosa che era stata presentata, in maniera tradizionale, come un segno escatologico e un’anticipazione del Regno a venire? Di fatto, religiosi e religiose hanno presto abbandonato l’abito della propria famiglia per vestirsi come tutti gli altri.
Spesso hanno abbandonato i propri conventi, giudicati troppo vistosi o troppo ricchi, a beneficio di piccole comunità sparse nei villaggi o nei grandi agglomerati urbani.
Hanno scelto mestieri profani, si sono impegnati in attività sociali e caritative, oppure si sono messi al servizio di cause umanitarie.
Si sono fatti simili agli altri e si sono fusi nella massa, talvolta per formare il lievito della pasta, ma anche, in molti casi, perché tale atteggiamento rispondeva al clima dei tempi.
Non dovremmo sottovalutare i meriti di tale impostazione né i benefici che ne ricava la Chiesa ancora oggi.
Quei religiosi e quelle religiose, infatti, si sono fatti più vicini alle persone e, in particolare, ai più svantaggiati, mostrando un volto della Chiesa più umile e più fraterno.
Ciononostante, questa forma di vita religiosa non sembra avere più un futuro, non attira quasi più vocazioni.
La quasi totalità delle congregazioni attive, nate nel xix secolo o all’inizio del xx, si trovano quindi colpite a morte, e la loro scomparsa è solo una questione di tempo.
Le case generalizie e i grandi conventi si sono già trasformati in case di riposo per anziani.
Fra il 1973 e il 1985, 268 congregazioni francesi delle 369 esistenti hanno chiuso il proprio noviziato.
La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare.
L’auto-secolarizzazione ha minato alle fondamenta la vita religiosa.
La crisi ha colpito soprattutto le forme di vita attiva, meno quelle contemplative, perché la secolarizzazione aveva orientato tutto ciò che è religioso verso la militanza o l’impegno sociale.
Il fatto è che il militante o la persona impegnata nel sociale, oggi, ci tengono a rimanere laici.
Eccoci alla seconda tipologia di pressione esercitata sulla vita religiosa.
Per affrontare la sfida della secolarizzazione, il Concilio ha avuto la geniale intuizione di affidare questa missione ai laici.
Coloro che avevano l’avventura di essere gli attori principali della società secolare non erano forse i più appropriati per realizzare tale compito? Il Vaticano ii ha valorizzato – non dico che ha rivalorizzato, poiché una simile impresa non ha mai avuto luogo nel passato – la vocazione dei laici.
Tuttavia, proprio la valorizzazione del laicato ha provocato una sorta di schiacciamento della vita religiosa “attiva”.
Se quest’ultima, infatti, ha riconosciuto a lungo la propria identificazione con un servizio specifico offerto alla Chiesa e alla società – come l’insegnamento nelle scuole o la cura dei malati negli ospedali – dal momento in cui i laici venivano chiamati a fornire gli stessi servizi e a dedicarsi ad attività simili, la vita religiosa attiva perdeva la sua ragion d’essere.
Oggi non è più necessario passare per una consacrazione per fornire gli stessi servizi.
Quando ci troviamo in presenza di una maestra che insegna con passione o di un’infermiera servizievole, desiderose di condurre una vita autenticamente cristiana, potremmo domandarci se la stessa donna, cento o centocinquanta anni fa, non si sarebbe presentata alla porta di una di quelle neonate congregazioni che abbiamo evocato poco fa.
Questo ci porta alla seguente conclusione:  oggi più che mai, la vita religiosa non può essere definita partendo da un “fare”, bensì da un modo di essere e da uno stile di vita.
I due rischi che abbiamo appena descritto in forma sintetica e – non ho difficoltà ad annetterlo – senza troppe sfumature, dell’auto-secolarizzazione e della valorizzazione del laicato, costituiscono un pericolo per la vita religiosa.
La loro combinazione ha provocato in quest’ultima una sorta d’implosione.
Quindi, la situazione attuale della vita religiosa, soprattutto nelle Chiese occidentali, si presenta in modo paradossale.
Da una parte, dopo il Concilio, godiamo dei vantaggi di un importante rinnovamento della teologia della vita religiosa.
Dall’altra, abbiamo assistito al crollo di numerose congregazioni, così come a una fioritura di nuove forme di vita religiosa nella prima metà degli anni Settanta.
Questo carattere paradossale c’invita dunque a tornare all’essenziale.
A cominciare dal fatto che la vita religiosa è unica nella sua essenza e plurale nelle sue forme.
In altri termini, queste molteplici forme nascono tutte da un tronco comune, quello della vita e della tradizione monastica.
Di conseguenza, la prima dimensione è mistica:  la vita religiosa c’immerge nel mistero della morte e della risurrezione di Cristo.
È dunque sbagliato definire un istituto a partire della sua attività.
Anche se è stato in questo modo che sono state concepite le congregazioni nate nei due secoli scorsi.
Questa chiamata a stare con il Signore viene trasmessa a una singola persona – ogni vocazione è molto personalizzata e non esistono due percorsi che siano veramente simili – invitandola però a unirsi a una comunità specifica.
Alcuni sperimentano una sorta di colpo di fulmine nei confronti di una comunità e non gli viene neanche in mente d’andare a bussare a un’altra porta.
Altri, invece, si concedono un lungo tempo di riflessione, durante il quale fanno il giro di molte case e si dedicano a studi comparativi molto accurati.
In ogni epoca ci sono stati matrimoni d’amore e matrimoni di ragione.
Quel che è certo, però, è che l’attrazione è sempre legata alla vita comunitaria.
Infatti, il codice di diritto canonico definisce quella religiosa come una vita essenzialmente comunitaria.
E questa vita comunitaria è eminentemente spirituale nella misura in cui è lo Spirito Santo che la anima e la porta avanti.
Possiamo quindi dedurne che la fede data dallo Spirito rappresenta la chiave di lettura di tutti gli elementi che costituiscono la vita religiosa, a cominciare dai voti e dalla preghiera.
In questo senso, la povertà religiosa non è un concetto sociologico.
Non è fatta per dare l’esempio della povertà.
La parola stessa non ha fatto la sua comparsa se non in epoca tarda; prima, si parlava di sine proprio, oppure di communio, termini molto più suggestivi.
Il voto religioso corrisponde dunque a un atto di fede per mezzo del quale il religioso accetta quel dono dello Spirito che lo impegna a non tenere nulla per sé, al fine di vivere nel modo più intenso possibile la sua comunione con la vita fraterna.
Allo stesso modo, l’obbedienza religiosa non è in primis di natura ascetica o pedagogica.
Indubbiamente, presuppone un’ascesi nella misura in cui implica una certa rinuncia alla propria volontà.
Presenta, inoltre, una dimensione pedagogica, nella misura in cui mira a educare in noi la libertà dei figli di Dio.
La sua natura, però, è essenzialmente mistica:  ci fa entrare in un sistema in cui comanda lo Spirito.
La fede ci porta ad affermare che il comandamento dato non viene innanzitutto dalla volontà del superiore – anche se porta il marchio della sua psicologia, forse anche della sua patologia – ma dallo Spirito, del quale il superiore è, in un certo senso, il rappresentate visibile.
A quel punto, smettiamo di comportarci come singole entità, per diventare un corpo fraterno.
Anche tra l’amore umano e la castità religiosa – che pur possiedono diversi punti in comune – esiste una differenza essenziale.
L’amore umano comporta una scelta e una conquista, si presenta come un amore d’esclusione:  scegliere una donna specifica comporta rinunciare a tutte le altre.
Ora, contrariamente alle apparenze, che ci portano a sostenere che abbiamo scelto noi di diventare carmelitani o domenicani, la vita religiosa non si sceglie:  ci troviamo coinvolti in questa vita sotto l’impulso dello Spirito.
Per ognuno di noi, sarebbe impossibile rimanere fedeli alle promesse del nostro battesimo al di fuori della vita religiosa.
In quest’ultima, non esiste alcuna conquista né alcuna esclusione:  lo Spirito ci rende partecipi di una comunità d’accoglienza in cui tutti debbono imparare a vivere come fratelli.
Infine, è nella fede data dallo Spirito che viviamo la preghiera, non come un’attività come le altre, ovvero solo un’attività in più, né come una minaccia per le diverse attività implicate dallo stile di vita – tutti noi conosciamo bene quella tensione fra il nostro lavoro e il tempo dedicato alla preghiera, che equivale troppo spesso a un tempo residuo.
Nel simbolismo monastico il chiostro, ovvero l’apertura allo Spirito, rappresenta il legame fra la chiesa, luogo di preghiera (Opus Dei) e i diversi luoghi di lavoro (opus hominis) ma  come  una  scuola  in  cui  impariamo a diventare un “mendicante del Signore”.
(©L’Osservatore Romano – 20 ottobre 2010)

