Ragionare dell’amore

Un libro sulla tenerezza e sugli affetti deve immediatamente smarcarsi dal pregiudizio che ha relegato questi temi alla loro declinazione sentimentale e romantica.1 Cose di «cuore», perché il pensiero alto, non s’arrischia nei terreni infidi degli affetti e dei sentimenti. Solo la psicologia ormai (e spesso una psicologia da bar) ha requisito le questioni dell’amore e degli affetti umani.

Il pensiero invece è stato a sua volta requisito dalla scienza e dalla tecnica, perché vale il diktat di L. Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». La tesi di Isabella Guanzini è che invece vale la pena di pensare e di continuare a parlare proprio su ciò di cui non si può, perché sono le uniche cose che possono salvare l’uomo da una deriva che consegna alla tecnica e alla razionalità anaffettiva il destino dell’umano.

Lo spunto d’avvio è il richiamo alla tenerezza che ritorna insistente nelle parole di papa Francesco, quando parla della «rivoluzione della tenerezza». Per l’autrice non è solo uno slogan e per questo prova a offrire a questo appello il rigore del pensiero critico.

Per farlo compie un «un lungo giro» (20) che inizia nel cuore della modernità, nella città metropolitana, luogo anonimo e freddo dove sembrano non aver posto le pratiche di prossimità e di tenerezza, punto d’aggancio per parlarne per via negationis. «Occorre parlare della tenerezza quasi senza nominarla: altrimenti svanisce, lei stessa spazio di discrezione e di umano pudore» (20).

 

Stanco dunque sono

«È nella città, ormai, che si definiscono i modelli della convivenza sociale, i parametri dell’esperienza emotiva», luogo dove tutto è possibile, dove le «potenzialità affettive di ciascuno sembrano allargarsi enormemente» (24).

Ma proprio questo genera anche paradossalmente un meccanismo di difesa anestetizzante. «Nella città (…) si fanno e si disfano costellazioni emotive a geometria variabile, esposte a una continua trasformazione atmosferica. Eccitante, ma anche estenuante» (26). «Tale sorta di “comunità dell’eccitazione” continua si rigenera di giorno in giorno come un sistema coerente di produzione di nervosismo globale, nova forma postmoderna di (un’irrequieta) coesione sociale. Contro il dispotismo di questa economia psichica metropolitana gli individui sviluppano un sofisticato sistema di immunizzazione» (37).

È l’homme blasé,2 l’uomo affaticato, distaccato, pronto ad «attutire l’impatto degli stimoli esterni, anestetizzando i soggetti contro l’eccesso del reale» (38). Questa presa di distanza dalle cose e dagli altri assume presto una forma aggressiva. Riprendendo Žižek: «il rispetto dell’alterità e la paura ossessiva della molestia», «l’Altro va bene nella misura in cui la sua presenza non è intrusiva, nella misura in cui l’Altro non è veramente Altro» (cit. a p. 41). «Nel tempo dell’uomo senza tenerezza, in cui il denaro diviene regolatore unico di tutti gli scambi simbolici (…) fra ottundimento emotivo e ideologia della prestazione, la soggettività urbana mostra i tratti di un’individualità un po’ esausta» (47).

Proprio sulla stanchezza si concentra il terzo capitolo operando intriganti accostamenti tra l’ultimo uomo di Nietzsche («una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute») dove l’homme blasési rassegna ai piccoli godimenti compensativi che non fanno che aumentare una vita esausta; la riflessione di B.-C. Han sull’anima esausta;3 e i versi di C. Péguy  dove la stanchezza è il sintomo di un abbandono impossibile, un’incapacità a fidarsi di colui che opera mentre gli uomini riposano.Il sintomo colpisce soprattutto le giovani generazioni, la gioventù postmetafisica (capitolo 4): «Questa mentalità anestetica e cinico-scettica ha deciso gli ultimi decenni del tipo psicologico medio delle metropoli globali: entro questa costellazione a bassa intensità affettiva e ad alta spregiudicatezza istintiva, si espandono territori di sensibilità estraniate e solitarie, senza linguaggio e senza compagnia, ma colmi di domande inespresse e multiformi euforie» (59).

«Nessuno può donarsi interamente» (W Benjamin): che suona in realtà come l’invocazione di una grazia, una nuova «nostalgia religiosa», una mancanza del desiderio come contro effetto alla «pulsione iperattiva e iperproduttiva del tempo presente» (62).

La disanima della condizione attuale si conclude con la «Durezza di Narciso» (capitolo 5). Gli interlocutori qui sono Adorno da un lato, per il quale è «decisivo reimparare a sentire, per poter guardare e abitare la terra in modo nuovo» contro ogni indifferenza e durezza imperturbabile; ma soprattutto Lacan, che invita a comprendere il gesto di Caino in stretta relazione con quello di Narciso.

L’eliminazione del fratello e l’ipertrofia dell’io sono due fenomeni che vanno di pari passo. La malattia psichica che affligge l’uomo moderno mostra un tratto marcatamente narcisistico e anaffettivo. «Il primo passo è quello di diventare coscienti della propria zona inconscia, non per dominarla o portarla alla luce, ma per accettarla, riconoscendo che non tutto può essere controllato, che qualcosa sfugge alla volontà del soggetto, spiazzandolo e disorientandolo. Tale senso di mancamento non è sintomo di una malattia ma, al contrario, della prima presa di contatto con una verità che ci riguarda profondamente, e che tocca la nostra comune vulnerabilità» (76).

 

Mappa degli affetti possibili

Qui s’innesta la rivoluzione della tenerezza (capitolo 6). Il punto d’aggancio è proprio la vulnerabilità: «Solo la mancanza promuove il desiderio e solo il desiderio è in grado di suscitare l’amore (…) soltanto un soggetto che riconosce la propria vulnerabilità sa chiedere e donare perdono; soltanto un soggetto esposto e ferito, che ha sperimentato l’abbandono e la grazia può aprirsi a un’autentica esperienza d’amore. Soltanto l’amore del nemico e il perdono dell’offesa ricevuta possono interrompere la catena mortifera della vendetta e della perpetuazione del male» (77).

Temi decisamente cristiani s’incrociano con il pensiero contemporaneo, in particolare – mi pare – con la riflessione di Lacan: «“Amare” afferma infatti Lacan, “è donare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole”. Come si può dare ciò che non si possiede? E a qualcuno che non lo desidera? L’amore, in effetti, non è mai qualcosa, (…) non è soddisfazione di un bisogno o fame d’oggetto (…) È dono di niente, ossia qualcosa che non si pone nella dimensione dell’avere o del non avere ma sotto il segno del simbolo, del riconoscimento del nome; è dono non di quello che si ha ma di quello che si è, ossia della propria non onnipotenza, della propria fragilità, del vuoto che un soggetto apre nell’altro nel momento in cui viene amato» (79s).

Contro ogni versione dell’amore come rispecchiamento e ideale fusionale occorre affrontare il rischio della differenza, di relazioni imperfette e mai compiute e per questo capaci di desiderio.

Il percorso in positivo cerca di descrivere una «mappa degli affetti possibili» (capitolo 7) sulla scia del pensiero di Spinoza. «Occorre soprattutto un linguaggio capace di ospitare i movimenti dell’anima (…) Oggi mancano ancora le parole per un mondo comune, perché manca un lessico all’altezza della potenza degli affetti (…) Bisognerebbe realizzare vere e proprie mappe grazie a cui poterci quantomeno orientare nel mondo sovrabbondante e indomabile degli affetti possibili» (87).

Questa mappa chiede di tenere insieme sentimenti, corpo e pensiero: tutte dimensioni che oggi rischiano di essere costantemente dicotomiche. A partire dal pensiero di Spinoza, l’autrice inizia a disegnare un percorso che si muove tra «tristezza» e «gioia», come due vettori, uno che porta a vicoli cechi, pensieri oscuri e passioni tristi, l’altro che apre alla vita. Sempre a partire dal corpo, «dal suo potere di essere affetto» (90).

«La gioia aumenta la propria potenza d’agire, perché è l’effetto di un incontro con qualcosa capace di comporsi con il proprio corpo e il proprio mondo interiore. Accade un evento aggregante, si formano nozioni e pensieri comuni, in cui ci si sente più intelligenti. (…) Gli affetti gioiosi sono come trampolini (…) spingono a formare idee comuni tra i corpi» (90s).

«L’amore, più che una passione, è un affetto: non è un’esperienza che si subisce, ma un atto di conoscenza. È un modo di percepire e vedere il mondo, che diviene pura espressione di gioia alla presenza di un altro» (92). «Proprio la percezione e l’accettazione della distanza e della differenza che ci separa dall’altro è segno della realtà e verità dell’amore, in cui si comprende l’inaccessibilità dell’altro senza essere spinti a violarla o annullarla» (92).

Gli ultimi tre capitoli della parte argomentativa provano a cimentarsi in questa costruzione di una mappa degli affetti possibili, in tre direzioni: «La stanchezza che cura» (capitolo 8), «Il sabato del villaggio globale» (capitolo 9), «Giochiamo!» (capitolo 10).

 

Accogliere la propria fragilità

Nella cura la stanchezza può diventare quel «giogo» (cf. Mt 11,30) condiviso che diventa legame leggero. «C’è infatti una stanchezza buona, che può aprire a visioni inattese. (…) Un cordiale disarmo dell’io (…) che relativizza la volontà di controllo e di azione, aprendo uno spazio salutare di indugio e di cortesia. (…) Non si tratta più della stanchezza dell’io, ma della stanchezza del noi» (100).

«È proprio nei momenti di stanchezza che si frantumano le barriere, si gettano a terra le maschere e si depone la corazza dell’io, insieme all’illusione della sua onnipotenza. In questo modo, si entra a contatto con la propria realtà indifesa, con i propri limiti e idiosincrasie. È precisamente qui che percepiamo la nostra vulnerabilità infinita, la nostra struggente esposizione al mondo, che ci porta a invocare, silenziosamente o a gran voce, la presenza amica dell’altro (…) appello alla tenerezza per l’umano vulnerabile» (105).

Il capitolo sul sabato raccoglie frammenti della tradizione ebraica sulla festa, il riposo, l’interruzione che dona senso al lavoro, quel tempo straordinario che orienta il tempo feriale, il controcanto che riabilita la dimensione inoperosa della vita, ciò che ci fa restare uomini liberi.

Riprendendo le riflessioni di un filosofo contemporaneo (Agamben) la nostra autrice le ripropone con categorie moderne. «Ciò che ci rende liberi è precisamente una presa di contatto con la nostra zona d’impotenza e di non conoscenza, che rivela la nostra finitezza, prendendosi cura, teneramente, della nostra fragilità» (113).

«È il tempo del fare intransitivo e della pura festosità, ossia di quella particolare modalità dell’agire e del vivere che celebra e santifica la condizione della inoperosità. Non si tratta di una mera astensione dal lavoro, ma di una “trasformazione festosa” della sua economia interna, una disattivazione delle sue potenze snervanti, in modo che da esse irradi una dimensione umana, delicata e gratuita dell’agire» (115).

Forse il più originale è il percorso che conclude la mappa degli affetti, quello sul gioco. Tempo di creazione e di conquista «dove tutto è presente: gioia e dolore, sforzo e rilassatezza, tenerezza e durezza. Il gioco è un’attività che abita il tempo di svago e di riposo dal negotium quotidiano, nel senso dell’improduttività pratica e di un sostanziale disinteresse materiale. (…) luogo in cui si può sperimentare una sorta di felice sintesi tra regole e libertà» (119).

«Forse sta proprio nel piccolo spazio che si crea fra la fissità delle regole e la sensazione di libertà nell’azione il segreto della felicità del gioco. È uno spazio speciale di negligenza e noncuranza che ha tutti i tratti della tenerezza, perché è come una grazia» (120). Tempo di ricreazione del mondo a partire dai suoi scarti, dalla «pietra scartata» (cf. Mt 21.42) che diventa principio di un modo diverso di vedere il mondo: «Il bambino non usa semplicemente il mondo ma lo crea, e il mondo gli risponde con forme nuove che rotolano e cose vecchie che camminano (…) Per questo i bambini amano così tanto i resti… proprio quando il mondo degli oggetti perde la proprie forme definite ecco che acquista una varietà di forze infinite. Quando il mondo è ormai tutto a pezzetti, i bambini sono come spinti da una frenesia del riciclo, con la quale costruiscono un mondo dentro al mondo in cui tutto assume un carattere salvifico giocando» (125).

Giocare è una cosa seria

E per i bambini, lo sappiamo il gioco è una cosa seria: «La vita non è un gioco. Il gioco, però porta in campo l’esercizio simbolico della nostra attitudine ad affrontare le sfide dell’esistenza, enfatizzando l’amore per la vita nella sua semplicità (…) Il gioco ritualizza l’esercizio di una vita continuamente messa alla prova, incoraggiandoci a venirne lietamente a capo, per amore della vita stessa (…) La tenerezza, si può dire, è alla prova del gioco. Naturalmente, c’è modo e modo di giocare. Dove il gioco è afferrato nelle spire della volontà di potenza, dell’avidità del denaro e della saturazione del godimento, l’iniziazione alle prove essenziali della vita è rimossa, e il carattere distruttivo prenderà il sopravvento. Dove il gioco genera e rigenera invece passione per le abilità della vita, mettendo in circolazione felicità e desiderio di vivere, mettendo i circolazione talenti, divertimenti e abilità, le passioni tristi potranno essere affrontate e sfidate con le risorse di un’abilità condivisa. Questa abilità delle passioni liete, che fronteggia i giochi duri della vita senza perdere amore per la vita è una definizione perfetta della tenerezza» (128-129).

Il testo si chiude con tre racconti, uno preso dalla mitologia, uno dal Vangelo e uno dall’attualità. Perché oltre che pensarla, la tenerezza occorre raccontarla. Ritrovarla nei miti fondatori come in quello di Enea che ricorda come la civiltà occidentale sorge anche a partire da quel gesto di pietas con cui il fuggitivo Enea porta sulle spalle il vecchio padre Anchise.

Ritrovarla nelle pagine evangeliche dove la durezza della legge è sospesa davanti al gesto silenzioso di Gesù davanti all’adultera. O nell’ospitalità offerta a chi oggi vive esodi tremendi e trova accoglienza sulle sponde di un’Europa che sembra esausta ma che ancora potrebbe rinascere da un gesto di compassione.

Vorrei concludere con un’osservazione. In questo testo Isabella Guanzini compie un’operazione delicata e decisiva: prova a dire qualcosa che appartiene intimamente al cuore del cristianesimo – come la misericordia e l’amore, la tenerezza e la compassione – usando il linguaggio degli uomini contemporanei. Operazione che chiede un lungo apprendistato.

Occorre imparare la lingua dell’altro per poter dire qualcosa di proprio con parole nuove. Le nostre stesse parole devono compiere un esodo, andare in terra straniera, perché poi le si possa ascoltare come nuove. Non è allora così strano che di temi così intimamente connessi con il cristianesimo si possa sentirne l’eco in autori che vengono da un altro mondo linguistico e culturale, anzi che provengono proprio da quel mondo che si presenta così estraneo al cristianesimo stesso.

Ma, in fondo, dire il Vangelo con la lingua dell’altro, anzi lasciarci dire il Vangelo dall’altro nella sua lingua, non è il compito proprio dell’evangelizzazione, e non è il modo per ritrovarlo e risentirlo in tutta la sua novità?

Antonio Torresin

 

1 I. Guanzini, Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile, Ponte alla grazie, Milano 2017, pp. 165, € 14,00.

2 Il riferimento è a G. Simmel, «Die Großtädte und das Geistesleben», in T. Petermann (a cura di), Die Grossstadt. Vorträge und Aufsätze zur Städteausstellung. Dresden 1903; trad. it. Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995.

3 B.-C. Han, Müdigkeitsgesellschaft, Matthes & Seitz, Berlin 2010; trad. it. La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.

4 C. Péguy, «Le mystère des saints innocents», in Cahiers de la Quinzaine, 13(1912); trad. it. Il mistero dei santi innocenti, MIRCU, Milano 1963.

Religione a scuola: un’ora di libertà

Con piacevole sorpresa accogliamo la notizia della pubblicazione di una lettera da parte dei vescovi italiani a tutti gli insegnanti di religione cattolica. La lettera si riallaccia a una precedente, pubblicata a quasi 25 anni di distanza, che i vescovi esortano a riprendere in mano perché essa continua a conservare e custodire le caratteristiche di fondo dell’insegnamento nato con l’Accordo di revisione del Concordato del 1984.

I nodi essenziali dell’insegnamento della religione cattolica

Di quelle caratteristiche i vescovi italiani in questa nuova lettera riprendono alcuni aspetti che ritengono debbano meritare uno sguardo aggiornato visto il mutato contesto sociale e culturale. Primo nodo cruciale: l’Insegnamento di religione cattolica (IRC) rimane prezioso per tre soggetti: scuola stessa, società, comunità ecclesiale. Secondo nodo: il valore dell’IRC oggi vanta un profilo altamente scolastico pur avendo mantenuto la nota di confessionalità. Terzo nodo cruciale: se l’IRC è disciplina scolastica e confessionale al contempo e sa parlare ad intra e ad extra, sembra perfettamente attagliarsi in un’Italia ormai multi-religiosa e pluri-culturale.

Il patrimonio culturale del cattolicesimo è immenso e spesso mi fa tenerezza sentire a volte da parte di qualche alunno: «Prof, perché la religione ha un programma?». In una fase estremamente fluida della vita sociale – cito un passo della lettera – dal punto di vista etico e valoriale, l’IRC potrebbe offrire lo spessore adulto ed educativo adeguato di cui i ragazzi hanno bisogno. Ma è la dimensione storica, secondo me, la chiave sottolineata dai vescovi per illuminare le generazioni future. Essi insistono sull’importanza del fattore religioso nel dibattito pubblico per una società democratica matura.

Democrazia e complessità del fenomeno religioso

Credo che i nostri vescovi siano convinti che la vera democrazia è quella che garantisce tutte le libertà di scelta, in primis il principe delle libertà di scelta: la libertà religiosa. Lo studio delle religioni e/o delle componenti della dimensione religiosa dell’umano, che i vescovi sottolineano essere uno dei tratti caratteristici delle indicazioni scolastiche, non possono che favorire processi di incontro, di dialogo, di integrazione, quindi di democrazia.

Io in classe spesso uso la parola democrazia, ribadendo che l’ora di religione è l’ora della libertànon quella naturalmente di non far nulla, ma quella nella quale liberamente si è deciso di far qualcosa per sè stessi. E i ragazzi comprendono quello che voglio dire perché in essi è viva questa sensibilità per la libertà. Gli alunni, già dallo stesso inquadramento di non-obbligatorietà disciplinare della religione cattolica nell’ordinamento giuridico scolastico, se ben indirizzati dal docente a rifletterci su, possono apprendere la bellezza del fenomeno religioso, le sue aperture, le sue potenzialità ad una convivenza pacifica.

