Catechesi e Catechetica: ieri, oggi e domani

Intervista a 41 catecheti dei 5 continenti

In prossimità del Simposio Internazionale di Catechetica dell’8-9 novembre 2024, a Roma, sul tema “La dimensione educativa della catechesi”, l’Istituto di Catechetica (ICa) della Facoltà di Scienze dell’Educazione, Università Pontificia Salesiana (FSE, UPS) di Roma, ha pensato bene di “preparare il terreno” e di iniziare a “riscaldare il motori”, inviando a catecheti dei cinque continenti un questionario con sette domande, attinenti alla “catechesi”, con una sottolineatura particolare alla dimensione educativa, in sintonia con il tema del Simposio.

In qualche modo, questa iniziativa si affianca alla ricerca La competenza riconsiderata2 che ha coinvolto gli Exallievi dell’ICa (2000-2020). Sia la ricerca, sia l’intervista sono due modalità che consentono di mantenere il contatto con la realtà e verificare la qualità del servizio accademico di insegnamento e di ricerca che l’ICa ha offerto e continua a proporre alle comunità ecclesiali sparse nel mondo, da poco più di settant’anni.
Sono pervenute alla Direzione dell’ICa 40 interviste in tutto (una condivisa da due catecheti operanti in Tanzania). Un’intervista è frutto di condivisione degli Uffici catechistici a livello nazionale (Australia). Hanno risposto all’invito 41 catecheti, di cui 15 F e 26 M, provenienti dall’Africa (3/4 = 7), dall’America (3/4 = 7), dall’Asia (2/5 = 7), dall’Oceania (2/1 = 3) e dall’Europa (3/5 = 8) a cui vanno aggiunti 9 italiani (2/7 = 9).3 Si tratta di un forum aperto a tutti senza preclusione e casualmente rappresentativo, senza alcuna pretesa di rappresentatività statistica e di ricerca empirica. Non di meno le risposte pervenute offrono un ampio panorama e uno spaccato della situazione e delle prospettive della catechesi oggi.

Alcuni studiosi e studiose di catechetica sono conosciuti a livello internazionale, altri ed altre lo sono di meno: tutti comunque hanno espresso, a partire dalla pro-pria esperienza e competenza, risposte degne di considerazione e di riflessione, alcune più sul versante della teorizzazione, altre su quello della prassi. Il livello minimo richiesto per la partecipazione all’intervista è stato quello di essere in possesso almeno di una licenza o laurea in campo catechetico o di avere almeno una consolidata esperienza catechistica.
La differenziazione maschile e femminile, con una prevalenza numerica dei maschi (26) sulle femmine (15), non va colta in modo discriminante ma complementare, necessaria per un confronto autentico che metta insieme intuizioni della “genialità femminile” (non si dimentichi la preponderanza delle catechiste nella comunità ecclesiale: cf. DC 127-128) e l’apporto che si spera aumenti ma (senza predomini) da parte della “genialità maschile”, che appare preponderante nel campo della scienza catechetica, ma nettamente inferiore nel servizio della catechesi ecclesiale (cf. DC 129).

La provenienza “mondiale” permette, seppur nella immediatezza propria di un’intervista, di cogliere elementi comuni a livello globale, ma anche elementi più localizzati e caratterizzanti in spazi geografici differenti, in questo tempo di ricerca e di forte bisogno di riorientamento.
Le sette domande cercano di cogliere tratti specifici spazio-temporali del trinomio catechesi-educazione-catechetica e sono state inviate, in italiano e in-glese, in due ondate, ai catecheti, exallievi dell’ICa e non, perché rispondessero entro le due scadenze indicate: febbraio e maggio del 2024 (solamente una di esse è pervenuta nel mese di giugno). Il materiale raccolto è il risultato di un’adesione libera, aperta a quanti volessero aderire.

Presentiamo le sette domande dell’intervista, inviate ai catecheti in italiano e inglese, con alcune brevi considerazioni di commento che ne esplicitano l’intenzionalità e la concatenazione. Una breve premessa dava questa breve avvertenza:
Tenendo presente il proprio contesto geografico e culturale, chiediamo di rispondere alle seguenti domande con risposte sintetiche massimo 10 righe (totale caratteri 1.000 – mille – spazi inclusi) per ognuna delle seguenti domande:
1) Quale “memoria” ed “eredità” di catechesi rimane ancora viva e valida per la Chiesa di oggi? Quali gli aspetti propositivi, quali i pesi o gli eventuali intralci o impedimenti?
La prima domanda mira ad una retro-visione della catechesi di oggi, cer-cando di cogliere le immancabili risorse, ma anche le controindicazioni ad un suo sviluppo lineare e promettente nel presente e nel futuro.
2) Come appare oggi la situazione della catechesi nel mondo odierno, in particolare nel vostro contesto di appartenenza? Quale attenzione o disattenzione da parte di pastori e delle comunità cristiane?
Il secondo quesito pone l’attenzione sul momento storico attuale e sul con-testo geografico in cui si vive, cercando di fotografare in poche battute la situa-zione della catechesi e la responsabilità da parte delle comunità cristiane e, a vari livelli, dei loro responsabili.
3) Quale profilo per la catechesi del futuro? Quali sono i rischi da evitare assolutamente e quali risorse da valorizzare come priorità per dare “futuro” alla catechesi?
A partire dai precedenti interrogativi, il terzo mira a valorizzare il patri-monio del passato e del presente, ma soprattutto a guardare avanti, ipotizzando una “nuova” o “rinnovata” catechesi all’altezza del suo compito e delle sfide cul-turali di oggi.
4) Credete che vi siano possibilità di nuovi linguaggi per un’efficace inculturazione della fede nell’antico continente europeo e nel vostro continente di appartenenza? Quali sono le principali risorse e le differenze tra il mondo occidentale e gli altri “mondi”?
Il quarto quesito mira ad approfondire il precedente, guardando ai lin-guaggi antichi e nuovi, confrontando i vari e differenti contesti continentali, co-gliendone sia le potenzialità, sia le limitazioni e diseguaglianze.
5) Si è parlato recentemente di “emergenza educativa” e addirittura di “catastrofe educa-tiva”. Come considerate la dimensione educativa della catechesi e quale contributo può essere dato dalla catechesi ecclesiale alla situazione attuale di “crisi”?
La quinta domanda punta sulla tematica propria del Simposio internazio-nale, chiedendo di mettere in evidenza la considerazione educativa della cate-chesi nel proprio contesto, non solo a livello ecclesiale, ma anche a livello socio-culturale e umanitario.
6) Quali sono le principali tendenze per dare oggi qualità all’identità e alla formazione dei catechisti in particolare e degli operatori pastorali in generale?
L’interrogativo intende mettere a fuoco l’interesse per l’identità e la for-mazione dei catechisti, considerando le principali istanze e tendenze per il mi-glioramento di questo “antico” e prezioso “ministero” per la Chiesa e il mondo.
7) C’è futuro per la catechetica nella comunità scientifica ed ecclesiale? È possibile deli-neare in prospettiva l’identità del catecheta nella Chiesa, nella comunità scientifica e nella società di domani? Quali i tratti caratterizzanti?
L’ultima questione tocca l’aspetto di studio e di ricerca a servizio della fe-deltà creativa e innovativa della catechesi in un’epoca in continuo cambiamento. Si focalizza, infine, sulla figura del “catecheta”, sui tratti di competenza che lo devono caratterizzare nel momento attuale.
Le risposte pervenute sono riportate in “Quaderni di Catechetica ed Educazione» No. 2, in lingua italiana, seguendo l’ordine alfabetico per continente e per autore/autrice. Le 40 interviste possono essere lette di seguito, in verticale, rilevando la originalità di ciascuna, ma, secondo l’utilità, possono essere considerate in orizzontale, leggendo le risposte date dagli intervistati a ciascuna delle sette domande.

Come si potrà notare, le risposte sono differenti per lunghezza e sinteticità, come anche si distinguono per genericità o per la puntigliosa indicazione di alcuni aspetti particolari, rispetto ad altri, ma tutte prendono le mosse dall’esperienza e dalla competenza degli intervistati che si cercherà di non lasciar cadere a vuoto ma di prendere in seria considerazione e mettere in rilievo.
Si rinvia alla conclusione, a fine Quaderno, per alcune osservazioni complessive e generali.
Un grazie sentito va a Nicolò Suffi per la revisione dell’intero quaderno nell’edizione in italiano, mentre per la revisione delle risposte in madrelingua e le traduzioni dall’inglese a Benny Joseph, dal portoghese a José Anibal Men-donça, dallo spagnolo a Francisco Énriquez Zulaica e dal francese a Morand Wirth.

Cogliamo soprattutto l’occasione per ringraziare i quarantuno partecipanti all’intervista e quanti hanno collaborato per la realizzazione di questo dossier che speriamo possa risultare utile per la riflessione presente e per il rilancio futuro della catechesi nelle varie parti del mondo.


I membri dell’Istituto di Catechetica
catechetica@unisal.it

ACCEDI ALLA RIVISTA ONLINE nella sezione “CATECHETICA ED EDUCAZIONE”

Allegato:

Quaderni di Catechetica ed Educazione N. 2 – Supplemento al C&E 9 (2024) 2

“Un altro punto di vista: la forza delle reti comunitarie”

Lunedì 25 novembre 2024 è in programma a Pescara, presso la sede della TUA S.p.A. (Via San Luigi Orione, 4), il 3° Seminario di studio su disabilità e lavoro organizzato da questo Servizio Nazionale per la pastorale delle persone con disabilità, in coedizione con l’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro, dal titolo “Un altro punto di vista: la forza delle reti comunitarie”.

In allegato siamo lieti di pubblicare la locandina contenente il programma dell’evento e il link per effettuare l’iscrizione.

L’iscrizione, obbligatoria per poter partecipare, deve essere effettuata entro e non oltre il 17 novembre 2024e fino ad esaurimento camere per chi desidera pernottare, tramite il seguente link d’iscrizione:

https://iniziative.chiesacattolica.it/SeminarioPescara25.11.2024

L’eventuale pagamento delle quote di partecipazione indicate nel format d’iscrizione può essere effettuato, oltre che sullo stesso portale tramite carta di credito, anche tramite bonifico bancario alle seguenti coordinate:

– Bonifico bancario presso Banca Etica, intestato a:
Conferenza Episcopale Italiana
IBAN: IT 98 J 05018 03200 000010500502
Causale di versamento: Iniziativa 22795, Nome e Cognome

Una volta effettuato il versamento, copia dello stesso deve essere inviata all’indirizzo email di questo Servizio Nazionale (pastoraledisabili@chiesacattolica.it).

Per ulteriori eventuali info:

pastoraledisabili@chiesacattolica.it
unpsl@chiesacattolica.it

ALLEGATI

LIBRO IN EVIDENZA-Rubrica periodica di «Catechetica ed Educazione»

Christoph Theobald, Un concilio in incognito? Il sinodo, via di riconciliazione e creatività, EDB, Bologna 2024, pp. 192.

Christoph Theobald, An Incognito Council? The Synod, a Path to Reconciliation and Creativity, EDB, Bologna 2024, pp. 192.

The Author is a well-known theologian of German origin, resident in Paris, professor at the Centre Sèvres, the Jesuit institute of the French capital. It may be useful to know that many of his works, including this one, have been translated into Italian, in particular by EDB (publisher of the Dehonians) of Bologna.

Theobald is recognized for his thinking on ecumenical dialogue and for an innovative vision of the role of the Catholic Church in the contemporary world. He affirms, deepens and disseminates the need for a “synodal” and fraternal Church, in line with the reforms promoted by Pope Francis.

The book we present is easy to read and understand, written in a calm style, well documented on the reality of the Synod in progress without a feeling of hypercriticism of which the synodal work is often criticized and even more ignored.

We note well that the Author does not want to express personal thoughts, but to report and interpret the path of the Synod so far. It includes two stages: the result, from the beginning of the work (2021-2022), is summarized in the first Synod (October 2023); a second stage follows that concludes in the second Synod (October 2024). Theobald obviously cannot speak about this, since his text was written first, but he foresees the tasks in light of the documents gradually published by the Pope and the General Secretariat. Significant conclusions and new proposals for the continuation of the synodal journey are to be expected.

The A.’s vision is already expressed in the title: An incognito council? The synod, a path of reconciliation and creativity. For Theobald, the current synod is not the expiration of a commitment among many synods, usual in the history of the Church. First of all, it has a close connection, indeed by root, with the Second Vatican Council, of which it wants to be an extension, not only aspiring to be understood as a council not declared as such (incognito), but to be so in fact, notably with two of its distinctive traits defined as “path of reconciliation and creativity”, for which the Synod in progress is called by him a path, made of openness and dialogue at a religious and social level, with a profoundly innovative, creative purpose, in view of a new evangelization under the guidance of the Spirit of Jesus (or Holy Spirit) that does not make a new Church, but the same Church renewed as in the origins, “not a different Church, but a different Church”.

Theobald’s book is placed within this framework of ideas. It is 190 pages well structured in six chapters of which we give here, in brief summary, the contents. Essential inspiration comes from the Scriptures as a “missionary travel report” that wants to continue in the Synod and is its soul (chap. 1); the A. the question is asked: “if synodality is a “constitutive dimension of the Church”, how is it constituted?”. The answer is clear and dominant: it is based on Baptism which creates a fraternal equality of the baptized; it takes its orientation and inspiration from Vatican II; for which the Church must always be understood as “people of God” (chap. 2); a clarification on the Synod itself follows: it is an intercontinental and intercultural journey (some experiences in Africa and Europe are reported, seen as “gifts” of the Holy Spirit) (chap. 3); a solid reflection on the soul of the synodal journey could not be missing: “A journey of spiritual and institutional conversion” (chap. 4); in chaps. 5 and 6 the strong points of the first synodal stage are summarized (until October 2024). The task that engages the Church in profoundly reforming itself remains central. Chap. 5 mentions the basic contents and problems: the renewed and indispensable participation of women in the life of the Church; the real involvement of all Christians and not only the clergy; a regained credibility especially with regard to scandals and institutional crises, underlining the importance of a structural and spiritual reform to regain the trust of the faithful; to this end the Church must renew its way of exercising authority, transforming it into an “authority of fraternity”, capable of promoting dialogue and inclusion; the Church should overcome internal and social conflicts through a spirit of brotherhood, thus contributing to cohesion in secular societies. Last but not least, theological science must give its contribution to the elaboration of emerging thoughts and proposals. In chapter 6 Theobald expresses, so to speak, his synodal dream with a statement that he repeats elsewhere: “synodality must be seen within a messianic vision of the world”.

He concludes by asking whether the breadth, novelty and depth of the synod can be outlined as “a council incognito?”. It is a question that, reading the book, sounds like a challenge: who and how can one say no?

 Cesare Bissoli

Istituto di Catechetica, UPS. Roma

XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Sapienza 7,7-11

      Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta. Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile. 
          
  • Il brano appartiene alla seconda parte del libro della Sapienza, là dove viene presentato Salomone, il saggio per antonomasia e la sua ricerca per la sapienza. Dopo una prima parte che metteva in luce la piccolezza di Salomone (cf. 7,1-6), il nostro brano mette in luce il valore della sapienza. L’idea madre sta qui: la sapienza è superiore a tutte le ricchezze.

     — Il v. 7 da l’intonazione perché qualifica la sapienza come dono di Dio, un bene che si chiede a Lui. Si tratta quindi di una realtà qualitativamente diversa da tutte quelle che l’uomo può acquisire da sé.

     — I vv. 8-10 fanno l’inventario dei beni solitamente ricercati: potere (v. 8), ricchezza (v. 9), salute e bellezza (v. 10). Viene utilizzata la tecnica del contrasto e della sproporzione: non è neppure ipotizzabile un raffronto tra questi beni e la sapienza, tanto questa li supera di gran lunga.

     — Il v. 11 recupera tutti i beni, come corredo della sapienza. Quindi, sembra suggerire l’autore, non viene snobbato nulla di quanto l’uomo incontra sulla terra.

     L’implicita raccomandazione – sull’esempio di Salomone che sceglie e preferisce la sapienza – è di ricercare i beni del cielo (tale è appunto la sapienza), sapendo che «tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 7,33).

Seconda lettura: Ebrei 4,12-13

         La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.    
  • Tra le ricchezze che il cristiano deve ricercare e possedere, va senz’altro annoverata la Parola di Dio. Il testo è un minuscolo ma prezioso trattato sul suo valore.

     La Parola di Dio, presentata sotto la metafora della spada (cf. Ef 6,17; Ap 1,16), è detta viva (in greco posto enfaticamente all’inizio), forse perché compie azioni importanti, vitali. È attribuita alla Parola una specie di personificazione (cf. Is 55,10ss.), che si manifesta anche nella caratteristica dell’essere efficace e tagliente. Ad esso viene attribuito un potere di discernimento che spesso la coscienza non possiede, perché intrappolata nei meandri di false rappresentazioni. La Parola di Dio svolge quindi la preziosa funzione di indagare, illuminare, orientare.

     Una vera bussola che il Signore pone sul cammino del credente e della comunità, per rendere più sicuro il suo cammino. Dono di Dio, è una ricchezza offerta agli uomini.

Vangelo: Marco 10,17-30

           [In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».] Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».  

Esegesi

     La professione di fede di Pietro divide in due parti il Vangelo secondo Marco: se prima Gesù era impegnato ad annunciare la Buona Novella a tutti, ora, senza rinunciare ad istruire la folla, coagula il suo interesse sul gruppo dei Dodici che ha fatto l’opzione per Lui.

     Troviamo materiale eterogeneo quanto a genere letterario, perché composto da un racconto di vocazione, da un ammonimento e da una risposta all’implicita richiesta di Pietro; però comune è la tematica, quella della ricchezza, una specie di filo conduttore che rinsalda le diverse parti. In dettaglio:

     — Gesù incontra un ricco e lo chiama alla sua sequela, vv. 17-22; il racconto è animato dal movimento iniziale di correre incontro a Gesù in contrasto con quello finale di allontanamento; il primo movimento sottintende una gioia della ricerca, il secondo è accompagnato da tristezza.

     — Colloquio di Gesù con i discepoli sulla ricchezza come ostacolo per l’ingresso nel regno dei cieli; la difficoltà viene superata dalla potenza divina, vv. 23-27.

     — Problema di Pietro circa la ricompensa alla sequela e la conseguente risposta di Gesù; esiste una ricompensa immediata e una futura, vv. 28-31.

     L’insegnamento rimbalza dai discepoli a tutti gli uomini che vogliono mettersi alla sequela di Cristo; esso porta luce e orientamento e, per il cristiano, diventa norma di vita.

     Notiamo un inizio elettrizzante di uno che corre incontro a Gesù: si presagisce qualcosa di interessante. Al movimento spaziale l’evangelista Matteo aggiunge anche un movimento temporale: secondo lui si tratta di un giovane: per Marco è chiaramente un adulto perché dirà «fin dalla mia giovinezza». Oltre alla corsa, il mettersi in ginocchio davanti a Gesù, denota la stima verso il maestro di Nazaret. C’è grande aspettativa.

     — «Maestro buono… Nessuno è buono, se non Dio solo». L’appellativo, di uso raro e insolito, sembra rifiutato da Gesù. In realtà, egli aiuta a capire dove sta la vera e unica sorgente della bontà, alla quale tutti devono attingere: il Padre; ce lo rammenta sempre la liturgia: «Padre santo, fonte di ogni santità…» (Prece eucaristica II). Chi ricerca la vita eterna, deve orientarsi verso quel Dio che ha espresso la sua volontà di santità nel decalogo.