“A parola è parola”

Si è ora conclusa festosamente la missione che per una settimana, dal 15 al 22 agosto, ha visto frati, suore, con saio e sandali in puro stile del Poverello d’Assisi, e giovani laici missionari riempire le spiagge, le strade, le piazze , i bar,  le discoteche di Marzamemi ad incontrare i giovani, di giorno e di notte,  allo slogan “A parola è parola”.
                   Marzamemi  è un piccolo borgo marinaro del siracusano, all’estrema punta della Sicilia orientale , ad alta valenza turistica; in estate a Marzamemi si “vive” anche e sopratutto di  “notte”: spettacoli, manifestazioni, attrattive    e   incontri diversi intrattengono i turisti, e i giovani, tra una birra e l’altra, talvolta   anche di troppo, si ritrovano nei bar, nelle discoteche , nei pab o lungo il mare; e così trascorrono la notte fino alla prima colazione del giorno successivo!                    Sembrerebbe questo un panorama che non lascia spazio a nessuna altra intromissione che non sia lo “sballo” , come d’altronte dovunque nei luoghi turistici, soprattutto in estate.
                   E questa è stata infatti la resistenza delle autorità locali quando i frati minori di Sicilia hanno proposto la realizzazione di una missione per i giovani a partire dal 15 agosto   ( clou della stagione estiva) per una settimana.
                   E le resistenze non erano solo delle autorità!                    Un po’ tutti  mostravamo perplessità: non si pensava che l’iniziativa avrebbe potuto avere seguito se non nell’indifferenza e anche forse nel disturbo che poteva portare a un ritmo di vita già ben consolidato, soprattutto in agosto!                                Avanzava quindi la paura del rifiuto e del fallimento della proposta!                             I frati, però, con le suore e tanti laici giovani missionari, reclutati in loco nel corso dell’iniziativa con apposita formazione,  hanno saputo focalizzare l’attenzione ed è stato particolarmente sorprendente come al clima festoso che hanno saputo creare, la gente, (non più solo giovani!) si è raccolta intorno  a loro nel divertimento, nella testimonianza, nella riflessione, …
nell’ascolto della “parola”!                            E’ stato un tripudio di canti, balli, e…
preghiera!                            E ancora è stato più sorprendente quando, a sorpresa, a chiusura della missione,  in piena notte, ore 02,30, hanno proposto  una processione per raggiungere la chiesa per  fare  l’adorazione!                   E la gente (tantissima!), praticanti e non, si è mossa con loro per una lunga processione a discapito delle mille iniziative di divertimento e distrazione che pullulavano intorno a loro; c’è stata, infatti,  una sola recriminazione: quella di alcuni commercianti del posto ai quali l’evento intralciava la loro attività!                   Che dire?  Al di là della spettacolarità dell’iniziativa , l’esperienza è stata vincente e pone delle domande.
                   Come è possibile che in un contesto così desacralizzato, così profano, potremmo dire, in un  momento (il 15 agosto!) in cui l’attenzione, soprattutto dei giovani, è rivolta a tutt’altri interessi  che certamente non si sposano con  proposte religiose, i frati abbiano avuto così tanta partecipazione e coinvolgimento?                   Che cosa è stato vincente?                   Forse l’approccio che i frati hanno avuto con i giovani nei luoghi  e nei tempi a loro consueti!                   Forse hanno percepito che la proposta religiosa non è altro…            dalla loro  vita!                            Forse hanno sentito che la proposta religiosa non è loro estranea,  non li sovrasta, fa parte del loro stesso mondo, è  il loro stesso mondo!                            Forse hanno avvertito che non c’è frattura con la loro vita!                            Forse hanno avvertito che la proposta religiosa…
può interpetrarli!                            E per dirla con Vito Mancuso:  “Perché si possa pronunciare un armonioso noi ogni singolo io deve modulare la sua musica interiore con quella degli altri”.
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Togliti i sandali dai piedi