L’insegnante di religione e le comunità ecclesiali

Questo è il punto più utopico, e lo dico in senso alto e nobile e non in senso deleterio e rassegnato. I vescovi, in coerenza con la nota distintiva della confessionalità, con la peculiarità della figura di educatore credente che ne discende e che si pretende, con l’istituto dell’idoneità quale segno di riconoscimento di certe qualità in nome della comunità ecclesiale tutta, dedicano la terza ed ultima parte della lettera al rapporto tra IRC e comunità ecclesiale. Sono sincero: onore ed onere in quello che i vescovi asseriscono! L’IRC va ricollocato nel quadro dell’azione pastorale complessiva.

Ripeto perché non è cosa da poco: il mondo della scuola è un pezzo di mondo a cui la Chiesa non può più fare a meno di guardare se è vero, come è vero, che la realtà dove il parroco era pure l’insegnante è tramontata ormai da un pezzo. I vescovi ci chiamano ad un compito arduo: testimoniare e animare senza mai confondere missione evangelizzatrice e insegnamento scolastico, praticando il dialogo culturale nei confronti delle altre discipline e delle altre religioni. Ma ancor più interessante: tutto questo non rimane fuori dalla porta della parrocchia o del luogo dove un gruppo ecclesiale si riunisce. La competenza e l’esperienza vanno valorizzate dentro la comunità ecclesiale, in ogni settore di essa.

GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

Prima lettura: Ezechiele 34,11-12.15-17  

Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.

Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia. A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.

 

  • La pericope consolatoria fa parte dei quattro oracoli sul tema del «pastore»: il primo è un oracolo minaccioso contro gli indegni pastori d’Israele (34,1-10), il secondo, da cui è estrapolato il brano in questione presenta JHWH come pastore di salvezza (34,1-16); il terzo ritorna a minacciare i cattivi pastori (34,17-22); il quarto è la promessa della venuta di Davide come pastore e principe.

      Il Signore rassicura il suo popolo: egli stesso interverrà a riorganizzare la comunità a lui fedele, togliendola ai cattivi pastori, e verrà a prendersi cura personalmente di ciascuno dei suoi. La parola del Signore Dio diventa motivo di speranza per il suo popolo, egli sarà per i suoi eletti come il pastore che ama il suo gregge e passa continuamente in mezzo ad esso per assicurarsi che nessuno manchi. Recupererà le pecore dovunque esse siano disperse e le ricondurrà nei verdi pascoli. Le passerà in rassegna una ad una, si renderà conto dei bisogni di ciascuna: curerà quella malata, fascerà quella ferita, ricondurrà all’ovile quella smarrita, ma non si dimenticherà neppure della grassa e della forte. Tutte pascerà con giustizia e per tutte emetterà il suo giudizio separando le pecore e le capre.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 15,20-26.28

Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.

Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.  E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

 

  •  Il capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi, che presenta una profonda riflessione di Paolo sul grande tema teologico della risurrezione dei morti, occupa un posto centrale nell’economia della lettera stessa e spesso viene considerato come uno dei punti focali per la lettura e l’interpretazione di tutto lo scritto.

      Il capitolo si articola in due grandi parti: la prima (vv. 1-34), della quale fanno parte i versetti che si proclama nella seconda lettura della liturgia eucaristica di questa domenica, affronta l’interrogativo di fondo sulla risurrezione dei cristiani, affermando e motivando la loro speranza nella risurrezione di Cristo, «primizia» di coloro che sono morti; la seconda (vv. 35-58) analizza il problema circa la «modalità» della risurrezione dei corpi e ne sottolinea la differenza rispetto alla condizione umana e terrena.

      Paolo intende mettere in evidenza il legame fra la risurrezione di Cristo e la futura risurrezione dei credenti. La risurrezione di Gesù non è un fatto isolato e unico. Cristo è bensì il primo di quanti lo seguiranno sulla stessa via. Gesù è primizia, il primo frutto del campo. Egli non è il primo solo in ordine cronologico, ma è il primo in ordine di un «inizio»: dopo di lui, che comincia, verranno tutti gli altri. Il rapporto è intrinseco, in forza di Cristo risorto anche gli altri risorgeranno: egli è il principio attivo, la causa della risurrezione di quanti sono a lui intimamente legati.

      Il parallelismo con Adamo serve a Paolo per spiegare il legame del credente con Cristo e si serve di una concezione teologica assodata: la trasmissione del peccato di Adamo. Detto questo, Paolo fa riferimento agli eventi della fine: venuta gloriosa di Cristo (parusia), realizzazione completa del suo dominio regale su ogni forza contraria, regno conclusivo di Dio. Paolo nella descrizione assume lo stile convenzionale dell’escatologia e dell’apocalisse: la fine, la sconfitta delle potenze malvagie; ma gli eventi ultimi sono caratterizzati da Cristo, dalla sua apparizione e dal suo dominio regale; la risurrezione dei credenti fa parte del suo futuro di vincitore.

      Paolo accenna anche ad alcune fasi che hanno fatto pensare che egli prospettasse una fase del regno di Cristo caratterizzata dalla risurrezione dei credenti distinta da quella ultima del regno di Dio. In realtà l’unica vera distinzione di tempi è quella tra Cristo, il primo, e i credenti. La scansione successiva serve solo all’autore per sottolineare la ricchezza dell’evento che, iniziato con la risurrezione di Cristo, avrà il suo compimento definitivo nel futuro del suo regno pienamente realizzato, che comporta la risurrezione o la vittoria sulla morte e che sfocia in Dio.

 

Vangelo: Matteo 25,31-46

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.

Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.  Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.  Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.  E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

 

Esegesi 

      Questa pagina evangelica riporta la chiusura del discorso escatologico, sulla venuta del Figlio dell’uomo, con una descrizione grandiosa della scena del giudizio finale (vv. 31-46). S’impone all’attenzione per la forza del suo messaggio e per la suggestione della sua scenografia, ricca e colorita, e per la presenza di un duplice dialogo.

      Si tratta di un testo di largo respiro universalistico che presenta l’appartenenza al regno come concreta conseguenza della reale accoglienza del fratello bisognoso. Il dramma del giudizio si svolge secondo due momenti preceduti da una introduzione (vv. 31-33) che presenta la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo, la convocazione dei popoli e la loro separazione.

      La parte centrale (vv. 34-45) presenta il dialogo del re prima con quelli di destra e poi con quelli di sinistra; la conclusione descrive l’esecuzione delle sentenze con la doppia via a cui si avviano giusti e ingiusti. Il giudice è chiamato «Figlio dell’uomo» e «re». La presentazione di Gesù di Nazareth è solenne e gloriosa; egli è il Messia perseguitato, crocifisso e ucciso e che ora si presenta glorioso e risorto. È il Figlio dell’uomo non più legato alla debolezza e alla fragilità della condizione umana, ma è il re vittorioso, il giudice universale del mondo intero.

  Un giudice, tuttavia che pronuncia il giudizio a partire dalla croce e quindi dalla logica dell’amore donato e offerto per la salvezza di tutta l’umanità. Il re che giudica svela il vero senso dell’amore apparso nel crocifisso: sterile, vuoto e senza senso per i più, ma fonte infinita di redenzione e di grazia.

      La pagina evangelica ci rivela dunque il vero volto di «Cristo Re» e ci suggerisce la vera identità dell’uomo da lui redento: un uomo che si fa guidare solo dall’amore verso i fratelli e che proprio a partire da questo amore (o dall’assenza di amore) verrà giudicato.

      L’immagine del re che giudica sul trono si confonde con quella del pastore che vigila e custodisce il suo gregge, rendendo il testo pienamente aderente al messaggio biblico dell’Antico Testamento. Risalta pure l’opposizione fra i due gruppi che sono in relazione con il re che siede sul trono: quelli che stanno alla sua destra e quelli che stanno alla sua sinistra. Opposizione che sarà ripresa e scandita alla fine del brano con la «benedizione» per i primi e con la «maledizione» per i secondi; con l’ingresso nel regno «preparato per voi fin dalla creazione del mondo» per i primi, con l’abbandono nel fuoco eterno «preparato per il diavolo e i suoi angeli» per i secondi; con l’identificazione dei primi con «i miei fratelli più piccoli» e con la presentazione lapidaria dei secondi chiamati «quelli».

      L’elenco delle situazioni di bisogno alle quali corrispondono l’opera prestata o negata segue ancora uno schema di raggruppamento a due e percorre in modo sintetico tutta la condizione umana e bisognosa dell’uomo.

      In questo testo Matteo sottolinea l’importanza di rendere conto a Cristo di tutte le azioni «fatte o non fatte», alla luce di quanto era stato già anticipato nel grande discorso della montagna (Mt 7,21-23). Matteo sottolinea inoltre che l’essenziale della vita cristiana non sta nel dire o nel confessare Cristo a parole, ma nel praticare l’amore concreto per i poveri, i forestieri e gli oppressi.

      Ogni aiuto che si presta al prossimo in una situazione di bisogno è un aiuto dato a Gesù stesso, ha un valore permanente e imperituro, ci rende pronti per la vita eterna e ci apre le porte del regno dei cieli. L’omissione o il rifiuto di aiuto causa la rovina nel giudizio e conduce al castigo eterno.

 

Meditazione 

     Questa ultima domenica dell’anno liturgico presenta un messaggio escatologico centrato su un intervento di Dio che è di giudizio. Nella prima lettura Dio annuncia che egli in persona opererà un giudizio sul suo popolo, non solo nei confronti dei capi (montoni e capri), ma di ciascun membro del popolo (pecore). Il vangelo presenta Gesù quale re e giudice escatologico che separa pecore e capre, che opera il giudizio su ogni uomo basandolo sulla concreta prassi di carità. Paolo parla dell’estensione della signoria di Cristo Risorto che raggiungerà il suo apice nella sottomissione della potenza della morte che imperversa nella creazione sottomettendola a caducità.

     Il giudizio è elemento centrale della fede cristiana. L’annuncio del giudizio vuole suscitare la responsabilità del credente nel mondo affinché la sua prassi unifichi misericordia e giustizia. La sua portata universale, per cui riguarda ogni uomo, va intesa anche nel senso di giudizio di tutto l’uomo, ovvero, come sguardo di Dio che fa emergere il bene e il male che abitano nel cuore dello stesso uomo: «Il medesimo uomo è in parte salvato e in parte condannato» (Ambrogio, In Ps. CXVIII Expositio, 57). Affinché Dio sia tutto in tutti, affinché solo l’amore resti e non ci sia più il male occorre il fuoco purificatore dell’incontro con il Signore che bruci ciò che in noi è contrario all’amore.

     L’evocazione matteana del giudizio, con l’elemento determinante della sorpresa dei giudicati, mette a nudo il cuore dell’uomo e conduce il lettore del vangelo a interrogarsi sulla qualità della sua prassi.

     Il giudizio è anche l’atto attraverso cui Dio può instaurare la sua giustizia e la sua signoria sulla storia e sull’umanità. Il giudizio è misura di giustizia divina nei confronti di tutti coloro che nella storia sono stati oppressi e sfruttati dagli uomini, che nella vita sono stati soltanto vittime, senza soggettività, senza voce, senza diritti.

     Il giudizio rileva in particolare l’omissione, il peccato del non fare. Ovvero, il peccato più diffuso e che più facilmente si può coprire con giustificazioni e scuse. Il «non amare» è il grande peccato: Dio ci giudica nel malato o nel carcerato che non visitiamo, nel bisognoso di cui non ci prendiamo cura, nell’altro che non amiamo. Se il giudizio di Dio è il suo sguardo che vede ciò che abita nel cuore dell’uomo, esso smaschera anzitutto ciò che non abbiamo voluto vedere: esso vede il nostro vedere e il nostro non-vedere.

     Questo sguardo di Dio giudica anche il tipo di sguardo che abbiamo sul povero e sul bisognoso. Giudica il nostro giudicare l’altro per cui un carcerato è uno che ha ciò che si merita, lo straniero è uno che disturba la nostra tranquillità, il malato è uno che sconta i suoi peccati… Il giudizio divino giudica il nostro chiudere le viscere a chi è nel bisogno (1Gv 3,17).

     L’universalità del giudizio emerge anche dal fatto che si fonda sulla valutazione di gesti umani, umanissimi, fatti (o non fatti) da credenti e da non credenti. I semplici gesti di aiuto, carità e vicinanza espressi in Mt 25,31-46 costituiscono una sorta di grammatica elementare dell’umana relazione con l’altro. Una grammatica senza la quale non si potrà mai comporre una frase veramente cristiana. Il volto supplice dell’altro mi interpella: l’uomo è colui che risponde di un altro uomo.

     Negli esempi di aiuto e prossimità enumerati nel testo evangelico vi è un aspetto spesso trascurato nella riflessione: la capacità di lasciarsi aiutare, di lasciarsi avvicinare, toccare, curare. La capacità e l’umiltà di lasciarsi amare fattivamente. Una capacità che rivela una dimensione di povertà più radicale della malattia o della fame o della nudità e che si chiama umiltà. L’umiltà che può nascere dalle umiliazioni operate dalla vita o procurate dagli uomini.

     Come imparare a fare il bene agli altri? Dal proprio desiderio, risponde Gesù quando dice di fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi (Mt 7,12). E il desiderio che abbiamo è di essere amati, raggiunti dagli altri nel nostro bisogno. Così, «colui che fa del bene al suo prossimo, fa del bene a se stesso, e colui che sa amare se stesso, ama anche gli altri» (Antonio, Lettera IV,7).

 

L’IMMAGINE DELLA DOMENICA

 

PASTORE A MORAL DE HORNUEZ (SEGOVIA-SPAGNA)  –   2013


«ECCO L’UOMO»

L’uomo testimone della verità,

perché essa parla in lui.

L’uomo all’ascolto della verità

che parla nell’altro.

L’uomo alla ricerca della verità

che lo attira nel cammino della vita.

(M.F. Lacan)

 

Preghiere e racconti

 

Che cosa è tuo?

«A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro. Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti. Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi. Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sarebbe bisognoso.

Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti. Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno?

Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente. Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno. E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.

Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra. Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.

(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).

 

Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grafth, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37).

 

«Voglio che sia una regina: la mia mamma”»

«C’era una volta, tanti secoli fa, una città famosa. Sorgeva in una prospera vallata e, siccome i suoi abitanti erano decisi e laboriosi, in poco tempo crebbe enormemente. Era insomma una città felice nella quale tutti vivevano in pace. Ma un brutto giorno, i suoi abitanti decisero di eleggere un re. Suonate le trombe, gli araldi li riunirono tutti davanti al Municipio. Non mancava nessuno. Lo squillo di una tromba impose il silenzio su tutta l’assemblea. Si fece avanti allora un tipo basso e grasso, vestito superbamente. Era l’uomo più ricco della città. Alzò la mano carica di anelli scintillanti e proclamò: “Cittadini! Noi siamo già immensamente ricchi. Non ci manca il denaro. Il nostro re deve essere un uomo nobile, un conte, un marchese, un principe, perché tutti lo rispettino per il suo alto linguaggio”.

“No! Vattene! Fatelo tacere’ Buuu”. I meno ricchi della città cominciarono una gazzarra indescrivibile. “Vogliamo come re un uomo ricco e generoso che ponga rimedio ai nostri problemi!”.

Nello stesso tempo, i soldati issarono sulle loro spalle un gigante muscoloso e gridarono: “Questo sarà il nostro re! Il più forte!”.

Nella confusione generale, nessuno capiva più niente. Da tutte le parti scoppiavano grida, minacce, applausi, armi che s’incrociavano.

Suonò di nuovo la tromba. Un anziano, sereno e prudente, sali sul gradino più alto e disse: “Amici, non commettiamo la pazzia di batterci per un re che non esiste ancora. Chiamiamo un innocente e sia lui ad eleggere un re tra di noi”.

Presero un bambino e lo condussero davanti a tutti. L’anziano gli chiese: “Chi vuoi che sia il re di questa città così grande?”.

Il bambinetto li guardò tutti, si succhiò il pollice e poi rispose: “I re sono brutti. Io non voglio un re. Voglio che sia una regina: la mia mamma”».

(B. Ferrero, C’è qualcuno lassù, Torino, LDC, 1993, 12-13).

 

Tutto gli sarà sottomesso

Colui che ci ha uniti a sé e che si è unito a noi e che in tutto è divenuto uno con noi, fa suo tutto ciò che è nostro. Il nostro sommo bene è la sottomissione al divino, quando tutta la creazione sarà concorde con se stessa e «ogni ginocchio si piegherà davanti a lui, gli esseri del cielo, della terra e degli inferi e ogni lingua proclamerà che Gesù Cristo è il Signore» (Fil 2,10-11).

Allora, quando la creazione sarà divenuta un solo corpo e tutti saranno uniti gli uni agli altri in lui, per mezzo dell’obbedienza, indirizzerà a se stesso l’obbedienza che il suo corpo rivolgeva al Padre. […] La sottomissione del corpo della chiesa è rivolta a colui che abita nel corpo. E poiché tutto ciò che è sarà salvato in lui e poiché salvezza significa sottomissione, come il salterio ci invita a pensare (cfr. Sal 8,6; 36,7; 61,1.5), di conseguenza questo passo dell’Apostolo ci insegna a credere che non ci sarà niente al di fuori dei salvati. Il testo ci indica questo attraverso la purificazione della morte e la sottomissione del Figlio, perché tutte queste parole sono in accordo le une con le altre: il fatto che non ci sarà più morte e il fatto che tutti saranno in vita. Ora la vita è il Signore, il quale, secondo la parola dell’Apostolo, introduce tutto il suo corpo presso il Padre quando rimette la regalità a Dio Padre. Il suo corpo, come è stato detto molte volte, è tutta la natura umana alla quale è stato unito. E in questo senso che Paolo ha chiamato il Signore «mediatore tra Dio e gli uomini» (1 Tm 2,5). Colui che è nel Padre e che è venuto in mezzo agli uomini compie l’opera di mediazione unendo tutti a lui e attraverso di lui al Padre, come dice il Signore nell’evangelo indirizzandosi al Padre: «affinché tutti siano uno come tu, Padre, sei in me e io in te, anch’essi siano uno in noi» (Gv 17,21). Chiaramente questo passo proclama che, unendoci a lui che è nel Padre, egli ci procura attraverso se stesso l’unione con il Padre.

(GREGORIO DI NISSA, Quando avrà sottomesso a sé ogni cosa, PG 44,1317D-1320C).