     — «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare…». Gesù cita la quintessenza dell’alleanza al Sinai: si allinea con la migliore tradizione biblica di cui afferma l’autenticità e di cui conferma la continuità. La proposta della ‘seconda tavola’, quella che contiene i doveri verso il prossimo, dimostra che qui si gioca la veridicità dell’amore a Dio.

     — La risposta piace ma non propone nulla di nuovo: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». L’uomo che sta davanti a Gesù sente il bisogno di qualcosa che vada oltre; a lui il merito di aver intuito che Gesù può indicare quel qualcosa.

     — Il salto di qualità arriva negli atteggiamenti e nei sentimenti prima ancora che nelle parole. L’evangelista Marco ha regalato all’umanità il particolare stupendo dello sguardo e dei sentimenti di Gesù: «fissò lo sguardo su di lui, lo amò». È un dettaglio di toccante tenerezza, esclusivo del secondo vangelo. La forza di quello sguardo e la carica di quell’amore spingono ad accogliere il novum che l’uomo aveva vagamente percepito in Gesù e che ora si sente proporre: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».

     — Tutto gravita attorno a due poli che bilanciano la risposta: «Va’, vendi» e «Vieni! Seguimi!». Sono due coppie di imperativi che vivono un drammatico contrasto: movimento di allontanamento il primo, di avvicinamento il secondo. L’originalità sta nel prospettare la povertà evangelica e la sequela di Cristo, l’una come condizione dell’altra: «Il vero modo di tesorizzare presso Dio è quello di dare. Uno non ha quanto ha accumulato, bensì quanto ha donato» (S. Fausti). In ogni caso ci si deve allontanare da qualcosa per incamminarsi dietro a Qualcuno. Idee e progetti che prima si realizzavano in proprio, ora si realizzano in società, meglio, in comunione.

     — Gesù chiama quell’uomo a diventare suo discepolo; gli propone l’ideale suggestivo e arduo della sequela. Scrive Kierkegaard: «Diventare discepolo consiste nell’essere intimamente coinvolto in un drammatico e salutare confronto di contemporaneità con Cristo, invece di mantenersi nello stato di ammiratore disimpegnato». La vocazione a seguire Gesù esige un legame con la sua persona, perché Gesù non promette altro che se stesso e una rottura con il presente. Al di fuori di questa comunione saranno solo idee e progetti avventizi e sterili, destinati a vita breve e senza seguito. Il Cristo non chiede di essere sradicati o isolati, propone invece il legame e la comunione con Lui. Praticamente Gesù dice al ricco:  «Seguimi!». Lui e Lui solo è la meta dei comandamenti, la loro pienezza Gesù riprende la domanda del suo interlocutore che voleva qualcosa di più. La risposta è Gesù stesso: è Lui che fa la differenza con la risposta tradizionale, pur valida, ma insufficiente.

     — Quell’uomo ha paura dell’ignoto e preferisce l’ancoraggio al presente; perde il suo entusiasmo iniziale, smorzandosi in una tristezza che lo incupisce e lo allontana. La conclusione dell’episodio è quanto mai laconica: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni». Con il «se ne andò rattristato» si registra prima la tristezza che si e dipinta sul volto, all’esterno, seguita dalla motivazione «a queste parole»; si dà  poi l’analisi psicologica dello stato d’animo con quel «scuro in volto» seguito dalla seconda motivazione «possedeva infatti molti beni». La tristezza esteriore è più immediata ed è causata dalle parole di Gesù ha valore più transitorio. L’afflizione invece pesca nel profondo, intacca tutta l’esistenza e proviene dalla ricchezza alla quale l’uomo è schiavisticamente legato.

     Dalla corsa iniziale all’allontanamento finale: qui sta la miserevole vicenda di chi si arricchisce davanti agli uomini e non davanti a Dio.

     — Sussiste per tutti il pericolo della ricchezza (vv. 23-27). L’accaduto diventa occasione per un salutare monito a tutta la comunità ecclesiale. Le parole di Gesù «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!» ghiacciano l’uditorio e gettano nella costernazione i discepoli. Va ricordato che i discepoli erano cresciuti alla teologia dell’Antico Testamento che considerava la prosperità materiale come il sacramento della benedizione divina. Non si sa fin dove la predicazione profetica e la teologia dei salmi fossero riuscite a intaccare lo zoccolo duro dell’opinione popolare, del resto ampiamente accolta e propagandata dalla classe dei sadducei. Di fatto coesistevano l’ideale dei poveri di JHWH che ponevano la loro fiducia esclusivamente in Dio e la prassi dei ricchi che si ritenevano depositari della benevolenza divina perché potevano disporre di beni materiali. A Gesù spetta il non facile compito di ribaltare un pensiero comune e di profilarne un altro. Quasi incurante dello shock provocato, rincara la dose: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!». Gesù non fa sconti. Secondo lo stile orientale, l’idea viene sostenuta da un paragone: « È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». È una iperbole cioè una voluta esagerazione per far capire il messaggio (fallaci i tentativi di trasformare kamelos ‘cammello’ in kamilos ‘gomena corda di nave’, oppure di pensare ad una porticina delle mura di Gerusalemme denominata ‘cruna dell’ago’). Davanti ad una reale e consistente difficoltà, la soluzione viene dal Signore: «tutto è possibile presso Dio»; la frase, presa da Gn 18,14 (Sara e Abramo) ricorda il potere di Dio.  

     — Se quell’uomo ha fallito, i discepoli hanno lasciato tutto e seguito il Maestro, implicitamente viene chiesto che cosa toccherà loro (cf vv. 28-31). La risposta di Gesù è inaspettata e, come sempre, profonda: viene promessa una ricompensa futura, definitiva e una immediata, provvisoria. La prima è la «vita eterna», quella vita che il ricco aveva ricercato ma pure rifiutato, quella nella quale è impossibile entrare se si è ricchi. Quella provvisoria sta nel fatto che i discepoli di Cristo, rinunciando alla casa, alla famiglia e alla proprietà, ritrovano una nuova famiglia ed una casa nella comunità cristiana. Il pensiero è ben illustrato da Mc 3,34-35 dove Gesù aiuta a superare i legami familiari giuridici per ritrovare i legami della fede.

Meditazione

Il capitolo 10 del Vangelo di Marco, che stiamo ascoltando nella liturgia di queste domeniche, è un susseguirsi di domande rivolte a Gesù, che si lascia interrogare. Infatti il suo vivere tra di noi, la sua parola, il suo agire, suscita domande a donne e uomini spesso sicuri di sé, che volen­tieri evitano di mettere in discussione le loro abitudini e il loro modo di vivere. «La parola di Dio – e in Gesù la Parola si è fatta carne – è viva ed efficace, più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, e scruta i sentimen­ti e i pensieri del cuore». Così abbiamo ascoltato nella lettera agli Ebrei. Ci immaginiamo dal racconto evangelico un certo entusiasmo di quel tale, che corse incontro a Gesù, certo di avere una risposta a una domanda profonda che si portava nel cuore: «Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» Aveva osservato i comandamenti fin dalla giovinezza, come prescriveva la legge. Lo afferma in risposta al Signore quasi con una punta di orgoglio, ma anche di insoddisfazione, altrimenti perché si sarebbe rivolto a Gesù? Era un uomo buono, alme­no si sentiva tale, se con tanta sicurezza dichiara l’adempimento dei comandamenti. Eppure, nel suo correre verso il Signore, nel suo domandare, emerge un bisogno e una richiesta di qualcosa di più. E il Signore «fissò lo sguardo su di lui, lo amò». È lo sguardo profondo di Gesù, che penetra al di là delle paure e delle sicurezze dell’uomo.

Con questo stesso sguardo Gesù aveva fissato Pietro nel momento del rinnegamento e della paura, quasi per ricordargli lo sguardo dell’i­nizio, quando il fratello Andrea lo aveva condotto da lui. È uno sguardo pieno di amore, con cui il Signore vuole rispondere in maniera profon­da alla domanda di quell’uomo e di ognuno di noi. Esso, come per Pietro, diventa una domanda e un invito: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo, e vieni e seguimi.» Gesù nel suo amore coglie ciò che manca alla vita di quell’uomo, ricco, ma in difetto, non realizzato, non pienamente uomo, uno che non era riuscito ancora a raggiungere la pienezza della sua vita. Non per nulla in Matteo è un giovane, quasi a dire qualcuno che ancora deve raggiungere la maturità deve realizzarsi. In Marco è semplicemente «un tale». Potrebbe essere qualsiasi di noi. In quello sguardo pieno di amore il Signore coglie la situazione di ognuno di noi e del mondo in cui viviamo: donne e uomini ricchi, sazi nel loro benessere, forse anche fedeli ai comandamenti oppure onesti, come tanti si credono, ma non pienamente umani. Gesù nel suo invito svela l’insoddisfazione ed anche, si potrebbe dire, l’immaturità di quel ricco, che si era creduto già vicino alla vita eterna. Egli sembra dire che non basta essere vicini alla vita eterna, se si vive insoddisfatti e in maniera non pienamente umana.

L’invito del Signore a quell’uomo ricco è molto chiaro. Sì, ti manca qualcosa di essenziale. Va’, vendi quello che hai, separati dai tuoi beni, lascia quello che credi il tuo tesoro, vivi la solidarietà con i poveri e avrai un tesoro nel cielo. «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e la ricchezza», aveva detto parlando alle folle (Mt 6,24). La parola di Gesù è un ammonimento e un invito prezioso per la vita di ognuno di noi, non solo dei consacrati, come talvolta lo si intende. Gesù propone ad ogni discepolo un tesoro, che non è possibile acquistare, che non si ottiene con un benessere che lascia insoddisfatti. Questo tesoro è innanzitutto nel cielo. Ma il suo possesso comincia già fin da oggi. Infatti Gesù aggiunse: «Poi vieni e seguimi». La sequela è anche separazione da qualcosa di nostro. Noi a fatica sappiamo separarci da quello che abbiamo, anzi molti vivono per possedere, spendono energie e sostanze solo per il loro interesse. La vita dei poveri, la miseria di molti, non li tocca, non li muove a compassione. Lo aveva detto Gesù poco prima nel vangelo di Marco: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso», cioè si separi da se stesso, «prenda la sua croce e mi segua». (8,34). E più avanti: «Se la tua mano, il tuo piede, tuo occhio… ti scandalizzano, tagliali È meglio entrare nella vita con una mano, un piede, un occhio soli, che con due nella Geenna». (9,43-47). Oggi si fa fatica a rinunciare a qualcosa, anzi soprattutto nella crisi abbiamo paura di perdere il benessere in cui abbiamo vissuto. Così la misura è il calcolo, la paura fa alzare muri davanti agli altri, soprattutto ai poveri. «Seguimi» è un invito a vivere in maniera pienamente umana, a diventare grandi come Gesù nell’amore, a respirare la libertà del dare gratuitamente, così come abbiamo ricevuto. Ma quel ricco, conclude con una punta di amarezza il vangelo, «a queste parole si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.» Nella paura di perdere quello che abbiamo, nell’attaccamento ai beni, crescono donne e uomini tristi, afflitti, insoddisfatti, mai lieti per quello che hanno, poco generosi e molto calcolatori, stretti di cuore. Sembra lo specchio di una grande parte del mondo in cui noi abbiamo la grazia di vivere.

Appaiono così più chiare le parole del Signore di fronte alla scelta dell’uomo ricco: «Quanto è difficile per coloro che hanno ricchezze entrare nel regno di Dio!» E i discepoli rimasero stupefatti e pieni di domande. «E chi può essere salvato?» Gesù per la seconda volta «fissò i discepoli e disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”». Ancora una volta lo sguardo di amore del Signore comprende il nostro smarrimento, soprattutto il senso di impossibilità, il pessimismo che domina il nostro cuore. La sua parola è un chiaro invito alla fede. Gesù ci insegna a credere, ad affidarci a Dio, a vincere la paura con la fiducia e l’ascolto. La fede fa vivere. Non solo! Quel seguimi è un invito a credere, a fidarsi, a non ascoltare le ragioni del nostro mondo ricco, rassegnato e insoddisfatto. Gesù non chiede di buttare a mare tutto quanto abbiamo: non è questo il senso della frase evangelica. La decisione che questa pagina evangelica vuole provocare in noi riguarda il primato da dare a Dio sopra ogni cosa. Gesù ci chiede di porre Dio al di sopra di tutto, anche dei beni che abbiamo, e. di considerare i poveri come nostri fratelli verso i quali siamo debitori di amore e di aiuto. Essi hanno diritto al nostro amore e al nostro aiuto. Quel che chiede il Signore, a prima vista, ha i tratti di una rinuncia e in parte lo è, ma è soprattutto una grande sapienza di vita. Ovviamente si tratta non della sapienza del mondo che spinge a rinchiudersi in se stessi e nelle cose del mondo, ma della sapienza che viene da cielo, di cui ascoltiamo dalle Sante Scritture: «La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto; non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta» (Sap 7,8-10). La risposta di Gesù alla richiesta che Pietro ha fatto a nome dei discepoli spiega concretamente le conseguenze di tale sapienza evangelica: chi abbandona tutto per seguire Gesù (ossia, chi pone Gesù al di sopra di ogni cosa) riceverà in questa vita il centuplo e, dopo la morte, la vita eterna. È l’esatto contrario di quello che nor­malmente si pensa, ossia che la vita evangelica sia innanzitutto privazio­ne. Così pensò anche l’uomo ricco. In verità, la scelta di seguire il Signore sopra ogni cosa è sommamente «conveniente», non solo per salvare la propria anima nel futuro, ma anche per gustare «cento volte» la vita su questa terra. Il brano tratto dal libro della Sapienza conclude: «Insieme a lei (la sapienza che viene dal cielo) mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile». Chi mette Dio al primo posto nella sua vita, entra a far parte della Sua «famiglia» ove trova fratelli e sorelle da amare, padri e madri da venerare, case e campi ove lavorare. Trova l’amore.

Quel seguimi conduce così i discepoli in un mondo largo, quello della famiglia di Dio, il mondo senza confini dei fratelli, delle sorelle, delle madri, dei padri, dei figli, dei campi e delle case. Qui noi già rice­viamo il centuplo, ciò che quel ricco cercava senza saperlo. Questa condizione è come un’anticipazione della vita eterna, perché è il modo di vivere di Dio, non per sé, ma in comunione, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Signore vuole che noi già fin da oggi gustiamo la gioia e la dolcezza di questa vita in comunione, che fa della libertà una scelta di amore, della ricchezza un dono immeritato, della vita cristiana una proposta spirituale in un mondo dominato dalle cose e dall’io. Nella Liturgia Eucaristica possiamo rendere lode e ringraziare il Signore con tutto il cuore perché ha guardato con amore a ognuno di noi e ci ha detto «seguimi». Ringraziamolo perché ci ha concesso la sapienza di una vita pienamente umana, perché guidata dalla luce del Vangelo.

L’immagine della domenica

Terminillo (Monti Reatini)     –      2021  

«La gente viaggia per meravigliarsi dinnanzi all’altezza delle montagne, alle enormi onde del mare, ai lunghi corsi dei fiumi, alla vastità dell’oceano, al movimento circolare delle stelle; eppure passano davanti a se stessi senza nemmeno accorgersene».

(Sant’Agostino)

Casella di testo: Sapienza 7,7-11
Ebrei 4,12-13
Marco 10,17-30

Una cosa ti manca, va', vendi, dona.... Quell'uomo non ha un nome, è un tale, di cui sappiamo solo che è molto ricco. Il denaro si è mangiato il suo nome, per tutti è semplicemente il giovane ricco. Nel Vangelo altri ricchi hanno incontrato Gesù: Zaccheo, Levi, Lazzaro, Susanna, Giovanna. E hanno un nome perché il denaro non era la loro identità. Che cosa hanno fatto di diverso questi, che Gesù amava, cui si appoggiava con i dodici? 
Hanno smesso di cercare sicurezza nel denaro e l'hanno impiegato per accrescere la vita attorno a sé. È questo che Gesù intende: tutto ciò che hai dallo ai poveri! Più ancora che la povertà, la condivisione. Più della sobrietà, la solidarietà. Il problema è che Dio ci ha dato le cose per servircene e gli uomini per amarli. E noi abbiamo amato le cose e ci siamo serviti degli uomini...

Quello che Gesù propone non è tanto un uomo spoglio di tutto, quanto un uomo libero e pieno di relazioni. Libero, e con cento legami. Come nella risposta a Pietro: Signore, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio? Avrai in cambio una vita moltiplicata. Che si riempie di volti: avrai cento fratelli e sorelle e madri e figli... 

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Il Vangelo chiede la rinuncia, ma solo di ciò che è zavorra che impedisce il volo. Messaggio attualissimo: la scoperta che il vivere semplice e sobrio spalanca possibilità inimmaginabili.
(Ermes Ronchi)

Preghiere e racconti

“Perché gli adulti si affannano tanto ad accumulare cose?”

“Pensare che la felicità dipenda dal possesso di qualcosa è un autoinganno rassicurante. Siccome la cosa importante diventa avere o non avere, la ricerca si orienta verso qualcosa che è al di fuori di noi, evitandoci la fatica di guardare nella nostra interiorità. Seguendo questo ragionamento, possiamo essere felici senza cambiare, semplicemente ottenendo questo o quello.”

“E la gente non se ne rende conto?” insistette il giovane principe, che evidentemente faceva una gran fatica a credere che l’umanità fosse così cieca.”

“Il problema, mio giovane amico, è che la nostra società ha moltiplicato a tal punto le cose da desiderare che la gente non capisce di aver sbagliato strada finché non si è accaparrata l’ultima della lista. Lo sai come si aggrappano a qualsiasi possibilità, per remota che sia, pur di non ammettere che sbagliano e devono cambiare. Il fatto è che quando finalmente mettono le mani su questa benedetta ultima cosa, hanno perso la prima. Sono come quei giocolieri che lanciano in aria sette cappelli insieme. E pensa che sono solo sette! Ma la cosa peggiore è che la gente sa solo quello che vuole sul momento, quando è vicina a raggiungere ciò che voleva. E allora si scopre che quello che ritenevano il loro obiettivo finale non lo era davvero, e così sciupano la vita in una continua ricerca infruttuosa, saltando di cosa in cosa, come se questi oggetti fossero le pietre di un fiume che non finiranno mai di attraversare. In linea generale, chi è ossessionato dal desiderio di possedere rimane intrappolato nel futuro. Non vive mai il presente e non se lo gode, perché la sua attenzione è orientata a qualcosa che sta sempre per succedere.”

(A.G. ROEMMERS, Il ritorno del giovane principe, Corbaccio, Milano, 2012, 60,61)

Ti mancava una cosa sola

Non sappiamo il tuo nome, ma meglio così, sei tutti noi. Eri ancor giovane, dice qualcuno, ma avevi già un passato da raccontare e una posizione ce l’avevi, economica e non solo. Eri anche una persona perbene, un bravo ragazzo, come si dice.

Vorremmo tornare a quel tuo incontro straordinario con Gesù, il giorno che passò dal tuo paese. Chissà anche tu quante volte ci sarai ritornato su, col pensiero, nella tua vita di poi, nelle notti insonni o nelle pause del giorno.

Dovevi esserne rimasto affascinato. Dovevi aver detto anche tu: “Nessuno parla come costui!”. Quel giorno, mentre stava andandosene, non hai voluto perdere l’occasione di incontrarlo. Ti sei slanciato verso di lui senza ch’egli ti cercasse (o non era forse lui quella nostalgia d’infinito che già bruciava in te?), gli sei caduto alle ginocchia, come i tuoi servi davanti a te, gli ha posto la domanda cui solo lui, ne eri certo, poteva rispondere: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Forse ne avevi sentito parlare da lui, fatto sta che tu ci credevi, che la tua storia non sarebbe finita su questa terra.