Mi succede di chiedermi che cosa sia questa emozione, che mi prende pure il corpo, fino a sentirla spingere negli occhi, ogni volta che due creature, dentro una chiesa o dentro un comune, osano dire, sposandosi, parole tanto assolute e tanto tenere a un tempo.
Mi è accaduto ancora una volta giorni fa dentro il silenzio stupito di una chiesa romanica a cui ti affacci, per scalata di fede, al colmo del biancore di una lunga scalinata.
Mi risposi che a commuovermi è il legame di assolutezza e di tenerezza che abitano queste parole.
Non mi prendono il cuore minimamente le parole assolute se sono intrise di gelo, il gelo del dogmatismo.
Ma queste altre parole che dicono amore incondizionato, che sfidano il futuro senza essere sfrontate, consapevoli di una fragilità, nel dono di una tenerezza infinita, queste sì, mi prendono il cuore.
Forse, ti dirò, è anche stupore, perché le sento pronunciare dentro una stagione, dove nell’aria, tra le mille paure, respiri anche questa paura, strana paura, la paura di amare.
Dentro una stagione come la nostra, in cui si vuole salva e custodita, se possibile, una via di fuga alle spalle.
E non me la sto prendendo, come spesso avviene, con il fenomeno delle convivenze, fenomeno in grande inarrestabile espansione.
Non è detto che abiti lì o sempre lì la paura di amare.
Paura del silenzio Ricordo che anni fa mi capitò di leggere un articolo di Xavier Lacroix, teologo francese, padre di famiglia, direttore dell’Istituto di Scienze della Famiglia a Lione, che invitava a guardare più da vicino il fenomeno: “La situazione non è più quella di trenta anni fa, quando scegliere la convivenza equivaleva a contestare il matrimonio.
Oggi, per esempio, la maggior parte vive un certo senso della fedeltà, e la coabitazione non ha il significato dell’amore libero: ci si augura durata, più dell’80% delle coppie spera di ‘tenere’, si concepiscono bambini e i genitori li riconoscono.
Inoltre, senza saperlo, molti fanno il percorso di storici e etnologi, recuperando e riscoprendo forme antiche di matrimonio in uso prima del XII secolo, prima che la Chiesa istituzionalizzasse il rito con lo scambio di consensi.
(…) Non è che chi non si sposa non si impegna: la promessa può benissimo essere scambiata nell’intimo della coppia ed è questo l’essenziale.
Ma talvolta l’essenziale non basta”.
Il luogo della paura di amare, così mi sembra di capire, non è necessariamente una situazione sociale, è una stanza più interiore, è il cuore di ognuno di noi.
Spesso la paura di amare è paura di uscire da se stessi dove sai, o ti illudi di sapere, paura di abbandonarsi all’altro, paura di rischiare l’avventura delle mani di una donna o di un uomo cui ti stai affidando.
Spesso è anche paura di soffrire.
O di essere ferito.
Una paura che non trattenne il Signore Gesù.
Non lotrattenne dal consegnarsi.
Lui ben consapevole di che cosa può accadere quando sei nelle mani degli uomini.
E furono mani di croce.
Purtroppo della logica del cautelarsi e del non rischiare, della paura di amare con vera e non pallida passione, abbiamo dato ampia dimostrazione lungo i secoli.
Nel suo libro “Equivoci, mondo moderno e Cristo”, padre Bevilacqua ricordava le parole, senza misericordia né reticenze, di alcuni testimoni del nostro tempo, parole che andavano a fotografare volti di credenti.
Secondo Mounier “esseri che pesano e misurano il gesto al millimetro, eroi linfatici, vasi di noia, sacri sillogismi, ombre di ombre”.
Trent’ anni prima Péguy ne aveva smontato il meccanismo psicologico dicendo: “Perché non hanno forza per essere della natura, credono di appartenere alla grazia.
Perché non hanno il coraggio temporale credono di essere penetrati dall’eterno, Perché non possono appartenere al mondo che rifiutano, credono di appartenere a Dio”.
Parole non prive di durezza, in cui senti la delusione per un amore che si dichiara tale ma, per paura di sofferenze o di falsi moralismi, tiene, ad ogni buon conto, una buona riserva di distanza.
Paura di essere invasi A volte è anche, e lo dobbiamo ammettere, paura di essere invasi.
Le storie di amori che furono invasioni non vanno certo a rassicurare il cuore.
Non sarà, mi chiedo, che il segreto per togliere dal cuore dell’altro la paura di amare non stia anche nel vivere amori che non siano per nulla nel segno dell’invasione dell’altro, nel segno dell’occupazione dell’altro, nel segno della riduzione dell’altro a oggetto? Mi ritornano al cuore le parole di un amico, Erri De Luca: un giorno lui si trovò fra le mani il libro della Bibbia e tale fu il fascino che dovette per passione andare al sapore delle parole così come suonavano nell’antico testo e da allora, al chiarore delle luci del mattino, interroga con gli occhi e le dita le grafie sacre.
In un suo testo che mi fecero conoscere anni fa due amici, Federica e Tomaso, mi capitò di leggere una poesia, non più dimenticata, che mi piace qui trascrivere, parola per parola, quasi toccandole: Ho visto l’amore delle frecce, “io amo te”: arco teso contro un bersaglio, dove io è il soggetto e te un complemento, oggetto di una mira, un caso accusativo.
Ho letto in una lingua antica: E amerai “al” tuo compagno come te stesso, (veaavtà lereacà camòca).
Un errore in grammatica, non un errore in cuore.
Porta amore a qualcuno porgi il te stesso ma fino alla soglia.
Fa’ che si chini per alzarlo a sé, mai che debba staccarselo di dosso.
Fa’ che non sia proiettile contro sagoma attinta, ma la deposta offerta.
Quando Federica e Tomaso mi lessero la poesia, che poi trovò posto nel libretto del loro matrimonio, a colpirmi fu da principio la stranezza del dativo.
Nella traduzioni che per lo più abbiamo fra le mani, è scritto: ‘Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19 ,1 8).
E la traduzione grammaticalmente funziona.
Nel testo originale, annota Erri De Luca, sta scritto: `Amerai al tuo compagno come te stesso”.
“Al tuo compagno”, al dativo.
“Un errore in grammatica” ma, aggiunge Erri De Luca, “non un errore in cuore”.
Ti dirò che l’allusione di Erri De Luca a un possibile “errore in cuore” ebbe l’effetto di mettermi in allarme, perché se già è doloroso per tutti noi riconoscere di avere errato in qualcosa, dolore dei dolori, dispiacere dei dispiaceri, peso da sfondarti l’anima sarebbe riconoscere di aver errato in cuore, di aver sbagliato in amore.
Ma nella poesia di Erri De Luca a colpirmi non fu solo la sorpresa di quell’inatteso dativo, fu anche la suggestione di una parola che mi è molto cara, la parola “soglia”: “Porta amore a qualcuno/ porgi il te stesso/ ma fino alla soglia./ Fa’ che si chini per alzarlo a sé,/ mai che debba staccarselo di dosso”.
In amore, perché non si generi paura, dovremmo, penso, consumare di venerazione la soglia, guardandoci da parole e gesti che suonino anche lontanamente come invasioni di una intimità, del territorio che sta oltre: al di là la terra è sacra.
Al cuore mi ritorna l’affascinante pagina del roveto dell’Oreb: ardeva per fuoco, ma non si consumava.
Gli occhi di Mosè erano un’interrogazione, mosse alcuni passi a carpire il segreto.
Ma dal roveto un grido: “Non avvicinarti oltre, togliti i sandali dai piedi perché il luogo sul quale stai è suolo santo” (Es 3, 5).
Il grido anche oggi chiede riconoscimento, riconoscimento del mistero dell’altro.
Riconoscimento che ti fa indugiare alla soglia.
Togliti i calzari, riconosci la tua fragilità, levati le tue precomprensioni, sta nudo.
Né Dio né l’altro sono terra di occupazione, terra da invadere, o terra che ti meriti.
Riconosci la distanza.
Anche nell’amore più forte e appassionato, riconosci la distanza.
Togliti i sandali dai piedi.
in “Mosaico di pace” n° 7 del luglio 2010

Dio esiste.

ANTHONY FLEW- A.
ROY VARGHESE, Dio esiste.
Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa&Omega, 2010,  ISBN: 8888747915, pp.
206, euro 17,90.
«Credo che l’universo sia stato creato da un’Intelligenza infinita e che le sue intricate leggi manifestino ciò che gli scienziati hanno chiamato la Mente di Dio.
Ritengo che la vita e la riproduzione abbiano origine da una Fonte divina».
Sembrerebbe la solita affermazione teistica di un onesto pensatore in ricerca religiosa il quale, osservando il cosmo, ne deduce la provenienza da un Dio creatore.
Ma se tale frase è uscita dalla penna di quello che per decenni è stato uno degli atei più celebri del pianeta, beh, allora, la faccenda si fa interessante.
È lo stesso Anthony Flew, filosofo inglese nato nel 1923 e morto lo scorso 8 aprile, docente in diverse università (Oxford, Aberdeen, Toronto), ad aver messo nero su bianco che “Dio esiste.
Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea” (Alfa&Omega, pp.
206, euro 17,90).
Libro che, richiamando il celebre “Storia di un’anima” di Teresa di Lisieux, potremmo definire «Storia di un cervello che passò dalla negazione granitica di Dio all’adesione “scientifica” ad un Essere superiore».
Volume, quello di Flew, che nella sua versione originale (2007) aveva suscitato un vespaio di polemiche.
Compresa la reprimenda del biologo ateo Richard Dawkins, che nel suo “L’illusione di Dio” aveva attribuito a una decadenza senile la conversione di Flew.
Proprio da tale accusa parte il testo dell’ex anti-Dio, quando afferma che «questi critici giunsero alla conclusione che le previsioni di un imminente ingresso nell’aldilà avessero scatenato una conversione sul letto di morte».
Tutt’altro, replica Flew, e l’andamento del racconto – scritto insieme al filosofo cattolico Roy A.
Varghese – ne è la controprova.
Quasi memore del procedimento filosofico classico, Flew procede prima in chiave destruens e quindi costruens rispetto all’ipotesi che Dio esista.
Si scopre così che l’ateo di Oxford fece la sua prima, pubblica professione di ateismo davanti ad un gigante del pensiero cristiano novecentesco, lo scrittore (e apologeta convertito) Clive S.
Lewis, il narratore delle celebri “Cronache di Narnia”.
Infatti nell’estate del 1951 Flew espresse i suoi principi che avrebbero poi costituito il nucleo del primo dei suoi tre libri fondamentali – 35 le opere da lui vergate – sulla sua mancanza di religiosità, “Theology and Falsification” (poi ripubblicato in “Nuovi saggi di teologia filosofica”, curato da Alasdair MacIntyre), nel contesto del Socratic Club di Oxford, uno spazio di discussione tra atei e cristiani il cui presidente, dal 1942 al ’54, fu appunto Lewis.
Flew quindi fece tesoro del pensiero del filosofo analitico Ludwig Wittgenstein.
E ne interpretò il pensiero in chiave anti-religiosa: «Sfidavo i credenti religiosi a spiegare come dovessero essere comprese le loro assunzioni», ovvero ad affermare la «logica» del dichiarare vera l’esistenza di Dio.
Nel suo iter intellettuale – durante il quale incrociò le lame anche con il pensatore neotomista Ralph McInerny, di recente defunto – Flew produsse altre due opere fondamentali, “God and Philosophy” e “The Presumption of Atheism”, nel quale, rifacendosi a David Hume, sosteneva che «le tesi cosmologiche e morali a favore dell’esistenza di Dio non fossero valide.
[…] Sostenevo che una discussione sull’esistenza di Dio dovesse iniziare col supporre l’ateismo e che l’onore della prova dovesse spettare ai teisti».
Dopo una vita di studi in cui si è anche occupato di scienze sociali, avendo abiurato il marxismo giovanile già all’epoca del patto Ribentropp-Molotov del ’39, ebbene 6 anni fa Flew – l’immagine è sua – cambiò casacca e passò nella squadra dei teisti.
Per l’occasione scelse una platea importante, un convegno a New York: «Annunciai che accettavo l’esistenza di un Dio».
E la motivazione era opposta e speculare alla negazione di un tempo: «Perché credo così, pur avendo esposto e difeso l’ateismo per più di mezzo secolo? È per il quadro del mondo, come lo vedo io, che è emerso dalla scienza moderna».
In particolare, a convincere l’anziano pensatore di Oxford, è lo studio del Dna: «Credo che il materiale del Dna abbia dimostrato, con la complessità quasi incredibile delle disposizioni di cui si necessita per generare la vita, che l’Intelligenza debba essere stata così coinvolta nel far sì che questi elementi diversi operassero insieme».
Flew riconosce di essere sulla scia di altri che, come lui, hanno trovato nella ricerca scientifica una chiave per dimostrare che affidarsi a Dio non è una pia illusione.
L’ex ateo cita, in primis, Charles Darwin, padre della teoria dell’evoluzione, di cui riprende questo passaggio: «La ragione mi parla dell’impossibilità quasi di concepire l’universo e l’uomo come il risultato di un mero caso o di una cieca necessità.
Questo pensiero mi costringe a ricorrere a una Causa Prima dotata di un’intelligenza».
Tra gli altri, Flew cita John Polkinghorne, pastore anglicano e grande filosofo della scienza di Cambridge, e Francis Collins, colui che ha portato a termine la mappatura del genoma umano e autore del fortunato “Il linguaggio di Dio” (Longanesi).
In fin dei conti il percorso di Flew, retrospettivamente, è coerente con quel principio socratico di cui si era abbeverato durante gli studi oxfordiani: «Seguire il ragionamento fin dove porta».
Flew chiude così la sua confessione: «Alcuni sostengono di aver stabilito un contatto con questa Mente.
Io no.
Ma chi lo sa cosa potrebbe accadere in seguito? Un giorno potrei sentire una Voce che dice: Puoi sentirmi adesso?».
Lorenzo Fazzini Avvenire 27 agosto 2010

Cercando il Dio del silenzio

Senza questo silenzio – che pur conosce contraddizioni da parte dei monaci – non sarebbe possibile una vita di lotta contro la dispersione, l´ansia, la distrazione, il de….
ment, come lo definiva Pascal.
Si tratta, infatti, di unificare la vita, di giungere a una semplificazione del cuore attraverso il lungo lavoro di “ordinare” i pensieri, i sentimenti, le azioni: uno sforzo costante verso la conoscenza di sé, del proprio profondo, in modo da imprimere alla vita consapevolezza, responsabilità e bellezza.
Ma a volte questo silenzio dei muri, dei corridoi, delle celle, del chiostro, del giardino o del bosco appare abitato da pensieri che urlano con voce straziante.
Antonio, il primo monaco solitario cristiano, li chiamava “demoni” e aveva la percezione di vederli nella cella, intenti ad assalirlo mentre si sentiva solo, debole e fragile, fino a interrogarsi se Dio non lo avesse abbandonato…
Sono le tentazioni dell´eremita, come di chi vive la solitudine all´interno di una comunità monastica.
Ma sono anche le stesse tentazioni proprie di ogni uomo, perché il monaco è un uomo come gli altri, vulnerabile come gli altri: la solitudine, il silenzio, l´ascesi gli consentono forse una maggiore consapevolezza nel guardare in faccia questi pensieri-tentazioni e nell´affrontarli.
Sono “avversari” di ogni tipo, dalle tentazioni più basse ai pensieri più sottili: il non credere più in Dio né in nulla, lo spettro della nientità che tutto dissolve in nonsenso, il peso dei propri peccati che porta a dubitare del perdono e della possibilità di trovare il bene nell´uomo.
Il monaco conosce anche questa contraddizione al silenzio che viene dal suo cuore, dalla sua psiche e che lo rende a volte esperto di a-teismo.
Anche per questo, nella sua vita quotidiana il monaco giustappone al silenzio il canto, più volte al giorno: vive nella custodia amorosa del silenzio, eppure canta assieme agli altri nella preghiera con inni, salmi, orazioni…
La preghiera, intessuta della parola di Dio è lo spazio vitale in cui lo stesso silenzio è ricondotto alla sua qualità di ricerca di Dio: lì si esprime quella sete che dal deserto, dalla terra arida che ciascuno sente di essere, fa muovere verso l´essere umano autentico la cui vita può divenire un capolavoro.
E nella preghiera comunitaria si ritrova anche l´altro elemento fondamentale della vita monastica, cui il silenzio stesso è orientato: l´ascolto.
Sì, l´invito di san Benedetto al silenzio è in funzione di quell´esortazione che apre la sua regola per i monaci: «Ascolta!».
Ascolto del silenzio che parla, certo, ascolto della parola di Dio che richiede di far tacere le altre parole, ma anche ascolto dell´altro, del fratello e della sorella, di quanti bussano alla porta del monastero per confidare soprattutto le loro fatiche e le loro sofferenze, quando la durezza della vita li porta a interrogarsi sul senso ultimo che sovente lo star bene ottunde.
Il lungo silenzio del monaco in cella, la sua solitudine a volte così pesante da portare alla sera – silenzio e solitudine abitati dalla preghiera – sono così preparazione all´ascolto degli altri: ascolto a volte faticoso, perché richiede comprensione, simpatia, condivisione e magari parole che non si vorrebbero pronunciare né udire.
Sovente questo silenzio oggi inusuale spaventa chi vi si accosta per la prima volta: non manca chi si affretta a tornare alla propria vita quotidiana in cui il rumore, il chiacchiericcio, la molteplicità dei messaggi distoglie dal porsi le domande vere e dall´affrontare i pensieri-tentazioni che sorgono nel cuore.
Ma così si preferisce il sonnambulismo spirituale, il non conoscersi in profondità, e si finisce per imboccare percorsi di alienazione anziché vie di umanizzazione.
Sì, c´è un grande silenzio che avvolge molte esistenze piene di vita, fatte di lavoro e di preghiera in un nascondimento che oggi molti non riescono più a comprendere, un silenzio soprattutto dei corpi e dei volti, che talora si celano nell´anonimato anche quando si fanno eloquenti nella scrittura, firmandosi semplicemente come «un certosino…
una monaca benedettina…
un eremita…
un monaco d´occidente…».
Eppure forse sono là in disparte anche per ricordarci che ogni parola autentica nasce dal silenzio e dal silenzio è custodita.
in “la Repubblica” del 4 aprile 2010 Quando uno varca la soglia di un monastero, a volte trova di fronte a sé un affresco o un´icona del patriarca dei monaci, san Benedetto che, dito sulla bocca, invita al silenzio: «Tace!».
Del resto, già i padri del deserto nel Quarto secolo cercavano di vivere secondo il detto di abba Arsenio: «Fuge (cioè ritirati in disparte), tace (fa´ silenzio), quiesce (ricerca la pace)!».
Per quanti fanno vita monastica, il silenzio è l´atmosfera, l´ambiente in cui vivono la loro tensione a quaerere Deum, a cercare Dio, impegno che contiene innanzitutto il quaerere hominem, cercare l´essere umano.
Dal canto dell´ultima preghiera della sera (verso le venti) fino all´ora ancora notturna che precede l ´alba (attorno alle quattro), i monaci e le monache osservano il “grande silenzio”: da soli, nella loro cella, cercano di vegliare, di leggere, di pensare e di pregare.
Ma anche durante il giorno le regole chiedono che il monaco faccia silenzio, parli se è necessario alla carità, e comunque vigili sempre a che la sua parola miri a ciò che è essenziale, autentico, veritiero, evitando non solo ogni doppiezza o menzogna, ma anche di dire ciò che non fa o che non pensa in profondità.

Trasfigurazione

Trasfigurazione ( Luca, 9, 28b-30 –Domenica IIa di Quaresima)     Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante come la neve.
Manifestazione visivamente trasparente della verità della persona: dice in linguaggio umanamente  comprensibile chi è davvero Gesù.
La consuetudine con Lui lascia talora trapelare un che di misterioso e di incomparabile, che il suo singolare atteggiamento contemporaneamente vela e rivela.
Dunque il mistero che fascia la sua esistenza; ma anche la verità che la sua esistenza  manifesta.
E la rivelazione non sta nella trasfigurazione esteriore: sta nel significato della sua presenza e, in definitiva, della sua vita.
Su cui fa luce il tema sul quale si intrattengono gli straordinari personaggi che compaiono accanto a lui, Mosè ed Elia, per ricapitolare  la storia dell’alleanza, la secolare e tenace fatica per realizzarla.
Rappresenta quel compimento, cui tende la vita di Gesù nel suo cammino risoluto verso Gerusalemme.
La desolazione della morte sul Golgota sarà il compimento dell’alleanza fra Dio e l’uomo; per cui la trasfigurazione in questa pausa del viaggio verso Gerusalemme esprime il senso dell’alleanza: cosa Dio si aspetti dall’uomo, perché l’incontro possa dirsi realizzato.
Gesù sulla croce è spogliato di tutto: – ha salvato gli altri, non può salvare se stesso… – Se è figlio di Dio, scenda dalla croce..
– Dio stesso è assente: Dio mio, perché mi hai abbandonato? Sulla croce Gesù, l’uomo, non ha più appoggio alcuno: non può appellarsi  neppure a Dio: può contare solo su se stesso; nonostante la desolazione in cui è piombata la sua esistenza, per quanto infierisca il male, la sventura e Dio stesso appaia lontano, Egli conserva il diritto di proclamare che la sua fiducia in Dio non è incrinata, anzi si erge alta e perentoria: nelle Tue mani affido il mio spirito.
Un gesto di fedeltà oltre ogni desolazione.
Dio, oltre Dio stesso, resta l’unico a cui Gesù si affida.
L’umano in lui attinge il vertice della celebrazione.
L’alleanza con Dio, l’incontro con lui è pagato ad un prezzo che non Dio, ma la fiducia di un uomo in Dio, ha potuto garantire.
Quale gesto di abbandono al Padre, nonostante tutto e contro ogni plausibile spiegazione, porta al vertice la capacità di risposta e di incontro che l’uomo sottende e che in Gesù trova il suo compimento.
Perciò la proclamazione alta e solenne che chiude l’episodio: Questi è il figlio mio, l’eletto, ascoltatelo.
E perciò la figura di Gesù si erge a definire la traccia che ogni uomo può percorrere, è la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (Giovanni, 1) Un episodio dunque straordinariamente rivelativo della vera statura di Gesù, oltre le sembianze e la consuetudine.
Spiega perché Lui stesso abbia attesa quest’ora come la più alta e significativa, l’ora decisiva della sua esistenza fra noi.
E’ l’ora in cui l’uomo ha dato testimonianza di chi sia l’uomo; di quale insondabile capacità di offerta custodisca la vita umana: di quale valore assuma per Dio il fatto che almeno un uomo l’abbia realizzata in pienezza e l’abbia lasciata a consegna per quanti su quella traccia sono disposti a camminare.

Quaresima: tempo di riflessione

  Quaresima: tempo di riflessione                                                                  Tu che solo conosci il segreto                                                              di ciò che sono e sono atto a diventare”                                                              (Gabriel Marcel)   La vita di ciascuno custodisce un segreto: un sogno affiora sollecitante e indefinito fin dai primi anni della giovinezza; la vita chiede di decifrarlo.
Anzi il compito di decifrarlo riempie la vita, giacché noi non siamo trasparenti a noi stessi.
Lo spessore che avvolge l’esistenza è il segno della sua grandezza e contemporaneamente il peso della sua condizione.
Del segreto che noi siamo portiamo una vaga intuizione che alimenta il desiderio e fermenta le attese, per lo più deluse.
Ma l’intuizione profonda che ci accompagna non cessa di fermentare gli anni fervidi della maturità: interiore percezione di inadeguatezza, di parzialità, incompiutezza; indefinita nostalgia, di pienezza di risposta.
Soprattutto progressiva consapevolezza dell’essere, cui attingiamo e che non siamo: presagio di una presenza arcana che urge oltre l’assillo delle cose, oltre la dolcezza delle relazioni.
Agostino, all’apertura di quel grande affresco che sono Le confessioni, l’ha detto con parole non più dimenticate: ‘Ci hai fatti per Te e il nostro cuore è senza pace fino a che non riposa in Te’.
Ma precisamente la luminosa Confessione  che ne segue è la testimonianza più conturbante che l’incontro non gli ha dato pace.
Dio urge alla sua vita e la incalza in termini sempre nuovi.
La sua ricerca già lucida, penetrante, originale si dilata all’intero orizzonte della sua vita: non è più solo la chiarezza delle idee che lo appassiona; è l’autenticità  della sua stessa esistenza che entra in gioco.
Il tentativo singolarissimo di decifrarla in tutti i risvolti misteriosi che l’attraversano, nelle pieghe segrete in cui si cela un’arcana presenza che lo sospinge a consapevolezza di sé e delle sue aspirazioni, a fermento di una intensità di vita sorprendente e inappagata costituiscono il fascino permanente della pagina di Agostino.
Agostino ha presagito e infaticabilmente perseguita una presenza in cui trovare rifugio – trovare la pace- che plachi, che risponda: l’ha man mano avvertita come stimolo e sollecitazione tenaci a portarsi  un passo più in là, con la soddisfazione di un orizzonte tutto da esplorare: canta e cammina, ha detto a se stesso e a noi in una delle sue sagaci e concise annotazioni.
  Camminare nella gioia perché l’itinerario è lungo ma anche appassionante, appena ci si accorga che è in gioco l’incontro, la tenerezza dell’amico con cui entrare e tenersi in relazione, che sappia dare volto anche al presagio, che voglia instaurare un dialogo a tutto  campo, che solleciti a confrontarsi con disponibilità trasparente e sincera Scoprire il segreto è dunque coltivare il dialogo interiore e personale per leggere l’esistenza ed esplorare i suoi rapporti luminosi e misteriosi con la Trascendenza.
S’impone uno spazio irrinunciabile e prezioso di contemplazione, come condizione appassionante da perseguire.
Alla ricerca del proprio volto, presagito nel volto di Dio, rivelato nel dialogo con lui.
Un volto appena sbozzato, le cui linee restano da definire.                                                                                       Il segreto è certo in ciò che siamo, ma più profondamente in ciò che aspiriamo ad essere.   La vita custodisce il segreto: può passarle accanto senza mai avvertirlo; può sentirne il presagio e spendersi per decifrarlo.
L’assillo delle cose tendono ad evadervi, magari a soffocarlo; una sosta pensosa in questo assillo è sufficiente per darvi risalto e lasciarlo parlare.
Se poi la sosta apre al dialogo interiore con l’unico che conosce il segreto, se dispone ad un incontro carico di trepidazione, l’esistenza può rivelare il tesoro che porta con sé, che segretamente l’alimenta: le risorse che suscita, cui attingere, la statura che lascia intravedere aprono sul monito evangelico “siate voi dunque perfetti come è perfetto i Padre celeste.” (Matteo, 5, 48) Dio non si dà mai parzialmente secondo la lucida intuizione del pensatore religioso moderno (S.
Kierkegaard).
L’osservazione lascia intuire la pista  privilegiata: solo dandosi senza riserva ciascuno chiama a raccolta tutte le risorse di cui dispone e dà attuazione piena ai tratti che compongono  la propria identità e la vanno perseguendo.
La vita dunque custodisce il segreto: può esser lasciato inavvertito e inoperante tanto che l’esistenza trascorre insignificante e vuota; può esser presagito, esplorato fino ad alimentare l’esistenza e farla fiorire in tutta la sua germinalità.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          Da TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici, 2009, pp.45-47  (Per gentile concessione dell’Editrice).      

Il “Codex Pauli”

Un’opera monumentale, unica nel suo genere, concepita sullo stile degli antichi codici monastici ed arricchita da una minuziosa selezione di fregi, miniature e illustrazioni, provenienti da manoscritti di datazione diversa dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura.
Si tratta del “Codex Pauli”.
L’opera, un tomo unico di 424 pagine di alto valore ecumenico, è dedicata a Benedetto XVI, che ha indetto le celebrazioni per il bimillenario della nascita di san Paolo.
La tiratura è limitata a 998 copie numerate.
Per il Codex Pauli è stato creato, inoltre, il font originale “Paulus 2008”, che rispecchia la grafia dell’amanuense della Bibbia Carolingia (IX sec.).
  Il Codex Pauli ospita i contributi inediti, appositamente preparati, del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I; del Patriarca di Mosca e di Tutte le Russie, Kirill; di Gregorios III Laham; del dr.
Rowan Williams, Primate della Comunione Anglicana; del dr.
Eduard Lohse, Vescovo emerito della Chiesa Evangelica di Hannover; e di molti altri.
L’opera si apre con un’articolata parte introduttiva, organizzata secondo alcune sezioni.
Nella prima, Annus Pauli, viene ripercorsa l’avventura dell’Anno dedicato al bimillenario della nascita dell’Apostolo.
Ne sono testimoni privilegiati i Cardinali Tarcisio Bertone, Ennio Antonelli, Raffaele Martino, Jean Louis Tauran, Jozef Tomko, Antonio Rouco Varela, André Vingt-Trois e Walter Kasper.
Nella sezione Roma Pauli viene ripercorsa la ricca tradizione spirituale, liturgica e artistica dei monaci benedettini, che da tredici secoli custodiscono il sepolcro di san Paolo sulla via Ostiense.
Evangelium Pauli è il titolo della terza parte, che presenta la figura e il messaggio del grande Apostolo in dialogo con le culture e con la sensibilità dei nostri giorni.
Il Cardinal Kasper legge san Paolo tra Est ed Ovest; il dottor Antonio Paolucci lo ricolloca tra le radici cristiane dell’Europa; il professor M.D.
Nanos lo rapporta con l’ebraismo, il professor D.A.
Madigan con l’Islam.
Ma molti altri sono gli approfondimenti: san Paolo come cosmopolita, viaggiatore, missionario, apostolo, e modello di dialogo interreligioso.
Nell’ultima parte, Vita Pauli, si affronta l’interrogativo sull’identità di Saulo/Paolo dopo duemila anni di interpretazione, esaltazione, avversione, strumentalizzazione dell’Apostolo e del suo messaggio.
Sfogliando le pagine del Codex, il Paolo di ieri, presente con il testo originale greco, ci raggiunge attraverso la traduzione in lingua corrente.
Accanto al corpus paulinum integrale, comprendente le tredici Lettere dell’Apostolo, l’opera offre anche il testo italiano-greco degli Atti degli Apostoli e della Lettera agli Ebrei.
Un’ultima sezione raccoglie un’accurata selezione dei poco conosciuti Apocrifi riguardanti Paolo (Atti di Paolo; Lettere di Paolo e dei Corinzi; Martirio del santo Apostolo Paolo; Atti di Paolo e Tecla; Lettera ai Laodicesi; Corrispondenza tra Paolo e Seneca; Apocalisse di Paolo).
Ogni singolo testo si apre con una presentazione curata dai più noti esegeti di san Paolo e si conclude con una pagina di Lectio divina, secondo la millenaria tradizione monastica.
La presentazione e le introduzioni agli scritti paolini sono di mons.
Gianfranco Ravasi, affiancato da autorevoli studiosi, biblisti e teologi, quali il cardinale Carlo Maria Martini, Romano Penna, Rinaldo Fabris, Primo Gironi, Antonio Pitta, Stefano Romanello, Giuseppe Pulcinelli, Paolo Garuti e Marco Valerio Fabbri.
“Il Codex Pauli – spiega padre Edmund Power nella presentazione – è primariamente un atto di venerazione alla Parola di Dio.
È la Parola che dà la vita.
Questo libro trae la propria ispirazione dalla figura del Dottore delle Genti, figura complessa e spiccata, incapace di nascondersi: le sue Lettere, le sue parole, mostrano in maniera eloquente la sua personalità energica e dinamica”.
“Un uomo che sa essere ironico, perfino sarcastico, eppure mai privo di una parte affettuosa, ispirata, maestosa, che ci fa vedere in lui un uomo ‘ossessionato dal Cristo’ – spiega –.
Così anche il corpus del Codex Pauli è un magma di creatività umana, da cui scaturiscono bellezza e amore”.
“Secondo la tradizione monastica, l’arte è lo sforzo d’incarnare una visione interiore ricorrendo alla forma espressiva di una Bellezza in se stessa inesprimibile – continua l’Abate di San Paolo fuori le Mura –.
Non tutti riescono a percepirla chiaramente: ecco perché l’opera artistica cerca di spingere ciascun contemplante a orientarsi verso l’unico Dio, quale fonte di ogni bellezza”.
“Chi cerca e ama la bellezza mediante il linguaggio dell’arte si indirizza verso il Divino – sottolinea –.
Quest’opera si propone lo stesso fine”.
[Per maggiori informazioni: www.codexpauli.itpaolo.pegoraro@codexpauli.it] (ZENIT.org)

Qualcosa di così personale

Pubblichiamo la Prefazione di “Qualcosa di così personale.
Meditazioni sulla preghiera” del cardinale Martini Ho ben 82 anni di vita e la malattia di Parkison e gli acciacchi dell’età si fanno sentire.
Ma probabilmente, per quanto riguarda la preghiera, sono ancora a metà del guado.
Sento che la mia preghiera dovrebbe trasformarsi, ma non so bene in che modo, e sento anche una certa resistenza a compiere un salto decisivo.
So che posso dire come Isacco: «Io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni.
Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po’ sull’argomento.
Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell’anziano.
Si può considerare l’anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet: «Ricordati del tuo Creatore / nei giorni della tua giovinezza / prima che vengano i giorni tristi / e giungano gli anni di cui dovrai dire: non ci trovo alcun gusto.
/ Prima che si oscurino il sole, / la luna, la luce e le stelle / e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa / e si curveranno i gagliardi / e cesseranno di lavorare le donne che macinano, / perché rimaste poche / e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre / e si chiuderanno i battenti sulla strada: / quando si abbasserà il rumore della mola / e si attenuerà il cinguettio degli uccelli / e si affievoliranno tutti i toni del canto» (12,1-4.
Ma anche fino al verso 8).
In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente.
La salute e l’età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola.
Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre.
Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po’ distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento.
Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario.
Tuttavia questo accorciare i tempi dell’orazione potrebbe essere molto pericoloso.
Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po’ prolungata.
Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.
Ma la preghiera dell’anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità.
Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull’esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani.
Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po’ di tempo alla ricerca.
Anzitutto nella Bibbia.
In molti Salmi si parla apertamente dell’anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive.
Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25).
Si veda anche l’esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore».
La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano.
La più nota è la preghiera dell’anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).
La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli.
Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me.
Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano.
Mi pare che possano emergere tre aspetti: un’insistenza sulla preghiera di ringraziamento; uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza; infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.
Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia – ho 85 anni – si distingue la preghiera di ringraziamento.
Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire “a tempo pieno”) a prepararmi alla morte.
E ciò non è dato a tutti.
In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche».
Là dove invece non c’è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull’esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14).
Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze.
Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto.
E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati! La terza caratteristica della preghiera dell’anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore.
Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell’anziano.
Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale.
Anche se un po’ assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente.
Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre.
Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore.
A noi non resterà che seguirlo docilmente.
 CARLO MARIA MARTINI, Qualcosa di così personale, Mondadori, Milano 2009, pp.
159, Euro 17.50   “La preghiera è qualcosa di estremamente semplice, qualcosa che nasce dal cuore.” Con queste parole il cardinale Martini ci introduce nel tema del suo nuovo libro, dedicato a uno degli aspetti più intimi e delicati del rapporto con Dio: la preghiera.
“È la risposta immediata che sale dal profondo quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere.
” Il che può avvenire in molti modi, diversi per ciascuno di noi: davanti a un paesaggio di montagna, in un momento di solitudine nel bosco, ascoltando una musica.
Sono momenti di verità dell’essere, nei quali ci sentiamo come tratti fuori dalla schiavitù delle invadenze quotidiane, che ci sollecitano continuamente.