 

«Venite, benedetti del padre mio»

Allora il Re dirà a quelli che saranno alla sua destra «Venite, benedetti del padre mio: ereditate il regno che è stato apparecchiato dalla fondazione del mondo. Perché io ebbi fame, e voi mi deste da mangiare; ebbi sete, e vo mi deste da bere; fui forestiero, e voi mi accoglieste; ignudo, e mi rivestiste; infermo, e m rivisitaste; in prigione, e voi veniste a me». I giusti risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo noi veduto aver fame, aver sete; quando ti abbiamo veduto forestiero, o ignudo, o malato, o in prigione?». E il Re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutte le volte che l’avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, è a me che voi l’avete fatto».   

Quale speranza! Tutti coloro che scopriranno che il loro prossimo era lo stesso Gesù appartengono, dunque, alla moltitudine di quelli che ignorano il Cristo o l’hanno dimenticato. E nondimeno sono essi, i diletti. Non è in potere di alcuno, tra coloro che portano la carità nel cuore, di non servire il Cristo. Taluno che crede odiarla gli ha consacrato la vita; poiché Gesù è travestito e mascherato in mezzo agli uomini, nascosto nei poveri, negli infermi, lei prigionieri, nei forestieri. Molti che lo servono ufficialmente, non seppero mai chi egli è; ma molti che non conoscono neppur di nome, udranno l’ultimo giorno le parole che spalancheranno loro le porte della gioia: «Ero io, quei figliuoli, ero io, quegli operai; io piangevo su quel letto di ospedale; ero quell’assassino nella sua cella, quando tu lo consolavi».

(E. MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 126).

 

Il samaritano

“Un uomo scivolò e cadde in una buca. Vide un prete che si ritrovava a passare da lì e gli chiese aiuto per uscire dalla fossa. Il religioso lo benedisse, ma proseguì per la sua strada. Qualche ora dopo giunse un medico. L’uomo lo pregò di aiutarlo: il medico però, si limitò a guardare i graffi dell’altro e a compilare una ricetta, dicendogli di acquistare quelle medicine nella farmacia più vicina. Alla fine, arrivò un tizio che non aveva mai visto prima. Di nuovo, la vittima chiese aiuto e lo sconosciuto si calò nella buca. “E adesso? Siamo entrambi intrappolati quaggiù!” Fu allora che il soccorritore disse: “No, non è così! Io conosco bene questo posto e so come uscire dalla fossa.”

(Paulo COELHO, Aleph, Romanzo Bompiani, Milano, 2011, 38)

 

Giudizio finale

Tu giudicaci tutti

come se tutti fossimo bambini

che giocano con la vita

in questo cortile assurdo e prodigioso.

Quando giunge la notte,

raccoglici tutti

nel calore della tua Casa

per sempre.

E pianta di bellezza imperitura

il vecchio cortile amato…

(Pedro Casaldáliga)

 

Preghiera

Signore, abbiamo compreso con la parola tagliente e vera, che oggi ci hai donato, che l’essenziale della vita non è confessarti a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli che sono stati favoriti dalla vita. Questo significa fare la volontà del Padre tuo, vivere di te, forse anche da parte di coloro che non ti conoscono bene. Signore Gesù, tu ti identifichi con i perseguitati, con i poveri, con i deboli. Tu ci hai dato un esempio chiaro di vita, che hai racchiuso nel vangelo e specie nelle beatitudini pronunciate sul Monte.

Il segno che è arrivato il tuo regno si trova nel fatto che in te l’amore concreto di Dio raggiunge i poveri, gli emarginati, non a causa dei loro meriti, bensì in ragione stessa della loro condizione d’esclusi, d’oppressi, perché tu sei dio e perché questi che sono considerati ultimi sono i primi “clienti” tuoi e del Padre tuo.

Aiutaci, Signore, a capire che trascurare quest’amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, significa non vivere secondo la fede del regno ed escluderli dalla sua logica. Mancare all’amore è rinnegare te, perché i poveri sono tuoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà.

Facci capire fino in fondo che essi sono il luogo privilegiato della tua presenza e di quella del Padre tuo celeste.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO CRISTO RE ANNO A 

A Tratti verso la Formazione

L’UCN propone un  percorso per sperimentare il lavoro d’equipe e per riappropriarsi di consapevolezza e strumenti per l’educazione nella catechesi (IG 82,85,86).

L’iniziativa avrà luogo nei giorni 17, 18 e 19 novembre 2017, a Roma, presso il “The Church Village”.

Il percorso si articola in quattro momenti che tratteggiano la formazione dell’equipe in tutti i suoi aspetti.
I Momento: A TRATTI, nelle nostre storie formative. Costruire il ritratto delle nostre e conoscere il modello formativo da cui siamo attratti.
II Momento: IL TRATTO. Formare nello stile di Dio. I modelli educativi non sono neutrali, individuare il tratto di una formazione che segue lo stile pedagogico di Gesù.
III Momento: A(T)TRAVERSO. Ritratti formativi di un’equipe. (Ri)scoprire l’arte di… saper lavorare insieme!
IV Momento: VERSO. Prospettive formative condivise. Scegliere linee condivise.

PROGRAMMA e DEPLIANT INFORMATIVO

ISCRIZIONI
Le iscrizioni avverranno on-line su
http://www.iniziative.chiesacattolica.it/formazioneucd2017
Chi riscontrasse delle difficoltà è pregato di contattare la segretaria allo 06/66398216 – 06/66398301
Le iscrizioni saranno possibili fino al 23 ottobre 2017

QUOTE:
* con alloggio: dalla cena del 17 al pranzo del 19 (non frazionabile), incluso contributo liberale:
– in singola: € 240,00
– in doppia: € 180,00

* senza alloggio:
– contributo liberale: € 30,00
– singolo pasto: € 22,00

MODALITÀ DI VERSAMENTO:
* Conto Corrente Postale: CCP n. 45508009, intestato a Conferenza Episcopale Italiana; causale 17010 Formazione Equipe UCD + Cognome del partecipante.
* Bonifico Bancario: Banca Popolare, IBAN IT17U0503411750000000165900; causale 17010 Formazione Equipe UCD + Cognome del partecipante.
La conferma del pagamento va comunicata entro il 23 ottobre inserendo il pdf o il numero CRO nell’iscrizione on-line oppure inviando copia via email a  ucn@chiesacattolica.it

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA:
Ufficio Catechistico Nazionale
tel. 06/66398216 – 301 – fax 06/66398204
ucn@chiesacattolica.it
http://www.chiesacattolica.it/ucn

THE CHURCH VILLAGE
Via di Torre Rossa 94,
00165 Roma
tel. 06/660071
www.thechurchresort.com

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31

 Una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita. Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare. Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.

 

  • Il Libro dei Proverbi è una collezione di detti sapienziali, riguardanti il retto comportamento di tutte le categorie umane, dal tempo di Salomone (10,1-22,26:25-29) fino a dopo l’esilio (circa il 500 d.C.): vi si esprime la saggezza del popolo ebreo, ispirandosi nei più antichi, preferibilmente alla concezione sapienziale profana degli orientali, nei recenti più esplicitamente all’etica della religiosità javistica. A quest’ultima categoria appartiene sia il Prologo (cc. 1-9), sia l’epilogo (31,10-31); il quale è un piccolo poema in versi acrostici (ognuno dei quali, cioè, inizia con una lettera dell’alfabeto ebraico): ha come tema l’elogio della donna veramente «saggia» dal punto di vista morale, sociale, religioso. Qui vengono riportati i versi più significativi.

         v. 10: «Una donna forte chi potrà trovarla?».

         L’interrogativo enfatico mette in risalto il valore di una donna che ha in sé tutte le qualità di cui il poeta sta per tessere l’elogio: è inestimabile come «le perle preziose»!

         v. 11 : «In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto». Spiega in che consiste la sua preziosità: contribuisce al benessere della famiglia ed è fonte di gioia per il suo sposo.

         v. 13-19: «Si procura lana e lino… Stende la sua mano alla conocchia».

         Esemplifica la sua cooperazione: confeziona tele e vesti, compra campi e vi coltiva vigne, vende i prodotti, ne fornisce i suoi di casa.

         v. 20: «Apre le sue palme al misero».

         Come nel v. 13 essa si prodiga per la felicità del suo consorte, così ora estende la sua generosità ai concittadini più poveri, in piena sintonia col consiglio dei sapienti: «chi ha l’occhio generoso sarà benedetto, perché dona del suo pane al povero» (22,9.22-23).

         v. 30: «Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare».

         In conclusione viene in risalto la dote specifica che la rende degna della lode più grande, cioè la rettitudine delle sue opere: agisce con solerzia e accortezza (vv. 14-19.25), parla con prudenza e bontà (v. 26), veste se stessa e i suoi con decoro (vv. 21.25); realizza quella che è la vera «sapienza» in armonia col timore santo del Signore. Ha molto di più

    che la semplice avvenenza femminile. La sua fama non resterà circoscritta tra i rioni; arriverà alle «porte della città», dove si radunano i notabili e gli uomini di affari; ne sarà coinvolto anche suo marito (v. 23): «le sue opere la lodino alle porte della città».

 

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi 5,1-6

Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.  Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.  Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.

 

  • In questa lettera S. Paolo si intrattiene con i Tessalonicesi (Macedoni, che egli aveva evangelizzato da poco) sulle liete notizie che ha ricevuto attraverso Timoteo riguardanti la loro fede e il loro affettuoso ricordo (3,6-10). La presenza ostile dei Giudei in mezzo a loro gli aveva procurato serie preoccupazioni (3,14-15). Adesso ringrazia di cuore il Signore. Arriva a esclamare: «voi nostra gioia e nostra corona!» (2,19). Col medesimo affetto nella seconda parte (cc. 4-5) richiama le fondamentali esortazioni per una vita autenticamente cristiana: perseveranza nelle norme dateci dal Signore Gesù, purezza di costumi, sincera carità fraterna, laboriosità, pace con tutti, e in particolare vigilanza serena (4,13-18) e costante per quanto riguarda «il giorno del Signore» (5,1-6).

         v. 1 : «Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva». Dopo aver risposto, pare, a una preoccupazione dei Tessalonicesi sulla risurrezione dei defunti prima della Parusia, Paolo si premura di rassicurarli su un aspetto fondamentale riguardante quel giorno: la sua assoluta imprevedibilità (era ormai un dato risaputo: Mt 24,36.43; Ap 16,15), e insieme la sua ineludibilità: nessun essere umano ne potrà sfuggire, «nessuno scamperà» (v. 3).

         v. 3: «E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà». Gli uomini un giorno potranno illudersi di aver raggiunto nelle loro realizzazioni l’apice dell’efficienza e della stabilità e si esalteranno come i costruttori della torre di Babele, o azzarderanno previsioni apocalittiche, ma il credente in Cristo guarderà alle loro affermazioni con indomabile scetticismo, «Il cielo e la terra passeranno, ma non le mie parole» (Mt 24,35).

         v. 6: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri». È la logica conclusione, a cui si devono attenere costantemente «i figli del giorno», i discepoli del maestro divino e del suo fedelissimo apostolo: perseverare in tutte le virtù già ricordate (4,9-12) e attendere con fiducia e gioia l’ora della palingenesi finale.

 

Vangelo: Matteo 25,14-30

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.  Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.           

Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.

Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

 

Esegesi 

     Gesù ha parlato della grande tribolazione all’avvicinarsi del suo ritorno glorioso sulla terra (24,1-35), ha messo in guardia i discepoli perché si trovino pronti, con le lampade accese, in quel fatidico incontro con lo sposo divino (24,36-25,13); occorreva quindi precisare il compito che si esigeva da loro per essere giudicati degni di partecipare alla gloria del suo regno (valorizzazione dei doni ricevuti, opere di vero amore per i fratelli – 25,31-46).

     Il discorso originario probabilmente risale a una situazione più generica, forse in risposta a quei seguaci che, salendo con lui da Gerico — città di Lazzaro — verso Gerusalemme si interrogavano sull’imminenza del suo regno (Lc 19,11-13): badate, avrà detto Gesù, a eseguire fedelmente i compiti che vi avrà affidato il Signore supremo; è importante che egli vi trovi solerti e efficienti in qualunque tempo vorrà apparire; saprà ricompensare abbondantemente chi gli è stato fedele e manderà a mani vuote o punirà chi non avrà adempiuto il suo volere. Era un avvertimento per tutti, sia i discepoli sia gli amici di Lazzaro (i farisei), che dopo la conversione di costui lo accompagnavano (Lc 19,1-10).

     Matteo, inserendo il racconto nell’ultimo discorso del maestro, lo rende più solenne menzionando «i talenti» (somma ingente di fronte alle «mine» di cui parla Luca 19,13), e più chiaro del parallelo di Mc 13,34 e finisce per applicarlo alla comunità cristiana forse un po’ in crisi, ma ricca di carismi e di nuove possibilità di espansione.

     v. 15: «A uno diede cinque talenti, a un altro due … secondo le capacità di ciascuno». Un talento sarebbe computato 6.000 dracme greche, corrispondenti a 6.000 denari ebraici; e, poiché un denaro equivaleva alla paga di una giornata lavorativa, 5 talenti risulterebbero una somma per allora ingente: il compenso di 30.000 giornate lavorative; mentre una mina sarebbe solo 1/60 di talento, che era la somma consegnata a ciascuno dei servi in Lc 19. L’intento del donatore è quello di far fruttare le sue proprietà durante la sua assenza, e perciò fa affidamento sull’abilità dei suoi collaboratori: consegna di più a chi può rendere di più; di meno agli altri, in proporzione.

     vv. 16-17: «Colui che aveva ricevuto cinque talenti…ne guadagnò altri cinque…».

     I primi due comprendono bene il progetto del loro padrone e si danno da fare per raddoppiare la loro somma. Il testo non dice nulla sulle modalità seguite per raggiungere il loro scopo. Al narratore importava piuttosto mostrare la solerzia di quei due per rispondere al desiderio del loro signore. «Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone» (v. 18).

     v. 19: «Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò… a chi aveva guadagnato altri cinque talenti disse: “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto».

     Il padrone dimostra al primo e al secondo servo che hanno raddoppiato i talenti tutta la sua compiacenza. Sono stati leali e fedeli, ciascuno in proporzione del denaro ricevuto e della loro abilità, «il poco»: saranno ricompensati tutti e due nel «molto» con grandi onori e promozioni.

     v. 24: «Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: “Signore, so che sei un uomo duro… Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra».

     Il terzo servitore espone anzitutto il giudizio che ha del suo padrone. Lo ritiene un personaggio esoso e intransigente, «che miete dove non ha seminato» e che sarebbe stato capace di esigere il suo talento anche nell’eventualità di una qualsiasi perdita. Non ha quindi osato trafficarlo. Altro che servo abile e devoto!

     v. 26: «Il padrone gli rispose: Servo malvagio… avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri».

     Non ha tenuto conto del suo desiderio e della sua fiducia. Non ha osato correre il minimo rischio per accontentarlo. Si è lasciato guidare solo dal suo egoismo e dalla paura; era così semplice mettere a frutto la sua somma presso un fidato banchiere per ricavarne almeno gli interessi!

     v. 28: «Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti». Un simile uomo, dice quel signore, non è più degno di essere al mio servizio; sia privato del talento ricevuto, che sarà consegnato in premio a chi si è impegnato generosamente per il mio piano; lui sia ormai dimesso dalla mia azienda. Fuori metafora è chiaramente descritta la situazione dei credenti che attendono l’incontro finale col loro supremo Signore.

     v. 29: «Perché a chiunque ha, verrà dato… E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

     Gesù dice: ai suoi seguaci sono stati conferiti grandi doni di grazia e di luce: i suoi esempi e i suoi sublimi insegnamenti, i carismi dello Spirito, «i preziosi talenti», da mettere a frutto nella loro vita e in seno alla comunità; era suo desiderio che si adoperassero con impegno in santità e testimonianza evangelica. Non tutti però si sono premurati di compiacerlo. Chi per paura, chi per ignavia, molti si sono contentati di crogiolarsi nei belli sentimenti e di tenere solo per sé il luminoso messaggio dell’eterna salvezza. Saranno esemplarmente ripagati: gli uni ammessi in quel giorno all’immensa gioia del loro Signore, gli altri espulsi dove è tenebra e strider di denti.

 

Meditazione

Il legame tra prima lettura e vangelo emerge se si considera che il testo di Proverbi non descrive solamente il tipo di donna che il sapiente, al termine del percorso di formazione e studio, delinea per i suoi allievi come moglie ideale, ma se si coglie quella figura femminile nella sua valenza simbolica per cui designa a un tempo la sapienza e il sapiente, ovvero, il dono e il frutto che tale dono suscita nell’uomo. Al cuore del ritratto della donna forte vi è la responsabilità. Responsabilità che si configura, tra l’altro, come affidabilità (Pr 31,11), laboriosità (31,13.19), vigilanza (31,27), generosità (31,20). E responsabilità è anche parola chiave per cogliere la differenza di comportamento tra i due tipi di servi nella parabola evangelica: il servo buono e fedele (Mt 25,21.23) e il servo malvagio e pigro (Mt 25,26). La responsabilità cristiana è coscienza del dono ricevuto e fedeltà ad esso. Anzi, più radicalmente, fedeltà al Donatore.

Secondo Ireneo di Lione, il denaro affidato dal padrone ai suoi servi significa il dono della vita accordato da Dio agli uomini. Dono che è anche compito e che chiede di non essere sprecato o ignorato o disprezzato, ma accolto con gratitudine attiva e responsabile. Paolo scrive: «Che cosa hai che non hai ricevuto?» (1Cor 4,7). Potremmo aggiungere che non solo ciò che abbiamo, ma anche ciò che siamo è dono di Dio. Noi siamo dono.

In questa luce vi è un aspetto del giudizio che incombe su chi non ha fatto fruttare i talenti ricevuti che non ha a che fare anzitutto con la prospettiva escatologica (Mt 25,30), ma già qui e ora con il rischio di sprecare la vita, di non viverla, di sciuparla «fino a farne una stucchevole estranea» (Constantinos Kavafis). Il rischio è quello di una vita insignificante, di una vita non vissuta.

L’idea essenziale che unifica i tre casi di servi che ricevono talenti in misura diversa è che in ogni caso, per ciascuno, all’origine vi è un dono che proviene da un altro, e che ciascuno riceve secondo la propria capacità. Si tratta dunque di un dono «personalizzato». Il dono affidatemi mi rivela a me stesso. Entrare nella logica del paragone e magari nella recriminazione, distoglie l’uomo dall’unica attività veramente sensata: conoscere se stesso e conoscere Dio, il Donatore, riconoscendo e accogliendo i doni ricevuti.