Il Maestro t’aveva rimesso, al di là di ogni infatuazione, davanti all’Unico buono. Lui dunque da amare anzitutto. E t’aveva snocciolato i comandamenti delle relazioni umane secondo Dio. Non era facile per te esservi fedele, ma ce l’avevi fatta. Non avevi ammazzato nessuno, lasciavi ad ognuno la sua donna e i suoi beni, e mai nessuno avevi danneggiato con la menzogna e l’inganno. Tuo padre e tua madre li avevi rispettati, ci mancherebbe altro. Con che gioia hai detto a Gesù: “Ho sempre obbedito a questi comandamenti”.

Gesù non ti ha guardato, semplicemente, come si guarda uno che parla; ti fissò, dice Marco, che, benché di poche parole, precisa: ti amò. Era come se volesse per primo offrirti quel più d’amore che stava per chiederti. “Una sola cosa ti manca: va’ vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”.

Non avresti mai pensato che ti chiedesse tanto. Forse un’elemosina più consistente, pensavi, una preghiera più lunga, una penitenza. Ti è mancato il fiato. In un istante hai rivisto tutto quello che avevi e quello che speravi di avere. Il frutto delle fatiche dei tuoi padri e tue a chi non ne aveva diritto? e poi… seguire Gesù: dove? con che prospettive?

Inutile chiederti com’è stato che hai scelto liberamente eppure sei rimasto triste. La conosciamo questa tristezza, questa falsa libertà. Il dramma di non volare alto per godere a bassa quota eppure rimanere infelici. L’impotenza di vedere il bene, di volerlo anche, senza riuscire a sceglierlo. Eccome, se ti capiamo.

Vorremmo però capire che cosa non ha funzionato nella tua storia, cioè nella nostra. Anche Simone e Andrea non avevano ancora capito niente di Gesù, anzi, non gli avevano neppure fatto la tua bella domanda, e forse non erano neppure osservanti come te. Eppure, subito, l’hanno seguito. Perché loro sì e tu no?

“Perché aveva molti beni”, sembra aiutarci Marco. Il mistero della ricchezza! S’attacca al cuore, alla mente, alla volontà come una zavorra. Uno apre le ali e non sa più volare. Uno prova ad amare e non dà che qualche battito. Uno prova a camminare, ma non ce la fa a trascinare tutto. Ad ascoltare, ma le orecchie sono tappate. A vedere, ma è come se non vedesse. Esigenze, esigenze, esigenze. Guai se manca una cosa, guai se non c’è l’altra.

A differenza di te che almeno te ne sei andato triste e hai misurato l’enorme nostalgia che, chissà, forse un giorno avrebbe potuto spingerti a tornare, noi invece crediamo che si può mettere insieme l’avere molto e la vita eterna, l’accumulo dei beni e la fede in Gesù Cristo. Credici, amico lontano, siamo ben più disgraziati noi. Fa’ una cosa, regalaci un po’ della tua tristezza, anzi tutta.

La conoscenza di sé e conoscenza di Dio

La tradizione islamica ha conservato un hadît secondo il quale chi conosce se stesso conosce il suo Signore. Un passo neotestamentario è significativo di questa ricerca concomitante di sé e di Dio. In Mc 10,17-22, «un tale», un personaggio anonimo, dunque in cerca della propria identità, corre da Gesù e si getta ai suoi piedi interrogandolo su come ottenere la vita eterna (v. 17). In questa persona (che non è «un giovane» come in Mt 19,20 e neppure «un capo» come in Lc 18,18, ma appunto solo «un tale») si coniugano dunque ricerca di Dio e ricerca di identità personale. E questa ricerca si esprime in una domanda: «Che cosa devo fare?» (v. 17). La risposta di Gesù non è estrinseca, non è rivolta verso l’esterno, non è sbilanciata sul piano del «fare», ma propone un itinerario interiore. Gesù pone una contro-domanda che conduce il suo interlocutore a interrogarsi sul movente profondo, sul perché di quella ricerca. Gesù lo fa andare al fondo di se stesso. L’itinerario che Gesù propone comprende infatti, anzitutto, la conoscenza di sé, l’ordinamento delle relazioni umane con gli altri, con le realtà esterne, con la propria storia famigliare (i comandi etici del decalogo ricordati nel v. 19). Quindi, la rivelazione della povertà profonda, della mancanza che abita il suo interlocutore («una cosa ti manca»: v. 21), non dopo però avergli apprestato lo spazio di amore al cui interno accogliere tale rivelazione e superarla grazie alla relazione con Gesù stesso (v. 21: «Gesù fissatelo lo amò e gli disse: “… vieni e seguimi”»). Conoscenza di Dio e conoscenza di sé, dice questo testo, passano attraverso l’adesione alla persona di Gesù Cristo. L’anonimo interlocutore di Gesù però rifiuta il rischio del farsi amare e di ricevere la propria identità nella relazione con un altro, e così resta senza nome, senza volto, definito solamente da ciò che ha, da ciò che possiede: «Se ne andò afflitto perché aveva molti beni» (v. 22).

(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi. Emergenza di un tema e sue ambiguità, Magnano, Qiqajon, 1999, 12-13).

Quello che non abbiamo cercato

“Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.

(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).

Incontrare Cristo

«Incontrare Cristo significa mettervi sulla strada dell’esperienza dell’amore, della gioia, della bellezza, della verità. Decidere di non custodire e di non approfondire il segreto dell’incontro con lui equivarrebbe a condannarsi a una vita senza senso e senza amore. Vorrei soprattutto dirvi, non abbiate paura, non abbiate timore di aprirvi a Cristo, di entrare nel suo mistero».

(Card. C.M. Martini).

«Non potete servire a Dio e a mammona»

Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26). La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» ( 16,1 -13). In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo. Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.

La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona». Eppure questo non significa un masochismo pauperista. Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola. La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).

(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).

Ricchezza-Felicità

1. Marco narra di un tale (Mc 10,17), giovane di età secondo Matteo (Mt 19,20), notabile non più giovane secondo Luca (Lc 18,18.21), di condizione benestante: «Possedeva molti beni» (Mc 10,22), «era molto ricco» (Lc 18,23). Un possidente con un interrogativo che gli attraversa l’anima, è nell’abbondanza economica e nella stima sociale, ha ereditato l’ereditabile, eppure è inquieto e non pienamente soddisfatto.

Gli manca qualcosa, un deficit che fa di quell’uomo un essere di ricerca che con sollecitudine non teme di varcare la soglia della sua abitazione e della sua condizione per incrociare, quale mendicante di frammenti di luce, la via di un tale di nome Gesù che passava di là. Un caso che il desiderio di trovare una via d’uscita alla propria domanda ha convertito in evento, quello dell’incontro. Una prima annotazione. Solo il desiderio di altro e di incontri di senso fa dell’io murato in se stesso, nelle sue sicurezze e nelle sue paure un «homo viator», una creatura della strada capace di fiutare chi passa per via.

E’ il caso del ricco del racconto evangelico che spinto dalla brama di una parola di sale al suo interrogativo esce dai suoi confini, corre da Gesù, si inginocchia davanti a lui e lo rende partecipe del suo problema: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (Mc 10,17). Da annotare come quest’uomo di domanda e di ricerca si riveli altresì uomo di discernimento, indice dell’urgenza del saper distinguere i buoni dai cattivi maestri, una soglia non sempre facile da varcare.

E uomo di invocazione, la sua sete di conoscenza del che fare si affida a una fontana di nome Gesù detto Maestro perché sa insegnare, sa cioè trasmettere segni, parole-simboli-gesti, che sono chiavi di lettura in grado di orientare in positivo il cammino dell’uomo dentro la complessità del reale. Detto Maestro buono perché insegna ciò che è buono-bene (Mt 19,17), vale a dire Dio e la sua via, e perché testimonia con la vita ciò che insegna. In lui parola e gesto sono indissolubilmente congiunti.

2. La narrazione evangelica è davvero una «lezione magistrale» nel suo iniziare a una intelligenza semplice e profonda della figura della «soglia», nel suo dirci che il confine lo si varca quando si coniugano percezione di una mancanza, desiderio di colmarla e coraggio di attingere acqua che sgorga da presenze di saggezza, veicoli della Sapienza di Dio fatta carne in Gesù. E’ questa la prima tappa di un cammino a cui segue quella della indicazione della via da intraprendere per pervenire alla meta della vita eterna, la via del prendere in mano la propria vita e del chiedersi qual’è la ragione vera che la sostiene e la dirige.

Ragione che di fatto diventa legge al cammino dell’uomo, legge che per Gesù sono i comandamenti definiti dalla Torà, specificatamente quelli della seconda tavola che si riferiscono ai doveri verso il prossimo; precetti da leggersi alla luce dell’«amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). In sintesi l’esodo verso la terra promessa di una vita bella e buona, umanissima quindi e sottratta al potere della morte, è la via del bene a cui si accede, suggerisce Gesù, varcando la soglia della Legge-Torà.

Alla domanda che aprendo varchi introduce nei sentieri della ricerca succede la sorpresa di un incontro che apre la porta a una parola di senso, a un esistere che trasforma il presente e dischiude al futuro. Un esserci nel bene nella lucida, amata e voluta consapevolezza che cosa buona è non uccidere l’uomo: il suo sangue, i suoi legami e il suo diritto a relazioni nella non doppiezza, nella non illusione e nell’onore (Mc 10,19), e non sono che esempi, sono il tuo limite e la tua verità.

Il volto dell’altro, che è insieme interpellazione categorica e invocazione struggente a non essere violato in sé, nei suoi affetti, nei suoi pensieri e nelle sue cose, diventa la rivelazione del tuo volto, della tua verità: divenire il custode dell’altro. Senza condizioni come testimonierà il consegnarsi in amore e libertà di Gesù a coloro che lo hanno consegnato a morte.

Una soglia, questa della custodia, attraversata dal ricco: «Maestro,tutto questo l’ho custodito fin dalla mia giovinezza» (Mc 10,20), una confessione che libera in Gesù uno sguardo d’amore nei suoi confronti tradotto in una singolarissima parola: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi! Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (Mc 10,21-22).

La soglia data da una chiamata personalissima, il passare oltre divenendo compagno di viaggio di un amico trovato condividendone il sogno di dedizione incondizionata di sé e di donazione totale di ciò che si ha a vantaggio del povero mondo, non è stata varcata. A motivo di un amore più grande, la ricchezza.

E un uomo chiamato a divenire senza riserve la sua verità, il perdersi per un amico e il perdere per i poveri, ciò che gli mancava per essere compiutamente se stesso, nel negarsi a questo finisce per varcare la soglia dell’oscurità e della tristezza. La luminosità e la gioia di chi si consegna all’orizzonte del dono lasciano il posto all’oscurità e alla tristezza figlie della conservazione di sé e di ricchezze murate.

3. Un capitolo attualissimo, quello del rapporto ricchezza-felicità sotteso al brano evangelico. Il ricco che ha varcato la soglia della giusta domanda, se vi sia un presente che meriti futuro e un modo di essere e di esistere che renda sensato e felice il giorno dato a vivere, giorno proteso a una fioritura che neppure la morte può interrompere, si è arrestato dinanzi alla proposta e da quel momento, le cose non saranno più come prima, entra nella tristezza, si è preclusa la felicità.

(Giancarlo Bruni)

Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro?

Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi. Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro. È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria. Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.

Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria. Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza. Vogliono averne sempre di più. Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia. In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro. Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso. Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri. Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri. Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità. Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri. O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano. Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.

Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro. Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo. Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli. Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente. Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità. E sono necessari criteri etici. Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici. Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia. Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità. È necessaria soprattutto la libertà interiore.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).

Che cosa è tuo?

«A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro. Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti. Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi. Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.

Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti. Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno?

Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente. Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno. E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.

Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra. Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.

(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).

Preghiera

Sono io, Signore, Maestro buono, quel tale che tu guardi negli occhi con intensità di amore. Sono io, lo so, quel tale che tu chiami a un distacco totale da se stesso.

È una sfida. Ecco, anch’io ogni giorno mi trovo davanti a questo dramma: alla possibilità di rifiutare l’amore. Se talvolta mi ritrovo stanco e solo, non è forse perché non ti so dare quanto tu mi chiedi? Se talvolta sono triste, non è forse perché tu non sei il tutto per me, non sei veramente il mio unico tesoro, il mio grande amore? Quali sono le ricchezze che mi impediscono di seguirti e di gustare con te e in te la vera sapienza che dona pace al cuore?

Tu ogni giorno mi vieni incontro sulla strada per fissarmi negli occhi, per darmi un’altra possibilità di risponderti radicalmente e di entrare nella tua gioia. Se a me questo passo da compiere sembra impossibile, donami l’umile certezza di credere che la tua mano sempre mi sorreggerà e mi guiderà là, oltre ogni confine, oltre ogni misura, dove tu mi attendi per donarmi null’altro che te stesso, unico sommo Bene.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO

XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Genesi 2,18-24

        Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.  
  • Il brano è stato scelto perché richiamato dal Vangelo odierno. Esso è desunto dal cosidetto racconto jahvista della creazione dell’uomo (Gen 2). Si tratta di un racconto sulle origini, che vuole cioè risalire alle condizioni fondamentali e originarie dell’esistenza umana. Prima di dare inizio alla storia degli uomini, si parla delle condizioni stesse nelle quali si svolge tale storia.

     1. Annotazioni – Il brano mette in evidenza due dimensioni essenziali dell’esistenza umana: prima dimensione, i presupposti positivi di un’esistenza felice, che Dio stesso crea e mette sul cammino dell’uomo, associandoli al suo apparire nel mondo: una natura meravigliosa (il giardino), aiuto nel lavoro (gli animali), amicizia ed amore tra uomo e donna, ecc. (Gen  2); seconda dimensione, condizioni negative, derivate dal peccato dell’uomo: vergogna davanti a Dio, rapporti conflittuali tra uomo e donna, tra fratello e fratello; sproporzione tra gli sforzi investiti nel lavoro ed i risultati ottenuti (Gen 3-4).

     — Dio parla di un male dell’uomo, che intende superare mediante la sua creazione, cioè il «male» della solitudine (v. 18). Gli uomini giungono alla pienezza del loro essere soltanto nel vivere comune. Vivere da soli è una sofferenza, è un male («non è bene che l’uomo sia solo»).

     — Gli animali costituiscono un aiuto per l’uomo, ma non si trovano al suo stesso livello (vv. 19-20). Non possono né porsi in dialogo paritetico con l’uomo, né tantomeno sostituirlo.

     —L’immagine della «costola», dalla quale è «costruita» la donna (v. 22) sta ad indicare che l’uomo e la donna sono formati dalla stessa sostanza e perciò si appartengono mutuamente. Sono parenti, non sono estranei tra loro.

     —Adamo esprime questo rapporto parentale tra lui e la donna. Le parole: «osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (v. 23) sono espressioni proverbiali, che significano appunto parentela, appartenenza.

     — L’unione tra uomo e donna, che fonda una nuova famiglia, è più forte del legame che unisce figli e genitori (v. 24).

     — Da sottolineare infine l’assoluta parità tra uomo e donna messa in chiaro dal testo biblico. L’espressione «un aiuto che gli corrisponda» non vuole significare un aiuto in senso strumentale, subordinato, bensì un completamento, senza del quale non sarebbe possibile alcuna attività umana; le parole che completano la frase «che gli corrisponda» stanno ad indicare, appunto, la corrispondenza e la parità tra i due. Sarà il peccato a trasformare questa parità in disuguaglianza (Gen 3,16). Si può dire: la parità corrisponde alla volontà originaria di Dio; la disuguaglianza è conseguenza del peccato.

Seconda lettura: Ebrei 2,9-11

       Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.     
  • Siamo all’interno dell’introduzione della Lettera agli Ebrei, che sviluppa tutta una cristologia: in primo luogo l’Autore paragona Gesù ai profeti (1,1-2) e in secondo luogo alla Sapienza personificata ed agli angeli (1,4-2,19). Gli angeli sono certo esseri celesti, ma Gesù, come uomo, è superiore a loro. Mediante questi confronti la Lettera agli Ebrei esprime la fede nella divinità di Gesù.

     Siccome Gesù si è abbassato al di sotto degli angeli, benché superiore ad essi, è stato incoronato di onore e di gloria (v. 9). Ciò corrisponde all’interpretazione cristologica del salmo 8.

     — C’è di più: Gesù non solo si è umiliato, abbassandosi al di sotto degli angeli. È andato oltre, ha addirittura sofferto la morte per tutti, e anche per questo gli è stata data la gloria. Si tratta dello stesso pensiero che troviamo nell’inno di Fil 2,6-10. Il volontario abbassamento di Gesù affrontato con la morte diventa causa della sua speciale esaltazione divina.

     — Si presenta un parallelo tra creazione e redenzione (v. 10): come il mondo creato è opera di un solo Dio («per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose»), così anche l’opera della salvezza deve essere un’opera unica.

     — Tra Colui che santifica e coloro che vengono santificati esiste una (misteriosa) comunione. La santità dell’uno si trasmette ai molti, sì che la santità abbraccia tutti. In tal modo la santità costituisce una famiglia, un legame tra fratelli e parenti («non si vergogna di chiamarli fratelli»).

     — In poche parole, la Lettera agli Ebrei mostra lo stretto rapporto di appartenenza che esiste tra Gesù Cristo, che si abbassò nella morte, e tutti gli uomini che possono aver parte alla sua gloria ed alla sua santità.

Vangelo: Marco 10,2-16

        In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».  A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio». Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.        

Esegesi

     Il vangelo odierno si inserisce esattamente agli inizi del percorso compiuto da Gesù nel territorio della Giudea (10,1) verso Gerusalemme, e cioè verso l’ora della sua passione e morte, annunciata già due volte (8,31ss.; 9,30 ss.). Le discussioni, come quella di oggi sul divorzio e poi sulla sua autorità, il tributo a Cesare, la risurrezione dei morti ed il primo comandamento segnano un crescendo, che prepara l’esplosione finale dell’ostilità contro di lui, con la decisione di metterlo a morte. Il che conferisce una tensione drammatica ad ogni dettaglio delle controversie, che non sono puramente accademiche nel magistero di Gesù. Inoltre l’aver egli varcato i confini della Giudea, sottoposta alla giurisdizione di Erode, aumenta il rischio cui vogliono esporlo i Farisei con la domanda sul divorzio. Erode ha recentemente ripudiato sua moglie, vivendo in relazione adultera con quella del fratello, per questo aspramente redarguito da Giovanni Battista (Mc 7,17-29). Con la sua risposta, Gesù o avrebbe sconfessato il Battista, che il popolo teneva in grande considerazione, oppure sarebbe incorso nel furore del re e della vendicativa Erodiade.

     «È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?» (vv. 2-4). La legge di Mosè accordava al marito il diritto di rimandare la moglie se avesse trovato in lei «un fatto indecoroso» (Dt 24,1). Al tempo di Gesù, questo era oggetto di discussione tra due scuole rabbiniche: quella rigorista di Shammai che riconosceva legittimo motivo solo il caso di adulterio da parte della moglie, quella lassista di Hillel che ammetteva come valido qualsiasi motivo, anche il più futile. I farisei con la loro domanda «mettono alla prova» Gesù, volendo indurlo subdolamente a pronunciarsi a favore o dei rigoristi o dei lassisti, per poi accusarlo.

     «Per la durezza del vostro cuore» (vv. 5-6). Gesù non si lascia coinvolgere nelle dispute di scuola, ma si vale di due principi ermeneutici che risolvono l’apparente problema: il primo dichiara che la legge mosaica non ha valore di precetto, ma di «concessione» accordata alla «durezza di cuore» (in greco sklerokardìa), vale a dire all’incapacità umana di intendere e fare la volontà di Dio. Il secondo principio risale alla volontà originaria di Dio («all’inizio»), che si esprime nel suo progetto creatore, anteriormente al peccato e alla ribellione dell’uomo, volontà divina che nessuna legge successiva può invalidare.

     «Chi ripudia la propria moglie… e se lei, ripudiato il marito» (vv. 11-12). Donna ed uomo sono messi sullo stesso piano. Non è solo la donna colpevole di adulterio verso il marito (come si riteneva al tempo di Gesù, stando a come viene enunciata la domanda dei Farisei), ma anche il marito si rende colpevole di adulterio se rimanda la propria moglie e prende una donna sposata. I diritti sono uguali, in linea con quello che Gesù ha detto sulla volontà originaria di Dio. Chiunque li lede, uomo o donna, commette peccato di adulterio.

     «Gli presentavano dei bambini perché li toccasse» (vv. 13-16). Posta ad immediato seguito delle dichiarazioni precedenti, la scena dei bambini e le parole che Gesù rivolge ai discepoli (v. 15) assumono un significato particolare. La «logica» su cui è fondato il vincolo matrimoniale è la stessa che si richiede per entrare nel regno di Dio: i bambini sono simbolo di questa logica, che non si ostina a far valere i propri diritti o a misurare i torti degli altri, che non persegue secondi fini, né avanza pretese, ma si affida a Dio con assoluta semplicità filiale.

Meditazione

     «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18). Dopo averlo chiamato alla vita, il desiderio di Dio chiama l’uomo alla comunione. Non nella solitudine, ma nell’incontro e nella relazione l’adam può essere davvero a immagine e somiglianza di Colui che lo ha creato e lo custodisce nell’esistenza. «Voglio fargli un aiuto», afferma più precisamente Dio. ‘Aiuto’ in ebraico è detto con un termine (‘ezer) che solitamente nel Primo Testamento ha per soggetto Dio. Dio è infatti ‘aiuto’ per l’uomo, ma la sua prossimità e il suo sostegno si rendono presenti anche mediante le relazioni che gli uomini vivono tra loro. Soprattutto in quella relazione singolare che si stabilisce tra l’uomo e la donna, dove l’alterità, non l’uguaglianza, diventa luogo di comunione. Tra noi essere umani non possiamo vivere un’alterità maggiore di quella che sussiste tra l’uomo e la donna, eppure è proprio questa differenza a essere chiamata a diventare una ‘sola carne’. «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (v. 24). È questa unità nella differenza a divenire segno dell’alleanza, cioè di quel rapporto con Dio che all’uomo è donato di accogliere nella sua esistenza. Dio è l’Altro, il Trascendente, il Creatore, eppure con l’uomo egli vuole stabilire la sua comunione, oltrepassando ogni distanza. Vivendo in una relazione d’amore e di dono reciproco, fino a divenire una sola carne, l’uomo e la donna intuiscono che tale deve essere anche la loro relazione con Dio: persino la differenza che c’è tra il Creatore e la sua creatura può essere vissuta – questo Dio promette ad Adamo donandogli Eva – non come lontananza o separazione, ma come spazio di dono, di incontro, di comunione. L’astuzia del serpente ingannerà Adamo ed Eva; mentendo li indurrà a credere il contrario. La distanza che c’è da Dio è incolmabile, Dio non la vuole riempire con il suo dono e la sua prossimità, e allora Adamo, questa è la terribile suggestione del peccato, dovrà conquistarla con le sue mani, anziché accoglierla da quelle di Dio. E il peccato comprometterà non solo la buona relazione con Dio, ma anche quella tra Adamo ed Eva. Tra loro, anziché la logica del dono, si insinuerà, a causa del peccato, quella del potere o del possesso.

     La comunione, infatti, ha i suoi criteri. Diventare una sola carne è possibile solo se si è disposti ad assumere in se stessi la logica di Dio. Il racconto della Genesi ce lo ricorda, con un linguaggio simbolico, ma nello stesso tempo suggestivo ed eloquente. Eva è creata ed è donata ad Adamo nel sonno, mentre costui dorme. Adamo non ha nessun potere su di lei. Non è lui a progettarla, a immaginarla, neppure a meritarla; la può solo accogliere come dono gratuito per la sua vita. Se può imporre il nome a tutte le altre creature del giardino, non può farlo con Eva. «La si chiamerà donna» (v. 23). Più che imporre un nome, Adamo deve riconoscerlo e riceverlo da altri. Nel simbolismo biblico dire il nome di una realtà significa poter esercitare il proprio dominio su di essa. Ma non sarà così tra Adamo ed Eva.

     Adamo non potrà dominare Eva né esserne dominato: sono l’uno davanti all’altra, nella loro reciproca uguaglianza, «osso delle mie ossa e carne della mia carne» (v. 23). Diversi, ma eguali; diversi non per dominarsi o sottomettersi, ma per essere in comunione l’uno con l’altra. Adamo dorme, ma Dio gli dona Eva togliendogli una delle costole e richiudendo la carne al suo posto (cfr. v. 21). Questa ferita è come il simbolo della vita di Adamo che deve aprirsi a sua volta al dono. Eva è un dono di Dio per Adamo, ma è un dono che passa attraverso la vita stessa di Adamo che nella ferita del suo costato viene dischiusa al dono. Ricevendo il dono di Dio Adamo riceve se stesso in modo diverso, come un donatore. La sua è una ferita aperta e richiusa, perché è entrando in questo spazio del dono che la vita di Adamo si compie pienamente. Solo in questo momento egli diviene compiutamente uomo, in una sorta di seconda nascita. «Così l’uomo nasce facendo nascere» (P. Beauchamp). La benedizione di Dio, il suo dono per la nostra vita, lo si accoglie sempre così: nello spazio di una ferita, di un’esistenza cioè che si lascia trasformare e aprire dall’azione di Dio non alla dinamica del possesso, ma a quella del dono.

     Nell’evangelo Gesù ricorda che è per la durezza del nostro cuore che Mosè scrisse la norma sul ripudio, ma non è questo il disegno originario del Padre. Un cuore duro è appunto un cuore che non sa vivere in questa logica di Dio, segnata dalla gratuità e dal dono, che consente la vera comunione tra Dio e tra di noi, e anche tra l’uomo e la donna. Più che alla stregua di un mero precetto, le parole di Gesù sono da intendersi come una promessa. A chi accoglie la logica del Regno, che è il compimento del disegno creaturale del Padre, liberato e riscattato dal peccato introdotto dalla durezza di cuore dell’uomo, è offerta una possibilità nuova. Gesù lo dirà poco più avanti, sempre in questo capitolo, ai discepoli stupiti di fronte alle sue parole sulla ricchezza. «”E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?”. Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”» (Mc 10,25-27). La radicalità richiesta al matrimonio è simile a quella richiesta alla povertà: c’è un’impossibilità che l’uomo sperimenta a motivo della durezza del proprio cuore, che però può aprirsi ad accogliere la possibilità che viene da Dio. La Legge di Mosè si è fatta carico del peccato dell’uomo offrendo un rimedio misericordioso alla durezza del suo cuore. Ma Gesù è più grande di Mosè e della sua Legge, egli ci offre non solo un rimedio, ma una possibilità nuova dentro la nostra impossibilità. L’indissolubilità del matrimonio è «l’espressione del mondo che viene: solo chi partecipa del Regno nella sequela del re (cioè Cristo) ne diventa capace» (D. Attinger). In questo modo la fedeltà dell’amore tra l’uomo e la donna diviene davvero segno trasparente di ciò che Dio congiunge (cfr. v. 9). A unire l’uomo e la donna in modo indissolubile non è tanto un atto estrinseco o giuridico di Dio, quanto la qualità del suo amore che nel Regno ci viene donata, un amore fedele, accogliente, fecondo. Da questo amore niente, neppure il peccato o la durezza del nostro cuore può separarci, come ricorda Paolo in Rm 8,35-39, e questo amore, regnando su di noi, ci consente di superare ogni possibile lontananza o separazione, vivendole nei vincoli di una più forte comunione.

     È allora significativo che, a queste parole sulla radicalità del matrimonio, Marco aggiunga subito dopo ciò che Gesù dice benedicendo i bambini che vengono a lui: «a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (v. 14-15). Negli evangeli il bambino è simbolo di chi è debole, piccolo, impotente. Non può fare affidamento sulle proprie forze, ma su ciò che ancora deve attendere e ricevere da altri. Si accoglie così il regno di Dio: come un dono da ricevere senza pretendere di conquistarlo confidando nelle nostre possibilità. Gesù accoglie i bambini e nello stesso tempo sottolinea il loro bisogno di dover accogliere. Tale è il regno di Dio: da un lato è la manifestazione di un amore che ci accoglie persino nelle nostre debolezze; dall’altro è la manifestazione di un amore che si dona gratuitamente alle nostre debolezze rendendoci capaci di ciò che altrimenti ci rimarrebbe impossibile.

     Di questo amore la Chiesa è chiamata a farsi segno anche verso i rapporti coniugali tra l’uomo e la donna. Da un lato deve annunciare una radicalità, quale l’indissolubilità del matrimonio, che in Gesù Cristo diviene possibile perché egli guarisce e scioglie la durezza del cuore umano; dall’altro deve rimanere come Gesù accogliente delle debolezze e delle impossibilità che gli uomini sperimentano, come bambini. Ma a chi è come loro appartiene il regno di Dio!

L’immagine della domenica

CASTELLUCCIO DI NORCIA (zone terremotate)      –      2018  

«Se avessi un messaggio per i miei coetanei, sarebbe sicuramente questo: “siate quello che vi piace…, ma ad ogni costo evitate una cosa: il successo…

Se avete imparato solo

come raggiungere il successo,

la vostra vita probabilmente

è stata sprecata”».

(Thomas Merton, Love and Living, 1979)

Casella di testo: Genesi 2,18-24
Ebrei 2,9-11
Marco 10,2-16

Il tema del divorzio nel giudaismo al tempo di Gesù si poneva in maniera diversa da come si pone nel nostro tempo. Il diritto a divorziare era esclusivamente dalla parte dell’uomo. I casi nei quali la donna poteva chiedere il divorzio erano molto rari e di difficile applicazione. E, a complicare di più le cose, il rabbino Hillel interpretava la legge di Mosé (Dt 24,1) in maniera tale che qualsiasi cosa dispiacesse al marito, gli dava il diritto di ripudiare la moglie. 
 
Inoltre il testo del Deuteronomio si deve leggere completo, perché il testo intero (Dt 24, 1-4) considera abominevole il fatto che il marito della divorziata si sposi di nuovo con lei, se lei ha avuto un secondo marito. Era un problema di “purezza rituale”, non di indissolubilità matrimoniale (Joel Marcus).
 
La domanda dei farisei non era la domanda sul divorzio, così come ora si pone, ma la domanda sulla disuguaglianza di diritti tra l’uomo e la donna. Cioè, i farisei domandavano se i privilegi dell’uomo fossero praticamente illimitati, come sosteneva la scuola teologica di Hillel. Ebbene, questo è quello che Gesù non tollera. La disuguaglianza di diritti è direttamente contraria al Vangelo. 
 
Gesù argomenta a favore dell’uguaglianza di diritti ricorrendo al progetto originale di Dio: che l’uomo e la donna “non sono due, ma una sola carne”, cioè si fondono in un’unità che equivale ad una perfetta uguaglianza in dignità e diritti, sebbene siano così evidenti le differenze. La differenza è un fatto. L’uguaglianza è un diritto. Dedurre da questo vangelo quello che Gesù non ha potuto voler dire, perché non gliel’hanno neanche chiesto, è manipolare per ignoranza quello che Gesù ha detto. 
(José María Castillo)

Preghiere e racconti

Dio garante dell’indissolubilità

Il matrimonio è più del vostro amore reciproco,

ha maggiore dignità e maggiore potere.

Finché siete solo voi ad amarvi,

il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia.

Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio fa andare e venire e chiama al suo regno.

Nel vostro sentimento godete solo il cielo privato della vostra felicità.

Nel matrimonio invece venite collocati attivamente nel mondo e ne diventate responsabili.

Il sentimento del vostro amore appartiene a voi soli.

Il matrimonio, invece, è una investitura, un ufficio.

Per fare un re non basta che lui ne abbia voglia. Occorre che gli riconoscano l’incarico di regnare.

Così non è la voglia di amarvi che vi stabilisce come strumento di vita.

E’ il matrimonio che ve ne rende atti.

Non è il vostro amore che sostiene il matrimonio.

E’ il matrimonio che, d’ora in poi, porta sulle spalle il vostro amore.

Dio vi unisce in matrimonio: non lo fate voi, è Dio che lo fa.

Dio protegge la vostra unità indissolubile di fronte a ogni pericolo che la minaccia dall’interno e dall’esterno.

Dio è il garante dell’indissolubilità.

E’ una gioiosa certezza sapere che nessuna potenza terrena,

nessuna tentazione,

nessuna debolezza potranno sciogliere ciò che Dio ha unito.

(Dietrich Bonhoeffer)

Una carne sola: Dio congiunge le vite, è autore della comunione

In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma.

Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

Alcuni farisei si avvicinano a Gesù per metterlo alla prova. La domanda è scontata: è lecito a un marito ripudiare la moglie? La risposta è facile: sì, è lecito. Ma non è questa la vera posta in gioco. Il brano mette in scena uno dei conflitti centrali del Vangelo: il cuore della persona o la legge? Gesù afferma una cosa enorme: non tutta la legge ha origine divina, talvolta essa è il riflesso di un cuore duro (per la durezza del vostro cuore Mosè diede il permesso del ripudio…).

La Bibbia non è un feticcio. E per questo Gesù, infedele alla lettera per essere fedele allo spirito, ci prende per mano e ci insegna ad usare la nostra libertà per custodire il fuoco e non per adorare la cenere! (Gustav Mahler). C’è dell’altro, più importante e più vitale di ogni norma, e sta dalle parti di Dio. A Gesù non interessa regolamentare la vita, ma ispirarla, accenderla, rinnovarla, con il sogno di Dio. Ci prende per mano e ci accompagna a respirare l’aria degli inizi: in principio, prima della durezza del cuore, non fu così.

L’uomo non separi quello che Dio ha congiunto. Dal principio Dio congiunge le vite! Questo è il suo nome: Dio-congiunge, fa incontrare le vite, le unisce, collante del mondo, legame della casa, autore della comunione. Dio è amore, e «amore è passione di unirsi all’amato» (san Tommaso). Il Nemico invece ha nome Diavolo, Separatore, la cui passione è dividere.

L’uomo non divida, cioè agisca come Dio, si impegni a custodire la tenerezza, con gesti e parole che creano comunione tra i due, che sanno unire le vite. Tutto parte dal cuore, non da una norma esterna. Chi non si impegna totalmente nelle sue relazioni d’amore ha già commesso adulterio e separazione. Il peccato è tradire il respiro degli inizi, trasgredire un sogno, il sogno di Dio.

Portavano dei bambini a Gesù… Ma i discepoli li rimproverarono. Al vedere questo, Gesù si indignò. È l’unica volta, nei Vangeli, che viene attribuito a Gesù questo verbo duro. L’indignazione è un sentimento grave e potente, proprio dei profeti davanti all’ingiustizia o all’idolatria: i bambini sono cosa sacra. A chi è come loro appartiene il regno di Dio. I bambini non sono più buoni degli adulti; non sono soltanto teneri, ma anche egocentrici, impulsivi e istintivi, però sanno aprire facilmente la porta del cuore a ogni incontro, non hanno maschere, sono spalancati verso il mondo e la vita.

I bambini sono maestri nell’arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, si fidano della vita, credono nell’amore. Prendendoli fra le braccia li benediceva: perché nei loro occhi il sogno di Dio brilla, non contaminato ancora.

(Ermes Ronchi)

La chiamata a essere amanti come Dio ama

La parte più lunga del vangelo di questa domenica (gli ultimi quattro versetti narrano dell’incontro tra Gesù e i bambini e delle rimostranze dei discepoli) ci testimonia un confronto di Gesù con alcuni farisei, i quali lo mettono alla prova, lo tentano, cercando di sorprenderlo in errore riguardo alla tradizione dei padri, sul tema della possibilità del divorzio.

Questo annuncio evangelico è esigente, chiaro: da una parte ci scandalizza, soprattutto se conosciamo la faticosa realtà della vicenda nuziale; dall’altra, lo stesso brano può essere utilizzato come un bastone, per giudicare e condannare chi è in contraddizione con le parole chiare e piene di parrhesía pronunciate da Gesù.

Per questo, ogni volta che devo predicare su questo testo mi metto in ginocchio non solo davanti al Signore, ma anche davanti ai cristiani e alle cristiane che vivono il matrimonio, per dire loro che, certo, rileggo le parole di Gesù e le proclamo, ma senza giudicare, senza minacciare, senza l’arroganza di chi si sente immune da colpe al riguardo, memore di ciò che Gesù afferma altrove: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,28).

Chi legge queste parole di Gesù non sta dall’altra parte, in uno spazio esente dal peccato, ma innanzitutto si deve sentire solidale con quanti, nel duro mestiere del vivere e nell’ancor più duro mestiere del vivere in due nella vicenda matrimoniale, sono caduti nella contraddizione alla volontà del Signore. Non posso dunque fare altro che offrire qui alcuni semplici spunti di meditazione, eco della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture.

Nel millennio dell’Antico Testamento la pratica del divorzio era comune in tutto il medio oriente e il mondo mediterraneo. Il divorzio era una realtà normata dal diritto privato, che lo prevedeva solo su iniziativa del marito. Il matrimonio era un contratto, neppure scritto, e dobbiamo riconoscere che nell’Antico Testamento non vi è nessuna legge sul matrimonio. Il brano del Deuteronomio a cui certamente si riferiscono i farisei (Dt 24,1-4) in verità appartiene alla casistica e non alla dottrina, perché mette a fuoco un caso particolare, e di conseguenza deve essere recepito con dei limiti ben precisi. Si legge in quel testo:

Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso (‘erwat davar, lett.: “nudità di qualcosa”), scriva per lei un certificato di ripudio, glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa (Dt 24,1).

Viene dunque contemplato il caso in cui l’uomo trovi nella moglie “qualcosa di vergognoso”, espressione assai vaga che i rabbini interpretano in modi molto diversi; in tal caso, il marito ha la possibilità di divorziare. A certe condizioni, pertanto, il divorzio è permesso e ne è prevista la procedura, ma da questo non si può concludere che nella Torah, nella Legge di Mosè vi sia una dottrina sul matrimonio e la sua disciplina. D’altra parte, i profeti, i sapienti e gli stessi testi essenici non offrono posizioni certe e chiare che escludano il divorzio e proclamino che la Legge di Dio lo vieta.

Ma ecco che Gesù è chiamato dai farisei a esprimersi proprio su questa possibilità: “È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?”. Egli risponde con una domanda: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Ed essi a lui: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”. È come se gli dicessero: “Questa è la Torah!”.

Gesù allora interviene in modo sorprendente: non entra nella casistica religiosa a proposito della Legge; non si mette a precisare le condizioni necessarie al ripudio, come facevano i due grandi rabbi del suo tempo, Hillel e Shammai; non si schiera dalla parte dei rigoristi né da quella dei lassisti. Nulla di tutto questo: Gesù vuole risalire alla volontà del Legislatore, di Dio. In tal modo egli ci fornisce un principio decisivo di discernimento nel leggere e interpretare la Scrittura: fare riferimento all’intenzione di Dio (e non a tradizioni umane: cf. Mc 7,8.13!), che attraverso le sua parola messa per iscritto vuole rivelarci la sua volontà.

Questa dunque la replica di Gesù ai suoi interlocutori: “Per la durezza del vostro cuore (sklerokardía) Mosè scrisse per voi questa norma. Ma nell’in-principio (be-reshit, en archê: Gen 1,1) della creazione Dio ‘li fece maschio e femmina’ (Gen 1,27); ‘per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola’ (Gen 2,24). Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”.

Gesù risale al disegno del Creatore, alla creazione dell’adam, il terrestre tratto dall’adamah, la terra (cf. Gen 2,7; 3,19), fatto maschio e femmina perché insieme i due vivano nella storia, la storia dell’amore, la storia della vita, l’uno di fronte all’altra, volto contro volto, in una reciproca responsabilità, chiamati nel loro incontro a diventare una sola realtà, una sola carne.

In questo incontro di amore c’è la chiamata a essere amanti come Dio ama, essendo lui amore (cf. 1Gv 4,8.16); in questo incontro c’è l’arte e la grazia del dono gratuito l’uno all’altra, a cominciare dal proprio corpo; c’è l’alleanza che fa sì che l’incontro sia storia nel tempo e tenda dunque all’eternità, fino alla morte, per andare anche oltre la morte.

Questa la volontà di Dio nel creare il terrestre e nel porlo nel mondo quale sua unica immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27). È un mistero grande, ma tanto grande che è difficile per dei terrestri fragili, deboli e peccatori viverlo in pienezza. In verità, sappiamo quanta miseria si sperimenti in questo faticoso incontro, come sia facile la contraddizione, come questo capolavoro dell’arte del vivere insieme nell’amore sia perseguibile, e mai pienamente, solo con l’aiuto della grazia, con l’efficacia del Soffio santo del Signore.

Eppure l’annuncio di Gesù permane, in tutta la sua chiarezza: “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Subito dopo, questa parola dura ed esigente viene spiegata da Gesù ai suoi discepoli, nella casa in cui la comunità si ritrovava. E viene spiegata con un’aggiunta straordinaria per la cultura del tempo, visto che Gesù mette sullo stesso piano la responsabilità dell’uomo e quella della donna: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”.

Certo, Mosè ha cercato di umanizzare la pratica del divorzio, imponendo al marito di percorrere una via giuridica di rispetto per la donna. Ma Gesù, proprio guardando alla durezza di cuore dei destinatari della Torah, osa andare ben oltre, mettendo in evidenza la volontà, l’intenzione del Creatore.

Del resto, lo aveva già fatto altre volte, svelando, per esempio, la volontà di Dio sul sabato e sulla sua osservanza (cf. Mc 2,23-28): qui, là, sempre Gesù si fa interprete autentico della Legge non attraverso vie legalistiche, non attraverso interpretazioni fondamentaliste, ma annunciando profeticamente la volontà di Dio a tutti, in particolare ai peccatori pubblici e agli esclusi, da lui sempre accolti, perdonati, mai condannati.

È con questo annuncio del Vangelo che si apre il sinodo sul tema della vita familiare voluto da papa Francesco. I padri sono chiamati ad ascoltare lo Spirito santo nella docilità e nell’umiltà, per ridire oggi la volontà di Dio, che può solo e sempre essere espressa alla luce della sua misericordia.

(Enzo Bianchi)

Il diverso

Il “diverso” originario è la donna nei confronti dell’uomo e l’uomo nei confronti della donna. E pertanto se il riconoscimento della diversità non è in primo luogo riconoscimento della diversità della sessualità umana, il sociale umano resta sempre esposto al rischio di discriminazioni ingiuste. Proprio perché il tutto dell’humanum è presente potenzialmente nella particolarità di ciascuna diversità, la pienezza della persona si realizza nella loro unità. L’uomo è per la donna e la donna è per l’uomo poiché solo uomo e donna dicono la verità intera della persona umana.

L’intrinseca bontà o valore dell’istituto matrimoniale consiste precisamente in questo: esprime-realizza in radice nell’unità uomo-donna l’humanum nella sua interezza. Bontà e preziosità che non si trova in nessun altra relazione sociale. Tocchiamo un punto fondamentale della vicenda umana e della sua comprensione. Provo a dirlo in modo breve e per quanto riesco semplice. All’origine, al “principio” della vicenda umana non stanno tante unità chiuse in se stesse. Sta una dualità; un rapporto: un uomo e una donna. Il dato umano originario non è l’identità, ma la relazione; la “figura” dell’incontro non è il contratto di individui originariamente estranei, ma è l’incontro nell’amore fra due persone diverse: uomo e donna.

(Cardinale Carlo Caffarra,”Matrimonio e laicità dello Stato”,Congresso Teologico-Pastorale Internazionale di Valencia, 4 luglio 2006).

I cervi

Si racconta che i cervi quando vogliono recarsi al pascolo, in certe isole  lontane dalla costa,  per attraversare la lingua di mare poggiano la testa sulla schiena altrui.

Succede così che uno soltanto, quello che apre la fila, tiene alta la propria testa senza appoggiarla sugli altri; quando però egli si è stancato, si toglie dal davanti e si mette per ultimo, sicché anche lui può appoggiarsi sul compagno.

In questo modo tutti insieme portano i loro pesi e giungono alla meta desiderata: non affondano perché l’amore fa loro da nave.

(S. Agostino)

Due in una sola carne

Dove potrei trovare parole in grado di descrivere quel matrimonio che la chiesa unisce, che l’offerta eucaristica conferma e la benedizione sigilla, gli angeli proclamano e il Padre ratifica? Difatti nemmeno qui in terra i figli possono contrarre il matrimonio secondo le norme stabilite e secondo il diritto vigente senza il consenso paterno. Quale coppia è mai quella di due cristiani, uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola disciplina, un solo servizio di Dio! Ambedue sono fratelli, uguali tutti e due in quel loro servizio. Niente li separa né nello spirito, né nella carne; al contrario, sono veramente due in una sola carne (cfr. Gen 2,24; Mt 19,6; 1Cor 6,16; Ef 5,31). E dove vi è una sola carne, lì vi è pure un solo spirito. Infatti insieme pregano, insieme si prostrano davanti a Dio, insieme osservano le prescrizioni del digiuno, a vicenda si istruiscono, a vicenda si esortano, a vicenda si riconfortano. Tutti e due si riconoscono in perfetta uguaglianza nella chiesa di Dio, in perfetta uguaglianza nel banchetto di Dio, in perfetta uguaglianza nelle prove, nelle persecuzioni, nelle consolazioni. Nessuno dei due si nasconde all’altro, nessuno si sottrae all’altro, nessuno è di peso all’altro. […] Tra loro due risuonano salmi e inni, si sfidano reciprocamente a chi canta meglio al Signore. Cristo gioisce al vedere e ascoltare queste cose e invia loro la sua pace (cfr. Gv 14,27). Là dove due sono riuniti, egli è là, presente (cfr. Mt 18,20) e là dove egli è presente, non c’è il Malvagio.

(TERTULLIANO, Alla consorte 2,8,6-8, SC 273, pp. 148-151).

La vita in due

Grazie, Signore

perché ci hai dato l’amore

capace di cambiare le cose.

Quando un uomo e una donna

diventano uno nel matrimonio

non appaiono più

come creature terrestri

ma sono l’immagine stessa di Dio.

Così uniti non hanno paura di niente

con la concordia, l’amore e la pace

l’uomo e la donna sono padroni

di tutte le bellezze del mondo.

Possono vivere tranquilli

protetti dal bene che si vogliono

secondo quanto Dio ha stabilito.

Grazie, Signore

per l’amore che ci hai regalato.

(S. Giovanni Crisostomo).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Pierazzi

PER L’APPROFONDIMENTO

Notizie dell’Istituto di Catechetica

Visita del Gruppo Ecumenico Finlandese

Il 13 settembre, segnalando l’inizio del nuovo anno formativo, l’Istituto di Catechetica (ICa) ha organizzato una giornata di incontro e dialogo di condivisione con una delegazione ecumenica proveniente dalla Finlandia. Questo incontro si inserisce all’interno del quadro più ampio dell’Istituto a promuovere reti internazionali di collaborazione (networking) con università e gruppi ecclesiali.

Nella mattinata, il gruppo, composto da otto rappresentanti di diverse chiese e denominazioni cristiane finlandesi, ha visitato il Centro di Formazione Professionale dell’Istituto Salesiano Pio XI di Roma. Qui, i partecipanti hanno avuto l’opportunità di vivere un’esperienza pratica sui temi dell’educazione e dell’animazione cristiana offerti dal Centro. La delegazione ha inoltre incontrato don Michelangelo Dessì, direttore dell’opera, per un confronto sull’insegnamento della religione nelle scuole.

Nel pomeriggio, il gruppo si è riunito presso l’Istituto di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana (UPS) per un incontro con alcuni membri dell’Istituto, in particolare con i docenti di Insegnamento della Religione, proff. Giampaolo Usai, Sergio Cicatelli, Cristina Carnevale, e Giuliana Migliorini. L’incontro si è svolto in un clima di apertura e fraternità, ponendo costantemente l’accento sull’importanza del dialogo e del confronto tra esperienze diverse. Particolare attenzione è stata dedicata alla condivisione di punti di vista e riflessioni su come migliorare l’insegnamento della religione, in contesti propri.

Al termine della visita, i partecipanti hanno espresso grande apprezzamento per l’accoglienza calorosa e per la profondità degli scambi avuti. L’evento è stato descritto come un passo significativo nel cammino verso il miglioramento della pratica, evidenziando il valore della formazione e del dialogo. L’incontro si colloca pienamente nell’orizzonte di promuovere una cultura dell’incontro e della fraternità, come richiamato più volte dal magistero di Papa Francesco, che sottolinea l’urgenza di costruire ponti di dialogo e condivisione.

XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Numeri 11,25-29

          In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.  Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».  
  • Il c. 10 dei Numeri ha concluso la raccolta dei testi dedicati alla rivelazione del Sinai e col c. 11 riprende il viaggio faticoso e pieno di imprevisti verso la terra promessa.

     Mosè, dopo l’ennesimo lamento del popolo, scoraggiato davanti alla vastità del compito a lui affidato, si lamenta a sua volta col Signore. «Perché hai agito così male verso il tuo servo? E perché non ho trovato grazia presso di te, così che tu mi abbia messo addosso tutto il peso di questo popolo? Ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse generato

io, perché tu mi dica: portalo in collo, come una balia un lattante… Non posso io solo reggere tutto questo popolo… Ma se tu vuoi trattarmi in tal modo, deh uccidimi» (Num 11,10-12.14-15).

     È venuto il momento di non affidarsi più al solo carisma di un capo, ma di perfezionare le istituzioni per assicurare la sopravvivenza del popolo.

     Dio viene incontro alla richiesta di Mosè e gli ordina di radunare settanta anziani. Mosè allora compila la lista degli anziani e li invita intorno alla tenda del convegno.

     Siamo così al brano di oggi che si snoda in tre quadri:

1. «Il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani» (Num 11,25). Essi ricevono lo spirito di Mosè. Il loro carisma, diremmo con la parola moderna, è lo stesso dato alla loro guida. Essi hanno, per così dire, un potere delegato, che vale se esercitato insieme con Mosè. All’autore biblico, però, non interessa tanto il problema dell’istituzione di un consiglio in aiuto di Mosè, quanto quello dell’esercizio della profezia.

     Egli annota che «quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito» (v. 25). Il compito di governo e quello profetico non sono legati automaticamente.

2. «Erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento» (cf. v. 26).

     Il redattore non dice come per gli altri che «Dio prese lo spirito di Mosè». Eldad e Medad hanno direttamente da Dio senza mediazioni il dono dello spirito, che li abilita a profetizzare. Non c’è nemmeno l’annotazione, come per gli altri, che «non lo fecero più in seguito» (v. 25): essi diventano profeti e lo rimangono, anche se non hanno accolto l’incarico di aiutare Mosè nel governo del popolo.

3. Giosuè allora si fa in dovere di avvertire Mosè e gli consiglia di impedire loro di profetare. Egli non riesce a concepire un rapporto personale e libero con Dio senza la mediazione dell’istituzione e un potere che non sia un’emanazione di quello del capo (cf. v. 27-28).

     Mosè, invece, risponde dimostrando grande umiltà e grandezza d’animo: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!», (v. 29).

     Mosè, potremmo dire, è aperto a una partecipazione democratica di tutto il popolo al suo governo e, soprattutto, riconosce la libertà di Dio e sa apprezzare i suoi doni in chiunque li abbia ricevuti.

Secondalettura: Giacomo 5,1-6

      Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.      
  • I primi tre versetti del brano del c. 5 della lettera di Giacomo, che leggiamo oggi, sono un avvertimento ai ricchi fatto con immagini costruite per impressionare, risvegliare dall’illusione del benessere egoista e distogliere dall’ingiustizia: beni imputriditi, vestiti invasi dalle tarme, oro e argento addirittura arrugginiti! Le ricchezze si tramuteranno in «fuoco» per i proprietari, che le hanno accumulate ingiustamente e che sono insensibili ai bisogni altrui, saranno cioè causa della loro distruzione.

     Il fuoco del v. 3 fa pensare non solo a un castigo terreno, ma anche a quello escatologico (cf. ad es. Am 1,12-14:7,4; Mt 18,8; Mc 9,43.48). Siamo ormai entrati nel tempo del giudizio, ma i ricchi non se ne sono accorti: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!» (v. 3), «vi siete ingrassati per il giorno della strage».

     Le colpe gravissime dei ricchi, enunciate nei vv. 4-6 sono aggravate dall’essere commesse con continuità, fino all’ultimo giorno di vita, senza badare che la vita è in realtà già fuggita. In mezzo alle gozzoviglie non si sono accorti che le grida dei mietitori defraudati «sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente» (v. 4) e si sono fidati, nell’uccidere il giusto, che egli non poteva opporre resistenza (v. 6) e nessuno avrebbe preso le sue difese: la condanna di chi agisce in questo modo non può che essere definitiva.

Vangelo: Marco 9,38-43.45.47-48

        In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».      

Esegesi

     L’episodio riportato nei versetti 38-39 del cap. 9 di Marco ha il suo parallelo in Lc 9,49-50, mentre non è riportato da Matteo. Del v. 38 esistono due lezioni, questa «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché (oti) non ci seguiva» assimilata a Lc 9,49 e un’altra: «abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e che (os) non era dei nostri e…». Si tratta di una sfumatura interessante per fare la storia della redazione del testo e per cogliere l’atteggiamento dei discepoli, ma che non muta la sostanza del fatto. La proibizione da parte dei discepoli è un sopruso che Gesù stigmatizza nella sua risposta «Non glielo impedite».

     I discepoli non sono padroni della potenza del nome di Gesù; essa è data da Dio e solo Dio ne dispone nei tempi e nei modi che egli ha deciso. L’avvenuto miracolo attesta che chi l’ha operato ha agito con corretta intenzione: «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me».

     Nella chiesa primitiva, secondo il racconto degli Atti (cf. 19,13), si verificavano usi distorti del nome di Gesù, ma il fallimento smaschera colui che ha tentato di appropriarsi della sua potenza in modo magico o superstizioso.

     Il detto ripreso da Gesù: «chi non è contro di noi è per noi» sottolinea lo spirito di apertura e di accoglienza della risposta di Gesù nei confronti dell’atteggiamento precedente dei discepoli. Non dobbiamo leggere queste parole di Gesù nella forma contraria dell’altro detto: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30; Lc 11,23) e così farne una bandiera per escludere. C’è infatti una enorme differenza fra il «noi» (Lc 9,50 ha addirittura «voi») e il «me», vale a dire fra il gruppo dei discepoli e Gesù stesso. È da tenere presente poi che l’espressione di Gesù «Chi non è con me è contro di me», va letta anche con il seguito: «chi non raccoglie con me disperde», che fa capire che si tratta di una constatazione, non di un giudizio. Senza Gesù i discepoli non possono far niente, ma la potenza di Dio manifestata in Gesù non è possesso esclusivo dei discepoli.

     L’accostamento fatto dalla liturgia di oggi al brano dei Numeri accentua questa interpretazione: Gesù rimprovera i discepoli, come Mosè fa con Giosuè, che vuole impedire la profezia non autorizzata. Il dono dello Spirito di Dio, la profezia, e la potenza dello Spirito che agisce vanno riconosciuti, non autorizzati dai discepoli. Anzi, come testimonia l’episodio dell’incapacità dei discepoli a guarire un indemoniato (cf. Mc 9,17s) narrato da Marco nello stesso capitolo, non è l’appartenere alla cerchia dei discepoli, che abilita a «cacciare i demoni», ma il dono di Dio e le disposizioni adatte ad accogliere questo dono.

     Il detto del versetto 41 è probabilmente inserito a questo punto per la formula «nel nome». Luca non lo riporta e Matteo lo inserisce nell’episodio della missione (Mt 10,42).

     I detti che seguono sono accumunati dall’espressione: «essere di intralcio» scandalizzo. Essi sembrano essere stati compilati con un intento catechetico, con formule che aiutano ad essere ritenute a memoria (cf. V. TAYLOR Marco. Commento al Vangelo messianico, Assisi 1977, 474-476).

     Le rinunce sono in vista di «entrare nella vita» zoê distinta da bios, che indica in genere nel Nuovo Testamento la vita in comunione con Dio.

     La Geenna era originariamente il nome di una valle ad ovest di Gerusalemme, dove venivano offerti bambini in sacrificio a Moloch (cf. 2Re 23,10; Ger 7,31; 19,5s), sconsacrata da Giosia venne adibita alla bruciatura dei rifiuti. Essa divenne in seguito simbolo di luogo di pena.

     «Essere gettato nella Geenna» in contrasto con «entrare nella vita» significa la rovina spirituale e forse anche la distruzione.

     La precisazione «nel fuoco inestinguibile» è fatta per rendere chiaro il simbolo della «Geenna» agli ascoltatori che non conoscevano la tradizione legata alla valle di Gerusalemme; insieme con l’aggiunta, «dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» è un riferimento a Is 66,24: «E vedranno i cadaveri degli uomini a me ribelli, che il loro verme non muore e il loro fuoco non si spegne» (cf. V. TAYLOR, o.c., 478).

Meditazione

     Un brano evangelico composito, con espressioni pronunciate da Gesù in varie occasioni e qui raccolte per fornire indicazioni sulla qualità del proprio essere discepoli nella dimensione comunitaria.

     Il tema del primo avvertimento – il tono generale del testo vuole spiccatamente mettere in guardia da alcuni ‘eccessi’ – viene trattato anche nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri e inerente un fatto avvenuto nel corso del cammino nel deserto, mentre il popolo usciva dall’Egitto per andare verso la terra promessa. Quando una comunità si struttura e si organizza, manifesta ed evidenzia la propria volontà di crescere, di camminare lungo un itinerario di maturazione. Non è un cammino facile né immediato: richiede tempo, ascolto, conoscenza e stima reciproche, capacità di valorizzazione delle caratteristiche di ogni persona, accoglienza e sopportazione delle inevitabili fragilità, soprattutto il ‘miracolo’ di riuscire ad armonizzare, con un impiego notevole di energie, tutte le componenti della comunità stessa. La testimonianza di Paolo, riportata nei capitoli 12-14 della prima lettera ai Corinzi, è di una attualità e di una concretezza sorprendenti. Si intuisce – e lo sperimenta immediatamente chi vive in una comunità, a partire da quella familiare – che l’auspicata armonia è sempre precaria e necessita di attenta vigilanza e premurosa cura da parte di tutti i suoi membri, nessuno escluso. Ma con la grazia del Signore e tanta buona volontà si possono raggiungere buoni, addirittura ottimi risultati!

     In queste comunità si potrebbe dire che la vita funzioni tanto bene che… tutto diviene intoccabile, è tanto perfetta che non la si può più modificare in nulla. Ognuno ha il suo spazio, il suo incarico – che svolge con grande diligenza e professionalità, indipendentemente che si tratti di liturgia, carità, educazione… – e la sua azione non può essere intralciata o sostituita da nessun altro. Quello che era nato come servizio gratuito nell’ambito di una comune sequela del Signore, diviene possesso geloso e intollerante. Se qualcuno, dall’esterno, tenta di entrare nella comunità, viene sottoposto ad un processo di ‘istruzione’ per fargli riconoscere tutta e sola la positività della vita comunitaria. Figuriamoci cosa può succedere a costui se si azzarda a ipotizzare dei cambiamenti, magari a paventare delle critiche… Se giunge addirittura – non sia mai! – a fare del bene, magari dello stesso tipo di quello svolto dalla comunità, ma senza il benestare e l’autorizzazione della comunità stessa, si può arrivare all’interdizione pubblica…! (cfr. v. 38). E allora ci si accorge che non si è poi così lontani da stili e modalità sempre più spesso espressi da entità politiche, sociali, agonistiche. È vero, queste forse non si fregiano del titolo – davvero qualificativo – di comunità ma forse anche nelle prime si è un po’ smarrito il senso di questo termine. C’è chi ha scritto ‘Dio è con noi’ sulle cinture dei soldati, affermando implicitamente che non era pertanto con quanti stavano dall’altra parte della barricata: auguriamoci che queste volgari e indecenti strumentalizzazioni del nome di Dio non raggiungano anche le comunità dei credenti in Cristo.

     Ma se ciò avviene, non spaventiamoci: le forze egocentriche dell’uomo rialzano continuamente la testa e davvero la vigilanza e la revisione si impongono a tutti i livelli. Certo è che se l’efficienza – anche quella del bene – scalza il ruolo delle persone e diviene strumento per imporsi sugli altri, allora anche l’altra, severissima, parola di Gesù, riportata al v. 42 e nei versetti seguenti, «chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli si mettesse una mola d’asino al collo e fosse gettato nel mare», ci risulta forse meno strana e incomprensibile. Certamente un paradosso, da non prendere alla lettera, ma, appunto, un serio avvertimento. Non c’è ‘opera di bene’ che possa calpestare con diritto qualcuno! Quando si smarrisce l’attenzione ai più fragili, esposti, poco istruiti, umili – questo il senso del termine piccoli, tali quindi non solo per età – è necessario riaprirsi alla forza vivificante del vangelo per ritrovare la grazia della salvezza, per ricordare innanzi tutto che siamo dei salvati dall’amore del Signore. Allora anche il gesto semplice e alla portata di tutti del bicchiere d’acqua offerto nel nome di Gesù (cfr. v. 41), ovvero dato nella gratuità rispettosa e attenta alla singola persona, diviene epifania del Regno, speranza di un mondo migliore già qui sulla terra.

Giardini Via Ateneo Salesiano (Roma)      –      2021  

«È ridicolo, dice l’orgoglio;

è avventato, dice la prudenza;

è impossibile, dice l’esperienza:

è quel che è, dice l’amore».

(Erich Fried)

Casella di testo: Numeri 11,25-29
Giacomo 5,1-6
Marco 9,38-43.45.47-48


Il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione. Infatti Gesù sorprende i suoi: chiunque aiuta il mondo a liberarsi e fiorire è dei nostri. Semini amore, curi le piaghe del mondo, custodisci il creato? Allora sei dei nostri. Sei amico della vita? Allora sei di Cristo. 

Gesù era l'uomo senza barriere, uomo senza confini, il cui progetto è uno solo: voi siete tutti fratelli. Gli esseri umani sono tutti dei nostri e noi siamo di tutti, siamo gli "amici del genere umano" (Origene). 

Tante volte ci sentiamo frustrati, impotenti, il male è troppo forte. Gesù dice: tu porta il tuo bicchiere d'acqua, fidati, il peggio non prevarrà. Se tutti i miliardi di persone portassero il loro bicchiere d'acqua, quale oceano d'amore si stenderebbe a coprire il mondo. Basta un sorso d'acqua per essere di Cristo. Ma l'annuncio di Gesù si fa più coraggioso: Ti darò cento fratelli, se mi segui (Mt 19,29) e intendeva dire: cento cuori su cui riposare, ma anche cento labbra da dissetare.

Il Vangelo termina con parole dure: se la tua mano, il tuo piede, il tuo occhio ti scandalizzano, tagliali. Gesù ripete un aggettivo: il tuo occhio, la tua mano, il tuo piede. Non dare sempre la colpa del male agli altri, alla società, all'infanzia, alle circostanze. Il male si è annidato dentro di te: è nel tuo occhio, nella tua mano, nel tuo cuore. Cerca il tuo mistero d'ombra e convertilo. La soluzione non è una mano tagliata, ma una mano convertita. A offrire il suo bicchiere d'acqua.
(E. Ronchi)

Preghiere e racconti

Il Dio-con-noi

«Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio. È questa, del resto, esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della Rivelazione, infatti, è il Dio-con-noi, il Dio che chiama e salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata ad irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (Rdc 77).

[…]

«Dio stesso, quando si rivela personalmente, lo fa servendosi delle categorie dell’uomo. Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito d’amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo. Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conoscere Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio». (RdC 122).

“Non era dei nostri”

La tentazione del credente di impedire e porre ostacolo all’azione dello Spirito se questa si manifesta in modi e forme non corrispondenti ai suoi schemi; una visione chiusa e rigida dell’appartenenza comunitaria di contro a una visione aperta e accogliente; la gelosia come grande minaccia portata alla vita comunitaria: questi alcuni temi che legano tra loro prima lettura e vangelo.

L’atto con cui i discepoli impediscono a uno sconosciuto di cacciare demoni perché non fa parte del loro gruppo (“non era dei nostri”; letteralmente: “non ci seguiva”) mostra anzitutto la frustrazione che diventa arroganza. Incapaci di scacciare il demone che affliggeva l’epilettico (cf. Mc 9,18), i discepoli proibiscono di cacciare demoni nel nome di Gesù a un estraneo che ci riusciva, e questo solo perché “non li seguiva”.

Ma quel gesto mostra anche la pretesa del gruppo dei discepoli di detenere il monopolio della presenza del Signore e di stabilire chi può accedere al “Nome” santo e chi no. È una pretesa di dominio e di potere. Alla concezione di un’identità di gruppo chiusa ed escludente propugnata dai discepoli, si oppone la concezione aperta e inclusiva di Gesù. A coloro che dicono: “Non ci segue, dunque deve essere escluso”, si oppone Gesù che dice: “Chi non è contro di noi è per noi”. Gesù non è totalitario e non afferma che tutti debbano appartenere al gruppo dei suoi discepoli. Il Nome del Signore travalica i confini della chiesa che tale Nome confessa.

Nel nostro testo, in cui appartenenza e identità del gruppo dei discepoli appaiono in primo piano, affiora anche il problema dell’inimicizia. Ai discepoli che vedono un nemico nell’esorcista estraneo, Gesù dice: “Chi non è contro di noi, è per noi”. Il rapporto chiesa-nemico si situa all’interno di una fondamentale polarità. Da un lato, se la chiesa vive la radicalità evangelica e lo spirito delle beatitudini, non può non conoscere persecuzioni e inimicizie a causa del Nome di Cristo; dall’altro, la stessa radicalità evangelica impedisce alla chiesa di fabbricarsi dei nemici, di entrare in regime di inimicizia con gli uomini non credenti o di dar nome di nemico ad “altri”, a categorie di persone o a gruppi umani che semplicemente sono segnati da diversità o estraneità. Sul problema dell’inimicizia la chiesa gioca la sua capacità di assumere e gestire, positivamente o meno, il problema dell’alterità e della differenza al proprio interno e di fronte a sé.

La Potenza e la Presenza del Signore non sono in mano ai soli cristiani, ma sono suscitate dallo Spirito e noi “dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (GS 22). Nemmeno la chiesa può pretendere questa conoscenza, pena il ridurre Dio a idolo e il divenire occasione di scandalo, cioè inciampo e ostacolo al cammino dell’uomo verso Dio. Certamente la prima accezione delle parole di Gesù sullo scandalo è comunitaria, e intravede la possibilità che un corpo comunitario si opacizzi al punto da non essere più trasparenza della presenza di Cristo. Ma tali parole hanno anche una valenza personale: occorre vigilare sul proprio agire (mani), sul proprio comportamento (piedi) e sulle proprie relazioni (occhi) per non divenire un ostacolo alla vocazione e al cammino di fede dell’altro. Anzi, occorre il coraggio della rinuncia a ciò che può ostacolare l’ingresso nel Regno, ingresso che avviene non a partire da un di più o da un pieno, ma da un vuoto, da una mancanza, da una povertà. Abbiamo qui l’esigenza (oggi forse impopolare) di un’ascesi, di una lotta, di un duro combattimento contro le tendenze che portano l’uomo a un agire, a un comportamento e una relazionalità antievangelici. Tagliare e cavare (lett. “gettare”) non sono disumane direttive da applicarsi letteralmente, ma indicazioni realistiche di una lotta da combattere ogni giorno per purificare il proprio cuore e vivere il vangelo con maggiore libertà. C’è un perdere la vita che è essenziale per trovarla in Cristo (cf. Mc 8,35).

(Luciano Manicardi)

Amici e amiche di Paolo

     Ho sempre immaginato il volontariato – senza conoscerlo, naturalmente, solo la non- conoscenza favorisce la certezza – un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la consolazione di sé. Finché ho conosciuto “amici e amiche di Paolo”. Questi giovani che lo accompagnano nelle pizzerie, nei cinema, nei negozi di dischi usati, dove acquista, a prezzo di amatore, canzoni e canti popolari di altri tempi, sono gentili, misurati discreti. In cambio non si aspettano nulla. Non si aspettano doni né ringraziamenti. E danno non solo un aiuto, ma ciò di cui gli uomini hanno più bisogno quando non la sentono mai, la simpatia.

     Paolo passa le vacanze con noi, ma non le considera vacanze. Non ho ancora capito come le consideri e non intendo approfondire. Immagino che abbia solide ragioni. Quando ancora gli si dice, dopo quindici anni di ingiunzioni, “Cammina dritto!”, che cosa gli si comunica? Un ordine, un richiamo, una esortazione, un alibi per continuare noi a sperare, una delusione, un rimprovero, una punizione?  Spesso ho notato nel suo sguardo qualcosa di diverso dalla insofferenza, una atroce noia dissimulata dalla pazienza.

     Se finalmente in vacanza si diverte con il suo gruppo di volontari, dove lo accettano con allegria, senza volerlo cambiare, dobbiamo chiederci il perché? L’imperativo occulto dell’educatore, secondo Droysen, viene compendiato da poche, silenziose, concilianti parole: “Tu devi essere come io ti voglio, perché solo così io posso avere un rapporto con te”.

     C’è da stupirsi che Paolo sia felice quando non viene più educato?

(Giuseppe PONTIGIA, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2000, 247-248).

Dio è presente ovunque

Non vi è altro sacramento di Dio se non il Cristo, nel quale devono essere vivificati quelli che sono morti in Adamo, poiché «come tutti muoiono in Adamo, così pure tutti ricevono la vita in Cristo» (1Cor 15,22), come abbiamo spiegato più sopra. Perciò Dio, che è ovunque presente e ovunque nella sua totalità, non abita in tutti, ma soltanto in quelli che egli fa diventare suo tempio santissimo o come suoi templi santissimi, strappandoli dal potere delle tenebre e trasferendoli nel Regno del Figlio del suo amore (cfr. Col 1,13), Regno che ha inizio con la rigenerazione. Da una parte si parla di tempio di Dio in senso sim-bolico, a proposito di quello che viene costruito dalle mani degli uomini servendosi di materiale inanimato, come era il tabernacolo fatto con legno, veli, pelli e altri simili arredi o come anche lo stesso tempio costruito dal re Salomone con pietre, legno e metalli; ma si parla di tempio di Dio anche a proposito della vera realtà figurata da quei templi. Perciò si dice: «E voi come pietre vive, siete edificati come dimora spirituale» (1Pt 2,5); per lo stesso motivo sta scritto: «Noi infatti siamo templi del Dio vivente, come dice Dio: “Abiterò in loro e camminerò con loro, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”» (cfr. 2Cor 6,16; Lv 26,12). Non ci deve stupire che Dio compia qualche miracolo attraverso alcuni che non appartengono o non appartengono ancora al tempio [del Signore], cioè in quelli in cui non abita o non abita ancora Dio, come li compiva per mezzo di quel tale che in nome di Cristo scacciava i demoni sebbene non fosse suo discepolo; il Signore ordinò che gli si permettesse di farlo a lode del suo nome, cosa utile a molti (cfr. Mc 9,37-39). Egli afferma che molti nell’ultimo giorno gli diranno: «Abbiamo fatto molti miracoli nel tuo nome» e a costoro non risponderà: «Non vi conosco» (cfr. Mt 7,22-23) se apparterranno al tempio di Dio che egli santifica abitando in essi. Anche il centurione Cornelio, prima di essere incorporato in questo tempio mediante la rigenerazione, vide un angelo che gli era stato inviato da Dio e lo sentì dire che le sue preghiere erano state esaudite e le sue elemosine gradite (cfr. At 10,4). Dio opera queste cose o da sé, poiché è ovunque presente, o per mezzo dei suoi angeli.

(AGOSTINO DI IPPONA, Lettere 187,12,34-36, NBA XXIII, pp. 166-168).

Essere profeti

Il profeta, Signore, non è un depositario di verità,

ma un testimone di bene.

Non sa dire cose sublimi, ma le compie.

Annuncia la speranza nella disperazione,

la misericordia nel peccato,

l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.

Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezze,

dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza,

ma è anche sereno e coraggioso,

perché Dio lo ha scelto e amato.

Il profeta fa la scelta di Dio,

vive la comunione intima con lui.

Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione

ad una pastorale missionaria,

significa essere presenti là dove la gente

vive, lavora, soffre, gioisce.

Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza

che dobbiamo ascoltare e accogliere.

Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi,

i monti, le strade.

Ogni cristiano è profeta,

è la tua bocca che evangelizza,

che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.

Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera

là dove scorre la vita della gente.

(A. Merico)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

Webinar “Rileggere le Indicazioni Nazionali per l’IRC”

Il 27 settembre 2024 dalle ore 17:00 alle 19:00 un webinar sui risultati di un sondaggio tra insegnanti di religione condotto dall’Università Pontificia Salesiana

L’imminente concorso per IdR ha rimesso al centro dell’attenzione le Indicazioni didattiche in vigore per l’Irc in ogni ordine e grado di scuola, dato che il programma d’esame ne prevede una precisa e approfondita conoscenza. Nel quadro del percorso di riflessione e formazione che l’Istituto di Catechetica dell’Università Salesiana ha recentemente avviato sull’epistemologia dell’IRC e sulla sua impostazione culturale si colloca il Webinar sul tema Rileggere le Indicazioni Nazionali. Risultati di un sondaggio tra IdR, che si svolgerà il prossimo 27 settembre dalle ore 17:00 alle 19:00.

Le Indicazioni attualmente in vigore per l’Irc sono uno strumento di lavoro imprescindibile per ogni IdR e sono sicuramente conosciute, ma forse proprio per la loro presenza consolidata (risalgono al 2010 quelle per infanzia e primo ciclo e al 2012 quelle per il secondo ciclo) possono aver perso un po’ del loro significato originario, superato da una prassi didattica spesso attenta più alla traduzione operativa che al senso della proposta complessiva. Il Webinar vuole quindi offrire elementi per promuovere una riflessione articolata sull’impostazione delle Indicazioni e sulla loro collocazione all’interno del complessivo curricolo scolastico (“nel quadro delle finalità della scuola”), dando vita a un confronto sull’attualità delle Indicazioni stesse e sulla tenuta della loro impostazione culturale.

Punto di partenza sarà la presentazione dei risultati di un sondaggio, realizzato nello scorso mese di giugno tra IdR in servizio in tutta Italia. Seguirà una lettura dei risultati da parte di alcuni Docenti ed Esperti a partire dal loro specifico punto di osservazione di insegnamento della materia e di ricerca.

La partecipazione al Webinar è gratuita. Sarà possibile collegarsi utilizzando il seguente link: https://youtube.com/live/bx1mzztIhW4?feature=share

“La competenza riconsiderata. Ricerca Exallievi ICa (2000-2020)” il nuovo numero della rivista «CATECHETICA ED EDUCAZIONE»

Uno degli obiettivi del progetto strategico 2022-2027 dell’Università Pontificia Salesiana è quello di curare il contatto con gli ex-studenti (Progetto Strategico, Obiettivo 4). Quest’obiettivo è stato assunto e declinato in modalità differenti nelle cinque Facoltà della nostra istituzione. Nella Facoltà di Scienze dell’Educazione abbiamo implementato diverse iniziative per rinsaldare il contatto con chi ha studiato da noi; queste includono sia momenti di formazione e aggiornamento sia attività di monitoraggio dell’inserimento lavorativo. È importante sottolineare che in tutte queste attività abbiamo sempre cercato di coinvolgere gli ex allievi, ascoltando innanzitutto le loro esigenze e proposte.
Crediamo che questo contatto con i nostri studenti del passato sia di vitale importanza e di arricchimento reciproco. Da una parte la Facoltà può offrire a chi lavora sul campo occasioni di un aggiornamento rispetto alla formazione ricevuta durante gli anni di studio, dall’altra la Facoltà può comprendere come concretamente siano state impiegate le conoscenze e le competenze acquisite ricevendo così suggerimenti utili per la definizione dei propri profili professionali.
In questa linea si colloca anche la ricerca realizzata dall’Istituto di Catechetica (ICa).
Quanto presentato di seguito si pone in continuità con la tradizione dell’Istituto. L’ICa, nei suoi settant’anni di storia (1953-2023) si è ripetutamente impegnato in ricerche sul campo, in modo particolare nell’ambito specifico della Catechesi e dell’Insegnamento della Religione Cattolica. Dopo aver ultimato la Ricerca sui Catechisti in Italia con la pubblicazione del volume Catechisti oggi in Italia. Indagine Mixed Mode a 50 anni dal “Documento Base” (LAS, Roma 2021), l’Istituto ha svolto quest’indagine rivolta alle recenti generazioni di ex allievi (2000- 2020) per verificare la qualità del servizio reso ma anche per orientare la progettazione futura.
Centrale in questo senso è il concetto di “competenza”. Anche per quanto riguarda la catechesi e la catechetica come scienza che se ne occupa, si avverte la necessità di passare dalle conoscenze (Knowledge) e dalle abilità (Skills) in genere considerate non solo distinte, ma anche distanti e separate, all’acquisizione di competenze (Competences)3 che in quanto capacità complessive sono finalizzate all’unità di apprendimento e alla soluzione di problemi e criticità, e sono calibrate sulle situazioni reali da affrontare e centrate sull’unicità della persona. La Veritatis Gaudium sottolinea la necessità di questo cambio di paradigma:

Gli studi ecclesiastici non possono limitarsi a trasferire conoscenze, competenze, esperienze, agli uomini e alle donne del nostro tempo, desiderosi di crescere nella loro consapevolezza cristiana, ma devono acquisire l’urgente compito di elaborare strumenti intellettuali in grado di proporsi come paradigmi d’azione e di pensiero, utili all’annuncio in un mondo contrassegnato dal pluralismo eticoreligioso. Ciò richiede non solo una profonda consapevolezza teologica, ma la capacità di concepire, disegnare e realizzare, sistemi di rappresentazione della religione cristiana capace di entrare in profondità in sistemi culturali diversi. Tutto questo invoca un innalzamento della qualità della ricerca scientifica e un avanzamento progressivo del livello degli studi teologici e delle scienze collegate (VG 5).

In questa linea si pone la ricerca svolta, che aveva l’obiettivo di verificare se e fino a che punto l’offerta formativa curriculare dell’ICa abbia accompagnato gli allievi a conseguire le competenze necessarie, idonee allo svolgimento effettivo dei servizi nelle proprie realtà di origine, di riscontrare eventuali deficit o
carenze, di evidenziare eventuali forme di recupero da parte dei soggetti (supplementi di formazione o di autoformazione) e rilevare eventuali bisogni formativi da soddisfare in futuro e, infine, ipotizzare modalità di formazione ricorrente e permanente che possono essere garantite dallo stesso ICa. Per questo sono stati presi in considerazione i profili e le competenze che hanno contraddistinto le proposte formative che si sono susseguite dal 2000 in avanti e che tengono conto dell’evoluzione della collocazione dell’ICa, dapprima all’interno del Dipartimento di Pastorale giovanile e Catechetica (DPGC, fino al 2016) e poi nella Facoltà di Scienze dell’Educazione (FSE).

Scorrendo l’indice dei contributi presentati in questo numero monografico della rivista on line dell’ICa «Catechetica ed Educazione» sono evidenti due aspetti. Il primo: sono stati coinvolti molti docenti che provengono da discipline differenti sia nel campo delle Scienze dell’Educazione, della Comunicazione che
della Teologia; molti dei docenti hanno una lunga esperienza didattica nel curricolo di catechetica, la loro esperienza è stata messa a servizio della lettura del Report di ricerca. Il secondo aspetto da sottolineare è la circolarità tra dati empirici, prospettive teoriche e aspetti applicativi. Alla rigorosa indagine empirica
fanno seguito le diverse letture dei dati (sociologica, psicologica, biblica, teologica, pedagogica, comunicativa, metodologica e propriamente catechetica). Alla lettura della situazione fatta da prospettive differenti fa seguito un momento prospettico (la sezione Attinenze e sviluppi) e la ricaduta applicativa nella progettazione e verifica del curriculum.
Auspichiamo che l’iniziativa non sia estemporanea ma sproni a progettare forme di monitoraggio continuo degli sbocchi professionali dei nostri ex allievi.

L’augurio è, infine, che i contributi presentati possano essere di utilità per i docenti del curricolo in vista di un miglioramento continuo della didattica e per i lettori esterni al fine di una conoscenza sempre più approfondita di un modello formativo che da settant’anni prepara i futuri professionisti della catechetica in diverse nazioni.


Prof. Antonio Dellagiulia
Decano della Facoltà di Scienze dell’Educazione
dellagiulia@unisal.it

ACCEDI ALLA RIVISTA ONLINE nella sezione “CATECHETICA ED EDUCAZIONE”

ALLEGATO:

CE-Anno IX Numero 2 – Agosto 2024

CATECHETICA ED EDUCAZIONE
Rivista «online» dell’«Istituto di Catechetica» della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma
«Catechetica ed Educazione» è una testata telematica, iscritta al Tribunale di Roma (registrazione n. 151/16 dicembre 2020), che persegue finalità culturali in ambito pedagogico-catechetico
Anno IX Numero 2 – Agosto 2024

XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 50,5-9a

         Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?  
  • I «Carmi del servo di JHWH» riflettono l’esperienza dell’esilio, di cui sembrano raccogliere la lezione: il valore redentivo della prova, delle afflizioni, del dolore.

     Già qualche profeta (per es. Geremia) aveva svolto una missione contrassegnata da sofferenze e persecuzioni, ora l’intera nazione, dispersa e disorientata, sta sopportando prove e disagi di ogni genere. Invece di ribellarsi o di reagire insensatamente contro Dio, era più saggio prendere dal Signore il «castigo» e prepararsi a ricevere, se a lui piace, il perdono e la riabilitazione.

     Il «Servo di JHWH» non è un individuo né una pura idealizzazione. È il simbolo dell’Israele migliore, di quelli che erano in grado innanzitutto di mettersi in ascolto di quanto era in procinto di dire Iddio al suo popolo. Non è facile dialogare con lui nella disgrazia. Nella circostanza si è portati a chiudersi in se stessi o a imprecare, ma il Servo reagisce e ascolta ciò che gli dice il Signore.

     Forse quando l’autore compone i «Carmi» l’esilio era anche passato, ma la situazione è quella precedente; gli uomini sono ancora sotto l’abbattimento, la stanchezza morale e fisica. La sfiducia può prendere anche il profeta, chiamato a rincuorare i fratelli, ma pensa il Signore a tenerlo sveglio.

     Il servo è un personaggio e più ancora una personificazione. In lui tutta la nazione rievoca le sofferenze e le umiliazioni subite nella deportazione e che continuano nella restaurazione poiché sono ancora sotto un dominatore. I colpi dei flagelli, lo strappo della barba sono i segni del dileggio morale e fisico a cui gli uomini sono sottoposti. Ma Israele nella sua afflizione ha un consolatore a cui fare affidamento: è JHWH. Il suo Dio è l’unico Signore, viene ripetuto nello Shema. Egli è ora a suo fianco anche in questo estremo frangente e lo aiuterà.

     Le prove possono fiaccare, ma sapute accettare dalla mano del Signore, irrobustiscono la fede, rendono più saldo il rapporto con Dio. Se JHWH è vicino, dalla parte delle vittime c’è sempre una speranza che la nazione possa sopravvivere. «Chi di voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo» (v. 10). È il senso di tutto il carme.

Seconda lettura: Giacomo 2,14-18

        A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».  
  • L’identità del credente è segnata non tanto dalle parole, ma dalle buone azioni che gli vengono suggerite dalla sua fede in Cristo. Non basta ripetere ciò che Gesù ha detto e aderirvi interiormente per essere salvi, ma occorre far propria la sua esperienza.

     Non si può dire che sia un comportamento cristiano il discriminare negli incontri comunitari un fratello dall’altro, privilegiare il ricco e umiliare il povero. «Avvilire l’indigente» non è agire come Dio agisce, né come Gesù ha esortato a fare. Il credere non serve a nulla se non è suffragato dalle opere che la fede propone. Sarebbe come il dire a degli ignudi e a degli affamati «riscaldatevi e  saziatevi» senza dargli né una veste, né un pane.

     La dottrina su Dio sarà sempre utile a instaurare rettamente i propri comportamenti quotidiani, ma se questi non vengono influenzati, modificati, riordinati dalla fede, non vengono conformati alla proposta di Dio (comandamenti) e alla testimonianza di Cristo, in altre parole, se non hanno nessuna risonanza pratica nella vita, servono ad aumentare la responsabilità e la condanna del credente.

     Se la fede non rifluisce nei comportamenti, non agisce nella vita, è «morta» (v. 17). È come non averla.

     Il v. 18 è misterioso. Sembra farsi avanti un interlocutore fittizio che contesta la tesi dell’inutilità della fede senza le opere (2,14). Certo la fede può precedere le opere e trovarsi anche senza di esse, ma alla fine rimane sempre vero che sono le opere a darle conferma. Talmente che se uno ha solo la fede senza le opere, la sua realtà può rimanere sempre insicura, mentre in chi compie la volontà di Dio, cerca di ripercorrere la testimonianza di Cristo anche se non ha fede esplicita, cioè non sa esattamente e senza colpa chi egli è, è egualmente un implicito credente. Le opere danno un’identità sicura, le parole da sole danno un’identità sempre dubbia.

Vangelo: Marco 8,27-35

         In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».
     

Esegesi

     Il brano di Mc 8,27-35 segna una svolta radicale nel vangelo di Marco. Chiude il ministero galilaico accompagnato da una solenne autorevole manifestazione di Gesù, che non è consentito capire e della quale non è neppure lecito parlare. Gesù preferisce passare in silenzio se non proprio in incognito. Fa tutti i suoi pronunciamenti, compie grandi prodigi che suscitano entusiasmo nella folla: 1,27 («che è questo?») 4,12 («Non abbiamo mai visto nulla di simile»), 4,47 («Chi è dunque costui?») 7,37 («Stupivano») e nello stesso tempo reazioni negative presso gli scribi e farisei: 2,7 («Perché costui fa queste cose? Bestemmia»), 3,36 («Ha uno spirito immondo»), 3,6 («tengono consiglio per farlo perire»). L’agire di Gesù sorprende anche le autorità che parlano per bocca di Erode Antipa, il tetrarca della Gallica (6,14).

     Gesù non solo non scopre il suo «segreto» ma proibisce a coloro che possono averlo intuito di parlarne. Tali sono gli ordini impartiti ai demoni (1,34; 3,12) e ai miracolati (1,44; 5,19; 5,43; 6.45; 7.36). L’evangelista afferma che a «quelli che erano attorno a lui», spiegava «in disparte» ogni cosa (4,38), ma il mistero rimaneva nascosto anche a loro.

     La tensione che domina la prima parte del vangelo di Marco si chiude con l’interrogatorio di Cesarea di Filippo, fuori della Galilea. Infatti dopo la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26) la comitiva si incammina verso «i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo», la capitale della Traconitide a due giorni di viaggio dal Lago di Tiberiade. È una meta reale e simbolica. L’evangelista vuole sottolineare che la prima manifestazione di Gesù avviene in terra pagana.

     La tradizione evangelica ricorda una confessione messianica di Pietro. Giovanni la colloca dopo il discorso sul pane della vita (6,68-69), i sinottici a Cesarea di Filippo. La ricostruzione della scena è più didattica che storica; deve appurare chi è Gesù. Ed è lui che ha proposto e quindi voluto questa «rivelazione». In genere i maestri sono interpellati dagli alunni; qui è Gesù che pone non le domande, ma la domanda che serpeggia in tutto il vangelo. E proprio per non introdurre exabrupto nella questione comincia da un’interrogazione sull’opinione della folla che serve solo a richiamare l’attenzione sulla vera risposta che viene dai discepoli («Ma voi, chi dite»).

     Alla luce del linguaggio veterotestamentario, cioè delle profezie messianiche dell’Antico Testamento, Gesù non poteva essere che una figura profetica, del tipo di Giovanni Battista o di Elia del quale si attendeva per di più il «ritorno» all’aprirsi dell’era escatologica (cf. Mal 3,23-24; Mt 11,14). Ma in tutti i modi le categorie dell’A.T. non sono idonee per spiegare chi è Gesù. Occorre una risposta che venga dall’esperienza di coloro che lo hanno conosciuto, che sono stati a suo fianco, alla sua scuola. Ed essi hanno capito che il loro maestro è più che un profeta, «è il Cristo». L’espressione «il Cristo», quando l’evangelista scrive, è la stessa che la Chiesa adopera per designare Gesù di Nazaret che è pur sempre un «grande profeta» (cf. Lc 7,16), ma anche il «messo» di Dio per eccellenza, il messia. In altre parole è il personaggio promesso per la fine dei tempi; allo scopo di imprimere alla storia della salvezza l’orientazione voluta dal creatore. Egli è colui che avrebbe ristabilito tutte le cose. Quindi era il fiduciario e il plenipotenziario di Dio; il salvatore, il «redentore», verrà aggiunto più tardi nella predicazione cristiana.

     Se l’espressione si limitasse alle intenzioni di Pietro forse il significato sarebbe stato più ristretto e supererebbe di poco l’espressione «figlio di David» (10,47-48) o «restauratore del regno davidico» (11,18), ma l’evangelista ripete più la fede della Chiesa che quella del primo apostolo. Essa sarà ribadita poco dopo nella «confessione» di Gesù davanti al Sinedrio (14,61).

     Ormai i discepoli conoscono colui a cui hanno dato la parola, di cui si sono messi al seguito, ma Gesù ha altre cose da aggiungere alla confessione dell’apostolo per questo è costretto a chiedere ancora di «non parlare» su tale dichiarazione (v. 30). E la «parola» nuova, inattesa da dire è quasi più importante della prima perché ne costituisce il presupposto (v. 32).

     Se pertanto la «confessione» chiude la prima parte del vangelo, la dichiarazione di Gesù apre la seconda, quella riguardante la «croce» e il «cammino» che porta verso di essa, in concreto verso Gerusalemme, il Golgota, e del «cammino» che si impone a quanti sono al seguito di colui che, pur essendo «il Cristo», è finito sul patibolo.

     I versetti 8,27.30 sono veramente al centro di tutto il vangelo. Gesù adesso non ha più veli nel parlare, non è sfuggente, né misterioso. Annunzia «apertamente» (parresiai) «la parola» (ton logon). Il testo è chiamato abitualmente la prima profezia della passione e della risurrezione, ma nell’attuale versione si è verificata una contaminazione tra i racconti del tragico avvenimento e la dichiarazione di Gesù al riguardo. Alcuni particolari sono passati da un quadro all’altro senza creare confusione, ma dando alla profezia più il colore di una narrazione che di un oracolo.

     L’essenziale dell’avvertimento di Gesù è che il Cristo, ma è chiamato più vagamente «il figlio dell’uomo», una designazione che richiama Dn 7,14, deve «molto patire» ed «essere rigettato». In altre parole, il messia non sarà accolto dal suo popolo, fino a condannarlo a morte, ma la morte non sarà la sua fine bensì l’inizio della sua vittoria (risurrezione). «Dopo tre giorni» è un’espressione ebraica per dire «dopo breve tempo», dopo «un corto intervallo».

     Il comportamento di Pietro, i «rimproveri» che fa a Gesù, sono verosimilmente storici, ma sono anche emblematici, esprimono non tanto il pensiero dell’apostolo, ma di ogni benpensante, di qualsiasi uomo che stenta sempre a capire come l’affermazione del bene, della verità abbia condizionamenti così irrazionali a cui non c’è alternativa. Si può accettare o rifiutare, non cambiare.

     La terza parte della pericope, vv. 34-35, è un’esplicitazione della seconda. Il vangelo (logos) della croce non riguarda solo Gesù, ma tutti i suoi discepoli, indistintamente. A tal proposito è convocata, non si sa da dove, anche «la folla» (ochlos). Se il programma del cristiano è quello di «seguire Gesù» (opiso mou elthein; akolouthein) si tratta di un cammino che non può arrestarsi a metà strada. Non può escludere la «croce» come non ha potuto escluderla Gesù. Per arrivare a ciò bisogna cominciare dalla dimenticanza di se stessi, dalla abnegazione. Occorre la forza d’animo, il coraggio di non prendere troppo in considerazione i propri interessi, i propri beni, la stessa vita. «Rinnegare» significa anche riconoscere i propri limiti. E non si tratta di farne un’offerta a Dio, ma ai propri simili ai quali si è in grado di accordare una più larga, generosa collaborazione.

     La «croce» che si è esortati a prendere fa prevedere che il prezzo della sequela di Cristo può equivalere alla perdita della vita, ma può non arrivare a questi estremi. Se la croce è il simbolo di qualsiasi sofferenza può designare ogni rinunzia che si impone al credente per tener fede ai suoi impegni.

     La massima conclusiva ribadisce (v. 35) in termini parenetici il messaggio di tutto il discorso tenuto da Gesù ai suoi. Il seguire Cristo non è un consiglio qualsiasi che può lasciare indifferenti l’ascoltatore. La «vita» (psyche) di cui parla Gesù non è né la semplice vita spirituale (anima), né la sola vita fisica (corporea). È l’una e l’altra insieme, cioè l’intera esistenza che comincia nel tempo e si protrae nell’eternità. Non solo non è indifferente il credere e il non credere, ma da esso dipende la felicità nel tempo e oltre il tempo.

Meditazione

    La pagina evangelica di questa domenica occupa un posto cruciale nel racconto di Marco. La professione di fede di Pietro, con il successivo «primo annunzio della passione», è infatti collocata al centro del libro e segna una svolta decisiva nel ministero di Gesù. D’ora innanzi il suo cammino prenderà una nuova ‘piega’, una nuova direzione, dirigendosi decisamente verso il luogo del compimento del suo pellegrinaggio terreno. Da Cesarea di Filippo (all’estremo nord del territorio palestinese) Gesù inizia il suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, in una marcia di avvicinamento che proseguirà a ritmo incalzante, senza ripensamenti e senza incertezze, fino allo scontro definitivo con i suoi avversari (la prima lettura ci presenta, in parallelo, la misteriosa figura del «servo del Signore» che con coraggio e determinazione va per la sua strada, noncurante delle minacce e dell’opposizione violenta, ma confidando solo nell’assistenza di Dio).

    «E per strada interrogava i suoi discepoli» (v. 27). Il Gesù di Marco è uno che interroga spesso, che fa sempre molte domande. I discepoli sono continuamente sollecitati a riflettere sul senso della loro esistenza, sulle ragioni della loro sequela e, soprattutto, sul mistero della persona che hanno davanti. «Ma voi, chi dite che io sia?» (v. 29a). È questa la domanda che, più di ogni altra, interessa a Gesù. La gente può dire tante cose, anche giuste e pertinenti, ma l’identità di Gesù non la si può ‘afferrare’ da lontano: solo una frequentazione assidua e quotidiana, solo una prossimità vitale può mettere nelle condizioni di accedere a una conoscenza non superficiale di lui. Si percepisce bene qui tutta l’attesa di Gesù per la risposta dei suoi discepoli. Ed ecco irrompere sulla scena Pietro che, facendosi il portavoce del gruppo, dà la sua bella risposta, chiara e sintetica: «Tu sei il Cristo» (v. 29b). È la prima volta che Pietro prende personalmente la parola nel vangelo di Marco e possiamo dire che lo fa in modo più che appropriato (non sappiamo come sia arrivato a formulare questa stupenda professione di fede; forse l’esperienza dello ‘stare con Gesù’ per lungo tempo avrà sortito qualche buon effetto…). Dal canto suo, Gesù non commenta la risposta di Pietro, anche se, in qualche modo, sembra approvarla. Gli preme solo che, per il momento, essa non venga divulgata: «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (v. 30).

    Gesù comincia allora a impartire il suo insegnamento, un insegnamento di capitale importanza poiché, per la prima volta, verte sulla sua sorte di passione e risurrezione. Egli è sì «il Cristo», ma i tratti che lo contraddistinguono sono alquanto inattesi e, comunque, assai diversi da quelli immaginati dai suoi discepoli. In una progressione impressionante, quattro verbi scandiscono il destino di sofferenza e di gloria che attende il «Figlio dell’uomo»: soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso, risorgere (v. 31). Nel momento stesso in cui i discepoli credono finalmente di aver compreso qualcosa intorno al loro singolare Maestro, ecco che si vedono ‘scaricare’ addosso parole scioccanti e incomprensibili: un Messia che deve passare per la sofferenza e la morte (senza dimenticare l’aspetto del rifiuto, della «riprovazione», non meno scandaloso). È questa necessità che i discepoli proprio non riescono a ‘digerire’: perché «deve»? Non potrebbe passare per un’altra via il destino del ‘loro’ Messia? Ed è proprio attorno a questo punto fatidico che esplode fortissimo il contrasto tra Gesù e i suoi. Ancora una volta è Pietro a farsi avanti, reagendo in modo deciso e disapprovando senza mezzi termini le parole di Gesù (addirittura si mette «a rimproverarlo»). Ma Gesù, con altrettanta energia, «rimprovera» Pietro bollando il suo atteggiamento come ‘satanico’ (v. 33). In nessun altro passo del vangelo è riportato un dissenso e uno scontro così violento tra i due! Pietro sembra trovarsi sotto l’influsso di uno ‘spirito cattivo’, tanto che Gesù si comporta con lui come un indemoniato (il verbo qui usato per indicare il «rimprovero» di Gesù, epitimá, è lo stesso generalmente adoperato per le scene di espulsione degli spiriti impuri: cfr. 1,25; 3,12; 9,25). Colui che aveva appena chiamato Gesù «il Cristo», si vede ora apostrofare con un titolo terribile e durissimo: «Satana»! Chi non pensa «secondo Dio», chi non riesce a sentire e a vedere le ‘cose’ di Dio lasciandosi guidare soltanto dai suoi istinti carnali, dai suoi desideri puramente umani, da tutto ciò, appunto, che è «secondo gli uomini», non può far altro che il gioco di Satana, il gioco dell’avversario di Dio per antonomasia. Invece di seguire Gesù, di lasciarsi condurre da lui sulla via di Dio, Pietro si mette davanti, ostacolando il cammino di Gesù e frapponendosi tra lui e il Padre suo (proprio come cercava di fare il Tentatore nel deserto!). Ma subito Gesù, in tono perentorio, ricolloca Pietro al posto che gli spetta: «Va’ dietro a me!». Così Pietro è di nuovo invitato a obbedire a quella voce udita al tempo della sua prima chiamata lungo il mare di Galilea quando, insieme a suo fratello Andrea, si sentì dire: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (1,17). Il posto del discepolo è sempre «dietro» – come rimarca ancora una volta Gesù nei due detti conclusivi (vv. 34-35) -; ma non solo: se non si osservano alcune condizioni basilari non si può, neanche lontanamente, cercare di seguire Gesù, di conoscerlo, di aderire a lui. Si tratta di imparare a dire di «no» a se stessi per dire di «sì» a un altro; si tratta di entrare nella logica paradossale del vangelo che implica il percorrere la via della croce, la stessa seguita da Gesù; si tratta, in ultima istanza, di spossessarsi persino della propria vita per riceverla nuova e ‘salvata’ dalle mani di Dio.

Immagine della domenica

Lagos de Covadonga (Asturias)     –     2021  

«Una ligera niebla,

un cielo pálido

y muchos deseos».

(Ivo Andric)

Casella di testo: Isaia 50,5-9a
Giacomo 2,14-18
Marco 8,27-35

La rivelazione cristologica di Cesarea è così rilevante che potrebbe diventare in se stessa un argomento per la predicazione. Tuttavia nel contesto di questa domenica l’intenzione del lezionario è di spostare il baricentro dell’ascolto sulle conseguenze di tale rivelazione. Lo stesso vangelo di Marco, a differenza p.es. di Matteo, non si sofferma sul primato di Pietro, sul quale invece sorvola, ma passa subito ad indicare il mutato tenore delle parole di Gesù ai suoi discepoli da quel momento in poi. Una volta proclamata vera la confessione di Pietro, “tu sei il Cristo”, Gesù “cominciò ad insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire…”. Il discorso di Gesù è tremendo quanto chiaro. La condanna della reazione spontanea di Pietro e la successiva spiegazione di Gesù, più che il modo e il contenuto della rivelazione del “segreto messianico”, sono gli elementi su cui soffermarsi. Il motivo per cui Gesù chiama Pietro addirittura “Satana”, evidenzia un modo di pensare diverso tra Dio e l’uomo. 

Ma il punto non è tanto che esistano due pensieri diversi, ma che essi si trovino praticamente tra di loro in uno stato di incomunicabilità. Due persone infatti normalmente non si capiscono se usano lingue di-verse. Ma non solo. Esiste un’altra situazione molto comune nella quale sorge l’incapacità a comunicare: quando alle medesime parole di una stessa lingua vengono applicati diversi riferimenti nel pensiero. Modi di pensare diversi possono costituire una barriera ancora più profonda alla reciproca comprensione. E il caso in questione è esemplare. Gesù ha parlato chiaro, senza mezzi termini, senza parabole, senza figure retoriche, senza riferimenti a concetti astratti o misteri profondi. “Fece questo discorso apertamente” annota il Vangelo con incisività. Gesù racconta quello che gli sta per accadere. Ma l’incomprensione scatta ugualmente a causa dell’interpretazione diversa delle cose. Gesù si riferisce al disegno del Padre, Pietro al semplice buonsenso umano che cerca di evitare i guai della vita.

Preghiere e racconti

La rinuncia a se stessi

Quando una situazione umana ci chiede una totale rinuncia a noi stessi, istintivamente cerchiamo il compromesso o semplicemente imbocchiamo la strada della fuga, ci accomuniamo agli apostoli, che anch’essi sono fuggiti di fronte al realismo della Passione di Gesù. A tanti livelli e su tanti piani dobbiamo cercare di smascherare le forme di fuga che caratterizzano il nostro preteso “servizio agli altri”. Quante volte a livello della famiglia, ci lasciamo andare alla ricerca soltanto della gratificazione dell’affermazione di noi stessi e non accettiamo le persone che ci sono vicine così come sono nella loro realtà, le vorremmo sempre diverse e ci arrovelliamo? Quante volte nell’ambito professionale ci lasciamo trascinare solo dall’interesse e non cerchiamo di rendere un servizio fino in fondo, servizio che ci chiede di uscire da noi stessi di prendere parte in qualche modo alla croce e di partecipare alla sua forza rivelatrice? Quante volte di fronte alle richieste che i nostri fratelli avanzano, noi manifestiamo disagio, stizza, rifiuto: tante realtà semplici della nostra vita quotidiana in cui Gesù dalla croce ci chiede di operare una profonda conversione, di metterci davvero in ginocchio davanti alla croce per coglierne il realismo e la fedeltà che cambiano la vita..

Innanzitutto, si rimane colpiti dal fatto che, nel Vangelo di Marco, la descrizione dei miracoli compiuti da Cristo sfuma, fino a scomparire del tutto, quanto più ci si avvicina alla Croce: è qui, dove Gesù non salva se stesso, che anche i miracoli muoiono. Se i miracoli sono i segni tangibili della potenza di Dio, la Croce ci dice in modo chiaro che questa potenza si manifesta soprattutto nell’amore e nel dono che Cristo fa di sé. Per Marco, il vero discepolo è colui che sa riconoscere il Figlio di Dio inchiodato sulla croce per la nostra salvezza (15,39).

«La croce è diventata la suprema cattedra per la rivelazione della sua nascosta e imprevedibile identità; il volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto la condizione, escluso il peccato (Ebrei 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della rivelazione di Dio agli uomini» (CVMC 14).

Porta ogni giorno la croce del Signore

Se anche tu fossi

così sottile e sapiente

da possedere ogni scienza

e interpretare ogni lingua

e scrutare i segreti del cielo,

di tutto ciò non potresti gloriarti,

perché un dèmone, da solo,

seppe delle cose celesti,

e ora sa delle terrene,

più di tutti gli uomini.

E se anche tu fossi il più bello

e il più ricco tra tutti gli uomini

e facessi cose mirabili,

come mettere in fuga i dèmoni,

tutto ciò non ti appartiene,

e non puoi affatto gloriartene.

Solo delle nostre infermità,

di questo solo possiamo gloriarci,

portando ogni giorno

la santa croce del nostro Signore Gesù Cristo.

(San Francesco D’Assisi)

Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte?

La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?

Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.

Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.

Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.

Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).

La domanda che ci interroga nel profondo: voi chi dite che io sia?

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.

E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (…).

Gesù interroga i suoi, quasi in un sondaggio d’opinione: La gente chi dice che io sia? E l’opinione della gente è bella e incompleta: Dicono che sei un profeta, uno dei più grandi! Ma Gesù non è semplicemente un profeta del passato che ritorna, fosse pure il più grande di tutti. Bisogna cercare ancora: Ma voi, chi dite che io sia?

Non chiede una definizione astratta, ma il coinvolgimento personale di ciascuno: “ma voi…”. Come dicesse: non voglio cose per sentito dire, ma una esperienza di vita: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? E qui ognuno è chiamato a dare la sua risposta. Ognuno dovrebbe chiudere tutti i libri e i catechismi, e aprire la vita.

Gesù insegnava con le domande, con esse educava alla fede, fin dalle sue prime parole: che cosa cercate? (Gv 1,38). Le domande, parole così umane, che aprono sentieri e non chiudono in recinti, parole di bambini, forse le nostre prime parole, sono la bocca assetata e affamata attraverso cui le nostre vite esprimono desideri, respirano, mangiano, baciano.

Ma voi chi dite che io sia? Gesù stimolava la mente delle persone per spingerle a camminare dentro di sé e a trasformare la loro vita. Era un maestro dell’esistenza, e voleva che i suoi fossero pensatori e poeti della vita. Pietro risponde: Tu sei il Cristo. E qui c’è il punto di svolta del racconto: ordinò loro di non parlare di lui ad alcuno. Perché ancora non hanno visto la cosa decisiva. Infatti: cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.

Volete sapere davvero qualcosa di me e di voi? Vi do un appuntamento: un uomo in croce. Prima ancora, l’appuntamento di Cristo sarà un altro: uno che si china a lavare i piedi ai suoi. Chi è il Cristo? Il mio “lavapiedi”. In ginocchio davanti a me. Le sue mani sui miei piedi. Davvero, come a Pietro, ci viene da dire: ma un messia non può fare così.

E Lui: sono come lo schiavo che ti aspetta, e al tuo ritorno ti lava i piedi. Ha ragione Paolo: il cristianesimo è scandalo e follia. Adesso capiamo chi è Gesù: è bacio a chi lo tradisce; non spezza nessuno, spezza se stesso; non versa il sangue di nessuno, versa il proprio sangue. E poi l’appuntamento di Pasqua. Quando ci cattura tutti dentro il suo risorgere, trascinandoci in alto.

Tu, cosa dici di me? Faccio anch’io la mia professione di fede, con le parole più belle che ho: tu sei stato l’affare migliore della mia vita. Sei per me quello che la primavera è per i fiori, quello che il vento è per l’aquilone. Sei venuto e hai fatto risplendere la vita. Impossibile amarti e non tentare di assomigliarti, in te mutato / come seme in fiore. (G. Centore).

(Ermes Ronchi)

“E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”

È facilissimo dare a Gesù un’identità secondo i nostri desideri ed è anche facile giungere a dire chi lui è, ma è molto più difficile accettare che sia lui a spiegare e a dire la propria identità. Il brano evangelico di questa domenica vuole proprio interrogarci sulla nostra fede-adesione conoscitiva a Gesù. Ascoltiamolo dunque.

Gesù nel suo ministero, con la sua parola autorevole, con il suo comportamento e con le azioni di liberazione dal male che compiva, destava domande sulla sua identità: “Che è mai questo?” (Mc 1,27); “Chi è mai costui?” (Mc 4,41); “Da dove gli vengono queste cose? E che tipo di sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria?” (Mc 6,2-3).

Vi erano giudizi su di lui: veniva definito bestemmiatore (cf. Mc 2,7), “pazzo, fuori di sé” (Mc 3,21), posseduto dal demonio (cf. Mc 3,22). Vi erano, infine, anche urla di demoni che, scacciati da Gesù, gli gridavano: “Tu sei il Santo di Dio” (Mc 1,24), “il Figlio del Dio Altissimo” (Mc 5,7).

Sono dunque i demoni che sanno esprimere la vera identità di Gesù, con la loro conoscenza sovrumana, mentre gli uomini non sanno o sanno poco. Al massimo arrivano a pensare che sia un profeta mandato da Dio (cf. Mc 6,15), perché compie i segni di Elia e di Eliseo, perché parla come gli antichi profeti, con la loro franchezza e autorevolezza, dovuta al fatto che dice quello che pensa e che vive, senza ipocrisie e senza vantare autorità acquisite per qualità sacerdotale o professionale.

Queste si acquisivano per appartenenza a una discendenza o per aver frequentato una scuola rabbinica, come quelle di Gerusalemme o di Tiberiade. Ma Gesù non può vantare nulla di tutto ciò: dunque, chi è in verità?

Egli approfitta di un viaggio insieme alla sua comunità fuori della terra santa, in una regione sirofenicia e pagana, alle pendici dell’Hermon, presso le sorgenti del Giordano, per chiedere ai discepoli la loro opinione su di lui. È Gesù stesso a interrogarli, nei dintorni di Cesarea di Filippo (la città che porta il nome di Cesare, il potente dominatore di questo mondo!), innanzitutto chiedendo che cosa la gente dice di lui.

Essi lo sanno, perché quanti non osavano avvicinare Gesù potevano parlare con loro, manifestando opinioni sul loro rabbi. I discepoli, in risposta, riferiscono a Gesù l’opinione più diffusa: la gente pensa che egli sia un uomo autorevole, un profeta, così simile al Battista suo maestro ucciso da Erode (cf. Mc 6,17-29), al punto da pensare che quest’ultimo fosse risuscitato dai morti (cr. Mc 6,16); oppure lo paragonano a Elia, il profeta degli ultimi tempi. In ogni caso, è percepito come un profeta.

Gesù però non si ferma a questa prima domanda, e pone loro quella seria e decisiva: “E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”. Questa domanda esige che i discepoli si chiedano se anche loro seguono l’opinione comune, ciò che quasi tutti pensano, oppure se hanno un proprio pensiero. Certamente tra i discepoli gli stessi Dodici non la pensavano tutti allo stesso modo.

Per Marco è però importante la dichiarazione di Pietro, colui che tra i Dodici teneva il primo posto. È lui – e non a nome di tutti, o come portavoce, ma personalmente – a proclamare: “Tu sei il Cristo, il Messia!”. Pietro dice che Gesù è più di un profeta, è l’inviato di Dio, unto dal Signore per stabilire il regno di Dio. Quella di Pietro è una vera confessione di fede, nella sua espressione teologica, perché Gesù è veramente il Cristo, il Messia (come appare fin dal primo versetto del vangelo secondo Marco), e questo sarà il suo titolo più importante per i giudei, per Israele.

E tuttavia l’evangelista non mette in bocca a Gesù parole che confermino tale confessione, che dicano un “amen” un “sì” a Pietro (come invece in Mt 16,17-19). Nel vangelo più antico questa confessione è accolta da Gesù nel silenzio e con l’imposizione del silenzio, perché era vera, ma poteva essere insufficiente, dunque doveva essere messa alla prova.

Ed è ciò che puntualmente avviene subito dopo. Non appena Pietro ha confessato la sua fede di giudeo credente, in attesa del compimento della promessa di Dio, ecco che Gesù può iniziare un insegnamento nuovo rispetto a quello della tradizione. Per questo “incominciò” (érxato) a dire che egli, Messia sì, ma – come amava definirsi – Figlio dell’uomo, “doveva soffrire molte cose, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.

Ecco l’insegnamento nuovo e scandaloso, ma fatto apertamente da Gesù. E allora Pietro che, insieme agli altri Undici, stava dietro a lui (opíso autoû), secondo l’usanza dei discepoli nei confronti del loro rabbi, accelera il passo, gli si pone davanti, lo precede e lo rimprovera. Per Pietro è impossibile un Messia che non trionfi, che non sia vittorioso sui nemici, un Messia rigettato dalle autorità legittime della comunità dei credenti di Israele, un Messia che subisca una morte violenta. E poi, cosa significa questo rialzarsi il terzo giorno?

Gesù allora può solo rispondergli: “Passa dietro a me (opíso mou), alla mia sequela, al tuo posto di discepolo”, e lo definisce “Satana”, cioè oppositore, avversario: a Pietro viene dato il nome del demonio! È facile dire a Gesù che egli è il Cristo, il Messia, ma è impossibile accettare un “Messia al contrario”, un Messia sofferente sconfitto; si tratta davvero di un insegnamento nuovo, e Pietro non è pronto ad accoglierlo…

Mosè era morto “sulla bocca di Dio” (Dt 34,5), Elia era stato da Dio assunto in cielo (cf. 2Re 2,1-18), e invece proprio il Messia deve subire violenza, condanna, rifiuto? Non può essere, pensa Pietro… E invece è così – dice Gesù – e in effetti così è stato.

Un abisso separa il piano, la volontà di Dio dai pensieri degli umani (cf. Is 55,8-9), anche dai nostri, dai miei! In verità è tanto facile acclamare Gesù come Cristo, cantarlo e invocarlo; ma accettarne la fine ignominiosa, il fallimento della missione, è scandalo, inciampo, è quasi impossibile per le nostre attese religiose.

E poi, al pensiero che dietro a un tale Messia, maestro e profeta si è coinvolti nella sua vicenda, allora siamo presi da paura e preferiamo non credere, non conoscere la vera identità di Gesù. E così siamo cristiani non del Vangelo, ma del campanile; cristiani culturalmente, non perché seguiamo Gesù; cristiani pii e devoti, ma lontani dall’ombra della croce.

(Enzo Bianchi)

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […]

«Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

La segnaletica del Calvario

Sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agl’incroci, ce ne sono altre, più piccole, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a imboccare l’unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne indico tre.

La freccia dell’accoglienza. E una deviazione difficile, ma che porta diritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono, con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d’identità! Sì, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che abita di fronte a casa mia. Il cristianesimo è la religione dei nomi propri, dei volti concreti, del prossimo in carne e ossa con cui confrontarsi, non delle astrazioni volontaristiche.

La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. E sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana.

La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture.

(Don Tonino Bello)

Canto alla croce

Ama la croce, luce e pace,

e per essa, ormai,

Cristo sia il tuo signore!

Tracciala su di te con la mano:

essa ti tiene e tu la tieni

con tutto il tuo essere.

Il cuore in croce, la croce nel cuore,

liberato da ogni bruttura,

calmo e sereno;

che ben forte la croce amatissima

dalle tue labbra sia proclamata:

lodata senza fine.

Nel riposo, nella fatica,

quando ridi e quando piangi,

conserva ben stretta

– quando vai, quando vieni,

nelle gioie, nei dolori –

la croce nel cuore!

(San Bonaventura)

Il dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij)

Preghiera

Concedimi, Gesù benignissimo, la tua grazia,

la quale sia con me e con me lavori e con me sino alla fine perseveri.

Dammi di desiderare e volere solo quello che è a te più accetto e più caramente piace a te.

Fa’ che la tua volontà sia la mia, e la mia volontà segua sempre la tua e concordi con essa a perfezione.

Che io abbia un unico volere e non volere con te; e che possa volere o non volere se non ciò che tu vuoi o non vuoi.

Dammi di morire a tutte le cose che sono nel mondo, e per te d’essere sprezzato e ignorato in questa vita.

Dammi sopra ogni cosa desiderata, di riposare in te e pacificare in te il mio cuore.

Te, vera pace del cuore, solo riposo, fuor di te ogni cosa è dura e inquieta.

In questa pace – cioè in te solo, sommo, eterno bene – dormirò e riposerò. Così sia.

(L’imitazione di Cristo, III, 15).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Serrano

PER L’APPROFONDIMENTO: