Cari colleghi professori, mancano 24 ore alla prima campana.
I vostri alunni sono trepidanti, perché il primo giorno di scuola attraversa il cuore di un ragazzo come uno stormo di promesse.
Sperano che quel primo giorno sia un giorno nuovo, sintomo di un anno nuovo, una vita nuova, direbbe Dante.
Rendete quel giorno la loro Beatrice.
Non li deludete.
Date loro un giorno indimenticabile.
Non chiedete delle loro vacanze, non raccontate le vostre.
Fate lezione: con un amore con cui non l’avete mai fatta.
Preparate oggi quella lezione.
È domenica e avete ancora qualche ora.
Stupiteli con un argomento che desti la loro meraviglia.
Uccideteli di meraviglia! È dallo stupore che inizia la conoscenza, diceva Aristotele e nulla è cambiato.
Annichilite i grandifratelli, gli uominiedonne.
Superateli in share con le vostre lezioni.
Rinnovate in voi lo stupore.
Spiegate loro l’infinito di Leopardi anche se non è nel programma, fateglielo toccare questo infinito di là dalla siepe dei banchi.
Raccontate loro la vita e la morte di una stella.
Descrivete loro la sezione aurea dei petali di una rosa e il segreto per cui la si regala al proprio amore.
Stupitevi.
Stupiteli.
Fatevi brillare gli occhi, fate vedere loro che sapete perchè insegnate quella materia, che siete fieri di aver speso una vita intera a imparare quelle cose, perchè quelle cose contengono il mondo intero.
Stupiteli con la vita, quella che c’è dentro secoli di scoperte, conoscenze, fatti, libri.
Fategliela toccare questa vita.
Non torneranno più indietro.
Sapranno di avere davanti un professore.
Parola meravigliosa che vuol dire “professare”, quasi come una fede, la vostra materia.
Se professate questa fede toccheranno attraverso di voi le cose di cui hanno fame: verità, bene, bellezza.
Le uniche cose per cui viviamo, che lo vogliamo o no.
Tutti vogliamo un piatto buono, un amico sincero, una bella vacanza.
È scritto nel dna che vogliamo quelle tre cose, anche se costano fatica.
Diamogliele.
Immaginate domani di entrare in classe.
Durante la vostra lezione il mondo viene devastato da un’apocalisse.
Per una serie di fortunate (!) congiunture siete rimasti vivi solo voi, con la vostra classe.
Adesso dipende tutto da voi.
Rimboccatevi le maniche, prendetevi cura di quei 20-30 come fosse il mondo intero.
Che mondo sarà quello di domani? Dipende da te caro collega.
Non ti lamentare dei politici, delle strutture, del riscaldamento, dell’orario, adesso ci sei solo tu e loro.
Non ci sono ministri, riforme, strutture.
C’è la scuola nella sua essenza.
Tu e loro e quel che ci sta in mezzo: le parole.
Gli animali si addestrano, gli uomini si educano: con le parole.
Non c’è lo stipendio, perchè non c’è lo Stato e non c’è il privato: sono loro il tuo stipendio.
Ti è rimasto solo un libro: quello della tua materia.
Da lì devi partire per costruire il mondo intero.
Quello è il punto di appoggio con cui sollevarlo, il mondo intero.
Se loro vedranno in te il fuoco ti ripagheranno con uno stipendio che nessun altro mestiere dà: saranno degli innamorati del bene, della verità, della bellezza (cioè della vita).
Non saranno dei furbi, ma degli innamorati.
Forse ti manderanno ugualmente all’inferno come Dante ha fatto – anche se per altri motivi – col suo maestro Brunetto, ma sapranno riconoscerti (come Dante) di avere insegnato loro “come l’uom s’etterna”: come l’uomo si è reso immortale nella storia e come l’uomo si rende immortale al presente.
Caro collega hai 24 ore.
A te la scelta: un nuovo giorno, il primo, di una vita nuova.
Stupisciti.
Stupiscili. (Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione – 12 settembre 2010)
Autore: autore
“A parola è parola”
Si è ora conclusa festosamente la missione che per una settimana, dal 15 al 22 agosto, ha visto frati, suore, con saio e sandali in puro stile del Poverello d’Assisi, e giovani laici missionari riempire le spiagge, le strade, le piazze , i bar, le discoteche di Marzamemi ad incontrare i giovani, di giorno e di notte, allo slogan “A parola è parola”.
Marzamemi è un piccolo borgo marinaro del siracusano, all’estrema punta della Sicilia orientale , ad alta valenza turistica; in estate a Marzamemi si “vive” anche e sopratutto di “notte”: spettacoli, manifestazioni, attrattive e incontri diversi intrattengono i turisti, e i giovani, tra una birra e l’altra, talvolta anche di troppo, si ritrovano nei bar, nelle discoteche , nei pab o lungo il mare; e così trascorrono la notte fino alla prima colazione del giorno successivo! Sembrerebbe questo un panorama che non lascia spazio a nessuna altra intromissione che non sia lo “sballo” , come d’altronte dovunque nei luoghi turistici, soprattutto in estate.
E questa è stata infatti la resistenza delle autorità locali quando i frati minori di Sicilia hanno proposto la realizzazione di una missione per i giovani a partire dal 15 agosto ( clou della stagione estiva) per una settimana.
E le resistenze non erano solo delle autorità! Un po’ tutti mostravamo perplessità: non si pensava che l’iniziativa avrebbe potuto avere seguito se non nell’indifferenza e anche forse nel disturbo che poteva portare a un ritmo di vita già ben consolidato, soprattutto in agosto! Avanzava quindi la paura del rifiuto e del fallimento della proposta! I frati, però, con le suore e tanti laici giovani missionari, reclutati in loco nel corso dell’iniziativa con apposita formazione, hanno saputo focalizzare l’attenzione ed è stato particolarmente sorprendente come al clima festoso che hanno saputo creare, la gente, (non più solo giovani!) si è raccolta intorno a loro nel divertimento, nella testimonianza, nella riflessione, …
nell’ascolto della “parola”! E’ stato un tripudio di canti, balli, e…
preghiera! E ancora è stato più sorprendente quando, a sorpresa, a chiusura della missione, in piena notte, ore 02,30, hanno proposto una processione per raggiungere la chiesa per fare l’adorazione! E la gente (tantissima!), praticanti e non, si è mossa con loro per una lunga processione a discapito delle mille iniziative di divertimento e distrazione che pullulavano intorno a loro; c’è stata, infatti, una sola recriminazione: quella di alcuni commercianti del posto ai quali l’evento intralciava la loro attività! Che dire? Al di là della spettacolarità dell’iniziativa , l’esperienza è stata vincente e pone delle domande.
Come è possibile che in un contesto così desacralizzato, così profano, potremmo dire, in un momento (il 15 agosto!) in cui l’attenzione, soprattutto dei giovani, è rivolta a tutt’altri interessi che certamente non si sposano con proposte religiose, i frati abbiano avuto così tanta partecipazione e coinvolgimento? Che cosa è stato vincente? Forse l’approccio che i frati hanno avuto con i giovani nei luoghi e nei tempi a loro consueti! Forse hanno percepito che la proposta religiosa non è altro… dalla loro vita! Forse hanno sentito che la proposta religiosa non è loro estranea, non li sovrasta, fa parte del loro stesso mondo, è il loro stesso mondo! Forse hanno avvertito che non c’è frattura con la loro vita! Forse hanno avvertito che la proposta religiosa…
può interpetrarli! E per dirla con Vito Mancuso: “Perché si possa pronunciare un armonioso noi ogni singolo io deve modulare la sua musica interiore con quella degli altri”.
Per la consultazione 3:55+Aggiunto alla coda Missione Giovani Marzamemi 2010 – Sultano di Ba…di robilollo77283 visualizzazioni 4:23+Aggiunto alla coda Missione Giovani Marzamemi 2010 – Accendi una lucedi robilollo7792 visualizzazio
Mostra internazionale del cinema di Venezia
Per forza, Venezia è la regina dei Festival.
Il suo fascino e la sua seduzione perdurerà nei secoli.
Tra, l’altro, sebbene sia il più vecchio festival del mondo di arte cinematografica, quest’anno sarà la Mostra più giovane: 47 anni la media dei registi in concorso (fuori target solo il regista statunitense classe 1932 Monte Hellman).
E sarà la Mostra dei fuori formato: un fiume di medio metraggi e corti.
Ma soprattutto una Mostra che vuole essere sempre più spirito del tempo, secondo le affermazioni del Direttore Marco Mueller. Le opere breve che interessano soprattutto la sezione Orizzonti – che si è rinnovata andando a caccia delle nuove sperimentazioni – è frutto di una scelta stilistica ma soprattutto dei tempi: i budget ridotti hanno indotto anche i grandi autori a dedicarsi a opere più brevi in nome di quella sobrietà di cui ha parlato il presidente della Biennale Paolo Baratta portando il festival che comunque ha conservato sia l’anima di laboratorio che quella di arte cinematografica .
Non pensiamo- inoltre- che non ci saranno tante più cena di gala sulla spiaggia, né altre ridicoli sperperi per quanti frequentano il Lido per vedere le opere d’arte cinematografiche dei nuovi artisti..
La misura, l’economia, il risparmio riguardano tutti gli italiani: dai “grandi” ai “piccoli”.Noi abbiamo sempre avversato l’orribile ostensione della ricchezza al Lido, magari per film per cui non valeva la pena spendere neanche un euro.
Allora… Ben 83 sono i lungometraggi nelle quattro sezioni ufficiali di cui 79 in prima mondiale e 4 in prima internazionale: il concorso Venezia 67 contempla 23 prime mondiali (ne sono state annunciate 22, la 23esima sarà resa nota lunedì 6 settembre: speriamo che non sia la solita “bufala” che ha fatto vincere alla Cina più di un premio con la scusa che presentavano opere interdette dal Regime comunista che lì funziona ancora egregiamente); Fuori concorso ci sono 27 opere di cui 23 in prima mondiale; Orizzonti presenta 21 prime mondiali e Controcampo italiano 12.
Numerosa la presenza italiana 41 opere di cui quattro in concorso :La pecora nera di Ascanio Celestini, con Giorgio Trabassi, Maya Sansa e lo stesso Celestini; La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo con Alba Rohrwacher, Filippo Timi e Isabella Rossellini; Noi credevano di Mario Martone con Luigi Lo Cascio, Toni Servillo, Luca Zingaretti, Michele Riondino, Francesca Inaudi e Anna Bonaiuto; e La passione di Carlo Mazzacurati con Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Corrado Guzzanti..
Troppi film italiani? E’ l’eterno problema.
La Francia se ne infischia ed infila a Cannes tutti i registi francesi che ritiene adatti al Concorso nelle sue varie sezioni.
Noi italiani ci scandalizziamo sempre per la presenza di più artisti nel nostro meraviglioso Concorso internazionale.
Sarà anche vero che gli artisti nominati non siano al top della loro creatività, ma che importa? Tanto la giuria internazionale , quest’anno presieduta da Quentin Tarantino che –come sappiamo- è famoso per essere uno spirito libero ed estroverso, non si spaventerà nel togliere di mezzo film che non corrispondono all’idea base della Mostra, cioè dare al pubblico dei cinefili un prodotto possibilmente “artistico”, con qualcosa che vale la pena di vedere a cinema. Ecco, i 22 film annunciati della selezione ufficiale in concorso della 67/a Mostra del cinema di Venezia (1-11 settembre): – BLACK SWAN (film d’apertura) di Darren Aronofsky, Usa – LA PECORA NERA di Ascanio Celestini, Italia – SOMEWHERE di Sofia Coppola, Usa – HAPPY FEW di Antony Cordier, Francia – LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI di Saverio Costanzo, Italia, Germania, Francia – OVSYANKI (Silent Souls) di Aleksei Fedorchenko, Russia – PROMISES WRITTEN IN WATER di Vincent Gallo, Usa – ROAD TO NOWHERE di Monte Hellman, Usa – BALADA TRISTE DE TROMPETA di Alex De La Iglesia, Spagna, Francia – VENUS NOIRE di Abdellatif Kechiche, Francia – POST MORTEM di Pablo Larrain, Cile, Messico, Germania – BARNEY’S VERSION di Richard J.
Lewis, Canada, Italia – NOI CREDEVAMO di Mario Martone, Italia, Francia – LA PASSIONE di Carlo Mazzacurati, Italia – JUSAN-NIN NO SHIKAKU (13 Assassins) di Takashi Miike – Giappone, Regno Unito – POTICHE di Francois Ozon, Francia – MEEK’S CUTOFF di Kelly Reichardt, Usa – MIRAL di Julian Schnabel, Usa, Francia, Italia, Israele – NORUWEI NO MORI (NORWEGIAN WOOD) di Anh Hung Tran, Giappone – ATTENBERG di Athina Rachel Tsangari, Grecia – DI RENJIE ZHI TONGTIAN DIGUO (Detective Dee and the mystery of Phantom Flame) di hark Tsui, Cina – DREI di Tom Tykwer, Germania.
La 67.
Mostra in numeri I nuovi lungometraggi nelle quattro sezioni ufficiali 83 di cui: 79 in prima mondiale 4 in prima internazionale Venezia 67 23 lungometraggi in concorso tutti in prima mondiale Fuori Concorso 27 lungometraggi di cui 23 in prima mondiale Orizzonti 21 lungometraggi tutti in prima mondiale Controcampo Italiano 12 lungometraggi tutti in prima mondiale Numero dei titoli visionati da 102 paesi (lo scorso anno erano 74) 4251 di cui: 2395 lungometraggi 416 mediometraggi 1440 cortometraggi lo scorso anno erano: 2208 lungometraggi 311 mediometraggi La 67.
Mostra per Paesi (34) Nel 2009 i Paesi erano 27 ARGENTINA (1) Mauro ANDRIZZI, En el Futuro (Orizzonti) AUSTRIA (4) Martin ARNOLD, Shadow Cuts (Orizzonti) Heral HUND, Paul HORN, Mouse Palace (Orizzonti) Sasha PIRKER, The Future will not be capitalist (Orizzonti) Peter TSCHERKASSKY, Coming Attractions (Orizzonti) BANGLADESH (1) Ishtiaque ZICO, 720 Degrees (Orizzonti) BELGIO (1) Nicolas PROVOST, Stardust (Orizzonti) BRASILE (1) Luiz PRETTI, O mundo é belo (Orizzonti) CANADA (1) Richard J.
LEWIS, Barney’s Version (Venezia 67) CILE (1) Pablo LARRA, Post Mortem (Venezia 67) CINA (7) HUANG Wenhai, Qiao (Crust) (Orizzonti) HUANG Wenhai, Xifang qu ci bu yuan (Reconstructing Faith) (Orizzonti) Stanley KWAN, Yongxin tiao (Showtime) (Fuori Concorso) Xun SUN, 21 ke (21 Grams) (Orizzonti) TSUI Hark, Di Renjie zhi Tongtian diguo (Detective Dee and the Mystery of Phantom Flame) (Venezia 67) John WOO, SU Chao-Pin, Jianyu (Reign of Assassins) (Fuori Concorso – Leone d’Oro alla carriera 2010) ZHANG Yuan, Taikong xia (Space Guy) (Fuori Concorso) COREA DEL SUD (2) HONG Sang-soo, Oki-eui young-hwa (Oki’s Movie) (Orizzonti) KIM Gok, KIM Sun, Bangdokpi (Anti Gas Skin) (Orizzonti) ECUADOR (1) SEMICONDUCTOR (Ruth JARMAN, Joe GERHARDT), Indefatigable (Orizzonti) EGITTO (1) Marianne KHOURY, Mustapha HASNAOUI, Zelal (Orizzonti) FINLANDIA (2) Elina TALVENSAARI, Miten marjoja poimitaan (How to pick Berries) (Orizzonti) Hannes VARTIAINEN, Pekka VEIKKOLAINEN, Erään hyönteisen tuho (The Death of an Insect) (Orizzonti) FRANCIA (11) Catherine BREILLAT, La Belle Endormie(Orizzonti) Antony CORDIER, Happy Few (Venezia 67) Abdellatif KECHICHE, Venus Noire (Venezia 67) Bertrand MANDICO, Lif og daudi Henry Darger (The life and death of Henry Darger) (Orizzonti) F.
J.
OSSANG, Dharma Guns (Orizzonti) François OZON, Potiche (Venezia 67) Arnaud des PALLIERES, Diane Wellington (Orizzonti) Jean Gabriel PERIOT, Les Barbares (Orizzonti) Gianfranco ROSI, El Sicario Room 164 (Orizzonti) Oleg TCHERNY, La linea generale (Orizzonti) Olivier ZABAT, Fading (Orizzonti) GERMANIA (3) Markus LOFFLER, Andrée KORPYS, Atom (Orizzonti) David OREILLY, The External World (Orizzonti) Tom TYKWER, Drei (Venezia 67) GIAPPONE (7) MIIKE Takashi, Jûsan-nin no shikaku (13 Assassins) (Venezia 67) MIIKE Takashi, Zebraman (Fuori Concorso) MIIKE Takashi, Zebraman: Zebra City no gyakushu (Zebraman 2: Attack on Zebra City) (Fuori Concorso) Takashi SHIMIZU, Senritsu Meikyu 3D (Shock Labirinth 3D) (Fuori Concorso) Sion SONO, Tsumetai Nettaigyo (Cold Fish) (Orizzonti) TRANAnh Hung, Noruwei no mori (Norwegian Wood) (Venezia 67) Atsushi WADA, (Haru no shikumi) Mechanic of Spring (Orizzonti) GRAN BRETAGNA (6) John AKOMFRAH, The Nine Muses (Orizzonti) Douglas GORDON, k.364 a journey by train (Orizzonti Fuori Concorso) Isaac JULIEN, Better Life (Orizzonti) Isaac JULIEN, The Leopard (Orizzonti Fuori Concorso) Patrick KEILLER, Robinson in Ruins (Orizzonti) Emily RICHARDSON, The Futurist (Orizzonti) GRECIA (2) Athina Rachel TSANGARI, Attenberg (Venezia 67) Georgios ZOIS, Casus Belli (Orizzonti) HONG KONG (3) Andrew LAU, Jingwu fengyun – Chen Zhen (Legend of the Fist: The Return of Chen Zhen) (Fuori Concorso) Clara LAW, Chi di (Red Earth) (Orizzonti) Oxide PANG, Danny PANG, Tungngaan 3D(The Child’s Eye 3D) (Fuori Concorso) INDIA (3) Anurag KASHYAP, That Girl In Yellow Boots (Fuori Concorso) Mani RATNAM, Raavan [versione Hindi] (Fuori Concorso) Mani RATNAM, Raavanan [versione Tamil] (Fuori Concorso) ISRAELE (1) Roee ROSEN, Tse (Out) (Orizzonti) ITALIA (41) Aureliano AMADEI, 20 sigarette (Controcampo Italiano) Yuri ANCARANI, Il capo (Orizzonti) Marco BELLOCCHIO, Sorelle Mai (Fuori Concorso) Giorgia CECERE, Il primo incarico (Controcampo Italiano) Ascanio CELESTINI, La pecora nera (Venezia 67) Michela CESCON, Come un soffio (Controcampo Italiano) Giada COLAGRANDE, A Woman (Controcampo Italiano) Andrea COSTANTINO, Sposerò Nichi Vendola (Controcampo Italiano) Saverio COSTANZO, La solitudine dei numeri primi (Venezia 67) Roberto DE PAOLIS, Bassa Marea (Controcampo Italiano) Antonio DI TRAPANI, Marco DE ANGELIS, Tarda estate (Controcampo Italiano Fuori Concorso) Gaetano DI VAIO, Il loro Natale (Controcampo Italiano Fuori Concorso) Giorgia FARINA, Achille (Controcampo Italiano) FLATFORM, Non si può nulla contro il vento (Orizzonti) Giuseppe GAUDINO, Isabella SANDRI, Per questi stretti morire (ovvero cartografia di una passione) (Orizzonti) Piergiorgio GAY, Niente Paura – Come siamo come eravamo e le canzoni di Ligabue (Fuori Concorso) Gianfranco GIAGNI, Dante Ferretti: Scenografo italiano – Production Designer (Fuori Concorso) Simone GODANO, Leonardo GODANO, Niente Orchidee (Controcampo Italiano) Emidio GRECO, Notizie degli scavi (Fuori Concorso) Stefano INCERTI, Gorbaciof (Fuori Concorso) Carlo LIBERATORE, Antonio IACOBONI, Stefano IANNI, Marco CASTELLANI e altri, Un anno dopo – Progetto Memory Hunters (Orizzonti Fuori Concorso) Armin LINKE, Francesco MATTUZZI, Future Archaeology (Orizzonti) Monica MAGGIONI, Ward 54 (Controcampo Italiano Fuori Concorso) Mario MARTONE, Noi credevamo (Venezia 67) Carlo MAZZACURATI, La Passione(Venezia 67) Carlo MAZZACURATI, Sei Venezia (Fuori Concorso) Gianfranco PANNONE, Ma che storia (Controcampo Italiano) Michele PLACIDO, Vallanzasca – Gli angeli del male (Fuori Concorso) Paola RANDI, Into Paraiso (Controcampo Italiano) Nadia RANOCCHI, David ZAMAGNI, All Inclusive 3D (Fuori Concorso) Gabriele SALVATORES, 1960 (Fuori Concorso) Antonello SARNO, La prima volta a Venezia (Fuori Concorso) Giancarlo SCARCHILLI, Vittorio racconta Gassman – Una vita da Mattatore (Fuori Concorso)
Giovanni e Paolo e il Mistero dei Pupi
Parodia all’italiana di Philippe Ridet in “Le Monde” del 18 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org) Due ragazzini in pantaloni corti e i loro amici sfidano un mago che terrorizza gli uomini e li trasforma in marionette di legno.
È il riassunto del cartone animato di ventisei minuti, la cui diffusione è prevista per domenica 18 luglio sul terzo canale della televisione pubblica italiana (RAI 3) alle 9 [ndr: 8,40], quando la guardano i bambini.
Con il loro coraggio, i due ragazzi, di nome Giovanni e Paolo, finiranno col trionfare sui malefìci del mago.
Giovanni e Paolo…
come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i due giudici assassinato dalla mafia a Palermo nel 1992.
Il mago che concede i suoi favori in cambio delle sottomissione, è evidentemente Cosa Nostra.
Per Rosalba Vitellaro, la regista, e Alessandra Viola, la sceneggiatrice, tutto comincia in macchina un mattino del 2007.
La radio trasmette una canzone di Carmen Consoli, Mulini a vento, dedicata alla scomparsa dei due magistrati.
Perché non noi?, si dicono.
Hanno appena terminato un film d’animazione, Benedetta, che presenta i bambini sfruttati e poveri della Sicilia, che vendono fazzoletti di carta e accendini ai semafori.
Poco tempo dopo, la pubblicazione di un sondaggio realizzato nelle scuole dimostra che i nomi di Falcone e Borsellino sono già stati dimenticati dagli scolari.
L’idea di dedicare un cartone animato pensato per il pubblico giovane a queste due figure dell’antimafia diventa a quel punto per loro una sorta di necessità civica e pedagogica.
Messe al corrente del progetto, la regione Sicilia e la RAI accettano di assicurarne in parte il finanziamento e la diffusione.
Anche le famiglie dei due giudici accettano di sostenere questa impresa.
Altri sponsor interpellati hanno rifiutato.
“Mi dicevano: un cartone animato sulla mafia? In Sicilia? Ma lei è matta!”, ricorda Rosalba Vitellaro.
Legge del silenzio? Volontà di negare la realtà? Tutto questo insieme.
“In Italia, un presidente del consiglio ritiene che parlare di ciò che non funziona faccia torto al paese.
Per me, è proprio il contrario”, prosegue.
Già proiettato a Palermo il 23 maggio, anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, presentato al Festival del film di televisione a Cannes, Giovanni e Paolo, il mistero dei pupi” gode già di un’incoraggiante pubblicità di bocca in bocca.
Il Messico, in preda anch’esso al traffico e alla violenza, acquisirà i diritti del film per la televisione pubblica.
Rosalba Vitellaro e Alessandra Viola riflettono ad un altro soggetto tratto dalla recente storia italiana.
“Un lungometraggio tipo Persepolis” la striscia di Marjane Satrapi.
L’attualità recente è colma di scandali di corruzione, di assassini misteriosi, di affari mai chiariti.
“È un onore partecipare alla costruzione di una opinione pubblica, spiega ancora Rosalba.
Gli eroi non sono quei mafiosi che marciscono in prigione ma quelli che, come Falcone e Borsellino, li hanno combattuti.” Una storia ambientata negli anni Cinquanta a Palermo, nella quale i nostri due amici, con l’aiuto di altri compagni, cercheranno di liberare dal Male oscuro la loro città e i suoi abitanti.
Il paradosso di Dio
Il testo che anticipiamo in questa pagina verrà letto dall’autore domani alla Milanesiana, la rassegna di letteratura, musica, cinema e scienza curata da Elisabetta Sgarbi (Teatro Dal Verme di Milano, ore 21).
La serata ha per tema «I paradossi del tempo» e prevede anche la partecipazione di Fiorenzo Galli, direttore del Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, del matematico Wendelin Werner e dello scrittore Lawrence Osborne, con un concerto finale della cantante Noa.
Shalom Auslander è nato a New York 40 anni fa.
In Italia è conosciuto soprattutto per il memoir Il lamento del prepuzio (Guanda), dove ha raccontato con umorismo spietato i mille divieti in mezzo ai quali è cresciuto nel quartiere ebraico ortodosso di Monsey e i condizionamenti che ne sono derivati.
Di recente, sempre da Guanda, ha pubblicato la raccolta di racconti A Dio spiacendo.
La Yeshiva di Spring Valley era una scuola ebraica ultraortodossa.
I nostri rabbini erano onniscienti, e padroneggiavano tale conoscenza con assoluta certezza.
Sapevano che la Terra aveva 6.000 anni.
Sapevano che Dio aveva creato il Cielo e la Terra, e sapevano che successivamente aveva creato le piante, e che poi aveva creato gli alberi, e che poi aveva creato l’uomo, e che poi si era preso un giorno di vacanza.
Sapevano che la Terra sarebbe arrivata a una fine, e sapevano cosa sarebbe successo a tutti noi dopo che il mondo fosse finito.
Ci osservavano attentamente.
Osservavano come parlavamo, cosa mangiavamo, come pregavamo, quali preghiere di ringraziamento recitavamo.
L’unico posto in cui si poteva sfuggire all’occhio sempre vigile dei rabbini era il bagno al secondo piano; i rabbini preferivano il bagno al primo piano, dove fumavano sigarette e si lamentavano della pigrizia dei loro studenti mentre, soltanto al piano di sopra, noi eravamo indaffarati a scoprire i segreti del mondo che loro cercavano disperatamente di nasconderci.
E così, una mattina, quando Avi Tuchman mi disse di seguirlo nel bagno al secondo piano, sapevo che mi aspettava qualcosa di interessante.
Avi controllò i cubicoli, e poi ispezionò gli orinatoi dietro l’angolo.
«Che c’è?», chiesi.
Lui si inclinò verso di me, unì le mani a forma di coppa sotto il mento e mi sussurrò all’orecchio.
«Se Hashem riesce a fare qualsiasi cosa», disse, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Hashem è il nome ebraico con cui ci si riferisce a Dio.
Non eri tenuto a usare il Suo nome senza una buona ragione, e di certo non eri tenuto a cercare di trovare dei modi per contestarlo.
Avi fece un passo indietro, incrociò le braccia e sorrise.
«Me l’ha detto mio cugino», disse.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», risposi.
«Ah sì?», esclamò Avi.
«Riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
«Certo che riesce».
«Allora ecco qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Sollevarlo».
«Allora riesce a sollevarlo».
«Allora ecco ancora qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Creare un masso che non riesce a sollevare».
Avi sorrise.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, alzando i tacchi e uscendo dal bagno.
La rivista porno aveva destato meno perplessità.
Avi Tuchman non mi piaceva granché, tuttavia la sua sembrava una gran bella domanda.
Un trucco, un trabocchetto, un filo allentato di un maglione che, se tirato, avrebbe disfatto tutta quella dannata maglia.
Non riuscivo a togliermelo dalla testa.
E così quel giorno, alla fine della lezione, dopo che il rabbino Brier ci aveva illustrato come Dio avesse trasformato l’acqua dell’Egitto in sangue, e come avesse fatto piovere rane, e diviso il mare in due parti e come fosse in grado di fare qualunque cosa – io alzai la mano.
«Che c’è?», chiese il rabbino Brier.
Brier era il rabbino della scuola che incuteva più timore, non per la sua intelligenza, bensì per le sue mani.
Una volta aveva schiaffeggiato uno dei ragazzi più grandi con una tale violenza da rompergli il naso, e aveva afferrato un altro studente per il braccio con una tale forza che per i due mesi successivi il ragazzo aveva dovuto portare il braccio al collo.
«Se Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Credevo non ci fosse niente di male nel fare una semplice domanda.
Dopo tutto, probabilmente c’era una semplice risposta; meglio chiarire queste cose velocemente prima che sfuggissero di mano.
«Chochemel», disse in yiddish il rabbino Brier con un certo sarcasmo – «Tu, saputello» – e mi mollò un ceffone in faccia.
«Hashem», ringhiò, «riesce a fare qualunque cosa», e poi mi disse di andare nell’ufficio del rabbino Greenbaum.
Questi era il preside e il capo dei rabbini della Yeshiva.
«Digli», disse il rabbino Brier, «che tu sai più di Hashem».
Che era esattamente l’opposto del nocciolo della questione.
Lo ammetto – la domanda mi faceva star bene.
Ma ciò che mi regalava una tale sensazione non era il pensiero di aver ingannato Dio, o di saperne di più di Lui.
Sicuramente allora non sarei stato in grado di riconoscerlo, ma ciò che di quella domanda faceva sentire talmente bene non era il pensiero di sapere qualunque cosa; piuttosto, era la chiara e distinta gioia di non sapere.
A quei tempi, sembrava che tutti credessero di sapere tutto.
Ultimamente, la situazione non ha fatto che peggiorare.
Tutti sanno tutto.
Sanno qual è il problema dell’America, qual è il problema del mondo, della letteratura, delle arti.
I blogger sono peggio dei giornalisti, gli utenti di Twitter sono peggio dei blogger.
Se esisteva un’arte del non sapere, l’abbiamo perduta.
«L’unica cosa che so», disse Socrate, «è che non so nulla».
Magari non è stato il primo a dirlo, ma comincio a sospettare che sia stato l’ultimo.
Il rabbino Greenbaum mi convocò nel suo ufficio, invitandomi a sedermi.
Mi accomodai con qualche difficoltà sulla sedia di fronte alla sua e mi fissai le scarpe.
«Dimmi», disse il rabbino Greenbaum, «credi che Hashem ti ami?».
«Sì», risposi.
«E credi che Hashem voglia che tu Lo ami?».
«Sì», risposi.
«E allora come credi che si senta Hashem quando affermi che non riesce a fare qualcosa?».
«Male», risposi.
«Naturalmente», disse il rabbino Greenbaum.
«E tu sai che Lui riesce a fare qualunque cosa».
Annuii.
«Ma se Lui non riesce a sollevarlo…», dissi.
«Certo che riesce a sollevarlo».
«Ma allora non riesce a farlo così pesante…».
«Certo che ci riesce».
«Ma allora…».
«Shalom», disse il rabbino Greenbaum, attorcigliandosi la barba, «sono più intelligente di te?».
Annuii.
«Sono più dotto di te?».
Annuii.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», disse.
«Okay?».
Annuii.
«Ora torna in classe», disse il rabbino Greenbaum.
Mi alzai avviandomi verso la porta.
La sua risposta non era una risposta.
Adesso la questione più importante era perché lui insisteva che lo fosse.
Raggiunsi la porta del suo ufficio e mi voltai verso di lui.
«Rabbino Greenbaum?», dissi.
«Sì?» \ «Mi dispiace di aver messo in dubbio Hashem», dissi.
Lui sorrise.
«Sei un bravo ragazzo», rispose.
Mi incamminai lungo il corridoio in direzione della mia classe.
Alle mie spalle, udii la porta dell’ufficio del rabbino Greenbaum richiudersi – il cigolio dei cardini logori, lo scatto della maniglia d’acciaio della porta, e poi la serratura, pesante, bloccare la porta scorrendo vigorosamente.
(Traduzione di Licia Vighi) in “La Stampa” del 13 luglio 2010
The Blind Side (Il lato cieco)
La domanda sorge spontanea: com’è possibile che un film campione d’incassi negli Stati Uniti, forte di un Oscar per la migliore attrice protagonista, sia proiettato solo al Fiuggi Family Festival e non trovi spazio nei nostri cinema? «Magie» della distribuzione all’italiana, capace inizialmente di rifiutare perché «deprimente» un film come The Road, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, considerato un capolavoro della letteratura contemporanea.
Ma qui, si è andato oltre.
The Blind Side, il film che ha premiato Sandra Bullock, in un inedito ruolo drammatico, prima con il Golden Globe e poi con l’Oscar, che ha fatto commuovere famiglie di americani con quella storia, vera, di un gigante buono del football americano e ha rastrellato 255 milioni di euro, quarto incasso assoluto della stagione, in Italia è disponibile solo in dvd, dopo una fugace apparizione su Mediaset Premium.
Una scelta in controtendenza, per la pellicola che, nata dal nulla, al botteghino ha scalzato in America addirittura i teen vampiri amati da orde di adolescenti, di Twilight: New Moon Resta la domanda.
perché questo film che parla di sport e adozione non è degno di arrivare nei cinema italiani? «D’accordo con la società produttrice del film – ha raccontato Paolo Ferrari, presidente di Warner Bros Italia – abbiamo ritenuto che il soggetto fosse poco adatto al pubblico italiano, che ha sempre mostrato di gradire poco i film sullo sport e in particolare sulle discipline, come il football americano, sconosciute nel nostro paese.
L’investimento promozionale per lanciare un film sul mercato delle sale è diventato gravoso e le previsioni di incasso per Blind Side sconsigliavano di rischiare».
Insomma, secondo al Warner, agli italiani, popolo che vive di pane e calcio, non piacciono i film sullo sport.
Eppure Invictus di Clint Eastwood, sembra dimostrare il contrario.
Quel film, dove il rugby è uno strumento di lotta politica, dove non si gioca soltanto una partita ma si raccontano emozioni e storie individuali, o collettive (il Sudafrica di Mandela) da noi è andato molto bene.
E non è l’unico.
Anche in The Blind Side il football è un pretesto.
Anzi è il contesto, dentro cui si dibatte il destino di Michael Oher, un grattacielo d’uomo, campione dei Baltimore Ravens.
Oggi, a soli 24 anni, la sua storia è diventata un libro e un film.
La storia di un ragazzo afroamericano di Memphis, orfano di padre e con una madre tossicodipendente, che non ha nulla, se non un futuro di degrado e la stazza per fendere il quadrilatero verde.
Alle soglie di un destino senza destino lo salva Leigh Anne Tuohy (Sandra Bullock appunto), assieme al marito e a due figlie.
Reginetta della commedia sentimentale per un’intera generazione, l’attrice ha abbandonato impacci romantici e buffi corteggiamenti, per un ruolo che lei stessa ha definito «impegnato e impegnativo»: «Ha subito avuto un significato molto importante per me: perché parla delle mamme, che si occupano sempre dei figli, naturali o adottati, e non importa da dove vengono».
Anne apre la propria casa di bianchi benestanti a quel bambinone triste di colore.
Lo adottano, gli pagano gli studi, lo seguono e gli fanno coltivare il suo sogno, racchiuso in potenza nel suo talento innato: il football.
Michael avrà la ribalta, ma soprattutto avrà una famiglia.
È la quinta essenza dell’american dream, nella sua versione caritatevole.
Il razzismo della povertà battuto dalla pietà e dallo sport che è sfida, conquista e successo.
E, anche se spesso ci sfugge di mente, solidarietà.
Ilario Lombardo Avvenire 27 07 2010
I Dieci Comandamenti anche per chi non crede
Decalogo è un termine greco.
Vuol dire dieci (déka) parole (lógos).
In molti hanno scelto di tradurlo con «I Dieci Comandamenti», anche perché in ebraico «parola» (davar) è sinonimo di comandamento.
La Bibbia riporta due versioni, sostanzialmente omogenee, delle frasi che Mosè ascoltò sul Sinai e che furono incise sulle Tavole della Legge.
Si trovano in Esodo 20, 1-6 e in Deuteronomio 5, 6-10.
Nella tradizione cattolica — che si discosta da quella ebraica e, tra l’altro, anche dalla protestante, più aderenti al testo biblico — Agostino distinse i tre Comandamenti iniziali dai successivi sette, attribuendo ai primi i doveri verso Dio e agli altri quelli verso gli uomini.
Ma la codificazione del Decalogo dei catechismi cattolici venne formulata, dopo diverse proposte scolastiche (Pietro Lombardo, Tommaso d’Aquino eccetera), da Alfonso Maria de’ Liguori nel Settecento.
Il santo napoletano scelse i Comandamenti come sommario di tutta la teologia morale e cercò di riassumere in ogni proposizione un settore di vita.
Per esempio il sesto, «non commettere adulterio», non figura nella sua sistemazione ma viene allargato con il «non commettere atti impuri», comprendendo in tal modo tutta la morale sessuale.
Rileggere il Decalogo e interpretarlo nell’epoca che si sta vivendo, è stato un bisogno continuo dell’Occidente; era naturale che lo si dovesse fare anche nel nuovo millennio.
Per tal motivo il progetto de il Mulino, di rimeditare attraverso un duplice intervento i Comandamenti (compreso quello dell’amore per il prossimo, già enunciato in Levitico 19,18), merita la massima attenzione.
Il primo volume, dedicato a Io sono il Signore Dio tuo, frase che non può essere equiparata alle successive e introduce le Tavole della Legge, è firmato da Piero Coda e Massimo Cacciari.
Il percorso offerto dai due autori in queste pagine parte dalla semantica originaria del Nome per giungere alle riflessioni sul Deus-Trinitas.
Infinite le suggestioni e le riflessioni.
Se da un lato ci si deve confrontare con l’autopresentazione di Dio di Esodo 3,14 «Io sono colui che sono» (’ehjeh asher ’ehjeh), e che Piero Coda mostra in innumerevoli interpretazioni compresa quella che nacque dalla versione greca dei Settanta (ego eimi o on: si potrebbe rendere sino a «Io sono l’Essente»), dall’altro lato ci si chiede chi sia «l’Uno dell’Esodo».
E qui Massimo Cacciari sa dare il meglio di sé indicando le vie che consentono di avvicinarsi al «segreto del Nome divino», anche se resta «inafferrabile e ineffabile».
Sottolinea: «Non interessa tanto il Nome ma ciò che l’Essere di Dio può.
La sua natura è di essere, non di essere nominato, e di essere ponendo “fuori” di sé tutta la propria potenza».
Sulla frase «Non avere altri dei di fronte a me» (Esodo 20,3; Deuteronomio 5,7), il primo ordine di Dio del Decalogo, c’è una letteratura infinita.
Coda ricorda tra l’altro che Jhwh irrompe nella storia attraverso Israele e si propone come «l’imprescindibile garanzia della libertà dell’uomo»; Cacciari comincia il suo saggio chiarendo gli equivoci dei possibili politeismi e notando che anche quello pagano «ci appare ormai testimonianza di un passato irripetibile, capace al più di esercitare un fascino antiquario-letterario privo di qualsiasi valore religioso o filosofico».
C’è un’osservazione di Martin Buber che merita di essere ricordata: «La dottrina della unicità ha la sua ragione vitale non nel fatto che ci si formi un giudizio sul numero di dèi che ci sono e si cerchi magari di verificarlo, bensì nella esclusività che regge il rapporto di fede, come esso regge il vero amore tra uomo e uomo; più esattamente: nel valore e nella capacità totale insito nel carattere esclusivo…
L’unicità nel “monoteismo” non è, dunque, quella di un “esemplare”, ma è quella del partner nella relazione interpersonale, finché questa non viene rinnegata nell’insieme della vita vissuta» (Königtum Gottes, Opere II, München 1964).
Coda, inoltre, verifica la frase di apertura dei Comandamenti nel Nuovo Testamento; Cacciari dedica due attente riflessioni all’ Uno Essere e a L’Uno Signore dell’Essere utilizzando una notevole conoscenza dei testi filosofici e teologici.
Da Rosenzweig a Spinoza, da Nietzsche a Hegel, da Kant a Weber si muove indicando la lettura più vicina a noi.
Che aggiungere? Forse un’immagine che molti ricordano e che potrebbe essere una didascalia per questo primo volume.
Nel film hollywoodiano I dieci comandamenti del 1956, diretto da Cecil B.
De Mille, Ramesse (Yul Brynner) dice a Nefertari (Anne Baxter) al suo ritorno dal Mar Rosso, dopo aver inseguito gli ebrei e Mosè: «Il suo dio…
è Dio».
Coda e Cacciari ci aiutano a comprendere meglio queste parole.
in “Corriere della Sera” del 1° maggio 2010 Il progetto della casa editrice il Mulino dedicato a I Comandamenti sarà realizzato in 11 volumi.
Si tratta di una scelta che tiene conto anche dell’invito ad amare il prossimo, non presente nel Decalogo del Sinai ricevuto da Mosé, ma raccomandato già nel libro del Levitico (19,18) e ribadito con forza da Gesù nel Nuovo Testamento.
Oltre il libro che inaugura la serie di Massimo Cacciari e Piero Coda Io sono il Signore Dio tuo (pp.
164, € 12), che sarà in libreria il 6 maggio ed è presentato in questa pagina con un estratto dei due saggi (si intitolano rispettivamente Il pensiero più alto e Questo Dio per la libertà), sono previste le seguenti uscite: Non ti fari idolo né immagine con Salvatore Natoli e Pierangelo Sequeri, Non nominare il nome di Dio invano con Carlo Galli e Piero Stefani, Santificare la Festa con Massimo Donà e Stefano Levi della Torre, Onora il padre e la madre con Giuseppe Laras e Chiara Saraceno, Non uccidere con Adriana Cavarero e Angelo Scola, Non commettere adulterio con Eva Cantarella e Paolo Ricca, Non rubare con Paolo Prodi e Guido Rossi, Non dire falsa testimonianza con Tullio Padovani e Vincenzo Vitiello, Non desiderare la donna e la roba d’altri con Gianfranco Ravasi e Andrea Tagliapietra.
Chiuderà Ama il prossimo tuo con Enzo Bianchi e Massimo Cacciari.
Piero Coda: Il nome rivelato è come la sua firma Nella costruzione raddoppiata: «Io sono colui che Io sono», il predicato è identico al soggetto.
Essa può sottolineare un rafforzamento dell’ auto presentazione di Jhwh: «Io sono proprio chi Io sono».
Ma, più profondamente, insinua anche una riaffermazione della trascendenza e dell’incognito di Dio nel momento stesso del suo farsi presente: «Solo Io so chi Io sono».
È un invito a non fermarsi al Nome così come suona e che pure esprime quanto detto, ma a passarvi attraverso per lasciare che sia Dio a stabilire, mediante la memoria verbale del suo Nome, un rapporto vivo e personale di sé con noi.
Altrimenti si cade nella tentazione di volersi impadronire del Nome di Dio, e addirittura di farsene un idolo.
Per questo Jhwh comanda di non pronunciare invano il suo Nome e di non farsi di Lui immagine alcuna.
Dio si rivela – precisa Paul Beauchamp – mediante un significante che non fa parte dell’organizzazione interna al discorso, ma lo fonda come una firma.
«Io sono chi Io sono»: firma esterna al testo, dunque, benché ricorrente nel testo stesso.
Queste parole bucano la pagina, hanno cioè un risalto eccezionale.
Il Nome rivelato a Mosè mette così tutta la Bibbia sotto un’istanza alla prima persona, quella di Dio come soggetto libero e incatturabile che viene graziosamente incontro all’uomo chiedendogli a sua volta affidamento e fedeltà.
Massimo Cacciari: Non un precetto ma un’affermazione La prima Parola (il primo dei «deka logoi ») non si presenta nella forma di un precetto («miswa »), ma di un’affermazione, di una perentoria autoaffermazione: «Io sono Jhwh, tuo Elohim» (Esodo, 20,2).
Non si tratta di un comandamento, ma del necessario presupposto di tutta la Legge.
È infatti impossibile comandare di credere nell’esistenza di Jhwh.
E che senso avrebbe obbedire a ciò che venisse ritenuto un puro nome, cui nulla di reale corrisponde? Lo stesso Maimonide, che pure fonda sui principi dell’esistenza di Dio e della sua unità l’insieme della Legge, non li concepisce affatto come oggetto di fede, ma, anzi, come il risultato cui perviene la sana ragione, oggetto cioè di dimostrazione.
Questo «Io, proprio Io, Jhwh», creduto o riconosciuto che sia, non potrà mai essere il contenuto di un comando, e tuttavia la Legge, l’unica Legge (legge assolutamente universale, a tutti rivolta – tanto che l’antica tradizione rabbinica diceva essere stata dettata dal Signore in 76 lingue, così che ogni gente potesse comprenderla), divina tutta in quanto giusta in tutte le sue parti, nel suo stesso interno differenziarsi e articolarsi, la Legge che stabilisce le forme della relazione tra uomo e Dio, ne presuppone la Rivelazione.
Se la forza di quell’Io venisse meno, il Decalogo si ridurrebbe a «legge morale in noi», la Legge divina perderebbe il significato che deve assumere anche per la perfezione del vivere civile.
Le stesse norme che suonano semplicemente etiche o cultuali debbono sempre essere comprese alla luce della Rivelazione del Nome.
L’attualità del pensiero di Augusto Del Noce
Pomeriggio di studio sul pensiero di Augusto Del Noce La Facoltà di Filosofia dell’UPS, in collaborazione con il Movimento Politico “Giovani, liberi e forti” di Roma, organizza un incontro di formazione filosofico-politica dal titolo L’attualità del pensiero di Augusto Del Noce (1910-1989).
L’incontro ha luogo presso l’Aula Marolla dell’Università Pontificia Salesiana (in Piazza Ateneo Salesiano, 1 – Roma), il prossimo venerdì 26 febbraio 2010, dalle ore 17.30 alle ore 20.
Intervengono il prof.
Gian Franco Lami dell’Università di Roma-La Sapienza, l’on.
Rocco Buttiglione, dell’Università San Pio V di Roma e il prof.
Massimo Crosti, della Facoltà di Filosofia dell’UPS.
Interviene anche il Dott.
Fabrizio Del Noce, Direttore di RAI Fiction. Per informazioni, rivolgersi alla Facoltà di Filosofia (06.87290625; filosofia@unisal.it) o al dott.
Simone Budini (347.6726373; simone.budini@gmail.com).
(UPS – Roma, 18 febbraio 2010) –
Sant’Antonio
È la quarta volta in otto secoli che sant’Antonio si mostra.
Alle nove e venti di sera, nel buio della basilica chiusa, davanti ai suoi frati che lo salutano commossi con un applauso.
Il teschio lascia immaginare zigomi alti, mento sporgente, occhi infossati.
Lo scheletro, tenuto insieme da un filo trasparente, rivela – secondo gli studi anatomici del professor Meneghelli – che il santo più ritratto e scolpito al mondo era alto un metro e 70, molto per l’epoca.
Ha rotule ampie e appiattite, segno delle tante ore trascorse in ginocchio.
Ha tibie e peroni robusti, segno delle tante ore trascorse in cammino.
Non manca nulla: prova che le innumerevoli reliquie di sant’Antonio sparse in molte chiese tra Italia e Francia sono false.
L’argano ha sollevato la lastra di marmo, gli operai hanno aperto la cassa di rovere.
Ora i frati estraggono l’urna di vetro e, all’apparire del santo, innalzano l’inno «O gloriosa Domina», l’ultimo che Antonio cantò prima di spirare, sul carro che lo portava da Camposanpiero a Padova: «O gloriosa tra le vergini, splendente più che stella…».
Non ci sono giornalisti, tranne gli inviati del Corriere e di Avvenire; testimone dell’avvenimento è il notaio Marco Silva, che scrive l’atto di traslazione.
Sei frati portano la teca in spalla, verso l’abside: Giovanni Voltan, vicario provinciale, Giuseppe Casarin, rettore del seminario, Alberto Fanton, direttore della biblioteca, due teologi romeni, Eugen Blajut e Joan Butacu, e Ugo Sartorio, direttore del Messaggero di Sant’Antonio, 520 mila abbonati in Italia e nove edizioni in tutte le lingue della cristianità.
La cristianità è rappresentata in ogni sfaccettatura, sul sagrato.
L’ostensione comincia stamane all’alba, ma fin da ieri Padova è piena di pellegrini.
Bambini con le maschere di carnevale.
Suore arrivate in bicicletta.
Parrocchiani scesi dai bus che riempiono il Prato della Valle.
Portoghesi ansiosi di ricordare che il santo si chiamava in realtà Fernando Martim de Bulhoes ed era di Lisbona.
Zingari, molto devoti ad Antonio, che considerano il patrono delle cause impossibili.
Quando, il 10 ottobre 1991, tre uomini mascherati rubarono il reliquiario con la mandibola, le indagini puntarono sui rom, che reagirono indignati: come avrebbero potuto profanare le spoglie del loro santo? Due mesi dopo, la reliquia fu ritrovata in un campo presso l’aeroporto di Fiumicino.
Una voce, mai verificata, volle che fossero stati proprio gli zingari a mettere gli inquirenti sulla pista giusta.
L’urna traballa appena sulle spalle dei frati, seguiti dai ceri accesi e dalle telecamere del Tg1.
Rito medievale e tecnologia, latino e foto con i telefonini.
I confratelli intonano le litanie: «Sant’Antonio, gloria del Portogallo, prega per noi; amico di Cristo, prega per noi; entusiasta seguace di Francesco, prega per noi…».
Il corpo percorre il deambulatorio, sale gli scalini della cappella delle reliquie, viene adagiato su una semplice grata di ferro battuto, coperta da un drappo rosso e uno giallo.
Sono le dieci di sera, i frati recitano la compieta: «Gesù, luce da luce/ sole senza tramonto/ tu rischiari le tenebre/ nella notte del mondo…».
Da fuori arriva il suono delle campane.
A Padova sono attesi almeno 200 mila fedeli in una settimana.
L’avanguardia è già pronta a passare i quattro metal-detector ed entrare in basilica.
Molti sono venuti con gli ex-voto — fotografie di auto accartocciate, con il superstite che vi appoggia la mano come su un trofeo — o con suppliche a volte molto specifiche.
Chi invoca la guarigione dal fuoco di sant’Antonio, e non sa di aver sbagliato santo (quello del fuoco è l’altro, Antonio abate ed eremita).
Chi cerca la fede nuziale, chi un assegno perduto, chi uno sposo (i frati conservano la lettera giunta vent’anni fa dal Sud America e scritta da una signora che, indispettita con il santo che non trovava marito alla figlia, gettò la sua statuetta per strada.
Un passante ne fu colpito in testa.
Era il futuro genero).
Sant’Antonio, com’è noto, fa trovare le cose.
Una credenza nata dall’invocazione con cui nella notte i frati chiudono il rito: «Si quaeris miracula, mors, error, calamitas….» «Si quaeris» significa appunto «se cerchi»: nella tradizione popolare, Antonio divenne il santo delle cose perdute.
Quando fu ritrovata la mandibola, si parlò anche di un furto ordinato da Felice Maniero, il boss del Brenta, e di un suo successivo ravvedimento.
I frati considerarono che fosse stato Antonio a ritrovare la sua stessa reliquia.
Il ministro provinciale Giovanni Cappelletto ricorda che la prima volta fu san Bonaventura da Bagnoregio ad aprire la cassa, l’8 aprile 1263, e a trovare miracolosamente incorrotta la lingua con cui Antonio, grande oratore, pronunciava i suoi leggendari sermoni.
Nel 1350 il legato pontificio Guy de Boulogne collocò il corpo nella Cappella dell’Arca, e per oltre sei secoli nessuno lo toccò più.
Nel 1981, a 750 anni dalla morte, l’ostensione partì in sordina.
Il primo giorno si creò un flusso continuo di visitatori, ma l’attesa non superava la mezz’ora.
Poi i pellegrini aumentarono, e il portale sinistro venne riservato a loro; l’attesa era già di due ore.
Quindi i frati dovettero costruire un labirinto di transenne di legno, per regolare un flusso del tutto inatteso.
Dopo due settimane si doveva attendere una notte intera per avvicinare il santo.
L’ostensione fu prolungata di altri 15 giorni; alla fine a Padova giunsero un milione di fedeli.
È un pezzo d’Italia poco raccontato, che torna a mobilitarsi in queste ore.
Meno ardente rumoroso di quello che si rivolge a padre Pio (San Giovanni Rotondo contende a Padova lo status di terzo luogo più visitato della cristianità, dopo San Pietro e Lourdes); diverso anche da quello che va ad Assisi per san Francesco che non fa miracoli.
Antonio, uomo di cultura, dottore della Chiesa, è divenuto il santo degli umili, che ne hanno reinventato la figura.
«Come taumaturgo, come rifugio della fantasia e della mente, sant’Antonio è una creazione del popolo – ha scritto 29 anni fa Ferdinando Camon -.
Perciò l’esplosione del caso san’Antonio è uno dei momenti in cui si può calare un colpo di sonda nel popolo, fin dentro al suo cuore».
Per assistere i fedeli sono già arrivati 500 volontari: la milizia dell’Immacolata, la Pia Confraternita dei macellai, la Gioventù francescana, e pure 120 uomini della Protezione civile, molto congratulati da tutti.
La bandiera pontificia sventola accanto al tricolore, a ricordare che la basilica appartiene al Vaticano; il che acconsentì all’allora direttore del Messaggero padre Placido Cortese, di salvare molti ebrei – prima che la Gestapo lo portasse via a morire sotto le torture nella Risiera di San Saba -, e più di recente agli spacciatori di penetrare indisturbati nel chiostro, fino quando i frati hanno ottenuto di poter comunicare con la polizia.
Folla pure al Pedrocchi, dove si offre il caffé a tutti gli Antonio e le Antonietta, e senza chiedere la carta di identità.
Sono quasi le undici quando i frati salutano il loro santo, accarezzando e baciando l’urna: «Il Signore ci conceda una notte serena e un riposo tranquillo, vengano i santi angeli a custodirci nella pace»- Il corpo resterà visibile sino a sabato sera.
quando sarà ricollocato definitivamente nella Cappella dell’Arca, tra i marmi abbaccinanti di Tullio Lombardo e Sansovino appena restaurati.
Fino ad allora una web-cam lo mostrerà 24 ore su 24 a chi non può venire di persona.
«Si è squarciato il velo della storia, ed è apparso un corpo» disse nell’81 il ministro provinciale.
«Antonio è uscito dalle pagine dei libri per diventare una presenza vera, viva in mezzo a noi» commenta ora padre Ugo.
«Ostentazione» l’ha chiamate per sbaglio un tg locale.
Un lapsus che i frati hanno trovato indicativo: Stanotte sant’Antonio ci mostra la differenza tra farsi vedere ed essere visti».
in “Corriere della Sera” del 15 febbraio 2010
I nostri figli senza maestri
Della politica, di ogni suo minimo sussulto, controversia o screzio, si discute per giorni, si ragiona, si polemizza.
Dei giovani e giovanissimi, dei loro problemi, dei loro allarmi, della loro violenza, dei terrificanti crimini che riescono a commettere quando ancora, almeno in teoria, devono rispettare l’orario di rientro dettato dai genitori, dopo un momentaneo commento incredulo e sbigottito, si tende, invece, a tacere.
E così gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini per opera di adolescenti o poco più transitano veloci, giorno dopo giorno, negli spazi delle cronache nere senza che ci prendiamo la briga di riflettere davvero su cosa sta succedendo nella nostra società.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa—compreso il carcere — fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge.
E sembra specchiarsi, quest’indifferenza, nel loro abbigliamento, sempre uguale, jeans, scarpe sportive e felpa, del tutto indifferente a diversi luoghi e occasioni: casa, scuola, lavoro, pub, sport oppure discoteca.
Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti.
Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene.
Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.
Se, infatti, padri e madri—come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione.
E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente.
Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno.
Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani.
Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti.
È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.
Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise.
Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani.
Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto.
Speranze —condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme.
Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
Corriere della Sera 30 aprile 2009