È una finezza psicologica la sottolineatura che è il servo che ha nascosto il denaro per paura è quello che ha ricevuto meno degli altri. Questi fatica ad accettare la propria minore forza-capacità rispetto ad altri è maggiormente esposto al rischio di cadere nell’invidia e nel risentimento. L’adesione al principio-realtà, ovvero, l’accettazione della realtà così come si presenta, in noi e fuori di noi, è allora misura salvifica umanamente e spiritualmente.

Investire il denaro ricevuto significa esporsi al rischio di perdite che dovrebbero poi essere rimborsate al padrone: la paura del servo, che lo ha paralizzato, è anche paura del rischio. Ed essendo evidente che questa parabola non vuole insegnare l’uso del denaro e non può essere usata per un’apologia di un sistema economico che assolutizzi il profitto, ecco che la paura di eventuali perdite va intesa come paura della vita che nasce da un’immagine di Dio distorta. Il desiderio di sicurezza, la paura di spendersi, il timore del giudizio altrui, hanno neutralizzato in quest’uomo la volontà di Dio che era che egli cercasse un guadagno (Mt 25,27) con il denaro ricevuto: e quel cercare un guadagno avrebbe significato anche un suo vivere, lavorare, rischiare, gioire e soffrire, insomma, un suo dare senso all’esistenza.

Dio vuole che l’uomo viva e cerchi la felicità, che osi la propria unicità e la propria umanità, che non si lasci paralizzare da paure e da immagini di Dio distorte. Il dono impegnativo che Dio affida all’uomo è anche la sua fiducia nei confronti dell’uomo.

Contrario di fedeltà (Mt 25,21.23) nella parabola, è pigrizia (Mt 25,26). Il pigro è colui su cui non si può fare affidamento, colui che delega, che spreca il proprio tempo, l’irresponsabile, colui che non assume la vita e la fede come compito di cui rispondere a Dio.


Immagine della domenica


 

I DONI CHE NON TI HO DONATO

 

Fatico a camminare per il peso del cuore

carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte,

la voglio riempire di carezze,

tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore

segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Tagore)

 

Preghiere e racconti

La misura del nostro coraggio

Come nella parabola dei talenti (Mt 25,14-30), la paura determina uno stile fallimentare – ieri, oggi e in ogni tempo – davanti ai doni di Dio. Anche oggi la paura paralizza l’uomo, paralizza la società, fa ingigantire i problemi: Tanto nell’ambito sociale, come può essere, per fare un esempio,  rispetto all’accoglienza degli immigrati, quanto nella sfera personale, segnata dalle nostre paure psicologiche…

I talenti della parabola, sono la misura del nostro coraggio, della nostra disponibilità ad agire secondo l’amore.

Mettono in luce la nostra capacità di dire:

”Riconosco, Dio, quanto mi hai dato,

riconosco le mie forze,

investo i tuoi doni,

investo i talenti perché voglio farli fruttare”

Questo passaggio, questo atto di riconoscimento,

è la risposta di chi crede nella vita,

di chi ha fede…

E’ la fede che permette al nostro cuore

di guardare oltre l’ostacolo…

Anche chi ha un solo talento, può,

se crede, farlo fruttare.

Nel Dio che ce l’ha donato possiamo trovare

la forza di farlo fruttare,

di condividerlo,

per andare oltre la nostra paura,

oltre le nostre paure.

”Colui che aveva ricevuto un solo talento,

allontanandosi scavò una buca nel terreno

e vi nascose il denaro…”

Ecco questo è il punto:

l’isolamento accresce la paura…

la relazione la fa diminuire e ci aiuta a rischiare…

E’ sommando i nostri doni,

le nostre potenzialità

che possiamo vincere la paura,

liberare il nostro amore,

costruire segni vivi di speranza.

(Giancarlo Maria Bregantini, Parole condivise, Fondazione talenti).

 

Il talento di coltivare e custodire la felicità degli altri

 Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. Dio ci consegna qualcosa e poi esce di scena. Ci consegna il mondo, con poche istruzioni per l’uso, e tanta libertà. Un volto di Dio che ritroviamo in molte parabole: ha fiducia in noi, ci innalza a con-creatori, lo fa con un dono e una regola, quella di Adamo nell’Eden “coltiva e custodisci ” il giardino dove sei posto, vale a dire: ama e moltiplica la vita, sacerdote di quella che è la liturgia primordiale del mondo. Nessun uomo è senza giardino, perché ciò che è stato vero per Adamo è vero da allora per ogni suo figlio.

I talenti dati ai servi, dal padrone generoso e fiducioso, oltre a rappresentare le doti intellettuali e di cuore, la bellezza interiore, di cui nessuno è privo, di cui la luce del corpo è solo un riflesso, annunciano che ogni creatura messa sulla mia strada è un talento di Dio per me, tesoro messo nel mio campo. E io sono l’Adamo coltivatore e custode della sua fioritura e felicità. Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, di inizi che devono fiorire. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli: «l’essenza dell’amore non è in ciò che è comune, è nel costringere l’altro a diventare qualcosa, a diventare infinitamente tanto, a diventare il massimo che gli consentono le forze» (Rilke).

Arriva il momento del rendiconto, e si accumulano sorprese. La prima: colui che consegna dieci talenti non è più bravo di chi ne consegna solo quattro. Non c’è una tirannia o un capitalismo della quantità, perché le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. Occorre solo sincerità del cuore e fedeltà a se stessi, per dare alla vita il meglio di ciò che possiamo dare.

La seconda sorpresa: Dio non è un padrone esigente che rivuole indietro i suoi talenti con gli interessi. La somma rimane ai servitori, anzi è raddoppiata: sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. I servi vanno per restituire, e Dio rilancia. Questo accrescimento di vita è il Vangelo, questa spirale d’amore crescente è l’energia di Dio incarnata in tutto ciò che vive.

Si presentò infine colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: ho avuto paura. La parabola dei talenti è un invito a non avere paura delle sfide della vita, perché la paura paralizza, ci rende perdenti: quante volte abbiamo rinunciato a vincere solo per la paura di finire sconfitti! Il Vangelo è maestro della sapienza del vivere, della più umana pedagogia che si fonda su tre regole: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. E soprattutto da quella che è la paura delle paure: la paura di Dio.

 

Non lasciamoci ingannare dalla paura

Il Vangelo di questa domenica è la parabola dei talenti, tratta da san Matteo (25,14-30). Racconta di un uomo che, prima di partire per un viaggio, convoca i servitori e affida loro il suo patrimonio in talenti, monete antiche di grandissimo valore. Quel padrone affida al primo servitore cinque talenti, al secondo due, al terzo uno. Durante l’assenza del padrone, i tre servitori devono far fruttare questo patrimonio. Il primo e il secondo servitore raddoppiano ciascuno il capitale di partenza; il terzo, invece, per paura di perdere tutto, seppellisce il talento ricevuto in una buca. Al ritorno del padrone, i primi due ricevono la lode e la ricompensa, mentre il terzo, che restituisce soltanto la moneta ricevuta, viene rimproverato e punito.

E’ chiaro il significato di questo. L’uomo della parabola rappresenta Gesù, i servitori siamo noi e i talenti sono il patrimonio che il Signore affida a noi. Qual è il patrimonio? La sua Parola, l’Eucaristia, la fede nel Padre celeste, il suo perdono… insomma, tante cose, i suoi beni più preziosi. Questo è il patrimonio che Lui ci affida. Non solo da custodire, ma da far crescere! Mentre nell’uso comune il termine “talento” indica una spiccata qualità individuale ad esempio talento nella musica, nello sport, eccetera , nella parabola i talenti rappresentano i beni del Signore, che Lui ci affida perché li facciamo fruttare. La buca scavata nel terreno dal «servo malvagio e pigro» (v. 26) indica la paura del rischio che blocca la creatività e la fecondità dell’amore. Perché la paura dei rischi dell’amore ci blocca. Gesù non ci chiede di conservare la sua grazia in cassaforte! Non ci chiede questo Gesù, ma vuole che la usiamo a vantaggio degli altri. Tutti i beni che noi abbiamo ricevuto sono per darli agli altri, e così crescono. È come se ci dicesse: “Eccoti la mia misericordia, la mia tenerezza, il mio perdono: prendili e fanne largo uso”. E noi che cosa ne abbiamo fatto? Chi abbiamo “contagiato” con la nostra fede? Quante persone abbiamo incoraggiato con la nostra speranza? Quanto amore abbiamo condiviso col nostro prossimo? Sono domande che ci farà bene farci. Qualunque ambiente, anche il più lontano e impraticabile, può diventare luogo dove far fruttificare i talenti. Non ci sono situazioni o luoghi preclusi alla presenza e alla testimonianza cristiana. La testimonianza che Gesù ci chiede non è chiusa, è aperta, dipende da noi.

Questa parabola ci sprona a non nascondere la nostra fede e la nostra appartenenza a Cristo, a non seppellire la Parola del Vangelo, ma a farla circolare nella nostra vita, nelle relazioni, nelle situazioni concrete, come forza che mette in crisi, che purifica, che rinnova. Così pure il perdono, che il Signore ci dona specialmente nel Sacramento della Riconciliazione: non teniamolo chiuso in noi stessi, ma lasciamo che sprigioni la sua forza, che faccia cadere muri che il nostro egoismo ha innalzato, che ci faccia fare il primo passo nei rapporti bloccati, riprendere il dialogo dove non c’è più comunicazione… E così via. Fare che questi talenti, questi regali, questi doni che il Signore ci ha dato, vengano per gli altri, crescano, diano frutto, con la nostra testimonianza.

Credo che oggi sarebbe un bel gesto che ognuno di voi prendesse il Vangelo a casa, il Vangelo di San Matteo, capitolo 25, versetti dal 14 al 30, Matteo 25, 14-30, e leggere questo, e meditare un po’: “I talenti, le ricchezze, tutto quello che Dio mi ha dato di spirituale, di bontà, la Parola di Dio, come faccio che crescano negli altri? O soltanto li custodisco in cassaforte?”.

E inoltre il Signore non dà a tutti le stesse cose e nello stesso modo: ci conosce personalmente e ci affida quello che è giusto per noi; ma in tutti, in tutti c’è qualcosa di uguale: la stessa, immensa fiducia. Dio si fida di noi, Dio ha speranza in noi! E questo è lo stesso per tutti. Non deludiamolo! Non lasciamoci ingannare dalla paura, ma ricambiamo fiducia con fiducia! La Vergine Maria incarna questo atteggiamento nel modo più bello e più pieno. Ella ha ricevuto e accolto il dono più sublime, Gesù in persona, e a sua volta lo ha offerto all’umanità con cuore generoso. A Lei chiediamo di aiutarci ad essere “servi buoni e fedeli”, per partecipare “alla gioia del nostro Signore”.

(Papa Francesco, Angelus, 16 novembre 2014).

 

Ognuno di noi è un originale fatto da Dio

C’è una vecchia trazione giudeo-cristiana secondo la quale Dio manda ognuno di noi in questo mondo con un messaggio speciale da consegnare, con uno speciale atto d’amore da compiere. Il tuo messaggio e il tuo atto d’amore sono affidati soltanto a te, il mio è affidato soltanto a me. Se questo messaggio debba raggiungere solo poche persone o tutti gli abitanti di una città o il mondo intero dipende esclusivamente dalla scelta di Dio. L’unica cosa importante è essere convinti che ognuno di noi è adeguatamente equipaggiato: tu hai i doni giusti per consegnate il tuo messaggio ed io ho i doni appositamente scelti per consegnare il mio.

Un aspetto particolare della verità di Dio è stato messo nelle tue mani, e Dio ti ha chiesto di condividerlo con ognuno di noi, e lo stesso vale per me. Proprio perché tu sei unico, la tua verità è data soltanto a te e nessun altro può dire al mondo la tua verità, o compiere per gli altri il tuo atto d’amore. Solo tu hai tutti i requisiti per essere e fare ciò che devi essere e fare. Solo io ho tutto ciò che è necessario per portare a termine il compito per cui sono stato inviato in questo mondo.

Sarebbe inutile e anche sciocco confrontare me stesso con te. Ognuno di noi è unico, non esistono fotocopie o cloni di nessuno di noi. Un simile confronto significherebbe la morte dell’accettazione di sé. Guarda la tua mano: le dita non sono di uguale lunghezza. Se lo fossero, tu non potresti di fatto afferrare una mazza da baseball o lavorare ai ferri. Allo stesso modo, alcuni sono alti e altri bassi, alcuni hanno un talento e altri un dono diverso. Tu sei fatto su misura per realizzare il tuo compito, e così tu non sei me e io non sono te. E questo è bene, è meraviglioso. Noi dobbiamo non solo accettare, ma anche esaltare le nostre differenze. Il mondo custodisce gelosamente gli originali, e ognuno di noi è un originale fatto da Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 23-24).

Utilizzare tutti i miei talenti

Nel II secolo d.C., sant’Ireneo scrisse che «la gloria di Dio è una persona che vive in pienezza». Non ti è mai capitato di fare un regalo a qualcuno e poi venire a sapere che l’altro non l’ha mai usato? Forse avresti voluto chiedere: «Non ti è piaciuto il mio regalo? Perché non l’hai usato?». Forse Dio desidera porci qualche domanda sui doni che ci ha fatto. Quando diciamo nel Padre Nostro: «Sia fatta la tua volontà!», sono certo che parte di questo volere è che io mi sforzi di utilizzare tutti i miei talenti. So che Dio vuole che io sviluppi i miei sensi, le mie emozioni, la mia mente, la mia volontà ed il mio cuore nel modo più completo. «La gloria di Dio è una persona che vive in pienezza».

Qualcosa dentro di me sa con certezza che il nostro amore per Dio viene sicuramente misurato dal nostro impegno nel compiere queste due cose: amare gli altri come amiamo noi stessi e fare la volontà di Dio in ogni cosa.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 70).

 

Racconto

Ricordo spesso un lungo racconto che si trovava, ai miei tempi nell’antologia delle medie: è la storia di un ragazzo che nella scuola, la vecchia media o forse addirittura il vecchio ginnasio, era un fallimento totale. La sua incapacità, ad esempio, di distinguere i verbi transitivi da quelli intransitivi, scoraggiava il suo professore di lettere, che ci vedeva il segno di una radicale incapacità intellettuale. Poi, mortogli il padre, quel ragazzo abbandonò la scuola e se lo risucchiò la vita. Qualche anno dopo il vecchio professore fu preso dal capriccio di farsi lui un po’ di vino, di vero vino di uva e si recò al mercato all’ingrosso per comperare appunto quella partita di uva che gli abbisognava. Ma qui scoprì quanto inetto egli fosse in cose di questo genere e quanto poco gli valesse il suo latino ad affrontare le cose concrete della vita. E qui gli capitò di imbattersi proprio in quel ragazzo, ormai uno splendido giovanotto, che subentrato al padre nella gestione di un suo commercio, sul mercato era di casa e ci si moveva come un pesce nell’acqua: conosciuto il problema se ne prese cura lui e quello che non era riuscito al vecchio professore con tutto il suo sapere, riuscì in pochi minuti all’allievo fallito nella scuola ma riuscito nella vita. E prima di lasciarlo si prese persino lo sfizio di una innocente ironia: “Professore – gli chiese – mi tolga una curiosità, i verbi transitivi sono quelli che passano o che non passano?”

 

Nessuno dica: «Ho un solo talento e non posso fare niente»

Nella parabola dei talenti quelli che presentano i guadagni riconoscono con animo grato ciò che è loro e ciò che è del padrone. L’uno dice: «Signore mi hai dato cinque talenti» (Mt 25,20) e l’altro: «due» mostrando che avevano ricevuto da lui la possibilità di lavorare, che gliene erano molto grati e attribuivano tutto a lui. Che disse allora il padrone? «Bene, servo buono – è proprio di una persona buona mostrare interesse per il prossimo – e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21); con queste parole mostrò tutta la beatitudine. L’altro servo non si comportò così; come si comportò? «Sapevo che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura ho nascosto il tuo talento: ecco qui il tuo (Mt 25,24-25). Che cosa disse allora il padrone? «avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri» (Mt 25,27), cioè avresti dovuto parlare, esortare, consigliare. Ma non danno ascolto. Questo non ti riguarda. Che cosa ci potrebbe essere di più mite? […]

Ascoltiamo queste parole. Finché c’è tempo, diamoci cura della nostra salvezza, prendiamo l’olio per le lampade, mettiamo a frutto il talento. Se siamo inoperosi, se viviamo nella pigrizia, nessuno là in alto avrà compassione di noi, per quanto ci lamentiamo. Condannò se stesso chi aveva le vesti immonde e nulla gli fu d’aiuto. Chi aveva un solo talento restituì quello che aveva ricevuto in deposito e così fu condannato. Le vergini supplicarono, si presentarono e bussarono alla porta, ma tutto fu inutile e vano. Sapendo questo, offriamo denaro, impegno, aiuto, ogni cosa per renderci utili al prossimo. I talenti qui indicano le possibilità di ciascuno per quanto riguarda l’aiuto, il denaro, l’insegnamento o altre cose del genere. Nessuno dica: «Ho un solo talento e non posso fare niente». Anche con un solo talento puoi farti onore. Non sei più povero di quella vedova (cfr. Lc 21,2), né più incolto di Pietro e di Giovanni che erano ignoranti e illetterati, ma poiché diedero prova di zelo e fecero tutto nell’interesse comune, conquistarono il cielo. Nulla è così caro a Dio quanto vivere per il bene comune. Per questo Dio ci ha dato mani, piedi, forza fisica, mente e intelligenza, per servirci di tutto questo per la nostra salvezza e a utilità del prossimo.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento sul vangelo di Matteo, om. 78,2, PG 58,713-715).

 

L’amore è il più grande talento umano

«Per coloro che non hanno amato, la vecchiaia è un inverno di solitudine. L’amore, il più grande talento umano, era stato sotterrato perché non si perdesse, e alla fine andò perduto davvero. Nessuno venne o se ne prese cura. Rimase soltanto una persona priva di amore e sola nell’attesa della morte.

Per coloro che hanno amato, la vecchiaia è il momento del raccolto. I semi di amore piantati con così grande cura tanti anni prima, sono maturati col tempo. La persona che ama è circondata, al tramonto della vita, dalla presenza e dall’affetto degli altri. Il bene ripaga sempre. Ciò che era stato donato in modo così spontaneo e gioioso, è stato restituito con gli interessi».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995,69).

 

I talenti

E perché tu comprenda bene, colui al quale furono affidati cinque talenti è un maestro; colui a cui ne fu affidato uno è un discepolo. Ma se il discepolo dicesse: «Sono un semplice discepolo, non corro pericoli», e nascondesse la parola, comune e spoglia, ricevuta da Dio, e non pensasse di ammonire, di parlar con franchezza, di rimproverare, di correggere, se possibile, ma la nascondesse in terra: è davvero terra e cenere questo cuore che seppellisce la grazia di Dio! Se dunque la nascondesse per pigrizia o per malvagità, non lo scuserebbe nulla il dire: «Ho un solo talento». Hai un solo talento? Dovevi aggiungerne un altro e raddoppiare il tuo talento; se ne avessi aggiunto un altro, non saresti rimproverato. A colui che presentò due talenti, infatti, non fu detto: «Perché non ne porti cinque?», ma fu ritenuto degno degli stessi premi dati a colui che ne presentò cinque. E perché? Perché fece fruttare ciò che aveva e pur avendo ricevuto meno di quello che ne aveva avuti cinque, non per questo si abbandonò all’infingardaggine usando il poco che aveva per ozieggiare. Non dovevi guardare i due talenti; piuttosto dovevi guardare a lui che, avendone due, imitò quello che ne aveva cinque, e così tu devi imitare quello che ne aveva due. Se per chi è ricco e non fa parte delle sue ricchezze sta già preparato il castigo, per chi può esortare quanto vuole e non lo fa, non ci sarà forse un castigo maggiore? In quel caso si nutre il corpo, in questo l’anima: ivi si impedisce la morte temporanea, qui la morte eterna.

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

 

La simbologia dei talenti

Sarà infatti come d’un uomo il quale, stando per fare un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, all’altro due, e a un altro uno solo: a ciascuno secondo la sua capacità” (Mt 25,14-15). Non v’è dubbio che quest’uomo, questo padrone di casa, è Cristo stesso, il quale, mentre s’appresta vittorioso ad ascendere al Padre dopo la Risurrezione, chiamati a sé gli apostoli, affida loro la dottrina evangelica, dando a uno più e a un altro meno, non perché vuol essere con uno più generoso e con l’altro più parco, ma perché tiene conto delle forze di ciascuno (l’Apostolo dice qualcosa di simile quando afferma di aver nutrito col latte coloro che non erano ancora in grado di nutrirsi con cibi solidi) (1Co 3,2). Infatti poi con uguale gioia ha accolto colui che di cinque talenti, trafficandoli, ne ha fatto dieci e colui che di due ne ha fatto quattro, considerando non l’entità del guadagno, ma la volontà di ben fare. Nei cinque, come nei due e nell’unico talento, scorgiamo le diverse grazie che a ciascuno vengono date. Oppure si può vedere, nel primo che ne riceve cinque, i cinque sensi, nel secondo che ne ha due, l’intelligenza e le opere, e nel terzo che ne ha uno solo, la ragione, che distingue gli uomini dalle bestie.

“Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti, se ne andò a negoziarli e ne guadagnò altri cinque” (Mt 25,16). Ricevuti cioè i cinque sensi terreni, li raddoppiò acquisendo per mezzo delle cose create la conoscenza delle cose celesti, la conoscenza del Creatore: risalendo dalle cose corporee a quelle spirituali, dalle visibili alle invisibili, dalle contingenti alle eterne.

“Come pure quello che aveva ricevuto due talenti ne guadagnò altri due (Mt 25,17). Anche costui, le verità che con le sue forze aveva appreso dalla Legge le raddoppiò nella conoscenza del Vangelo. O si può intendere che, attraverso la scienza e le opere della vita terrena, comprese le caratteristiche ideali della futura beatitudine.

“Ma colui che ne aveva ricevuto uno solo, andò a scavare una buca nella terra e vi nascose il denaro del suo padrone” (Mt 25,18). Il servo malvagio, dominato dalle opere terrene e dai piaceri del mondo, trascurò e macchiò i precetti di Dio. Un altro evangelista dice che questo servo tenne la sua moneta legata in una pezzuola (Lc 19,20), cioè, vivendo nella mollezza e nelle delizie, rese inefficiente l’insegnamento del padrone di casa.

“Ora, dopo molto tempo, ritornò il padrone di quei servi e li chiamò a render conto. Venuto dunque colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, tu mi desti cinque talenti; ecco, io ne ho guadagnati altri cinque»” (Mt 25,19-20). Molto tempo c’è tra l’Ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Ora, se gli apostoli stessi dovranno render conto e risorgeranno col timore del giudizio, che dobbiamo mai far noi?

“E il padrone gli disse «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore». Si presentò poi l’altro che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, tu mi desti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». Il suo padrone gli disse: «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore»(Mt 25,21-23) . Ambedue i servi, e quello che di cinque talenti ne ha fatto dieci e quello che di due ne ha fatto quattro, ricevono identiche lodi dal padrone di casa. E dobbiamo rilevare che tutto quanto possediamo in questa vita, anche se può sembrare grande e abbondante, è sempre poco e piccolo a confronto dei beni futuri. «Entra – dice il padrone – nella gioia del tuo Signore»: cioè ricevi quel che occhio mai vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare (1Co 2,9). Che cosa mai di più grande può essere donato al servo fedele, se non di vivere insieme col proprio signore e contemplare la gioia di lui?

“Presentatosi infine quello che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore, so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco, prendi quello che ti appartiene» (Mt 25,24-25). Quanto sta scritto nel salmo: A cercare scuse per i peccati (Ps 141,4), si applica anche a questo servo, il quale alla pigrizia e negligenza, ha aggiunto anche la colpa della superbia. Egli che non avrebbe dovuto fare altro che confessare la sua infingardaggine e supplicare il padrone di casa, al contrario lo calunnia, e sostiene di aver agito con prudenza non avendo cercato alcun guadagno per timore di perdere il capitale.

“Il suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; potevi dunque mettere il mio denaro in mano ai banchieri, e al ritorno io avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli perciò il talento e datelo a colui che ne ha dieci» (Mt 25,26-28). Quanto credeva di aver detto in sua difesa, si muta invece in condanna. E il servo è chiamato malvagio, perché ha calunniato il padrone; è detto pigro, perché non ha voluto raddoppiare il talento: perciò è condannato prima come superbo e poi come negligente. Se – dice in sostanza il Signore – sapevi che io son duro e crudele e che desidero le cose altrui, tanto che mieto dove non ho seminato, perché questo pensiero non ti ha istillato timore tanto da farti capire che io ti avrei richiesto puntualmente ciò che era mio, e da spingerti a dare ai banchieri il denaro e l’argento che ti avevo affidato? L’una e l’altra cosa significa infatti la parola greca arghyrion. Sta scritto: “La parola del Signore è parola pura, argento affinato nel fuoco, temprato nella terra, purificato sette volte” (Ps 12,7). Il denaro e l’argento sono la predicazione del Vangelo e la parola divina, che deve essere data ai banchieri e agli usurai, cioè o agli altri dottori (come fecero gli apostoli, ordinando in ogni provincia presbiteri e vescovi), oppure a tutti i credenti, che possono raddoppiarla e restituirla con l’interesse, in quanto compiono con le opere ciò che hanno appreso dalla parola. A questo servo viene pertanto tolto il talento e viene dato a quello che ne ha fatto dieci affinché comprendiamo che – sebbene uguale sia la gioia del Signore per la fatica di ciascuno dei due, cioè di quello che ha raddoppiato i cinque talenti e di quello che ne ha raddoppiato due – maggiore è il premio che si deve a colui che più ha trafficato col denaro del padrone. Per questo l’Apostolo dice: “Onora i presbiteri, quelli che sono veramente presbiteri, e soprattutto coloro che s’affaticano nella parola di Dio (1Tm 5,17). E da quanto osa dire il servo malvagio: «Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», comprendiamo che il Signore accetta anche la vita onesta dei pagani e dei filosofi, e che in un modo accoglie coloro che hanno agito giustamente e in un altro coloro che hanno agito ingiustamente, e che infine, paragonandoli con quelli che hanno seguito la legge naturale, vengono condannati coloro che violano la legge scritta.

“Poiché a chi ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che crede di avere” (Mt 25,29). Molti, pur essendo per natura sapienti e avendo un ingegno acuto, se però sono stati negligenti e con la pigrizia hanno corrotto la loro naturale ricchezza, a confronto di chi invece è un poco più tardo, ma con il lavoro e l’industria ha compensato i minori doni che ha ricevuto, perderanno i loro beni di natura e vedranno che il premio loro promesso sarà dato agli altri. Possiamo capire queste parole anche così: chi ha fede ed è animato da buona volontà nel Signore, riceverà dal giusto Giudice, anche se per la sua fragilità umana avrà accumulato minor numero di opere buone. Chi invece non avrà avuto fede, perderà anche le altre virtù che credeva di possedere per natura. Efficacemente dice che a costui «sarà tolto anche quello che crede di avere». Infatti, anche tutto ciò che non appartiene alla fede in Cristo, non deve essere attribuito a chi male ne ha usato, ma a colui che ha dato anche al cattivo servo i beni naturali.

“E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e stridor di denti” (Mt 25,30). Il Signore è la luce; chi è gettato fuori, lontano da lui, manca della vera luce.

(San Girolamo, in Matth. IV, 22, 14-30).

 

Ogni uomo semplice

Ogni uomo  semplice porta in cuore un sogno,

con amore ed umiltà potrà costruirlo.

Se davvero tu saprai vivere umilmente,

più felice tu sarai anche senza niente.

Se vorrai ogni giorno con il tuo sudore,

una pietra dopo l’altra in alto arriverai.

Nella vita semplice troverai la strada

che la calma donerà al tuo cuore puro.

E le gioie semplici sono le più belle,

sono quelle che alla fine sono le più grandi.

Dai e dai ogni giorno con il tuo sudore,

una pietra dopo l’altra in alto arriverai.

(Dal film Fratello sole, sorella luna, di F. Zeffirelli)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)

XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Sapienza 6,12-16

La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro.

 

v Il nostro brano si trova nella seconda sezione del libro della Sapienza, quando, dopo aver rilevato la duplice sorte dei giusti e dei malvagi al cospetto del creatore (cc. 1-5), l’autore fa l’elogio della sapienza quale guida sicura che conduce al supremo bene dell’uomo (6,1-11,3). Sono le riflessioni di un ebreo della diaspora (circa il 50 a.C.) che intende esporre alla luce della fede javista e con il linguaggio della cultura greca i grandi problemi dell’esistenza umana in vista di un’immortalità felice. Orientativi sono due versi: «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura» (2,23) «hai compassione di tutti… ami tutte le cose esistenti».

«La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano». Qui la sapienza (come la maat egiziana) viene personificata con i lineamenti di una giovane sposa, attraente, radiosa. Chi comincia a contemplarla non può non innamorarsi di lei, e chi le si mette in cerca riuscirà sicuramente a trovarla: «il desiderio della sapienza conduce al regno» (6,20). È qualcosa che già sta nell’intimo del cuore umano, qualcosa a cui siamo già orientati.

«Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano». Si completa il concetto precedente: se qualcuno coltiva l’anelito verso la sapienza, essa già gli si avvicina per farsi «conoscere» nel senso pieno semitico, entrerà cioè nella sua intimità, le si affezionerà profondamente.

«La troverà seduta alla sua porta». se qualcuno quanto prima (di buon mattino) si muoverà verso di lei, se la troverà addirittura di fronte, presso la porta di casa, ad attenderlo: «quanti la cercano di buon mattino, si dirà in Sir 4,12, saranno ricolmi di gioia».

«Lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei ». C’è di più. Essa è già in cammino alla ricerca di quanti sono aperti verso di lei, riflettono su di essa, si comportano con rettitudine, in conformità di ciò che hanno intuito di bello e di nobile in lei: ad essi «andrà incontro come una madre» (Sir 15,2), «beato chi medita sulla sapienza e … considera nel cuore le sue vie» (Sir 14,20s).

È un riflesso dell’infinita saggezza del Dio altissimo che opera in tutto con giustizia, benevolenza e comprensione, scruta i cuori e al minimo accenno di apertura fa sentire loro la sua presenza, e li guida verso la meta dell’esistenza terrena, verso colui che è il felice compimento di ogni nostra aspirazione.

 

Seconda lettura: 1Tessalonicesi 4,13-18

Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti. Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, scenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.

 

v La lettera ai Tessalonicesi risale a pochi anni dalla morte di Gesù. S. Paolo vi rivela tutto il suo affetto e la sua fiducia per quella comunità cristiana da lui fondata (cc. 1-3), e insieme la sua viva sollecitudine perché essa si conservi nella carità e nella continua vigilanza in vista della gloriosa Parusia del Signore Gesù (cc. 4-5). Gli preme in modo particolare rassicurarli su un loro specifico problema. Lui aveva loro annunziato la grande regola per chiamare a sé «tutti i suoi santi» (3,12), nell’ora e nel giorno noti solo al Padre. Era l’autentica promessa del maestro divino (v. 15; Mt 24,30.36). Ma i neofiti di Tessalonica, impressionati per quel glorioso evento, si andavano interrogando sulla sorte di chi in quell’ora misteriosa non si sarebbe trovato presente, perché già nel frattempo fosse deceduto. Il nostro brano risponde a questa aporia.

«Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti». Rassicura anzitutto i suoi discepoli dichiarando che non hanno motivo di preoccuparsi. Essi che credono in Cristo Signore dell’universo hanno in lui ogni speranza. Essi, come Paolo, vivono in Cristo, e Cristo vive in loro (Gal 2,20). Al contrario di coloro che non lo riconoscono (gli estranei, i pagani: 5,6), essi continueranno a vivere per sempre in lui.

«Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti». Ora chiaramente afferma: la stessa potenza divina che ha fatto risorgere Gesù, farà sì che tornino in vita anche i suoi fedeli amici e nulla vi si può opporre.

«Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo». Paolo conosce bene tutto l’insegnamento escatologico del Maestro: il martirio dei suoi evangelizzatori (Mt 24,9); il raduno di tutti gli eletti dai quattro venti (Mt 24,30s), di ogni epoca e regione. «Noi che saremo ancora in vita… non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti»: perché in quell’ultima ora prima risorgeranno tutti coloro che hanno perseverato nella loro fede in Cristo, e quindi insieme con loro quelli che saranno rimasti in vita andranno incontro al Signore della gloria.

«Verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore». La solenne descrizione escatologica (suono di tromba, voce dell’arcangelo, nubi del cielo… v. 16) ribadisce la consolante realtà che attende tutti i credenti in Cristo, sia già deceduti, sia ancora viventi al momento della grande Parusia: andargli lietamente incontro e vivere eternamente con lui nel suo regno di amore.

 

Vangelo: Matteo 25,1-13

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.  Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

 

Esegesi

È stata detta “la parabola della vigilanza”. Nel contesto del primo vangelo sembra riferirsi all’ultima venuta del signore, la Parusia (24-25). “Allora”, “in quel tempo” (nel testo greco) indica il tempo del giudizio finale (25,1; 24,39-50). Non si può escludere però che nella predicazione di Gesù il racconto riguardasse più direttamente l’incontro dei singoli uditori con il supremo Signore al termine della loro vita terrena. Lo scenario non è quello cosmico dell’intera umanità di fronte al giudice divino (24,30-31: segni del cielo e raduno dei popoli, con tutti i suoi angeli).

Rassomiglia invece all’esito del comportamento dei singoli individui durante la loro vita, sempre nell’ambito della storia: come nel racconto di Lazzaro e del ricco gaudente (Lc 16,27-31); sono due tipi di persone, di cui l’una è presente all’appuntamento festivo, l’altra per sua negligenza arriva in ritardo; l’uno è ammesso nel convito (seno di Abramo), l’altro è lasciato nel buio della notte (nel fuoco infernale). Rimane inteso in ogni caso che poi al momento del giudizio finale dell’umanità sarà solennemente ratificato il destino eterno di ciascuno (cf. Mt 25,14-30).

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini…».

Si annunzia il termine di paragone tra l’ingresso delle anime nel regno dei cieli e l’incontro dello sposo nel corteo delle ragazze che dovevano festeggiare uno sposalizio. La celebrazione solenne del matrimonio avveniva con una cerimonia notturna. Sull’imbrunire alcune damigelle si riunivano nella casa della fidanzata e aspettavano che arrivasse lo sposo perché introducesse l’intero corteo nella propria casa e si desse inizio ai festeggiamenti. Poteva succedere però qualche imprevisto.

«Le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio». Cinque damigelle non ebbero l’accortezza di rifornirsi sufficientemente di olio per ogni evenienza: non calcolarono bene la durata dell’attesa. Almeno così immagina il narratore ai fini del suo insegnamento. Difatti, ritardando lo sposo, le ragazze si assopirono tutte e le lampade esauriscono il loro olio (vv. 5-6).

«A mezzanotte… tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade». Le 5 sagge poterono rifornire le loro lampade con l’olio di scorta e si mossero col corteo dello sposo verso il luogo del banchetto.

 «Mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa».

Nella parabola si immagina pure che le stolte tentano in quel frangente di rimediare alla loro negligenza. Ma, prima, le loro colleghe rifiutano di condividere le riserve di olio, perché non venisse a mancare anche ad esse; e poi i rivenditori a quell’ora tardano a fornirle. Sicché quando trafelate arrivano al luogo del convito per prendere parte alla gioia di quello sposalizio, si sentono rispondere dalla voce dello stesso festeggiato «non so chi siete», e la porta rimane chiusa; sono definitivamente escluse da quella comunità in festa!

«Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora». Il significato dell’episodio si evidenzia in pieno nell’ultima frase rivolta agli uditori dell’araldo evangelico: ‘il regno di Dio è vicino, e si avvicina sempre più’ (in Mc 1,15 il verbo è al perfetto: ‘continua ad avvicinarsi’). Dalla partecipazione ad esso dipende la sorte felice di ogni uomo. È importante essere trovati pronti ad entrarvi; occorre essere sempre in regola con l’olio luminoso della rettitudine e dell’amore. Poco vale per aver iniziato a compiere il bene e fermarsi a metà. È sommamente necessario aver perseverato e rimanere sempre all’erta nel giusto atteggiamento in consonanza con lo sposo divino. Egli può giungere a noi in piena notte come in qualsiasi momento; allora non resta più alcuna possibilità di rimediare (sia per quanto riguarda il giudizio particolare, sia quello finale universale).

 

Meditazione

Essenziale per ottenere la sapienza è desiderarla: il desiderio della sapienza spinge a cercarla e la sapienza stessa va incontro a chi la cerca. Se la sapienza è luminosa e splendente, essa irraggia su chi la desidera e la cerca: è la ricerca stessa della sapienza che rende sapienti (I lettura). Il credente cristiano non abbisogna solamente di fede, ma anche di sapienza. Sapienza è predisporre tutto per incontrare il Signore. Stoltezza – e c’è la possibilità di una fede stolta, insulsa, stupida, non intelligente – è negligenza nel prepararsi all’incontro con il Signore. Ma il Signore va incontro lui stesso a chi lo cerca e lo attende tenendo viva nella notte la lampada del desiderio dell’incontro (vangelo).

Opposta alla sapienza è la stupidità che è un difetto «che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona […] La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza (Sal 111,10), dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità» (Dietrich Bonhoeffer). La nostra parabola dice dunque che sapienza è anche senso di responsabilità e capacità di vita interiore.

Uscire, andare incontro al Signore veniente, tenere le lampade accese nel buio della notte, attendere il Signore: queste espressioni riferite alle ragazze amiche della sposa che, secondo gli usi matrimoniali del tempo, attendevano a casa di lei l’arrivo dello sposo, esprimono bene la missione della chiesa nella storia. Si tratta di compiere un esodo, una fuoriuscita dalla mentalità mondana; di cercare il Signore per vivere una relazione autentica e vitale con lui; di custodire la fede, l’amore e la speranza e attendere la sua venuta.

In particolare, occorre mantenere vivo il desiderio del Signore, questa la lampada che la chiesa è chiamata a tenere accesa nella buio della notte. Un credente o una comunità cristiana che perdano il desiderio del Signore, sono come sale che perde sapore (cfr. Mt 5,13),

luce che spegne se stessa (cfr. Mt 5,14-15). Questo desiderio è il proprium del credente: o lo si ha in sé o nessuno può pretenderlo dagli altri. Le ragazze stolte, chiedendo l’olio alle sapienti, pretendono ciò che non può essere dato.

Nella vita cristiana, la sapienza è il predisporre tutto per essere pronti per il Signore, per la sua venuta, per il suo dono, per la sua grazia, ed è tutt’altro rispetto all’efficienza e all’attivismo del protagonismo cristiano. Nella sapienza è sempre insita l’umiltà, la giusta misura di sé.

Dietro l’immagine del ritardo dello sposo (cfr. Mt 25,5) si delinea il problema della promessa della venuta del Signore e del protrarsi della sua attesa nella storia. Problema esposto con spietata lucidità da Ivan Karamazov nel famoso romanzo di Fëdor Dostoevskij: «Son passati quindici secoli dal momento in cui Lui promise di venire nel suo Regno… ma l’umanità l’aspetta ancora con fede sempre uguale e con sempre uguale tenerezza. Anzi, con fede ancor maggiore, giacche son trascorsi quindici secoli dal tempo in cui fu sospeso all’uomo ogni pegno celeste: “Credi a ciò che dice il cuore: non più pegni dà il cielo”. E così, unica e sola, è rimasta la fede in ciò che dice il cuore». La venuta del Signore è solo ormai una pia illusione? Un anelito sgorgato dal cuore umano? Alla chiesa il compito di rispondere a queste domande con la propria prassi storica e umana ispirata alla fede nella promessa del Signore e con la propria sapiente attesa.

La sapienza è arte di vivere il tempo: la venuta del Signore non è misurabile cronologicamente, ma è essenziale perché afferma che il tempo ha una fine e un fine. Se il sapiente, per la Bibbia, è «colui che cerca Dio» (Sal 14,2), egli è anche colui che contare il tempo e ne conosce la finitezza (cfr. Sal 90,12). Rimuovere la finitezza del tempo e la fine del mondo significa in realtà mandare a morte l’uomo, liquidare l’uomo.

La parabola è anche immagine del giudizio che attende il cristiano dopo la morte. La dialettica addormentarsi-alzarsi (cfr. Mt 25,5.7) esprime la polarità del morire-risorgere (cfr. Mt 27,52; lCor l5,20; 1Ts 4,13-15). L’esito del giudizio lo si gioca oggi, qui e ora, nella storia.

 

Immagine della domenica


 

EGLI PUÒ SEMPRE ARRIVARE

 

«… Non si può mai sapere se Dio è in una storia,

prima che uno l’abbia finita di raccontare.

Perché anche se mancassero solo due parole

o soltanto la pausa che segue

le ultime parole del racconto,

Egli può sempre arrivare»

(Rainer Maria Rilke)

 

 

Preghiere e racconti

 

Vegliare con il Cristo

Veglia con il Cristo colui che, pur guardando verso l’avvenire, non perde di vista il passato e, pur contemplando ciò che il suo salvatore ha guadagnato per lui, non dimentica ciò che ha sofferto per lui. Veglia con il Cristo colui che commemora e rinnova continuamente nella sua persona la croce e l’agonia di Cristo e indossa gioiosamente questo mantello d’afflizione che il Cristo ha indossato quaggiù e si è lasciato dietro quando è salito al cielo. È per questo che, nelle loro lettere, gli autori ispirati esprimono cosi spesso il loro desiderio della sua seconda venuta, ogni volta che parlano del ricordo che hanno conservato della prima, e che la sua risurrezione non fa mai perdere loro di vista la sua crocifissione.

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, vol. IV, sermone 22)

 

Credere in Dio-Amore

Le Letture bibliche dell’odierna liturgia domenicale ci invitano a prolungare la riflessione sulla vita eterna, iniziata in occasione della Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Su questo punto è netta la differenza tra chi crede e chi non crede, o, si potrebbe ugualmente dire, tra chi spera e chi non spera. Scrive infatti san Paolo ai Tessalonicesi: «Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza» (1 Ts 4,13). La fede nella morte e risurrezione di Gesù Cristo segna, anche in questo campo, uno spartiacque decisivo. Sempre san Paolo ricorda ai cristiani di Efeso che, prima di accogliere la Buona Notizia, erano «senza speranza e senza Dio nel mondo» (Ef 2,12). Infatti, la religione dei greci, i culti e i miti pagani, non erano in grado di gettare luce sul mistero della morte, tanto che un’antica iscrizione diceva: «In nihil ab nihilo quam cito recidimus», che significa: «Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo». Se togliamo Dio, se togliamo Cristo, il mondo ripiomba nel vuoto e nel buio. E questo trova riscontro anche nelle espressioni del nichilismo contemporaneo, un nichilismo spesso inconsapevole che contagia purtroppo tanti giovani. Il Vangelo di oggi è una celebre parabola, che parla di dieci ragazze invitate ad una festa di nozze, simbolo del Regno dei cieli, della vita eterna (Mt 25,1-13). E’ un’immagine felice, con cui però Gesù insegna una verità che ci mette in discussione; infatti, di quelle dieci ragazze: cinque entrano alla festa, perché, all’arrivo dello sposo, hanno l’olio per accendere le loro lampade; mentre le altre cinque rimangono fuori, perché, stolte, non hanno portato l’olio. Che cosa rappresenta questo «olio», indispensabile per essere ammessi al banchetto nuziale? Sant’Agostino (cfr Discorsi 93, 4) e altri antichi autori vi leggono un simbolo dell’amore, che non si può comprare, ma si riceve come dono, si conserva nell’intimo e si pratica nelle opere. Vera sapienza è approfittare della vita mortale per compiere opere di misericordia, perché, dopo la morte, ciò non sarà più possibile. Quando saremo risvegliati per l’ultimo giudizio, questo avverrà sulla base dell’amore praticato nella vita terrena (cfr Mt 25,31-46). E questo amore è dono di Cristo, effuso in noi dallo Spirito Santo.

 

Chi crede in Dio-Amore porta in sé una speranza invincibile, come una lampada con cui attraversare la notte oltre la morte, e giungere alla grande festa della vita.

A Maria, Sedes Sapientiae, chiediamo di insegnarci la vera sapienza, quella che si è fatta carne in Gesù. Lui è la Via che conduce da questa vita a Dio, all’Eterno. Lui ci ha fatto conoscere il volto del Padre, e così ci ha donato una speranza piena d’amore. Per questo, alla Madre del Signore la Chiesa si rivolge con queste parole: “Vita, dulcedo, et spes nostra”. Impariamo da lei a vivere e morire nella speranza che non delude.

(Benedetto XVI, Angelus, 06.11.2011).

 

Attendere

Non amo attendere nelle file. Non amo attendere il mio turno. Non amo attendere il treno. Non amo attendere prima di giudicare. Non amo attendere il momento opportuno. Non amo attendere un giorno ancora. Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell’istante. D’altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l’attesa: gli abbonamenti ai mezzi di trasporto e i self-service, le vendite a credito e i distributori automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali. Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi. Ma tu Dio tu hai scelto di farti attendere il tempo di tutto un Avvento. Perché tu hai fatto dell’attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l’usura che non si usura. L’attesa, soltanto l’attesa,  l’attesa dell’attesa, l’intimità con l’attesa che è in noi, perché solo l’attesa desta l’attenzione e solo l’attenzione è capace di amare.

 

Tu vegli su noi

Mio Dio, io sono convinto che tu vegli

su coloro che sperano in te,

e che non si può mancare di nulla

quando da te si attende ogni cosa,

per cui ho deciso di vivere in avvenire

senza alcuna preoccupazione

e di deporre in te

tutte le mie inquietudini…

Gli uomini possono spogliarmi

dei beni e dell’onore,

le malattie possono togliermi

le forze e i mezzi per servirti,

io posso perfino perdere

la tua grazia col peccato,

io non perderò mai la speranza,

ma la conserverò

fino all’ultimo istante

della mia vita.

(Jean Guitton)

 

Giudizio finale

Tu giudicaci tutti

come se tutti fossimo bambini

che giocano con la vita

in questo cortile assurdo e prodigioso.

Quando giunge la notte,

raccoglici tutti

nel calore della tua Casa

per sempre.

E pianta di bellezza imperitura

il vecchio cortile amato…

(Pedro Casaldáliga)

 

Dall’immagine tesa

Dall’immagine tesa

vigilo l’istante                                                 

con imminenza di attesa –                         

e non aspetto nessuno:                          

nell’ombra accesa                                  

spio il campanello

che impercettibile spande

un polline di suono –

e non aspetto nessuno:

fra quattro mura

stupefatte di spazio

più che un deserto

non aspetto nessuno:

ma deve venire,

verrà, se resisto

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso,

quando meno l’avverto:

verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e sue pene,

verrà, forse già viene

il suo bisbiglio.

(C. Rebora)

 

I tre livelli dell’attesa

Tre livelli dell’attesa: l’attesa inutile (“far passare il tempo”…così, fino la morte!); l’attesa borghese (totale autosufficienza: “Spero che…”, “Attendo che…”. Il borghese resta nel mondo del avere, nel quale l’attesa elimina in anticipo la gratuità, la sorpresa. Anche vorrebbe eliminare l’insuccesso, la morte); l’attesa radicale, creatrice (l’attesa che spera nell’altro, e ne spera tutto. Attesa che rompe con gli altri tipi di attesa. Attesa in cui l’amore, divenuto creatore al massimo grado, dimentica se stesso. Attesa impegnativa. Attesa che sviluppa la nostra capacità di sorprenderci. Disse Eraclito: «chi non spera non incontra mai qualcosa di insperato».

 

Preghiera

Signore Gesù, Figlio di Dio e Sapienza del Padre, Verbo fatto carne e splendore della gloria, tu ti sei avvicinato a noi, venendoci incontro e invitandoci alle nozze della chiesa con Dio, Padre di tutti. Che il nostro amore domandi, cerchi, raggiunga e scopra la tua sapienza e permanga sempre in ciò che ha scoperto.

Oggi desideriamo evocarti e pregarti con le parole evangeliche: «Beati gli invitati alla mensa del Signore», cioè: «Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello» (Ap 19,9), o con quelle di sant’Agostino: «Tutta la durata del tempo è come la notte, nel corso della quale la chiesa veglia, con gli occhi della fede rivolti alle Sacre Scritture come a fiaccole che risplendono nel buio, fino alla venuta del Signore».

Noi siamo ora quelle cinque vergini prudenti, che siedono a mensa con lo sposo.

Affidiamo tutti insieme, con fede e umiltà, un desiderio alla generosità del nostro Dio: che tutti noi, che viviamo nella fede e siamo nell’attesa della pace sabbatica, possiamo ritrovarci un giorno riuniti nel tuo Regno, nel banchetto eterno, e che nessuno resti fuori da quella misteriosa porta, là fuori «dove c’è pianto e stridore di denti».

Allo stesso modo, possa tu, o Signore, quando verrai, trovare la tua chiesa vigilante nella luce dello Spirito per risvegliarla anche nel corpo, che giacerà addormentato nella tomba.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO A

LA LAICITÀ COME RISORSA PER L’IRC

Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e la Conferenza Episcopale Italiana organizzano un Corso di aggiornamento che coinvolge 120 insegnanti di religione cattolica in servizio nelle scuole statali di ogni ordine e grado, sul tema “La laicità come risorsa per l’IRC: una disciplina confessionale aperta al dialogo”,  che si svolgerà nei giorni 6- 8 novembre 2017 a Santa Maria degli Angeli in Assisi (PG) presso la Domus Pacis.

Per comprendere il senso e il valore di questo Corso, ci pare importante ricordare che esso sarà un’occasione per aiutare i “formatori dei formatori” a riflettere e dialogare insieme affinché, anche nelle varie diocesi e nei diversi contesti territoriali locali, promuovano tra i colleghi una maggiore consapevolezza sulla valenza educativa e sulla caratterizzazione culturale-scolastica dell’IRC, che è una disciplina confessionale, ma che è chiamato insieme con tutte le altre discipline alla formazione della persona nel quadro delle finalità scolastiche (oggi descritte attraverso i profili di competenza) e nel rispetto della libertà di coscienza di tutti gli alunni.

«L’istruzione è lo strumento più potente per cambiare il mondo»

Quali sono i fattori chiave per un buon lavoro? Roberto Rossini, presidente delle Acli, snocciola a velocità supersonica le indicazioni dei 30 tavoli dove venerdì è stato affrontato l’argomento. Niente commenti, non tocca a lui farne né vuole sottrarre spazio alla discussione che seguirà. Fattori chiave, dunque. Sono otto: costruire reti locali, valorizzare il territorio, alternanza scuola-lavoro, rapporto tra le generazioni, orientamento, formazione continua, etica del lavoro, internazionalità. Poi cinque idee: senso civico e cittadinanza attiva, consumo responsabile, responsabilità delle comunità cristiane, lavoro manuale e intellettuale da comprendere assieme, informarsi e informare. Infine sette suggerimenti alla politica: potenziare le politiche attive del lavoro, favorire l’alternanza scuola-lavoro, semplificare la burocrazia, appalti limpidi, riforme, parità scolastica e part-time alla fine della vita lavorativa. La sintesi estrema di Rossini è collegare: teoria a pratica, talento a mestiere, formazione a lavoro.

Il neoliberismo rampante, la globalizzazione, le tecnologie, le leggi, le riforme attese e quelle disattese. Tutto importante, tutto da considerare. Ma alla fine a contare è la persona. L’uomo. Con la sua capacità di sognare, desiderare, inventare. Hanno competenze diverse gli ospiti diretti da Claudio Gentili, membro del Comitato scientifico delle Settimane. Alberto De Toni, rettore dell’Università di Udine, è ingegnere e professore; Johnny Dotti è un educatore ed imprenditore sociale, amministratore delegato di On; tanto misurato il primo, quanto rutilante il secondo. Paola Vecchina è presidente di Forma e si occupa di IeFP (istruzione e formazione professionale) e Giorgio Vittadini è presidente della Fondazione Sussidiarietà, lei ‘precede’ il lavoro, lui ci sta dentro. Diversi nelle esperienze e nel linguaggio, ma uniti negli esiti. Sono piante di varia specie che crescono e traggono nutrimento nello stesso terreno, in armonia.

Vittadini afferma convinto: «La formazione non deve fornire soltanto nozioni ma educare una personalità », perché oggi per lavorare meglio – gli studiosi lo garantiscono – servono «grinta, scrupolosità, stabilità emotiva, spirito di collaborazione, amicizia», tutte qualità squisitamente umane. Gentili riassume: «Mettere insieme la tecnica con un ideale di uomo». Vecchina ribadisce: «Buone leggi sì, ma occorrono soprattutto soggetti che nella libertà sappiamo assumersi dei rischi ». Dotti, che ha l’oratorio nel cuore ma anche al centro di nuovi processi produttivi, invita i ragazzi, ma soprattutto gli adulti che li vorrebbero tenere al guinzaglio, alla libertà e al rischio, «altrimenti produciamo acefali privi del coraggio di vivere». Enuncia le virtù necessarie all’impresa: «Coraggio, fortezza, giustizia, temperanza». E invita a un’alleanza tra adulti, che «autorizzino vere esperienze di libertà (e di impresa) negli oratori», e i minorenni: «Se in oratorio non avessi fatto la raccolta degli stracci, mai sarei diventato un imprenditore ». Avere un’idea educativa, è il mantra di Dotti.

De Toni gli fa eco citando Nelson Mandela: «L’istruzione è lo strumento più potente per cambiare il mondo». Bella frase che fa vibrare le corde del cuore, o anche concreto programma politico? De Toni sembra convinto: «Tre sono gli obiettivi di un percorso di istruzione: acquisire capacità critiche, imparare a imparare, imparare per un mestiere». E ribadisce: «In azienda, al centro dei processi di cambiamento sono gli uomini ». E la tecnologia? «La fanno gli uomini». Vittadini punta forte sulla parola desiderio: «Solo l’uomo che desidera è capace di reale invenzione e cambiamento ». E Vecchina annuisce: «Si riparte dal desiderio e dalla conciliazione di apparenti opposti». Il cerchio si chiude con De Toni: «Il gap strutturale tra le risorse (scarse, insufficienti) e i problemi (grandi, enormi) si colma facendo entrare in campo l’uomo. Lui, l’uomo, marca la differenza. Loro, gli uomini e le organizzazioni».

Vittadini ricorda: «Il capitale umano ha un collegamento diretto con il Pil. Le banche, le tasse, il debito… questi, ci ripetono, sarebbero i veri protagonisti. Ma è provato che se migliora l’istruzione, il Pil aumenta. Lo raccontano in modo evidente i percorsi recenti di Singapore, Taiwan, Cina… Per crescere, il primo modo è puntare con decisione su istruzione e formazione professionale». E consente a Gentili di concludere: «Il lavoro va messo al centro dei processi formativi; occorrono maggiori investimenti per il diritto di ricevere una buona formazione professionale; a partire dalle periferie e sapendo che saranno le minoranze creative a fare la storia».

Umberto Folena

Avvenire, 29 ottobre 2017

In cerca di futuro

Partono sempre di più, sempre di più i giovani, sempre di più dal Sud Italia. E, una volta partiti, difficilmente ritornano. Questa la fotografia degli italiani che lasciano il nostro Paese elaborata dal “Rapporto Italiani nel mondo 2017” della Fondazione Migrantes presentato questa mattina a Roma. Un evento cui hanno preso parte, tra gli altri, don Giovanni De Robertis, Direttore generale della Fondazione Migrantes e il Presidente Monsignor Guerino Di Tora, il direttore di Tv2000 Paolo Ruffini e Mons. Nunzio Galantino, Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana.
Dal 2006 al 2017, si legge nel Rapporto, la mobilità degli italiani è aumentata del 60,1%: coloro che risiedono fuori dai confini nazionali sono passati da 3 milioni a 5 milioni. E se “La mobilità è una risorsa”, come si legge nell’introduzione “perché permette il confronto con realtà diverse ed è, se ben indirizzata, una opportunità di crescita e arricchimento”, è altrettanto vero che oggi “nello stato generale di recessione economica e culturale in cui purtroppo ci si ritrova”, la migrazione “è diventata nuovamente, come in passato, una valvola di sfogo, ciò che permette cioè di trovare probabilmente una sorte diversa rispetto a quella a cui si è destinati nel territorio di origine”.
Infatti, i dati registrati per il decennio 2006-2015 mostrano una propensione all’aumento continuo degli espatri che diviene più marcata soprattutto a partire dal 2010. Con una scarsa tendenza al ritorno: il saldo migratorio, nel 2015, è stato pari a -72.207 unità.
“Così intesa – si sottolinea –, la mobilità diventa unidirezionale, dall’Italia verso l’estero, con partenze sempre più numerose e con ritorni sempre più improbabili”.
Una migrazione che è anche e soprattutto dei giovani. Oltre il 39% di chi ha lasciato l’Italia alla volta dell’estero nell’ultimo anno ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni (oltre 9 mila in più rispetto all’anno precedente, +23,3%); un quarto ha tra i 35 e i 49 anni (quasi +3.500 in un anno, +12,5%). Ma ben il 9,7% è rappresentato da chi ha tra i 50 e i 64 anni, “ovvero i tanti ‘disoccupati senza speranza’” che sono rimasti senza lavoro in Italia “e con enormi difficoltà di riuscire a trovare alternative occupazionali concrete”.
Ed è un esodo che spopola in primo luogo il Mezzogiorno. Guardando alla provenienza dei cittadini italiani iscritti all’AIRE, resta preponderante (50,1%) l’origine meridionale (+47.262 rispetto al 2016), mentre il 34,8% è di origine settentrionale. Tra i primi quindici territori provinciali, solo tre sono del Nord Italia.
In tale scenario diventa fondamentale non tanto “agire sul numero delle partenze, ma piuttosto di trasformare l’unidirezionalità in circolarità” ed emerge “la necessità che la mobilità diventi sempre più un processo dinamico di relazioni e non una imposizione di qualche nazione su un’altra”. Questo vale tanto più in un momento storico in cui “alcuni hanno pensato che la libertà non potesse riguardare tutti, ma solo alcuni mentre chi è ritenuto privo di questo diritto va fermato”. Per questo è indispensabile “lavorare per una nuova cultura” un impegno cui la Chiesa italiana non si sottrae “nella certezza che la centralità della persona sia lo sguardo corretto per affrontare la realtà”.

In allegato la sintesi del Rapporto.

17 ottobre 2017

TUTTI I SANTI

Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.  Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

 

v L’inizio del capitolo 7 dell’Apocalisse vuole rispondere all’angosciosa domanda: Chi potrà resistere alla nuova grande tribolazione? La risposta viene attraverso visioni, parole e gesti simbolici.

     In una prima visione (Ap 7,1-8) si vedono gli angeli che trattengono i venti sterminatori ai quattro angoli della terra mentre un angelo, che porta il sigillo del Dio vivente, grida di fermare ogni distruzione, finché non siano segnati sulla fronte «i servi del nostro Dio».

     Il numero dei segnati è di 144.000. Tale numero è il quadrato di dodici moltiplicato per mille. Esso simbolicamente indica la totalità di Israele rappresentato dalle sue dodici tribù, da ognuna delle quali provengono coloro che sono segnati col sigillo divino; esse non hanno più riscontro nella realtà storica, ma conservano un significato teologico (cf i nomi delle 12 tribù scritti sulle porte della Gerusalemme che scende dal cielo, Ap 22,12). Da notare che nella menzione delle tribù non viene nominata quella di Dan, ma, pur di far risultare il numero 12, si nomina quella di Manasse, uno dei due figli di Giuseppe, quindi già compresa nella sua tribù.

     I segnati non saranno esentati dalla tribolazione, ma avranno Dio vicino a loro che li aiuterà a superarla. Tale insegnamento vale non solo per i figli di Israele, ma anche per i cristiani che con il battesimo («sigillo» è uno dei nomi dato al battesimo nelle chiese primitive) sono fatti partecipi dell’elezione divina riservata ad Israele.

     Dopo la scena del sigillo del Dio vivente una nuova visione si apre con l’apparizione di «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9). Lo sguardo ora è proiettato dalla terra al cielo, che si apre per mostrare coloro che hanno ormai superato le afflizioni della vita e «stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello». «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide — dice paradossalmente l’immagine — nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14).

     Mentre l’aver lavato le vesti nel sangue dell’Agnello allude sia al martirio cristiano sia al battesimo, la grande tribolazione allarga lo sguardo a tutti coloro che sono vittime della violenza, guerra, fame, pestilenza, persecuzione di ogni tipo, tutti quanti, senza distinzione di nazione, razza, popolo e lingua formano la moltitudine dei beati apparsa in vesti bianche e con una palma in mano (Ap 7,9).

     La moltitudine e le altre creature celesti intonano inni di lode a Dio (Ap 7,10-12).

Questa visione di benessere si può considerare la risposta all’angosciosa domanda: «Fino a quando, o Signore, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra fili abitanti della terra?» (Ap 6,10).

     Il Salmo responsoriale (23-24) nei primi due versetti innalza un inno di lode al Dio creatore, lode che attesta la fede nel Dio creatore e salvatore e che attraversa tutta la Bibbia. La terra e l’universo non sono un ammasso caotico di cose e i loro abitanti non sono sottomessi al caso, ma vivono secondo un progetto divino.

     Dal versetto 3 al 7 entriamo in una scena liturgica: la domanda: «Chi salirà il monte del Signore?» esprime l’esigenza di alcune caratteristiche necessario prima di accedere al culto del Signore. La risposta: «Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronunzia menzogna» rispecchia la convinzione che ci deve essere grande coerenza fra il culto e la vita, che deve essere condotta quotidianamente secondo le esigenze dei precetti divini. Solo con l’integrità della vita (cf Sal 15.1-2) e una coscienza limpida lontana da ogni ipocrisia (cf Is 33,15-16) Israele può rendere culto al «Dio di Giacobbe», nella speranza che «otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza» (Sal 23-24,7). Tali indicazioni valgono anche per i cristiani.

 

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.  Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.     

 

v Dio ci ha amato per primo in modo gratuito e smisurato tanto da considerarci realmente suoi figli (1 Gv 3,1.2). La figliolanza divina in Cristo per mezzo dello Spirito dei discepoli di Gesù è ricordata più volte nel Nuovo Testamento in particolare nelle lettere paoline (cf ad es. Gal 3,26,4,5-7; Rm 8,14-17; Ef 1,5).

     Possiamo scoprire più in profondità l’atteggiamento paterno di Dio studiando nella Bibbia il suo comportamento verso Israele «figlio primogenito» (Es 4,22, cf Dt 14,1). Dio si mostra al tempo stesso padre e madre di Israele, lo richiama con severità quando sbaglia, ma non si dimentica mai di lui e lo riaccoglie e lo consola dopo i castighi. Le pagine profetiche lo ricordano continuamente.

     Essere stati chiamati da Dio ad essere figli adottivi comporta anche per noi, come per Israele, il dovere di obbedire ai comandamenti divini (cf 1Gv 5,2). Per ora infatti siamo già figli di Dio, ma come saremo «non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2). Per ora dobbiamo vivere nella speranza, e purificare noi stessi ad imitazione di Gesù, il perfetto imitatore del Padre.

 

Vangelo: Matteo 5,1-12a 

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». 

 

Esegesi 

     Il brano di Vangelo è l’inizio della sezione di Matteo, che si è soliti chiamare «Discorso della montagna». Questo titolo deriva dall’indicazione del primo versetto: «Gesù salì sul monte». L’evangelista annota che Gesù sale, seguito dai discepoli, perché aveva visto «le folle». Si tratta quindi di un discorso rivolto a tutti coloro che desiderano ascoltarlo, non riservato alla piccola cerchia dei discepoli, che vivevano con lui. Gesù, prende la parola per «ammaestrare» (didaskein). Egli viene presentato nello svolgimento del compito di un rabbi, un maestro (didaskalos), come in numerosi altri passi dei Vangeli, dove apertamente Gesù è chiamato maestro (in 12 passi solo in Matteo; rabbi è appellativo caro a Giovanni: 1,38.49;4,31;20,16). Gesù insegna rifacendosi alle Scritture, Torâh (Pentateuco) e Profeti, che venivano letti e commentati ogni sabato in sinagoga, dove Gesù, dice l’evangelista Matteo, era solito «insegnare» (Mt 4,23).

     La serie delle beatitudini si snoda dal versetto 3 al 10, come appare dalla identica promessa per la prima beatitudine e l’ultima: «il regno dei cieli», mentre i versetti 11-12 riprendono in una nuova forma il versetto 10; sono un caso particolare di persecuzione.

     I versetti 3-10 sono composti di due parti completamente simmetriche (3-6; 7-10), che in greco hanno persino lo stesso numero di parole. Questo ci dice che siamo di fronte ad un brano molto elaborato e ritenuto molto importante dal redattore.

     Tutte le beatitudini sono accomunate dalla proclamazione che coloro che sono nelle condizioni descritte: poveri di spirito, «piangenti», miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia sono già ora beati, ma al tempo stesso sono fatti oggetto di una promessa futura, che devono attendere con fiducia.

     Tutte le beatitudini sono legate dall’atteggiamento di coloro che vengono esaltati: l’attesa di Dio di cui parla la prima beatitudine. Sono persone che si affidano completamente a Dio, interiorizzano la sua legge e la mettono in pratica, consapevoli che non avranno gloria e potenza terrena, ma piuttosto dovranno attendere la sofferenza e la persecuzione. La loro speranza è solo nel Signore.

     Tutte le beatitudini hanno un senso messianico e alludono a Gesù come Messia nascosto e sofferente, come appare chiaro nell’ultima beatitudine quella dei perseguitati. Già da Is 53 era previsto che il Messia dovesse soffrire, e questa stessa attesa è presente ai tempi di Gesù (cf Mc 8,31 ss). Si sa che i «giusti» devono soffrire»: lo dicono i salmi, meditano su questo «scandalo» i libri sapienziali (Giobbe e Qoelet) e ne chiedono con forza spiegazione a Dio. Se gli umili aspettano la signoria di Dio, la sua consolazione, la sua giustizia (Mt 5.3.4.6), questo significa che essi sono costantemente perseguitati, proprio per il fatto che sono giusti. Il Messia non avrà un destino diverso dal loro. I giorni del Messia, dice una tradizione ebraica, già presente ai tempi di Gesù saranno preceduti da un periodo di gravissime sofferenze, simili al travaglio per il parto, dopo il quale si instaurerà la sovranità di Dio, che ora si nasconde in coloro che sono umanamente disprezzati.

     In questo quadro unitario delle beatitudini si possono inserire i numerosissimi spunti esegetici, presentati da ogni versetto. Ne propongo solo qualcuno: nella prima beatitudine Luca usa solo l’appellativo di poveri, Matteo specifica «poveri in spirito». Questa espressione è simile a Is 57,15: «Io che abito in alto e nel santuario e presso coloro che sono affranti e umili nello spirito». Si tratta, di una condizione sociale di povertà, a cui dai tempi del Deuteroisaia appartenevano i «pii», che non si erano prostituiti con l’idolatria o il sincretismo dei culti pagani, a cui invece avevano aderito in gran parte le classi più elevate e i sacerdoti stessi. I «pii» ed i «giusti», sono per la Bibbia, coloro che imitano Dio, che è vicino a coloro che sono «affranti e umili nello spirito».

     «Possederanno la terra» della terza beatitudine sottolinea che, anche se il compimento della promessa di felicità sarà in un mondo futuro, esso ha una sua manifestazione terrena a cui l’opera degli «umili perseguitati» da il suo contributo. L’attesa messianica, che percorre questo brano, non è pura passività, ma è tesa a dare forza all’impegno per la giustizia.

     Per approfondire l’allusione messianica delle beatitudini, oltre a Isaia 53, già citato, bisogna leggere i vv. 4.5.6 nell’orizzonte di Isaia 61, che allude al Messia consolatore di ogni afflizione umana e portatore di un rinnovamento di vita già possibile in questo mondo.

     La «misericordia» caratterizza il giudizio di Dio (Mt 5,7). Di fronte al tribunale di Dio, il maestoso, il santo, non vale altro che la sua misericordia; nessuno può vantare pretese davanti a lui. L’Antico Testamento è pervaso da questa idea e una tradizione ebraica dice che Dio al momento stesso della creazione si «è spostato dal trono della giustizia a quello della misericordia». Gli uomini e le donne devono imitare Dio ed usare misericordia fra loro. Chi non usa misericordia, non la trova nemmeno in Dio (cf Gc 2,13); lo indica chiaramente il «Padre nostro» (Mt 18,21).

     Usare misericordia è una caratteristica divina (Lc 6,36), perciò «beato chi usa misericordia»: egli ha qualcosa del comportamento di Dio. Così vengono descritte le opere di misericordia in Mt 25,34ss, dove gli operatori stessi sono all’oscuro della profondità del significato della loro buona azione.

     «Beati i perseguitati per la giustizia», nel contesto del Vangelo di Matteo fa pensare alla figura del Battista, invitato da Gesù prima del suo battesimo ad adempiere con lui «ogni giustizia» (cf Mt 4,12) e che, mentre Gesù sta parlando, è in prigione (cf Mt 4,12) per aver seguito la «via della giustizia (Mt 21,32), vale a dire la via del Signore, dato che tutte le vie del Signore «sono giustizia» (Dt 32,4).

 

Meditazione

     Il brano di Vangelo è l’inizio della sezione di Matteo, che si è soliti chiamare «Discorso della montagna». Questo titolo deriva dall’indicazione del primo versetto: «Gesù salì sul monte». L’evangelista annota che Gesù sale, seguito dai discepoli, perché aveva visto «le folle». Si tratta quindi di un discorso rivolto a tutti coloro che desiderano ascoltarlo, non riservato alla piccola cerchia dei discepoli, che vivevano con lui. Gesù, prende la parola per «ammaestrare» (didaskein). Egli viene presentato nello svolgimento del compito di un rabbi, un maestro (didaskalos), come in numerosi altri passi dei Vangeli, dove apertamente Gesù è chiamato maestro (in 12 passi solo in Matteo; rabbi è appellativo caro a Giovanni: 1,38.49;4,31;20,16). Gesù insegna rifacendosi alle Scritture, Torâh (Pentateuco) e Profeti, che venivano letti e commentati ogni sabato in sinagoga, dove Gesù, dice l’evangelista Matteo, era solito «insegnare» (Mt 4,23).

     La serie delle beatitudini si snoda dal versetto 3 al 10, come appare dalla identica promessa per la prima beatitudine e l’ultima: «il regno dei cieli», mentre i versetti 11-12 riprendono in una nuova forma il versetto 10; sono un caso particolare di persecuzione.

     I versetti 3-10 sono composti di due parti completamente simmetriche (3-6; 7-10), che in greco hanno persino lo stesso numero di parole. Questo ci dice che siamo di fronte ad un brano molto elaborato e ritenuto molto importante dal redattore.

     Tutte le beatitudini sono accomunate dalla proclamazione che coloro che sono nelle condizioni descritte: poveri di spirito, «piangenti», miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia sono già ora beati, ma al tempo stesso sono fatti oggetto di una promessa futura, che devono attendere con fiducia.

     Tutte le beatitudini sono legate dall’atteggiamento di coloro che vengono esaltati: l’attesa di Dio di cui parla la prima beatitudine. Sono persone che si affidano completamente a Dio, interiorizzano la sua legge e la mettono in pratica, consapevoli che non avranno gloria e potenza terrena, ma piuttosto dovranno attendere la sofferenza e la persecuzione. La loro speranza è solo nel Signore.

     Tutte le beatitudini hanno un senso messianico e alludono a Gesù come Messia nascosto e sofferente, come appare chiaro nell’ultima beatitudine quella dei perseguitati. Già da Is 53 era previsto che il Messia dovesse soffrire, e questa stessa attesa è presente ai tempi di Gesù (cf Mc 8,31 ss). Si sa che i «giusti» devono soffrire»: lo dicono i salmi, meditano su questo «scandalo» i libri sapienziali (Giobbe e Qoelet) e ne chiedono con forza spiegazione a Dio. Se gli umili aspettano la signoria di Dio, la sua consolazione, la sua giustizia (Mt 5.3.4.6), questo significa che essi sono costantemente perseguitati, proprio per il fatto che sono giusti. Il Messia non avrà un destino diverso dal loro. I giorni del Messia, dice una tradizione ebraica, già presente ai tempi di Gesù saranno preceduti da un periodo di gravissime sofferenze, simili al travaglio per il parto, dopo il quale si instaurerà la sovranità di Dio, che ora si nasconde in coloro che sono umanamente disprezzati.

     In questo quadro unitario delle beatitudini si possono inserire i numerosissimi spunti esegetici, presentati da ogni versetto. Ne propongo solo qualcuno: nella prima beatitudine Luca usa solo l’appellativo di poveri, Matteo specifica «poveri in spirito». Questa espressione è simile a Is 57,15: «Io che abito in alto e nel santuario e presso coloro che sono affranti e umili nello spirito». Si tratta, di una condizione sociale di povertà, a cui dai tempi del Deuteroisaia appartenevano i «pii», che non si erano prostituiti con l’idolatria o il sincretismo dei culti pagani, a cui invece avevano aderito in gran parte le classi più elevate e i sacerdoti stessi. I «pii» ed i «giusti», sono per la Bibbia, coloro che imitano Dio, che è vicino a coloro che sono «affranti e umili nello spirito».

     «Possederanno la terra» della terza beatitudine sottolinea che, anche se il compimento della promessa di felicità sarà in un mondo futuro, esso ha una sua manifestazione terrena a cui l’opera degli «umili perseguitati» da il suo contributo. L’attesa messianica, che percorre questo brano, non è pura passività, ma è tesa a dare forza all’impegno per la giustizia.

     Per approfondire l’allusione messianica delle beatitudini, oltre a Isaia 53, già citato, bisogna leggere i vv. 4.5.6 nell’orizzonte di Isaia 61, che allude al Messia consolatore di ogni afflizione umana e portatore di un rinnovamento di vita già possibile in questo mondo.

     La «misericordia» caratterizza il giudizio di Dio (Mt 5,7). Di fronte al tribunale di Dio, il maestoso, il santo, non vale altro che la sua misericordia; nessuno può vantare pretese davanti a lui. L’Antico Testamento è pervaso da questa idea e una tradizione ebraica dice che Dio al momento stesso della creazione si «è spostato dal trono della giustizia a quello della misericordia». Gli uomini e le donne devono imitare Dio ed usare misericordia fra loro. Chi non usa misericordia, non la trova nemmeno in Dio (cf Gc 2,13); lo indica chiaramente il «Padre nostro» (Mt 18,21).

     Usare misericordia è una caratteristica divina (Lc 6,36), perciò «beato chi usa misericordia»: egli ha qualcosa del comportamento di Dio. Così vengono descritte le opere di misericordia in Mt 25,34ss, dove gli operatori stessi sono all’oscuro della profondità del significato della loro buona azione.

     «Beati i perseguitati per la giustizia», nel contesto del Vangelo di Matteo fa pensare alla figura del Battista, invitato da Gesù prima del suo battesimo ad adempiere con lui «ogni giustizia» (cf Mt 4,12) e che, mentre Gesù sta parlando, è in prigione (cf Mt 4,12) per aver seguito la «via della giustizia (Mt 21,32), vale a dire la via del Signore, dato che tutte le vie del Signore «sono giustizia» (Dt 32,4).

 

Preghiere e racconti

Un cuore puro

 “Ah, frate Leone, credimi riprende Francesco  non preoccuparti tanto della purezza della tua anima. Volgi il tuo sguardo a Dio, ammiralo, gioisci di ciò che è nella sua santità; ringrazialo perché esiste. Questo significa, o mio giovane fratello, avere un cuore puro. E quando guardi a Dio in questo modo, non far più ritorno a te stesso, non chiederti più a che punto è il tuo rapporto con Dio. La tristezza di non essere perfetto e di scoprirsi peccatore è ancora un sentimento umano, troppo umano. Bisogna puntare lo sguardo più in alto, sempre più in alto; c’è Dio, ci sono l’immensità di Dio ed il suo inalterabile splendore. Il cuore puro è quello che non smette mai di adorare il Dio vivente e vero, che si interessa in modo profondo alla vita stessa di Dio e che è in grado, in mezzo a tutte le sue miserie, di vibrare dinanzi all’eterna innocenza e all’eterna gioia di Dio. Un cuore così è allo stesso tempo nudo e vestito: gli basta che Dio sia Dio. In questo soltanto trova tutta la sua pace, tutta la sua santità”.

“Dio però pretende da noi sforzi e fedeltà”, fa notare frate Leone.

“Sì, indubbiamente” replica Francesco; “ma la santità non è una realizzazione di sé e neppure una pienezza che ci si offre. È innanzitutto un vuoto che scopriamo e che accettiamo e che Dio viene a riempire nella misura in cui ci apriamo alla sua pienezza. Vedi, il nostro nulla, se lo accettiamo, diventa lo spazio libero in cui Dio può ancora creare. Il Signore non permette a nessuno di rubargli la gloria: egli è il Signore, l’Unico, il solo che è santo. Eppure prende per mano il povero, lo tira fuori dal fango e lo fa sedere tra i principi del suo popolo perché osservi la Sua gloria. Dio diventa così il cielo della sua anima. Contemplare la gloria di Dio, fra’ Leone, scoprire che Dio è Dio, eternamente Dio, al di là di quello che siamo o che possiamo essere, gioire pienamente di ciò che è, estasiarsi di fronte alla sua eterna giovinezza e ringraziarlo perché esiste, perché è infallibile nella sua misericordia: questa è l’esigenza più profonda di quell’amore che lo Spirito del Signore non smette mai di diffondere nei nostri cuori. Questo vuol dire avere un cuore puro. Ma tutta questa purezza non si raggiunge attraverso sforzi e sacrifici.”

“Come, allora?” chiede Leone. “Bisogna semplicemente rinunciare a tutto di sé. Spazzare via ogni cosa, anche la stessa acuta percezione della nostra miseria. Fare tabula rasa, accettare di essere poveri, rinunciare a tutto ciò che è pesante, al peso stesso dei nostri errori. Vedere soltanto la gloria del Signore, lasciarsene irradiare. Dio è: questo basta. Il cuore diventa allora leggero, si sente diverso, come una rondine persa nello spazio immenso ed azzurro. È libero da ogni preoccupazione, da ogni inquietudine; il suo desiderio di perfezione è diventato pura e semplice volontà di Dio”.

(Eligio Leclerc, Sapienza di un povero, Bibl. Francescana, MI ’82).

 

Beatitudini: Dio regala vita a chi produce amore

Le Beatitudini, che Gandhi chiamava «le parole più alte che l’umanità abbia ascoltato», fanno da collante tra le due feste dei santi e dei defunti. La liturgia propone il Vangelo delle Beatitudini come luce che non raggiunge solo i migliori tra noi, i santi, ma si posa su tutti i fratelli che sono andati avanti. Una luce in cui siamo dentro tutti: poveri, sognatori, ingenui, i piangenti e i feriti, i ricomincianti. Quando le ascoltiamo in chiesa ci sembrano possibili e perfino belle, poi usciamo, e ci accorgiamo che per abitare la terra, questo mondo aggressivo e duro, ci siamo scelti il manifesto più difficile, stravolgente e contromano che si possa pensare. Ma se accogli le Beatitudini la loro logica ti cambia il cuore. E possono cambiare il mondo. Ti cambiano sulla misura di Dio. Dio non è imparziale, ha un debole per i deboli, incomincia dagli ultimi, dalle periferie della Storia, per cambiare il mondo, perché non avanzi per le vittorie dei più forti, ma per semine di giustizia e per raccolti di pace.  Chi è custode di speranza per il cammino della terra? Gli uomini più ricchi, i personaggi di successo o non invece gli affamati di giustizia per sé e per gli altri? I lottatori che hanno passione, ma senza violenza? Chi regala sogni al cuore? Chi è più armato, più forte e scaltro? o non invece il tessitore segreto della pace, il non violento, chi ha gli occhi limpidi e il cuore bambino e senza inganno? Le Beatitudini sono il cuore del Vangelo e al cuore del vangelo c’è un Dio che si prende cura della gioia dell’uomo. Non un elenco di ordini o precetti ma la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità. Non solo, ma sono beati anche quelli che non hanno compiuto azioni speciali, i poveri, i poveri senza aggettivi, tutti quelli che l’ingiustizia del mondo condanna alla sofferenza. Beati voi poveri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell’altro mondo! Beati, perché c’è più Dio in voi. E quindi più speranza, ed è solo la speranza che crea storia. Beati quelli che piangono… e non vuol dire: felici quando state male! Ma: In piedi voi che piangete, coraggio, in cammino, Dio sta dalla vostra parte e cammina con voi, forza della vostra forza! Beati i misericordiosi… Loro ci mostrano che i giorni sconfinano nell’eterno, loro che troveranno per sé ciò che hanno regalato alla vita d’altri: troveranno misericordia, bagaglio di terra per il viaggio di cielo, equipaggiamento per il lungo esodo verso il cuore di Dio. A ricordarci che «la nostra morte è la parte della vita che dà sull’altrove. Quell’altrove che sconfina in Dio»(Rilke).

(Ermes Ronchi)

 

Tutti i santi

Con questa memoria, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sì, perché da secoli gli abitanti delle nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti. Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la chiesa ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate, non solo nei secoli passati e nelle campagne, ma ancora oggi e nelle città più anonime, nonostante la cultura dominante tenda a rimuovere la morte. Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano. Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente. Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel Vangelo di Giovanni che oggi dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tristezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!” (cf. Gv 6,37ss.). Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è colui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela. E Gesù non lo respinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna. La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo. E’ in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce per apparire “sorella”, per trasfigurarsi in un atto in cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione. Per questo la chiesa della terra, ricordando i fedeli defunti, si unisce alla chiesa del cielo e in una grande intercessione invoca misericordia per chi è morto e sta davanti a Dio in giudizio per rendere conto di tutte le sue opere (cf. Ap 20,12). Certo, nel ricordo di chi vive ci sono anche i morti la cui vita è stata segnata dal male, dai vizi, dalla cattiveria, dall’errore; ma c’è come un’urgenza, un istinto del cuore che chiede di onorare tutti i morti, di pensarli in questo giorno come all’ombra dei beati, sperando che “tutti siano salvati”. La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come communio sanctorum, “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio: è il modo per eccellenza per entrare nella preghiera di Gesù Cristo: “Padre, che nessuno si perda… che tutti siano uno!”.

(Enzo Bianchi)

 

Beato il popolo il cui Dio è il Signore

«Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3). Riconosco qui il segno distintivo, ben noto e glorioso, che il Figlio dell’uomo aveva rivelato prima di nascere nella carne per farsi riconoscere; quel segno che egli ci insegnò, una volta nato, ma ancora sconosciuto, a vedere applicato a lui. Dice: «Lo Spirito del Signore è su di me; mi ha mandato ad annunciare l’evangelo ai poveri» (Lc 4,18; Is 61,1). Ecco che i poveri sono evangelizzati, ecco che l’evangelo del Regno è annunciato ai poveri: «Beati i poveri in spirito, perché è loro il regno dei cieli» (Mt 5,3). Beato inizio, colmo di una grazia nuova, del Nuovo Testamento: impegna l’uomo, anche il più infedele e il più pigro ad ascoltare e, più ancora, a darsi da fare, perché la beatitudine è promessa ai miseri, il regno dei cieli agli esiliati e ai bisognosi. […] A ragione il Signore, proclamando la beatitudine dei poveri, non dice: «Sarà loro il regno dei cieli», ma: «È loro». È loro non soltanto in forza di un diritto fermamente stabilito, ma anche perché ne possiedono una caparra sicura e ne fanno un ottimo uso; non soltanto perché questo regno è stato preparato per loro fin dalla fondazione del mondo (cfr. Mt 25,34), ma perché hanno già cominciato a entrare, in certa misura, in suo possesso, dal momento che portano già il tesoro celeste in vasi d’argilla (cfr. 2Cor 4,7), poiché hanno già Dio nel loro corpo e nel loro cuore (cfr. 1Cor 6,20). «Beato il popolo il cui Dio è il Signore» (Sal 32 [33], 12). Come sono vicini al regno quelli che già possiedono nel loro cuore questo Re di cui si è detto che servirlo è regnare. «Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, è magnifica la mia eredità» (Sal 15 [16], 6). Altri litighino per dividersi l’eredità di questo mondo; il Signore è la porzione della mia eredità e del mio calice (cfr. ibi 5). Combattano tra di loro, facciano a gara nell’essere i più miserabili; io non invidio loro nulla di tutto ciò che cercano. Io e l’anima mia avremo la nostra gioia nel Signore (cfr. Sal 103 [104], 34). O gloriosa eredità dei poveri! O beata ricchezza di quelli che non hanno nulla! Non soltanto tu ci doni tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma ci colmi anche di ogni gioia, poiché tu sei la misura sovrabbondante versata nel nostro seno.

(GUERRIC D’IGNY, Omelia per la festa di tutti i santi 1.6, SC 202, pp. 498; 510-512)

 

Tutti i santi

La Colletta della messa di questo giorno si rivolge al Signore chiedendogli «l’abbondanza della tua misericordia»: è questa la fonte della santificazione dell’uomo: la misericordia di Dio. La festa di tutti i santi è la celebrazione della vittoria della misericordia di Dio sul peccato e sulla debolezza dell’uomo. Le letture bibliche consentono di contemplare i santi del cielo, della prima e della nuova alleanza, riuniti attorno al Dio tre volte santo e all’Agnello, il Santo di Dio (Apocalisse). Esse si rivolgono anche ai santi della terra, i cristiani, chiamati a divenire ciò che sono vivendo in Cristo la loro figliolanza divina, e indicano la via della santificazione: fissare la speranza in Cristo (seconda lettura), vivere lo spirito delle beatitudini che è lo spirito di Gesù stesso mite, povero in spirito, misericordioso, operatore di pace (vangelo) . La santità è un cammino, non uno stato: sequela dell’Agnello (prima lettura), tensione dinamica tra ciò che siamo e ciò che saremo (I Gv), cammino quotidiano in cui sperimentare la comunione con Cristo, e dunque la beatitudine, anche nelle difficoltà (vangelo). La comunione dei santi oggi celebrata ricorda ai cristiani che la santità ha una dimensione comunionale e comunitaria. Nel Nuovo Testamento «santi» è il nome dei cristiani chiamati a formare un solo corpo in Cristo separandosi dagli idoli, dalla mondanità (e separazione è il senso etimologico di santità), ed è dunque come corpo che essi devono narrare e testimoniare la santità. La luce della santità si riflette nella koinonía, nella comunione, cioè nella qualità dei rapporti che attraversano la comunità cristiana e che essa intrattiene con tutti gli uomini e le realtà storichee, che deve emergere. Questo è tanto più importante se si pensa che la tradizione occidentale ha individualizzato e moralizzato la santità. Per la rivelazione cristiana, invece, il santo è l’uomo che, per grazia, riflette nella sua vita e nelle sue relazioni la luce di Dio, manifestatasi sul volto di Cristo e comunicata dallo Spirito santo. «Nella vita dei nostri compagni di umanità più perfettamente trasformati a immagine di Cristo, Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In essi Dio stesso ci parla, ci dà un segno del suo regno, ci attira a sé con forza» (Lumen Gentium 50). I santi sono nostri fratelli in umanità, segnati anch’essa come noi, da fragilità e vulnerabilità: non dei senza-peccato, ma dei credenti nella misericordia di Dio più forte della loro pur potente debolezza. Si tratta dunque di essere umanamente santi, somigliantissimi a Colui che nella sua umanità ha narrato pienamente il volto di Dio. Non silhouette spirituali o anime devote e pie, ma uomini che con l’umile risolutezza che viene dalla consapevole accoglienza del dono di grazia, vivono la loro umanità in Cristo: questi i santi! E se il testo evangelico suggerisce di declinare la santità come beatitudine, questa beatitudine non elimina ma suppone la sofferenza e la tribolazione. Afflitti, perseguitati, tribolati, i santi non solo sono vulnerabili, ma sono realmente vulnerati, feriti, e tuttavia «hanno trovato forza dalla loro debolezza» (cfr. Eb 11,34). Ostacolo alla santità non è la debolezza in quanto tale, ma il negarla: assumendola di fronte al Signore santo e misericordioso, essa può divenire fortezza. La fortezza cristiana suppone la vulnerabilità. Al cuore di questa trasfigurazione della debolezza in forza vi è la fede che porta a vivere contraddizioni e prove come occasione di sequela dell’Agnello. La prima portata delle beatitudini è cristologica: ciò che le beatitudini attribuiscono a uomini, in verità è ciò che è stato vissuto da Cristo e da lui, grazie allo Spirito che agisce nel credente, è comunicato agli uomini. Esse dunque non predicano rassegnazione, ma suscitano una speranza: le situazioni di afflizione e persecuzione non hanno l’ultima parola, non chiudono inesorabilmente l’uomo nel suo presente di miseria, ma gli aprono un futuro che incide profondamente sull’oggi.

 

Mirabile è Dio nei suoi santi

II profeta salmista dice: «Mirabile è Dio nei suoi santi», e aggiunge: «Egli darà potenza e forza al suo popolo» (Sal 68,36). Riflettete con la vostra intelligenza sulla potenza delle parole profetiche: a tutto il popolo – dice – Dio darà potenza e forza. Dio non fa preferenze di persona, ma è magnificato soltanto nei suoi santi. Come infatti il sole dall’alto doviziosamente effonde su tutti i suoi raggi, ma li vedono soltanto coloro che hanno occhi, e occhi non chiusi, e dalla luce pura godono coloro che, per la purezza dei loro occhi, hanno uno sguardo acuto, non indebolito dalla malattia, dall’offuscamento o da qualche male simile che abbia offeso i loro occhi, così dall’alto dei cieli Dio distribuisce a tutti la ricchezza del suo aiuto. Egli, infatti, è fonte di salvezza e di luce, da cui sgorgano misericordia e bontà. Non tutti indistintamente usufruiscono della grazia e della potenza che viene da là per ottenere forza e perfezione nella virtù e capacità di operare miracoli, ma coloro che hanno scelto il bene, e attraverso le loro opere danno prova di amore e di fede in Dio. Essi si sono allontanati completamente dalle vanità, si attengono fermamente ai comandi di Dio, con l’occhio della mente fisso sul sole di giustizia (cfr. Mt 3,20; Lc 1,78), Cristo.

Egli non solo invisibilmente tende dall’alto la sua mano salvatrice, ma rivolgendosi oggi a noi, dice: «Chi dunque avrà dichiarato di credere in me davanti agli uomini, anch’io dichiarerò di credere in lui davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32). Vi rendete conto che noi non siamo in grado di dichiarare con franchezza la nostra fede in Cristo senza la forza e la potenza che da lui proviene e che il nostro Signore Gesù Cristo non potrà parlare con franchezza di noi nel secolo futuro e non potrà presentarci e introdurci nella familiarità col Padre suo altissimo, senza che noi gliene diamo la possibilità? Volendo chiarire questo, non disse: Chi dunque dichiarerà di credere davanti agli uomini, ma: «Chi dunque avrà dichiarato di credere in me»; poiché soltanto in lui e con il suo aiuto è possibile dimostrare sinceramente la propria fede. E così ancora: «Anch’io dichiarerò di credere in lui»; e non ha detto: a lui, ma: «in lui», cioè attraverso la buona disposizione e la fermezza di colui che lo riconosce, di cui questi ha dato prova a motivo della sua fede […]. La chiesa di Cristo, onorando anche dopo la morte coloro che sono vissuti secondo Dio, ogni giorno dell’anno fa memoria dei santi che in quel giorno sono migrati da qui e da questa vita mortale, e propone ad esempio, per il nostro bene, la vita di ciascuno di essi e la loro fine, sia che si siano addormentati in pace, sia che abbiano concluso la loro vita col martirio […]. Vi prego, fratelli, presentiamo anche noi i nostri corpi e le nostre anime in modo che siano graditi a Dio, in questo giorno di festa, affinché, per intercessione dei santi, possiamo anche noi essere partecipi di quella festa e di quella gioia senza fine.

(GREGORIO PALAMAS, Omelie 25, PG 151,321B-324A; 329A; 332B).

 

Nella vita ordinaria

Che la tua vita non sia una vita sterile.

Sii utile. Lascia traccia.

Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore.

Cancella, con la tua vita di apostolo l’impronta viscida e sudicia che i seminatori impuri dell’odio hanno lasciato.

E incendia tutti i cammini della terra con il fuoco di Cristo che porti nel cuore…

Non vi è altra strada, figli miei: o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai.

(J. Escrivà)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

TUTTI I SANTI

 2 novembre COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI