XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:Sapienza 2,12.17-20

 «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».

 

 

v Presentazione generale:

a) Il contesto – I capp. 1-5 del libro della Sapienza presentano la figura del «sapiente» e dello «stolto» (chiamati anche «giusto» e «empio»): chi sono, cosa fanno, come concepiscono la vita; quali valori privilegiano, a quali cose e persone danno il primato. Nella tradizione biblica «giusto» (o «sapiente») è l’uomo che sa riferire tutto a Dio e sa leggere la storia, gli avvenimenti, la stessa vita di ogni giorno alla luce della dimensione religiosa e nell’atteggiamento di chi sa accogliere ogni cosa come dono del suo Signore. «Empio» o «stolto» è l’uomo che pone al centro del suo vivere se stesso, le cose, il successo. È l’uomo incapace di cogliere la presenza di Dio nel suo mondo e nella sua vita. L’empio, comunque, non è l’ateo, nel senso che noi oggi diamo a questo termine. La Bibbia non conosce la figura moderna dell’ateo, ma solo l’uomo che di fronte al male, al dolore o a qualsiasi altro elemento che provoca differenza e disagio, si interroga sulla certezza della presenza di Dio «qui» e «adesso», proprio come fanno gli «empi» di questa lettura (cf. Sal 13,1: «Lo stolto pensa: ‘Non c’è Dio’»).

b) Il tema –  È il contrasto tra la concezione del vivere propria degli empi e quella dei giusti. In questo contrasto vengono evidenziate le reazioni degli empi nei confronti di quanti vivono alla luce della Parola di Dio e dei valori che ad essa si ispirano. Questo testo è stato applicato alla Passione di Gesù e alla sua vita apparentemente abbandonata da Dio sulla croce. Gli evangelisti pongono sulle labbra di coloro che assistono alla sua crocifissione le ultime parole di questo brano («Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuole bene», cf. Mt 27,43). In Gesù, giusto per eccellenza, si rivela non l’abbandono di Dio, ma il suo amore e la sua vicinanza all’uomo. Dalle sue sofferenze e dalla sua croce, infatti, ha origine la salvezza degli uomini. Per la chiesa primitiva il nostro brano (come pure il Sal 21,9 che contiene le medesime espressioni) sono stati considerati profezie riguardanti Gesù, il Giusto consegnato nelle mani degli empi e morto per la nostra salvezza.

     Annotazioni

— v. 17: «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo… ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta»; queste parole vanno collocate nel contesto generale del libro della Sapienza, che contiene una forte critica nei confronti degli Israeliti che avevano rinnegato la loro formazione religiosa ed erano passati alla cultura ellenistica. Dall’ellenismo (introdotto in Oriente da Alessandro Magno, nel 333 a.C.) avevano accettato anche le mode e le abitudini (palestre, teatri, spettacoli, terme ecc.) e anche l’invito a non farsi più circoncidere. Quest’ultimo elemento era da sempre considerato caratteristico della formazione e della religiosità ebraiche.

— v. 19: «Mettiamolo alla prova… per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione»: questi verbi che si riferiscono alla «tentazione» — e che la Bibbia ama attribuire a Dio — sono qui attribuiti agli empi, i quali si propongono non di rafforzare la fede e la fiducia dei giusti (secondo il significato che la Bibbia dà alla tentazione), ma di farli deviare dalla via del bene e di scoraggiarli dal compiere ogni cosa secondo Dio e nella fedeltà alla sua Parola.

 

Seconda lettura: Giacomo 3,16-4,3

Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia. Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.

 

 

v Presentazione generale:

La Lettera di Giacomo comprende una serie di esortazioni senza un ordine logico, che si ispirano all’idea fondamentale di un’esistenza cristiana da vivere nella fedeltà al vangelo, nella carità e nella solidarietà (a questo si rifanno le severe espressioni che la Lettera usa contro i ricchi, incapaci di solidarietà e chiusi alle necessità del prossimo bisognoso). Una vita così vissuta esprime anche la ricchezza interiore dell’uomo che, opponendosi ai vizi, alle passioni cattive e alle suggestioni del potere e del denaro, manifesta padronanza di sé e fedeltà al progetto di Dio sull’uomo e sulla creazione. Il nostro brano comprende due temi: a) la qualità della vera sapienza, quella che conduce a vivere secondo il progetto di Dio (Gc 3,13-18); b) la riflessione sulle cause delle ostilità nel cuore dell’uomo e nel mondo e i loro rimedi (Gc 4,1-12).

     Annotazioni

— v. 16: «C’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni»: queste espressioni fanno parte del cosiddetto «catalogo dei vizi» che spesso la predicazione degli apostoli richiamava per mettere in guardia chi non accoglieva l’invito del vangelo a convertirsi dalle opere cattive e a vivere con attenzione e impegno (cf. 2Cor 12,20).

— v. 17: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera»: questa descrizione della «vera» sapienza si ispira alla concezione che di essa hanno i Sinottici e Paolo (cf. Gal 5,22-23). In particolare è da sottolineare l’affinità di questi termini con il resto delle Beatitudini (Mt 5,1 ss), un testo che nell’evangelista Matteo diventa il programma di vita del cristiano. Vivere secondo questo programma è anche per Giacomo un segno della vera sapienza cristiana che vede, giudica, illumina tutto alla luce del vangelo e della persona di Gesù. Anche l’espressione «buoni frutti» richiama il Vangelo (cf. Mt 7.16-20): «Dai loro frutti li riconoscerete») 4,1: «Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? »: alla ricerca dei rimedi da contrapporre ai mali dell’uomo (guerre, liti, contese), Giacomo propone atteggiamenti e comportamenti che, sanando l’interno dell’uomo («il cuore») hanno poi la capacità di influire positivamente anche sul mondo esteriore. Per questo sono importanti il dominio delle passioni, la forza della preghiera e l’attenzione a vivere secondo le virtù che caratterizzano e distinguono il cristiano (vv. 2-3).

 

Vangelo: Marco 9,30-37

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

 

 

Esegesi

Presentazione generale:

a) Il contesto – È quello che caratterizza la seconda parte del vangelo di Marco. Secondo lo schema di questo evangelista, la prima parte contiene il racconto dei miracoli di Gesù (cc. 1-8) per orientare il lettore alla comprensione della sua identità di Messia e Figlio di Dio (come farà Pietro in 8,27-29, che è «il centro» del vangelo di Marco). La seconda parte (cc. 9-16) è tutta impostata sulle esigenze radicali che Gesù chiede ai discepoli e ai cristiani di ogni tempo che lo vogliono seguire. Con il nostro brano ha inizio la descrizione di queste esigenze. Esse vengono collocate in questa seconda sezione perché solo chi ha riconosciuto

la vera identità di Gesù (in tutto obbediente al Padre fino ad accettare la croce) sa anche accettare il suo destino di morte e di risurrezione.

b) Il tema – È la presentazione della missione di Gesù alla luce del progetto di salvezza di Dio (che passa attraverso la croce e la morte) e la richiesta al discepolo di ogni tempo di partecipare a questo progetto nella totale obbedienza che ha caratterizzato Gesù.

     Annotazioni

— v. 30: «Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse»: questa frase è da collocare nel contesto del cosiddetto «segreto messianico»: Gesù cioè vuole essere riconosciuto come Messia e Figlio di Dio non nell’esteriorità dei miracoli (che aveva finora compiuti in Galilea), ma nella obbedienza a Dio che lo consegna alla croce e alla morte.

— v. 31: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini»: «Figlio dell’uomo» è uno dei titoli messianici di Gesù, che si ispira a Dan 7,14 (testo ritenuto messianico nell’interpretazione biblica) e al profeta Ezechiele (che inizia sempre i suoi oracoli con l’espressione «Figlio dell’uomo», tuttavia senza significato messianico, ma con il significato comune di «uomo»).

     Il verbo «consegnare» è molto ricco teologicamente. Esso indica il progetto che Dio ha pensato per gli uomini: per la loro salvezza Dio «consegna» Gesù nelle loro mani. Gesù, infatti, non è stato tradito («tradire» è un secondo significato dello stesso verbo paradìdomi, che traduciamo con «consegnare») solo da Giuda o dagli Anziani, ma è stato «consegnato» a morte da Dio stesso. Gesù non è stato ucciso (nel senso teologico) dai contemporanei (anche se storicamente essi hanno preso parte al consumarsi di questa morte), ma dalle «mani» di ogni uomo (= dai suoi peccati) alle quali Dio ha «consegnato» Gesù.

— v. 34: «Avevano discusso tra loro chi fosse più grande»: i discepoli si aspettavano da un momento all’altro che Gesù inaugurasse il Regno messianico (che essi vedevano erroneamente anticipato dai miracoli da Lui compiuti), nel quale pensavano di essere favoriti con un posto di particolare prestigio.

— v. 35: «Sedutosi… preso un bambino… chi accoglie uno solo di questi bambini»: il verbo «sedersi» indicava l’attività di insegnamento del maestro o del rabbino. Il verbo da anche l’idea della profondità e della gravità degli insegnamenti che Gesù sta per dare ai discepoli («essere l’ultimo… essere il servo di tutti»).

     «Bambini» e «piccoli» nel vangelo (oltre al loro proprio significato letterale) indicano anche i membri più deboli della comunità cristiana, le persone più dimenticate e per le quali nessuno ha uno sguardo o un’attenzione particolare. Di esse deve farsi carico il discepolo di Gesù, come Lui si è fatto carico dell’umanità debole e fragile sotto il dominio del peccato.

 

Meditazione

 

      C’è un’immagine, nel racconto di Marco, che ritorna spesso e che ritma un po’ tutta la narrazione: è l’immagine della via, immagine allo stesso tempo reale e simbolica. È la strada che conduce a Gerusalemme e che Gesù percorre con i suoi discepoli, ma è anche il simbolo dell’itinerario che ogni discepolo deve compiere nella misura in cui sceglie di seguire Gesù. Lungo la via il discepolo impara a posare la pianta dei suoi piedi nell’orma che Gesù lascia; lungo la via il discepolo impara a conoscere il volto di Gesù, il segreto del suo cammino, la meta a cui tende tutta la sua vita; lungo la via il discepolo scopre anche la sua debolezza, la sua incapacità a seguire il Signore Gesù, la sua durezza di cuore, la sua cecità; lungo la via, infine, il discepolo comprende che solo riconoscendo la sua povertà può avere la grazia della sequela, il dono di scoprire che è sempre Gesù a camminare avanti, mentre egli può solo e sempre stare dietro.

   Nella pericope del racconto di Marco proposta in questa domenica, lungo la via ascoltiamo ora una parola di Gesù che il discepolo ha già udito (cfr. Mc 8,31), ma che al suo orecchio appare sempre dura, addirittura estranea: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (9,31). Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi che offrono la sequenza di una storia drammatica e paradossale, inaudita, la vicenda ‘pasquale’ di Gesù. Una vicenda già contenuta in filigrana nella storia dei profeti, di coloro che Dio invia per comunicare la sua parola di giudizio e di salvezza sulla storia degli uomini. La storia del profeta, del giusto, è sempre una storia drammatica, contraddittoria e violenta, e in questi termini la rilegge il libro della Sapienza (cfr. la prima lettura). «Tendiamo insidie al giusto… mettiamolo alla prova con violenze… condanniamolo ad una morte infamante» (Sap 2,12.17-20): è questa la risposta degli empi a una parola di Dio, comunicata dal profeta, una parola che suona come accusa a una logica di ingiustizia e di violenza (quella logica condannata in Gc 3,16-4,3). Il profeta diventa segno di contraddizione, odiosa pietra di scandalo («per noi è di incomodo e si oppone alle nostre azioni»: 2,12) per un sistema sociale e religioso basato sulla ipocrisia, ma nascosto dietro una apparente legalità. Ecco perché la sua parola deve essere neutralizzata dimostrandone l’inefficacia ridicola e malefica, o più semplicemente deve essere eliminato.

    Ma tra i tre verbi che caratterizzano la vicenda del ‘profeta’ Gesù, uno in particolare offre una luce per raggiungere il cuore di avvenimenti di per sé incomprensibili. Si tratta del verbo consegnareviene consegnato nelle mani…»: paradidotai eis cheiras), un verbo che domina tutta la via crucis del Figlio dell’uomo: Giuda, il discepolo che lo tradisce, lo consegna ai soldati; i soldati ai capi del popolo; i capi del popolo a Pilato e questi ai crocefissori. Ma il paradosso è che il Padre stesso consegna il Figlio alla morte e in questa morte è Dio stesso a consegnarsi all’uomo, a donarsi, a offrire per l’uomo la sua stessa vita.

    Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi oscuri per il discepolo che insegue i suoi pensieri, che cerca un volto di Gesù molto diverso da quello che lui ora gli sta presentando. Il discepolo non comprende questa logica che gli pare assurda. Ma pur non comprendendo, ha paura di domandare: «…non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (Mc 9,32). È veramente paradossale questa reazione. Chi non capisce, chiede. E perché il discepolo non osa chiedere? Forse perché ha paura della risposta: o meglio, ha paura di un confronto con la parola di Gesù. Il discepolo preferisce nascondersi dietro le proprie molte parole, le quali offrono cammini più facili, indicano desideri più gratificanti, immediati: «Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (9,34).

    Lungo la strada allora Gesù fa fare una sosta al discepolo, ponendo anzitutto una domanda, che però resta senza risposta: «Di che cosa stavate discutendo lungo la strada?» (9,33). Sembra quasi che di fronte a Gesù il discepolo non sappia usare la parola. Ed è veramente così: il discepolo non sa usare la parola, resta muto, perché non ha ascoltato la Parola, quella parola che è il cammino di Gesù, quella parola dura che è la croce. Solo Gesù può dare una risposta alle molte parole e ai silenzi del discepolo. E la sua risposta è sconcertante e vera allo stesso tempo. Essa ha come due momenti, due angolature attraverso cui si può rileggere la vicenda di Gesù, ma che diventano anche altrettante scelte concrete per il discepolo. «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (9,35). Gesù prende sul serio il desiderio del discepolo, essere il primo, cioè realizzarsi pienamente, poter emergere nella vita. Ma la risposta che Gesù offre è sconcertante: inverte quella strada che il discepolo credeva di poter percorrere per essere il più grande. Per Gesù essere il più grande non è porsi sull’altro, prevalere sull’altro, cercare tutto ciò che è primo; essere grandi è stare ai piedi dell’altro, essere per l’altro dono, consegnarsi all’altro perché esso possa vivere. In una parola, il discepolo deve capire che c’è una sola via che realizza pienamente il desiderio più vero di vita che abita in lui: è proprio quella via da cui il discepolo ha distolto lo sguardo, la via di Gesù, «il quale da ricco che era si fece povero… che non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso…» (cfr. 2Cor 8,9; Fil 2,6.7); la via dell’umiltà, la via del servizio, la via del dono.

    Ma c’è un passo ulteriore, un salto di qualità che Gesù fa compiere al discepolo. «E preso un bambino lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie… colui che mi ha mandato”» (9,36-37). Questo gesto di Gesù, pieno di compassione e di tenerezza, libera il discepolo da un’ultima tentazione. Essere all’ultimo posto, essere il servo di tutti, significa essere liberati dalla tentazione del potere. Ma il discepolo può ancora essere attratto dalla pretesa di essere sempre lui quello che deve fare o deve dare agli altri. Scoprire che al centro non c’è tanto il suo servizio all’altro, ma l’altro come persona, anzi il piccolo, l’ultimo come un dono da accogliere, significa essere veramente liberi e poveri. Chi veramente dona, chi si fa ultimo, chi si fa nostro servo è il Signore Gesù: è lui il piccolo che sta in mezzo a noi come servo, è lui che ci dona tutto rivelandoci il volto misericordioso del Padre. Di fronte al piccolo, qualunque esso sia, non possiamo fare altro che aprire le nostre mani per ricevere il dono della compassione del Padre, nel volto di Gesù.

  

L’immagine della domenica

SALINA CULCASI (TRAPANI)  –  2018

 

 

 

È QUEL CHE È

È ridicolo, dice l’orgoglio;

è avventato, dice la prudenza;

è impossibile, dice l’esperienza:

è quel che è, dice l’amore.

(Erich Fried)

 

Preghiere e racconti

 

In mitezza e umiltà

«Essi però non comprendevano quelle parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni» (Mc 9,32). Tale ignoranza da parte dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza della loro mente, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore. Questi uomini che vive-vano ancora secondo la carne ed erano ignari del mistero della croce, si rifiutavano di credere che colui che essi avevano riconosciuto quale Dio vero sarebbe morto ed essendo abituati a sentirlo parlare in parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, cercavano di attribuire un senso figurato anche a quello che diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione. «E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”. Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande» (Mc 9,33-34). Sembra che la discussione tra i discepoli a proposito del primo posto fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che qui era stato affidato loro qualcosa di segreto. Ma già da prima erano convinti, come racconta Matteo (cfr. Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del Regno dei cieli, e che la chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome. Ne concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri o che Pietro era superiore a tutti. Il Signore, vedendo i pensieri dei discepoli, cerca di correggere il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà e fa loro intendere che non si deve cercare di essere primi; così, dapprima li esorta con il semplice comandamento dell’umiltà e, subito dopo, li ammaestra con l’esempio dell’innocenza del bambino. Dicendo infatti: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,37) […] li esorta, a motivo della loro malizia, a essere anche loro come bambini, cioè a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia e la devozione senza ira. Prendendo poi in braccio il bambino, indica che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili e che, quando avranno messo in pratica il suo comandamento: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), solo allora potranno gloriarsi.

(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco, CCL 120.n. 551).

 

Soprattutto un viaggio di ricerca

“Io sono un navigatore e un viaggiatore, e ogni giorno scopro una nuova regione della mia anima” … Queste  semplici ma straordinariamente parole di Kahlil Gibran (Sabbia e onda) possono ben attagliarsi al tema di queste pagine, poiché pongono in rilievo un fatto fondamentale: l’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé.

Il viaggio deve essere soprattutto uno strumento di approfondimento interiore, un mezzo per andare oltre le secche della quotidianità e far sì che l’anima respiri nuova aria, si alimenti con nuove energie spirituali. Viaggiare è conoscere, ma è anche conferma della conoscenza acquisita e anche un modo per essere nella storia, senza distorsioni, linearmente, forse partendo dalle origini.

(Massimo CENTINI, Il cammino di Santiago, Xenia, Milano, 2009, 10-11).

 

Collaboratori della gioia di tutti

Chiamato a servire, nell’impegno di ogni giorno, nella specificità dei servizi d’amore cui Dio lo chiama, il cristiano non deve mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione della disperazione e dello scetticismo. Il segreto che gli permette di mantenere intatta la sua capacità di leggere giorno dopo giorno i segni della salvezza di Dio, che è all’opera, sta nell’incontro fedele e perseverante con Cristo, sorgente di vera gioia.

Questa gioia dell’incontro col Signore accompagna la vita del cristiano: anche nella prova e nella persecuzione i discepoli restano “pieni di gioia e di Spirito Santo” (Atti 13,52). La gioia è un frutto dello Spirito, conseguenza del dimorare in Dio nella preghiera e nella celebrazione del suo amore per noi, sperimentato nella fede e nella speranza: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Tessalonicesi 5,16-18). La gioia si coniuga così alla carità, vissuta nel portare con Cristo il peso della sofferenza propria e altrui.

Servire è farsi collaboratori della gioia di tutti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Corinzi 1,24).

(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 71).

 

Rinascere dalle ceneri del tuo dolore

Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi. La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale. Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato. Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione. Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore. Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza. Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino. Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.  Guardati allo specchio. Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune. Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.  Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti. Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua. Sei parte della forza della vita stessa. Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano. Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.

(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).

 

L’insegnamento di Gesù: chi vuol essere primo sia servo di tutti

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Il Vangelo ci sorprende con parole inusuali, ci consegna tre nomi di Gesù che vanno controcorrente: ultimo, servitore, bambino, così lontani dall’idea di un Dio Onnipotente e Onnisciente quale l’abbiamo ereditata.

Il contesto. Gesù sta parlando di cose assolute, di vita e di morte, sta raccontando ai suoi migliori amici che tra poco sarà ucciso, è insieme con il gruppo dei più fidati, ed ecco che loro non lo ascoltano neppure, si disinteressano della tragedia che incombe sul loro maestro e amico, tutti presi soltanto dalla loro competizione, piccoli uomini in carriera: chi è il più grande tra noi? Penso alla ferita che deve essersi aperta il lui, alla delusione di Gesù. C’è di che scoraggiarsi. Tra noi, tra amici, un’indifferenza così sarebbe un’offesa imperdonabile. Invece il Maestro del cuore, ed è qualcosa che ci conforta nelle nostre fragilità, non rimprovera gli apostoli, non li ripudia, non li allontana, e tanto meno si deprime. Li mette invece sotto il giudizio di quel limpidissimo e stravolgente pensiero: chi vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti.

Il primato, l’autorità secondo il Vangelo discende solo dal servizio. Prese un bambino, lo pose in mezzo, lo abbracciò e disse: chi accoglie uno di questi bambini accoglie me. È il modo magistrale di Gesù di gestire le relazioni: non si perde in critiche o giudizi, ma cerca un primo passo possibile, cerca gesti e parole che sappiano educare ancora. E inventa qualcosa di inedito: un abbraccio e un bambino. Tutto il vangelo in un abbraccio, un gesto che profuma d’amore e che apre un’intera rivelazione: Dio è così. Al centro della fede un abbraccio. Tenero, caloroso. Al punto da far dire ad un grande uomo spirituale: Dio è un bacio (Benedetto Calati). E papa Francesco, a più riprese: «Gesù è il racconto della tenerezza di Dio», un Dio che mette al centro della scena non se stesso e i suoi diritti, ma la carne dei piccoli, quelli che non ce la possono fare da soli. Poi Gesù va oltre, si identifica con loro: chi accoglie un bambino accoglie me. Accogliere, verbo che genera il mondo come Dio lo sogna.

Il nostro mondo avrà un futuro buono quando l’accoglienza, tema bruciante oggi su tutti i confini d’Europa, sarà il nome nuovo della civiltà; quando accogliere o respingere i disperati, che sia alle frontiere o alla porta di casa mia, sarà considerato accogliere o respingere Dio stesso. Quando il servizio sarà il nome nuovo della civiltà (il primo si faccia servo di tutti). Quando diremo a uno, a uno almeno dei piccoli e dei disperati: ti abbraccio, ti prendo dentro la mia vita. Allora, stringendolo a te, sentirai che stai stringendo fra le tue braccia il tuo Signore.

(Ermes Ronchi)

 

 

1. La creatura umana abituata a sostare nella propria interiorità diviene sempre più capace di dare il nome ai desideri profondi che la abitano, e tra questi la brama non sempre confessata del primeggiare, la corsa ai posti che danno potere, successo e notorietà. A questo ordine di pensieri offre frammenti decisivi di luce la pagina evangelica odierna, introdotta da un lato dal secondo annuncio di passione: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato», e dall’altro dalla costatazione che: «essi, i discepoli, non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni» (Mc 9,31-32). L’evangelista annota con cura la distanza che intercorre tra i pensieri di Gesù e quelli dei suoi pur percorrendo la stessa «via», termine in Marco metafora della sequela, del camminare con Gesù dietro a Gesù. Un fare strada insieme al momento contraddistinto da due visioni antitetiche della messianicità. Di fatto gli occhi e gli orecchi dei discepoli sono ciechi e sordi (Mc 4,12; 8,18.33) a capire Gesù, il consegnato dalle mani del Padre a un mondo amato per farne in lui un mondo nuovo, come il consegnato dalle mani dell’uomo a una morte ignominiosa. Un Gesù ridotto a «cosa» consegnato da Giuda ai sommi sacerdoti (Mc 14,10), da costoro a Pilato (Mc 15,1.10) e da quest’ultimo ai soldati (Mc 15,15). Per Pietro (Mc 8,32), per i figli di Zebedeo (Mc 10,35-40) e per i discepoli in genere lunga è la strada che porta a una lettura della messianicità in sintonia con le figure bibliche del Figlio dell’uomo (Dn 7,13), del Servo sofferente (Is 52,13-53,12) e del Giusto condannato a una morte infame (Sap 2,12-20). Una lettura che, come avvertono gli stessi discepoli, necessita di supplementi di spiegazione volutamente sottaciuti per timore di trovarsi di fronte a un messaggio troppo duro (Mc 9,32). Al momento essi restano abbarbicati alla loro visione e alle conseguenze che ne derivano: preso il potere da parte di Gesù chi siederà alla sua destra e alla sua sinistra? (Mc 10,37), chi saranno i primi ministri del suo regno?

2. E così mentre Gesù annunciava la sua passione i discepoli discutevano per via su: «Chi tra di loro fosse il più grande» (Mc 9,34), il primo, silenziosi dinanzi alla esplicita domanda di Gesù: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?» (Mc 9,33). Il tacere di chi si vergogna di uscire allo scoperto esponendo apertamente la ragione di un conflitto presente tra i Dodici come nella comunità di Marco e in quelle di ogni luogo e tempo. Questione dinanzi alla quale è bene tacere dando spazio alla parola di Gesù, una parola pronunciata in «casa», metafora del rapporto intimo e amicale con Gesù. Ieri come oggi egli si siede dinanzi ai suoi e dice a tutti ciò che ha detto ai Dodici: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo e servo di tutti. E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,35-37). Passaggio di rara preziosità in cui Gesù dice ai suoi ciò che egli è e fa: è il Figlio venuto a servire e a dare la vita (Mc 10,45), è il Maestro e Signore venuto quale schiavo a lavare i piedi (Gv 13,13-15), è il primo di natura divina che ha spogliato se stesso assumendo la forma e la condizione umane dell’ultimo (Fil 2,6-7), è il ricco divenuto povero (2 Cor 8,9). Per Gesù essere il primo vuol dire essere il servo di tutti da una posizione povera di rilevanza mondana, servo che elegge a primi della sua cura gli ultimi qui rappresentati dai bambini, i poveri per eccellenza nel loro essere totale dipendenza. Questo è il primato da ricercare, di esso Gesù in croce è adempiuta esegesi, spiegazione.

 3. L’insegnamento è chiaro. A nessuno è richiesto di negare e di negarsi al desiderio di divenire il primo avvertiti del fatto che dietro questa affermazione, se rettamente intesa, si nasconde la legittima ambizione del divenire semplicemente se stessi, la propria verità. Ove ciò accade lì ciascuno è davvero una primizia unica e irripetibile, non secondo a nessuno e non gregario di nessuno. Una primizia, suggerisce Gesù, non posseduta dal demone della prepotenza che rende sudditi gli altri, che mette i piedi in testa agli altri e che toglie il respiro agli altri. Ma posseduta dallo spirito del servizio che soffia all’orecchio della mente la giusta posizione da assumere nella vita, l’ultima, e ancora gli amici primi da accogliere e da servire nella vita, gli ultimi, ai quali Cristo stesso si è identificato (Mc 9,37) elevandoli a rango di sacramento della sua presenza. Spirito di servizio che infine soffia alla nostra mente la lettura di sé come luoghi attraverso cui Cristo continua ad essere l’abbraccio di Dio ai poveri della terra: «Sapendo queste cose, sarete beati, se le metterete in pratica» (Gv 13,17). A questa grandezza chiama Colui che fa cose meravigliose nei suoi umili servi (Lc 1,49).

(Giancarlo Bruni)

 

Preghiera per il servizio

Signore,

mettici al servizio dei nostri fratelli

che vivono e muoiono nella povertà

e nella fame di tutto il mondo.

Affidali a noi oggi;

dà loro il pane quotidiano

insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.

Signore,

fa di me uno strumento della tua pace,

affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio,

lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia,

l’armonia dove c’è la discordia,

la verità dove c’è l’errore,

la fede dove c’è il dubbio,

la speranza dove c’è la disperazione,

la luce dove ci sono ombre,

e la gioia dove c’è la tristezza.

Signore,

fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata,

di capire, e non di essere capita,

e di amare e non di essere amata,

perché dimenticando se stessi ci si ritrova,

perdonando si viene perdonati

e morendo ci si risveglia alla vita eterna.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

Rendici umili servi di tutti!

Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiediamo». Non siamo infatti migliori dei due discepoli. Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.

Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte eterna noi, peccatori. Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio. Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita

Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa. Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti!

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Spano

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXV DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

“da Papa Francesco un solo consiglio: rischiare”

“Di fronte alla provvisorietà delle decisioni che caratterizza il mondo e i giovani di oggi, l’indicazione del Papa è: ‘Rischia!’”. Lo scrive padre Diego Fares nel quarto volume della collana Accènti de “La Civiltà Cattolica” sul prossimo Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani. Lo scrittore de La Civiltà Cattolica segnala che il Papa ha detto tante volte che “chi non rischia non cammina”. “Ma se sbaglio?. Sbaglierai di più se tu rimani fermo”. Richiamando la pedagogia di Francesco, padre Fares spiega che la sua caratteristica è “non umiliare i giovani per i loro limiti, laddove essi sono più fragili, e, d’altra parte, essere esigente e audace laddove invece sta la loro forza: giocarsi tutto per un ideale”. A proposito della vocazione dei giovani, lo scrittore gesuita richiama il Documento preparatorio del Sinodo e sottolinea che “non si parte dal problema della necessità di vocazioni sacerdotali e religiose, ma si ‘universalizza la questione vocazionale’”. Il discernimento vocazionale “viene presentato come ‘un processo progressivo di discernimento interiore e di maturazione della fede’ che riguarda tutti i cristiani” e “non viene considerato come un atto puntuale, ma come il modo costante di vivere una ‘vita spirituale’ che cerca di essere docile agli impulsi dello Spirito”. Di qui l’accenno alle tre nascite – naturale, battesimale e spirituale – di cui parla la Chiesa orientale. “Nel discernimento come ‘nascita nello spirito’ convergono la tradizione antica e le esperienze carismatiche attuali. La missione dei pastori è custodire e sostenere le libertà che ancora si stanno costituendo”.

Il messaggio di mons Regattieri per l’inizio della scuola

“Il tempo dell’educazione non è finito”, dicevano tempo fa  i nostri vescovi nel documento “Educare alla vita buona del vangelo” (n.7). In ogni stagione e in ogni luogo si può vivere l’esaltante missione educativa. A settembre riprende nelle nostre istituzioni scolastiche e nelle nostre famiglie l’avventura della scuola. Si ritrovano a stare insieme ragazze e ragazzi, insegnanti, personale non docente e famiglie. Ognuno nel suo specifico ambito e in modalità diverse è chiamato a  vivere il tempo della scuola come tempo adatto per far crescere una comunità. La scuola, infatti, cos’è se non un’esperienza di comunità educante?

In un importante discorso al mondo della scuola papa Francesco – tra l’altro – ha detto: “Vorrei dire che nella scuola non solo impariamo conoscenze, contenuti, ma impariamo anche abitudini e valori. Si educa per conoscere tante cose, cioè tanti contenuti importanti, per avere certe abitudini e anche per assumere i valori. E questo è molto importante. Auguro a tutti voi, genitori, insegnanti, persone che lavorano nella scuola, studenti, una bella strada nella scuola, una strada che faccia crescere le tre lingue, che una persona matura deve sapere parlare: la lingua della mente, la lingua del cuore e la lingua delle mani. Ma, armoniosamente, cioè pensare quello che tu senti e quello che tu fai; sentire bene quello che tu pensi e quello che tu fai; e fare bene quello che tu pensi e quello che tu senti. Le tre lingue, armoniose e insieme!” (10 maggio 2014).

Faccio mie e rilancio a tutti queste parole del papa. Tempo di disciplina, di impegno, di confronto e di crescita di tutta la persona, la scuola si trova oggi ad operare in un contesto spesso difficile e ostile perché “tendente a ridurre il bene all’utile, la verità a razionalità empirica, la bellezza a godimento effimero” (Educare alla vita buona del vangelo, 7). Noi invece siamo convinti che la scuola possa e debba contribuire a dare ai ragazzi e ai giovani sicurezze e prospettive valide per una maturità autenticamente umana della persona.

Per questo abbiamo – dobbiamo  –  avere  verso questa istituzione e verso tutti i soggetti in essa coinvolti, grande fiducia. Come vescovo rivolgo a tutti gli insegnanti, ai ragazzi e alle famiglie un augurio davvero sincero e beneaugurante per un lavoro proficuo per il bene di tutti. Agli educatori soprattutto assicuro il mio sostegno spirituale perché siano veri compagni di strada per i ragazzi nella ricerca della verità facendogliela sperimentare come bella e attraente attraverso la testimonianza  della loro vita e dei valori che insegnano.

 

+ Douglas Regattieri

Cesena, 5 agosto 2018

Giovani e scelte di vita: prospettive educative

In prossimità della celebrazione del Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, l’Università Pontificia Salesiana e la Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium organizzano il Congresso Internazionale “Giovani e Scelte di vita: prospettive educative”.
Il Congresso intende offrire un contributo allo studio del mondo giovanile in rapporto alle scelte di vita a partire dallo specifico punto di vista che qualifica la ricerca universitaria nell’ambito delle scienze dell’educazione e nella prospettiva più generale dell’umanesimo pedagogico cristiano che sta a fondamento del sistema formativo di San Giovanni Bosco.
Il Congresso, che si svolgerà presso l’Università Pontificia Salesiana a Roma dal 20 al 23 Settembre, vedrà riuniti studiosi, educatori, formatori e giovani da ogni parte del mondo, per condividere ricerche, riflessioni, esperienze e buone pratiche.
Le lingue ufficiali del Congresso sono Italiano, Inglese e Spagnolo. Le comunicazioni (Papers) possono essere inviate e presentate durante il Congresso anche in lingua Francese e Portoghese.

 

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 www.giovaniesceltedivita.org

 

XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:Isaia 50,5-9a

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?

 

 

v I «Carmi del servo di JHWH» riflettono l’esperienza dell’esilio, di cui sembrano raccogliere la lezione: il valore redentivo della prova, delle afflizioni, del dolore.

     Già qualche profeta (per es. Geremia) aveva svolto una missione contrassegnata da sofferenze e persecuzioni, ora l’intera nazione, dispersa e disorientata, sta sopportando prove e disagi di ogni genere. Invece di ribellarsi o di reagire insensatamente contro Dio, era più saggio prendere dal Signore il «castigo» e prepararsi a ricevere, se a lui piace, il perdono e la riabilitazione.

     Il «Servo di JHWH» non è un individuo né una pura idealizzazione. È il simbolo dell’Israele migliore, di quelli che erano in grado innanzitutto di mettersi in ascolto di quanto era in procinto di dire Iddio al suo popolo. Non è facile dialogare con lui nella disgrazia. Nella circostanza si è portati a chiudersi in se stessi o a imprecare, ma il Servo reagisce e ascolta ciò che gli dice il Signore.

     Forse quando l’autore compone i «Carmi» l’esilio era anche passato, ma la situazione è quella precedente; gli uomini sono ancora sotto l’abbattimento, la stanchezza morale e fisica. La sfiducia può prendere anche il profeta, chiamato a rincuorare i fratelli, ma pensa il Signore a tenerlo sveglio.

     Il servo è un personaggio e più ancora una personificazione. In lui tutta la nazione rievoca le sofferenze e le umiliazioni subite nella deportazione e che continuano nella restaurazione poiché sono ancora sotto un dominatore. I colpi dei flagelli, lo strappo della barba sono i segni del dileggio morale e fisico a cui gli uomini sono sottoposti. Ma Israele nella sua afflizione ha un consolatore a cui fare affidamento: è JHWH. Il suo Dio è l’unico Signore, viene ripetuto nello Shema. Egli è ora a suo fianco anche in questo estremo frangente e lo aiuterà.

     Le prove possono fiaccare, ma sapute accettare dalla mano del Signore, irrobustiscono la fede, rendono più saldo il rapporto con Dio. Se JHWH è vicino, dalla parte delle vittime c’è sempre una speranza che la nazione possa sopravvivere. «Chi di voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo» (v. 10). È il senso di tutto il carme.

 

Seconda lettura: Giacomo 2,14-18

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

 

 

v L’identità del credente è segnata non tanto dalle parole, ma dalle buone azioni che gli vengono suggerite dalla sua fede in Cristo. Non basta ripetere ciò che Gesù ha detto e aderirvi interiormente per essere salvi, ma occorre far propria la sua esperienza.

     Non si può dire che sia un comportamento cristiano il discriminare negli incontri comunitari un fratello dall’altro, privilegiare il ricco e umiliare il povero. «Avvilire l’indigente» non è agire come Dio agisce, né come Gesù ha esortato a fare. Il credere non serve a nulla se non è suffragato dalle opere che la fede propone. Sarebbe come il dire a degli ignudi e a degli affamati «riscaldatevi e  saziatevi» senza dargli né una veste, né un pane.

     La dottrina su Dio sarà sempre utile a instaurare rettamente i propri comportamenti quotidiani, ma se questi non vengono influenzati, modificati, riordinati dalla fede, non vengono conformati alla proposta di Dio (comandamenti) e alla testimonianza di Cristo, in altre parole, se non hanno nessuna risonanza pratica nella vita, servono ad aumentare la responsabilità e la condanna del credente.

     Se la fede non rifluisce nei comportamenti, non agisce nella vita, è «morta» (v. 17). È come non averla.

     Il v. 18 è misterioso. Sembra farsi avanti un interlocutore fittizio che contesta la tesi dell’inutilità della fede senza le opere (2,14). Certo la fede può precedere le opere e trovarsi anche senza di esse, ma alla fine rimane sempre vero che sono le opere a darle conferma. Talmente che se uno ha solo la fede senza le opere, la sua realtà può rimanere sempre insicura, mentre in chi compie la volontà di Dio, cerca di ripercorrere la testimonianza di Cristo anche se non ha fede esplicita, cioè non sa esattamente e senza colpa chi egli è, è egualmente un implicito credente. Le opere danno un’identità sicura, le parole da sole danno un’identità sempre dubbia.

 

Vangelo: Marco 8,27-35

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

 

 

Esegesi

     Il brano di Mc 8,27-35 segna una svolta radicale nel vangelo di Marco. Chiude il ministero galilaico accompagnato da una solenne autorevole manifestazione di Gesù, che non è consentito capire e della quale non è neppure lecito parlare. Gesù preferisce passare in silenzio se non proprio in incognito. Fa tutti i suoi pronunciamenti, compie grandi prodigi che suscitano entusiasmo nella folla: 1,27 («che è questo?») 4,12 («Non abbiamo mai visto nulla di simile»), 4,47 («Chi è dunque costui?») 7,37 («Stupivano») e nello stesso tempo reazioni negative presso gli scribi e farisei: 2,7 («Perché costui fa queste cose? Bestemmia»), 3,36 («Ha uno spirito immondo»), 3,6 («tengono consiglio per farlo perire»). L’agire di Gesù sorprende anche le autorità che parlano per bocca di Erode Antipa, il tetrarca della Gallica (6,14).

     Gesù non solo non scopre il suo «segreto» ma proibisce a coloro che possono averlo intuito di parlarne. Tali sono gli ordini impartiti ai demoni (1,34; 3,12) e ai miracolati (1,44; 5,19; 5,43; 6.45; 7.36). L’evangelista afferma che a «quelli che erano attorno a lui», spiegava «in disparte» ogni cosa (4,38), ma il mistero rimaneva nascosto anche a loro.

     La tensione che domina la prima parte del vangelo di Marco si chiude con l’interrogatorio di Cesarea di Filippo, fuori della Galilea. Infatti dopo la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26) la comitiva si incammina verso «i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo», la capitale della Traconitide a due giorni di viaggio dal Lago di Tiberiade. È una meta reale e simbolica. L’evangelista vuole sottolineare che la prima manifestazione di Gesù avviene in terra pagana.

     La tradizione evangelica ricorda una confessione messianica di Pietro. Giovanni la colloca dopo il discorso sul pane della vita (6,68-69), i sinottici a Cesarea di Filippo. La ricostruzione della scena è più didattica che storica; deve appurare chi è Gesù. Ed è lui che ha proposto e quindi voluto questa «rivelazione». In genere i maestri sono interpellati dagli alunni; qui è Gesù che pone non le domande, ma la domanda che serpeggia in tutto il vangelo. E proprio per non introdurre exabrupto nella questione comincia da un’interrogazione sull’opinione della folla che serve solo a richiamare l’attenzione sulla vera risposta che viene dai discepoli («Ma voi, chi dite»).

     Alla luce del linguaggio veterotestamentario, cioè delle profezie messianiche dell’Antico Testamento, Gesù non poteva essere che una figura profetica, del tipo di Giovanni Battista o di Elia del quale si attendeva per di più il «ritorno» all’aprirsi dell’era escatologica (cf. Mal 3,23-24; Mt 11,14). Ma in tutti i modi le categorie dell’A.T. non sono idonee per spiegare chi è Gesù. Occorre una risposta che venga dall’esperienza di coloro che lo hanno conosciuto, che sono stati a suo fianco, alla sua scuola. Ed essi hanno capito che il loro maestro è più che un profeta, «è il Cristo». L’espressione «il Cristo», quando l’evangelista scrive, è la stessa che la Chiesa adopera per designare Gesù di Nazaret che è pur sempre un «grande profeta» (cf. Lc 7,16), ma anche il «messo» di Dio per eccellenza, il messia. In altre parole è il personaggio promesso per la fine dei tempi; allo scopo di imprimere alla storia della salvezza l’orientazione voluta dal creatore. Egli è colui che avrebbe ristabilito tutte le cose. Quindi era il fiduciario e il plenipotenziario di Dio; il salvatore, il «redentore», verrà aggiunto più tardi nella predicazione cristiana.

     Se l’espressione si limitasse alle intenzioni di Pietro forse il significato sarebbe stato più ristretto e supererebbe di poco l’espressione «figlio di David» (10,47-48) o «restauratore del regno davidico» (11,18), ma l’evangelista ripete più la fede della Chiesa che quella del primo apostolo. Essa sarà ribadita poco dopo nella «confessione» di Gesù davanti al Sinedrio (14,61).

     Ormai i discepoli conoscono colui a cui hanno dato la parola, di cui si sono messi al seguito, ma Gesù ha altre cose da aggiungere alla confessione dell’apostolo per questo è costretto a chiedere ancora di «non parlare» su tale dichiarazione (v. 30). E la «parola» nuova, inattesa da dire è quasi più importante della prima perché ne costituisce il presupposto (v. 32).

     Se pertanto la «confessione» chiude la prima parte del vangelo, la dichiarazione di Gesù apre la seconda, quella riguardante la «croce» e il «cammino» che porta verso di essa, in concreto verso Gerusalemme, il Golgota, e del «cammino» che si impone a quanti sono al seguito di colui che, pur essendo «il Cristo», è finito sul patibolo.

     I versetti 8,27.30 sono veramente al centro di tutto il vangelo. Gesù adesso non ha più veli nel parlare, non è sfuggente, né misterioso. Annunzia «apertamente» (parresiai) «la parola» (ton logon). Il testo è chiamato abitualmente la prima profezia della passione e della risurrezione, ma nell’attuale versione si è verificata una contaminazione tra i racconti del tragico avvenimento e la dichiarazione di Gesù al riguardo. Alcuni particolari sono passati da un quadro all’altro senza creare confusione, ma dando alla profezia più il colore di una narrazione che di un oracolo.

     L’essenziale dell’avvertimento di Gesù è che il Cristo, ma è chiamato più vagamente «il figlio dell’uomo», una designazione che richiama Dn 7,14, deve «molto patire» ed «essere rigettato». In altre parole, il messia non sarà accolto dal suo popolo, fino a condannarlo a morte, ma la morte non sarà la sua fine bensì l’inizio della sua vittoria (risurrezione). «Dopo tre giorni» è un’espressione ebraica per dire «dopo breve tempo», dopo «un corto intervallo».

     Il comportamento di Pietro, i «rimproveri» che fa a Gesù, sono verosimilmente storici, ma sono anche emblematici, esprimono non tanto il pensiero dell’apostolo, ma di ogni benpensante, di qualsiasi uomo che stenta sempre a capire come l’affermazione del bene, della verità abbia condizionamenti così irrazionali a cui non c’è alternativa. Si può accettare o rifiutare, non cambiare.

     La terza parte della pericope, vv. 34-35, è un’esplicitazione della seconda. Il vangelo (logos) della croce non riguarda solo Gesù, ma tutti i suoi discepoli, indistintamente. A tal proposito è convocata, non si sa da dove, anche «la folla» (ochlos). Se il programma del cristiano è quello di «seguire Gesù» (opiso mou elthein; akolouthein) si tratta di un cammino che non può arrestarsi a metà strada. Non può escludere la «croce» come non ha potuto escluderla Gesù. Per arrivare a ciò bisogna cominciare dalla dimenticanza di se stessi, dalla abnegazione. Occorre la forza d’animo, il coraggio di non prendere troppo in considerazione i propri interessi, i propri beni, la stessa vita. «Rinnegare» significa anche riconoscere i propri limiti. E non si tratta di farne un’offerta a Dio, ma ai propri simili ai quali si è in grado di accordare una più larga, generosa collaborazione.

     La «croce» che si è esortati a prendere fa prevedere che il prezzo della sequela di Cristo può equivalere alla perdita della vita, ma può non arrivare a questi estremi. Se la croce è il simbolo di qualsiasi sofferenza può designare ogni rinunzia che si impone al credente per tener fede ai suoi impegni.

     La massima conclusiva ribadisce (v. 35) in termini parenetici il messaggio di tutto il discorso tenuto da Gesù ai suoi. Il seguire Cristo non è un consiglio qualsiasi che può lasciare indifferenti l’ascoltatore. La «vita» (psyche) di cui parla Gesù non è né la semplice vita spirituale (anima), né la sola vita fisica (corporea). È l’una e l’altra insieme, cioè l’intera esistenza che comincia nel tempo e si protrae nell’eternità. Non solo non è indifferente il credere e il non credere, ma da esso dipende la felicità nel tempo e oltre il tempo. 

 

L’immagine della domenica   

 

 

Bramo la tua voce, o Dio

Mi rassicuri la tua mano nella notte,

la voglio riempire di carezze,

tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore

segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

 

Meditazione

    La pagina evangelica di questa domenica occupa un posto cruciale nel racconto di Marco. La professione di fede di Pietro, con il successivo «primo annunzio della passione», è infatti collocata al centro del libro e segna una svolta decisiva nel ministero di Gesù. D’ora innanzi il suo cammino prenderà una nuova ‘piega’, una nuova direzione, dirigendosi decisamente verso il luogo del compimento del suo pellegrinaggio terreno. Da Cesarea di Filippo (all’estremo nord del territorio palestinese) Gesù inizia il suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, in una marcia di avvicinamento che proseguirà a ritmo incalzante, senza ripensamenti e senza incertezze, fino allo scontro definitivo con i suoi avversari (la prima lettura ci presenta, in parallelo, la misteriosa figura del «servo del Signore» che con coraggio e determinazione va per la sua strada, noncurante delle minacce e dell’opposizione violenta, ma confidando solo nell’assistenza di Dio).

    «E per strada interrogava i suoi discepoli» (v. 27). Il Gesù di Marco è uno che interroga spesso, che fa sempre molte domande. I discepoli sono continuamente sollecitati a riflettere sul senso della loro esistenza, sulle ragioni della loro sequela e, soprattutto, sul mistero della persona che hanno davanti. «Ma voi, chi dite che io sia?» (v. 29a). È questa la domanda che, più di ogni altra, interessa a Gesù. La gente può dire tante cose, anche giuste e pertinenti, ma l’identità di Gesù non la si può ‘afferrare’ da lontano: solo una frequentazione assidua e quotidiana, solo una prossimità vitale può mettere nelle condizioni di accedere a una conoscenza non superficiale di lui. Si percepisce bene qui tutta l’attesa di Gesù per la risposta dei suoi discepoli. Ed ecco irrompere sulla scena Pietro che, facendosi il portavoce del gruppo, dà la sua bella risposta, chiara e sintetica: «Tu sei il Cristo» (v. 29b). È la prima volta che Pietro prende personalmente la parola nel vangelo di Marco e possiamo dire che lo fa in modo più che appropriato (non sappiamo come sia arrivato a formulare questa stupenda professione di fede; forse l’esperienza dello ‘stare con Gesù’ per lungo tempo avrà sortito qualche buon effetto…). Dal canto suo, Gesù non commenta la risposta di Pietro, anche se, in qualche modo, sembra approvarla. Gli preme solo che, per il momento, essa non venga divulgata: «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (v. 30).

    Gesù comincia allora a impartire il suo insegnamento, un insegnamento di capitale importanza poiché, per la prima volta, verte sulla sua sorte di passione e risurrezione. Egli è sì «il Cristo», ma i tratti che lo contraddistinguono sono alquanto inattesi e, comunque, assai diversi da quelli immaginati dai suoi discepoli. In una progressione impressionante, quattro verbi scandiscono il destino di sofferenza e di gloria che attende il «Figlio dell’uomo»: soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso, risorgere (v. 31). Nel momento stesso in cui i discepoli credono finalmente di aver compreso qualcosa intorno al loro singolare Maestro, ecco che si vedono ‘scaricare’ addosso parole scioccanti e incomprensibili: un Messia che deve passare per la sofferenza e la morte (senza dimenticare l’aspetto del rifiuto, della «riprovazione», non meno scandaloso). È questa necessità che i discepoli proprio non riescono a ‘digerire’: perché «deve»? Non potrebbe passare per un’altra via il destino del ‘loro’ Messia? Ed è proprio attorno a questo punto fatidico che esplode fortissimo il contrasto tra Gesù e i suoi. Ancora una volta è Pietro a farsi avanti, reagendo in modo deciso e disapprovando senza mezzi termini le parole di Gesù (addirittura si mette «a rimproverarlo»). Ma Gesù, con altrettanta energia, «rimprovera» Pietro bollando il suo atteggiamento come ‘satanico’ (v. 33). In nessun altro passo del vangelo è riportato un dissenso e uno scontro così violento tra i due! Pietro sembra trovarsi sotto l’influsso di uno ‘spirito cattivo’, tanto che Gesù si comporta con lui come un indemoniato (il verbo qui usato per indicare il «rimprovero» di Gesù, epitimá, è lo stesso generalmente adoperato per le scene di espulsione degli spiriti impuri: cfr. 1,25; 3,12; 9,25). Colui che aveva appena chiamato Gesù «il Cristo», si vede ora apostrofare con un titolo terribile e durissimo: «Satana»! Chi non pensa «secondo Dio», chi non riesce a sentire e a vedere le ‘cose’ di Dio lasciandosi guidare soltanto dai suoi istinti carnali, dai suoi desideri puramente umani, da tutto ciò, appunto, che è «secondo gli uomini», non può far altro che il gioco di Satana, il gioco dell’avversario di Dio per antonomasia. Invece di seguire Gesù, di lasciarsi condurre da lui sulla via di Dio, Pietro si mette davanti, ostacolando il cammino di Gesù e frapponendosi tra lui e il Padre suo (proprio come cercava di fare il Tentatore nel deserto!). Ma subito Gesù, in tono perentorio, ricolloca Pietro al posto che gli spetta: «Va’ dietro a me!». Così Pietro è di nuovo invitato a obbedire a quella voce udita al tempo della sua prima chiamata lungo il mare di Galilea quando, insieme a suo fratello Andrea, si sentì dire: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (1,17). Il posto del discepolo è sempre «dietro» – come rimarca ancora una volta Gesù nei due detti conclusivi (vv. 34-35) -; ma non solo: se non si osservano alcune condizioni basilari non si può, neanche lontanamente, cercare di seguire Gesù, di conoscerlo, di aderire a lui. Si tratta di imparare a dire di «no» a se stessi per dire di «sì» a un altro; si tratta di entrare nella logica paradossale del vangelo che implica il percorrere la via della croce, la stessa seguita da Gesù; si tratta, in ultima istanza, di spossessarsi persino della propria vita per riceverla nuova e ‘salvata’ dalle mani di Dio.

 

Preghiere e racconti

 

La rinuncia a se stessi

Quando una situazione umana ci chiede una totale rinuncia a noi stessi, istintivamente cerchiamo il compromesso o semplicemente imbocchiamo la strada della fuga, ci accomuniamo agli apostoli, che anch’essi sono fuggiti di fronte al realismo della Passione di Gesù. A tanti livelli e su tanti piani dobbiamo cercare di smascherare le forme di fuga che caratterizzano il nostro preteso “servizio agli altri”. Quante volte a livello della famiglia, ci lasciamo andare alla ricerca soltanto della gratificazione dell’affermazione di noi stessi e non accettiamo le persone che ci sono vicine così come sono nella loro realtà, le vorremmo sempre diverse e ci arrovelliamo? Quante volte nell’ambito professionale ci lasciamo trascinare solo dall’interesse e non cerchiamo di rendere un servizio fino in fondo, servizio che ci chiede di uscire da noi stessi di prendere parte in qualche modo alla croce e di partecipare alla sua forza rivelatrice? Quante volte di fronte alle richieste che i nostri fratelli avanzano, noi manifestiamo disagio, stizza, rifiuto: tante realtà semplici della nostra vita quotidiana in cui Gesù dalla croce ci chiede di operare una profonda conversione, di metterci davvero in ginocchio davanti alla croce per coglierne il realismo e la fedeltà che cambiano la vita..

Innanzitutto, si rimane colpiti dal fatto che, nel Vangelo di Marco, la descrizione dei miracoli compiuti da Cristo sfuma, fino a scomparire del tutto, quanto più ci si avvicina alla Croce: è qui, dove Gesù non salva se stesso, che anche i miracoli muoiono. Se i miracoli sono i segni tangibili della potenza di Dio, la Croce ci dice in modo chiaro che questa potenza si manifesta soprattutto nell’amore e nel dono che Cristo fa di sé. Per Marco, il vero discepolo è colui che sa riconoscere il Figlio di Dio inchiodato sulla croce per la nostra salvezza (15,39).

«La croce è diventata la suprema cattedra per la rivelazione della sua nascosta e imprevedibile identità; il volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto la condizione, escluso il peccato (Ebrei 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della rivelazione di Dio agli uomini».

(CVMC 14).

 

Porta ogni giorno la croce del Signore

Se anche tu fossi

così sottile e sapiente

da possedere ogni scienza

e interpretare ogni lingua

e scrutare i segreti del cielo,

di tutto ciò non potresti gloriarti,

perché un dèmone, da solo,

seppe delle cose celesti,

e ora sa delle terrene,

più di tutti gli uomini.

E se anche tu fossi il più bello

e il più ricco tra tutti gli uomini

e facessi cose mirabili,

come mettere in fuga i dèmoni,

tutto ciò non ti appartiene,

e non puoi affatto gloriartene.

Solo delle nostre infermità,

di questo solo possiamo gloriarci,

portando ogni giorno

la santa croce del nostro Signore Gesù Cristo.

(San Francesco D’Assisi)

 

Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte?

La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?

Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.

Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.

Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.

Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).

 

La domanda che ci interroga nel profondo: voi chi dite che io sia?

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.

E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (…).

Gesù interroga i suoi, quasi in un sondaggio d’opinione: La gente chi dice che io sia? E l’opinione della gente è bella e incompleta: Dicono che sei un profeta, uno dei più grandi! Ma Gesù non è semplicemente un profeta del passato che ritorna, fosse pure il più grande di tutti. Bisogna cercare ancora: Ma voi, chi dite che io sia?

Non chiede una definizione astratta, ma il coinvolgimento personale di ciascuno: “ma voi…”. Come dicesse: non voglio cose per sentito dire, ma una esperienza di vita: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? E qui ognuno è chiamato a dare la sua risposta. Ognuno dovrebbe chiudere tutti i libri e i catechismi, e aprire la vita.

Gesù insegnava con le domande, con esse educava alla fede, fin dalle sue prime parole: che cosa cercate? (Gv 1,38). Le domande, parole così umane, che aprono sentieri e non chiudono in recinti, parole di bambini, forse le nostre prime parole, sono la bocca assetata e affamata attraverso cui le nostre vite esprimono desideri, respirano, mangiano, baciano.

Ma voi chi dite che io sia? Gesù stimolava la mente delle persone per spingerle a camminare dentro di sé e a trasformare la loro vita. Era un maestro dell’esistenza, e voleva che i suoi fossero pensatori e poeti della vita. Pietro risponde: Tu sei il Cristo. E qui c’è il punto di svolta del racconto: ordinò loro di non parlare di lui ad alcuno. Perché ancora non hanno visto la cosa decisiva. Infatti: cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.

Volete sapere davvero qualcosa di me e di voi? Vi do un appuntamento: un uomo in croce. Prima ancora, l’appuntamento di Cristo sarà un altro: uno che si china a lavare i piedi ai suoi. Chi è il Cristo? Il mio “lavapiedi”. In ginocchio davanti a me. Le sue mani sui miei piedi. Davvero, come a Pietro, ci viene da dire: ma un messia non può fare così.

E Lui: sono come lo schiavo che ti aspetta, e al tuo ritorno ti lava i piedi. Ha ragione Paolo: il cristianesimo è scandalo e follia. Adesso capiamo chi è Gesù: è bacio a chi lo tradisce; non spezza nessuno, spezza se stesso; non versa il sangue di nessuno, versa il proprio sangue. E poi l’appuntamento di Pasqua. Quando ci cattura tutti dentro il suo risorgere, trascinandoci in alto.

Tu, cosa dici di me? Faccio anch’io la mia professione di fede, con le parole più belle che ho: tu sei stato l’affare migliore della mia vita. Sei per me quello che la primavera è per i fiori, quello che il vento è per l’aquilone. Sei venuto e hai fatto risplendere la vita. Impossibile amarti e non tentare di assomigliarti, in te mutato / come seme in fiore. (G. Centore).

(Ermes Ronchi)

 

 “E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”

È facilissimo dare a Gesù un’identità secondo i nostri desideri ed è anche facile giungere a dire chi lui è, ma è molto più difficile accettare che sia lui a spiegare e a dire la propria identità. Il brano evangelico di questa domenica vuole proprio interrogarci sulla nostra fede-adesione conoscitiva a Gesù. Ascoltiamolo dunque.

Gesù nel suo ministero, con la sua parola autorevole, con il suo comportamento e con le azioni di liberazione dal male che compiva, destava domande sulla sua identità: “Che è mai questo?” (Mc 1,27); “Chi è mai costui?” (Mc 4,41); “Da dove gli vengono queste cose? E che tipo di sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria?” (Mc 6,2-3).

Vi erano giudizi su di lui: veniva definito bestemmiatore (cf. Mc 2,7), “pazzo, fuori di sé” (Mc 3,21), posseduto dal demonio (cf. Mc 3,22). Vi erano, infine, anche urla di demoni che, scacciati da Gesù, gli gridavano: “Tu sei il Santo di Dio” (Mc 1,24), “il Figlio del Dio Altissimo” (Mc 5,7).

Sono dunque i demoni che sanno esprimere la vera identità di Gesù, con la loro conoscenza sovrumana, mentre gli uomini non sanno o sanno poco. Al massimo arrivano a pensare che sia un profeta mandato da Dio (cf. Mc 6,15), perché compie i segni di Elia e di Eliseo, perché parla come gli antichi profeti, con la loro franchezza e autorevolezza, dovuta al fatto che dice quello che pensa e che vive, senza ipocrisie e senza vantare autorità acquisite per qualità sacerdotale o professionale.

Queste si acquisivano per appartenenza a una discendenza o per aver frequentato una scuola rabbinica, come quelle di Gerusalemme o di Tiberiade. Ma Gesù non può vantare nulla di tutto ciò: dunque, chi è in verità?

Egli approfitta di un viaggio insieme alla sua comunità fuori della terra santa, in una regione sirofenicia e pagana, alle pendici dell’Hermon, presso le sorgenti del Giordano, per chiedere ai discepoli la loro opinione su di lui. È Gesù stesso a interrogarli, nei dintorni di Cesarea di Filippo (la città che porta il nome di Cesare, il potente dominatore di questo mondo!), innanzitutto chiedendo che cosa la gente dice di lui.

Essi lo sanno, perché quanti non osavano avvicinare Gesù potevano parlare con loro, manifestando opinioni sul loro rabbi. I discepoli, in risposta, riferiscono a Gesù l’opinione più diffusa: la gente pensa che egli sia un uomo autorevole, un profeta, così simile al Battista suo maestro ucciso da Erode (cf. Mc 6,17-29), al punto da pensare che quest’ultimo fosse risuscitato dai morti (cr. Mc 6,16); oppure lo paragonano a Elia, il profeta degli ultimi tempi. In ogni caso, è percepito come un profeta.

Gesù però non si ferma a questa prima domanda, e pone loro quella seria e decisiva: “E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”. Questa domanda esige che i discepoli si chiedano se anche loro seguono l’opinione comune, ciò che quasi tutti pensano, oppure se hanno un proprio pensiero. Certamente tra i discepoli gli stessi Dodici non la pensavano tutti allo stesso modo.

Per Marco è però importante la dichiarazione di Pietro, colui che tra i Dodici teneva il primo posto. È lui – e non a nome di tutti, o come portavoce, ma personalmente – a proclamare: “Tu sei il Cristo, il Messia!”. Pietro dice che Gesù è più di un profeta, è l’inviato di Dio, unto dal Signore per stabilire il regno di Dio. Quella di Pietro è una vera confessione di fede, nella sua espressione teologica, perché Gesù è veramente il Cristo, il Messia (come appare fin dal primo versetto del vangelo secondo Marco), e questo sarà il suo titolo più importante per i giudei, per Israele.

E tuttavia l’evangelista non mette in bocca a Gesù parole che confermino tale confessione, che dicano un “amen” un “sì” a Pietro (come invece in Mt 16,17-19). Nel vangelo più antico questa confessione è accolta da Gesù nel silenzio e con l’imposizione del silenzio, perché era vera, ma poteva essere insufficiente, dunque doveva essere messa alla prova.

Ed è ciò che puntualmente avviene subito dopo. Non appena Pietro ha confessato la sua fede di giudeo credente, in attesa del compimento della promessa di Dio, ecco che Gesù può iniziare un insegnamento nuovo rispetto a quello della tradizione. Per questo “incominciò” (érxato) a dire che egli, Messia sì, ma – come amava definirsi – Figlio dell’uomo, “doveva soffrire molte cose, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.

Ecco l’insegnamento nuovo e scandaloso, ma fatto apertamente da Gesù. E allora Pietro che, insieme agli altri Undici, stava dietro a lui (opíso autoû), secondo l’usanza dei discepoli nei confronti del loro rabbi, accelera il passo, gli si pone davanti, lo precede e lo rimprovera. Per Pietro è impossibile un Messia che non trionfi, che non sia vittorioso sui nemici, un Messia rigettato dalle autorità legittime della comunità dei credenti di Israele, un Messia che subisca una morte violenta. E poi, cosa significa questo rialzarsi il terzo giorno?

Gesù allora può solo rispondergli: “Passa dietro a me (opíso mou), alla mia sequela, al tuo posto di discepolo”, e lo definisce “Satana”, cioè oppositore, avversario: a Pietro viene dato il nome del demonio! È facile dire a Gesù che egli è il Cristo, il Messia, ma è impossibile accettare un “Messia al contrario”, un Messia sofferente sconfitto; si tratta davvero di un insegnamento nuovo, e Pietro non è pronto ad accoglierlo…

Mosè era morto “sulla bocca di Dio” (Dt 34,5), Elia era stato da Dio assunto in cielo (cf. 2Re 2,1-18), e invece proprio il Messia deve subire violenza, condanna, rifiuto? Non può essere, pensa Pietro… E invece è così – dice Gesù – e in effetti così è stato.

Un abisso separa il piano, la volontà di Dio dai pensieri degli umani (cf. Is 55,8-9), anche dai nostri, dai miei! In verità è tanto facile acclamare Gesù come Cristo, cantarlo e invocarlo; ma accettarne la fine ignominiosa, il fallimento della missione, è scandalo, inciampo, è quasi impossibile per le nostre attese religiose.

E poi, al pensiero che dietro a un tale Messia, maestro e profeta si è coinvolti nella sua vicenda, allora siamo presi da paura e preferiamo non credere, non conoscere la vera identità di Gesù. E così siamo cristiani non del Vangelo, ma del campanile; cristiani culturalmente, non perché seguiamo Gesù; cristiani pii e devoti, ma lontani dall’ombra della croce.

(Enzo Bianchi)

 

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […]

«Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

 

La segnaletica del Calvario

Sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agl’incroci, ce ne sono altre, più piccole, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a imboccare l’unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne indico tre.

La freccia dell’accoglienza. E una deviazione difficile, ma che porta diritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono, con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d’identità! Sì, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che abita di fronte a casa mia. Il cristianesimo è la religione dei nomi propri, dei volti concreti, del prossimo in carne e ossa con cui confrontarsi, non delle astrazioni volontaristiche.

La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. E sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana.

La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture.

(Don Tonino Bello)

 

Canto alla croce

Ama la croce, luce e pace,

e per essa, ormai,

Cristo sia il tuo signore!

Tracciala su di te con la mano:

essa ti tiene e tu la tieni

con tutto il tuo essere.

Il cuore in croce, la croce nel cuore,

liberato da ogni bruttura,

calmo e sereno;

che ben forte la croce amatissima

dalle tue labbra sia proclamata:

lodata senza fine.

 Nel riposo, nella fatica,

quando ridi e quando piangi,

conserva ben stretta

– quando vai, quando vieni,

nelle gioie, nei dolori –

la croce nel cuore!

(San Bonaventura)

 

Il dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij)

 

Preghiera

Concedimi, Gesù benignissimo, la tua grazia,

la quale sia con me e con me lavori e con me sino alla fine perseveri.

Dammi di desiderare e volere solo quello che è a te più accetto e più caramente piace a te.

Fa’ che la tua volontà sia la mia, e la mia volontà segua sempre la tua e concordi con essa a perfezione.

Che io abbia un unico volere e non volere con te; e che possa volere o non volere se non ciò che tu vuoi o non vuoi.

Dammi di morire a tutte le cose che sono nel mondo, e per te d’essere sprezzato e ignorato in questa vita.

Dammi sopra ogni cosa desiderata, di riposare in te e pacificare in te il mio cuore.

Te, vera pace del cuore, solo riposo, fuor di te ogni cosa è dura e inquieta.

In questa pace – cioè in te solo, sommo, eterno bene – dormirò e riposerò. Così sia.

(L’imitazione di Cristo, III, 15).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIV DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

Educare nel cambiamento

«Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca». Con queste parole, pronunciate al Convegno ecclesiale di Firenze il 10 novembre 2015, papa Francesco ha attirato l’attenzione di tutti sulle rapide e radicali trasformazioni del nostro mondo e della nostra società. Per il mondo della scuola e della formazione ciò significa che bisogna fare i conti con esigenze, generazioni e modelli educativi diversi da quelli cui si era abituati fino a un passato anche recente.

Lo ricorda mons. Mariano Crociata, presidente del Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica, introducendo il sussidio “Educare nel cambiamento”, frutto della riflessione e del lavoro comune dell’organismo che rappresenta l’ampia e composita realtà della scuola cattolica in Italia. Il Consiglio Nazionale ha infatti dedicato l’ultimo anno ad una riflessione sulle condizioni delle scuole e dei centri di formazione professionale (Cfp) definibili come cattolici o di ispirazione cristiana, pubblicandone i risultati in questo strumento di lavoro.

Il testo contiene:

  • il documento su “Autonomia, parità e libertà di scelta educativa”, pubblicato nel 2017 e dal carattere programmatico;
  • il sussidio “Uno strumento per il discernimento delle comunità educative”, che vede qui la luce per la prima volta e si propone di aiutare tutte le scuole e i Cfp a promuovere una ponderata riflessione di fronte alle difficoltà che possono derivare dalle trasformazioni che stiamo vivendo;
  • un’Appendice costituita da una serie di esperienze e buone pratiche di scuole e Cfp che hanno saputo misurarsi con il cambiamento in maniera creativa e coraggiosa, pur se non priva di ostacoli;
  • una seconda Appendice, che raccoglie i recapiti degli organismi che a vario titolo compongono il mondo della scuola cattolica e possono essere di riferimento proprio per affrontare eventuali difficoltà o anche solo per confrontarsi nella vita ordinaria delle diverse realtà educative.

La scuola cattolica, come insegna il Concilio Vaticano II (GE, 8), è essenzialmente «un ambiente comunitario scolastico permeato dello spirito evangelico di libertà e carità». Con questo sussidio, quindi, il Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica vuole rivolgersi a tutte le componenti della comunità educativa – alunni, insegnanti, genitori, gestori, responsabili della direzione, comunità ecclesiale – per promuovere e sostenere un’azione che confermi e rafforzi il ruolo della scuola cattolica nella società italiana alla luce dei cambiamenti in atto.

In allegato il testo del sussidio “Educare nel cambiamento”, una presentazione a cura di mons. Mariano Crociata e l’articolo di Avvenire del 4 settembre 2018.

Leggi qui l’articolo del Sir dedicato al sussidio: https://www.agensir.it/chiesa/2018/09/03/scuola-cattolica-dal-consiglio-nazionale-un-sussidio-per-ripensare-leducazione-tra-crisi-opportunita-e-prospettive/

Il cinema per l’ora di religione

La Fondazione Ente dello Spettacolo presenta un corso residenziale per insegnanti di religione della scuola secondaria di primo e secondo grado, dal titolo Usare il cinema nell’ora di religioneSi svolgerà dal 4 al 6 ottobre presso l’Hotel Duca della Corgna a Castiglione del Lago (PG), ed è realizzato con la direzione scientifica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e il patrocinio del Servizio per l’Insegnamento della Religione cattolica della Diocesi di Milano. Ha la durata di 25 ore ed è accreditato presso il MIUR, acquistabile con Buono scuola e dà diritto ad 1 credito formativo.

 

Usare il cinema nell’ora di religione vuole formare gli insegnanti di religione sul linguaggio del cinema e sui suoi significati, per poter usare questo strumento nella didattica. Durante le tre giornate sarà approfondita la questione del sacro nel cinema attraverso l’analisi de La ricotta di Pier Paolo Pasolini. Il tema sarà affrontato attraverso lezioni metodologiche, un seminario di approfondimento su Pasolini, lavori di gruppo, lo studio del film, redazione di materiali che confluiranno in una pubblicazione operativa per gli insegnanti.

 

La Direzione scientifica è affidata a Pier Cesare Rivoltella, professore ordinario di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento Università Cattolica di Milano e direttore del Cremit (Centro di Ricerca per l’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia). In aula saranno presenti Michele Maragi professore – Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Sergio Perugini (Commissione Nazionale Valutazione Film Cei), oltre a Federico Pontiggia, critico della Rivista del Cinematografo. Tutor d’aula, Livia Fiorentino, Fondazione Ente dello Spettacolo.

 

L’iniziativa si colloca nell’ambito degli eventi organizzati dalla Fondazione Ente dello Spettacolo per la celebrazione dei 90 anni della Rivista del Cinematografo, il più antico periodico italiano di critica cinematografica. Il programma di Castiglione Cinema 2018 – RdC Incontra, (4 al 7 ottobre 2018) prevede anche anteprime cinematografiche, seminari di studio e incontri con i protagonisti del nostro cinema.

 

Il costo complessivo per il corso è di 350 euro e comprende:

– sistemazione in hotel a 3 stelle in camera singola per 3 notti con colazione inclusa

– pasti dal pranzo di giovedì 4 ottobre al pranzo di sabato 6 ottobre (3 pranzi, 2 cene)

– materiali didattici

– l’ingresso alle proiezioni dei film di giovedì e venerdì della rassegna ufficiale di Castiglione Cinema

– la visita al Palazzo della Corgna

– l’accesso alla mostra “Joan Mirò – Meraviglie grafiche 1966-1977

– il libro che raccoglie i materiali didattici prodotti durante il corso (che verrà editato nei mesi successivi)

 

Il corso è riservato ai primi 50 iscritti.

Per iscrizioni: entespettacolo.org

Per informazioni sul corso

Fondazione Ente dello Spettacolo

segreteria.presidenza@entespettacolo.org – Tel. 06 96519.200 

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:Isaia 35,4-7a

Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.

 

 

v I capitoli 34-35 costituiscono la cosiddetta «Piccola Apocalisse» del libro di Isaia. Composti probabilmente dopo l’esilio, contengono una serie di oracoli di giudizio contro i nemici d’Israele (34), contrapposti a oracoli di salvezza (35).

     Un inno di gioia (35, 1-3) introduce l’oracolo di consolazione rivolto agli «smarriti di cuore»: l’intervento del Signore è insieme vendetta, ricompensa e salvezza. La giustizia si presenta con due facce, il castigo degli empi e la retribuzione dei giusti.

     All’annuncio del v. 4 segue la descrizione del giorno della salvezza (vv. 5 e ss.), per mezzo delle immagini tradizionali che rappresentano i tempi messianici. Ciechi, sordi, zoppi e muti saranno sanati: le diverse situazioni di schiavitù, i diversi impedimenti che incatenano il popolo credente cadono come per incanto. Sono guarigioni reali e simboliche a un tempo: aprire gli occhi, schiudere gli orecchi significa anche dare la vera conoscenza spirituale e convertire i cuori all’ascolto della parola del Signore: saltare come cervi e gridare di gioia rappresenta la libertà e l’entusiasmo di confessare la fede.

     La salvezza coinvolge non solo gli esseri umani, ma anche la natura, il cui ritorno alla vita è rappresentato con le immagini dell’acqua che rigenera il deserto e feconda la terra. Il paese inaridito che simboleggiava il castigo divino (34, 10ss.) torna qui a fiorire: scaturiranno acque, torrenti nella steppa, la terra bruciata sarà una palude e il suolo riarso si animerà di sorgenti. 

 

Seconda lettura: Giacomo 2,1-5

Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?

 

 

v La lettera di Giacomo entra nel quotidiano della vita di comunità, con chiare indicazioni di comportamento.

     Le conseguenze pratiche della fede sono estremamente chiare fin dall’inizio della lettera. Il secondo capitolo si apre con un’affermazione categorica: esiste una contraddizione insanabile tra la fede nel Signore Gesù e gli interessi personali, egoistici e transitori.

     I tre versetti successivi (2-4) chiariscono l’affermazione con un esempio. La descrizione dell’uomo ricco e del povero accolti nell’assemblea con evidente disparità di trattamento è vivace e realistica, tanto da far pensare che già nella comunità delle origini esistessero questi problemi. L’interrogativo finale lascia alla coscienza della persona la decisione: ma l’accusa è forte e fa riflettere. Si tratta infatti non semplicemente di discriminare (diakrinô), ma addirittura di giudizi perversi (kritaì dialigismôn ponêrôn). Non è quindi solo una fede debole e incerta, ma una vera e propria ingiustizia nei confronti dei fratelli, qualcosa che ferisce profondamente la comunità. Potremmo dire, con linguaggio moderno, che i favoritismi dettati dall’attenzione al denaro e ai privilegi sociali non sono semplicemente un «peccato veniale».

     Segue infatti un ragionamento stringato che ribadisce il pensiero dell’Apostolo. Il v. 5, che introduce l’argomentazione, è una domanda retorica che, nella linea del pensiero dei profeti d’Israele e dello stesso Paolo, ricorda la scelta preferenziale di Dio a favore dei poveri. I poveri agli occhi del mondo sono ricchi nella fede ed eredi del regno: i criteri umani sono quindi completamente capovolti dalla logica di Dio, e se preferenza deve esserci nella comunità cristiana, questa deve andare proprio a coloro che dal mondo sono emarginati e respinti. 

 

Vangelo: Marco 7,31-37

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

 

 

Esegesi

     La guarigione del sordomuto, narrata solo in Marco, è localizzata in territorio pagano (la Decapoli), dove tuttavia sembra essere già giunta la fama di Gesù taumaturgo.

     Il primo versetto (31) offre una precisa indicazione geografica, anche se non appare chiaro l’itinerario seguito da Gesù per giungere da Tiro e Sidone (sulla costa fenicia) fino alla Decapoli, a est del lago di Tiberiade.

     Il v. 32 presenta la situazione, senza indugiare sui preamboli: la gente del posto chiede a Gesù di imporre le mani sul malato, credendo forse che la sua potenza passi come un fluido magnetico. Non è ancora fede, ma ingenua fiducia, forse mista a superstizione, nei confronti di un uomo che opera prodigi.

     I tre versetti centrali (33-35) descrivono il miracolo, con alcune notazioni importanti che introducono il tema del «segreto messianico». Gesù prende in disparte l’uomo, lontano dalla folla, come a voler dissipare ogni fraintendimento propagandistico in quello che sta per fare; eppure indulge alla semplicità della gente e compie anche dei gesti concreti (le dita nelle orecchie, la saliva) che potrebbero farlo assomigliare ai maghi e taumaturghi del tempo. Il prodigio tuttavia non si compie direttamente in conseguenza dei gesti, ma appare piuttosto effetto dell’invocazione di Gesù e della sua parola, non a caso nel versetto centrale (34): egli alza gli occhi al cielo, rivolto palesemente a Dio, e dice in aramaico «Apriti!».

     Il collegamento parola-evento è chiaramente sottolineato dall’avverbio «e subito». Il prodigio è espresso con verbi che adombrano anche un significato di conversione interiore: gli orecchi «si aprono», il cuore e la mente dell’uomo sono quindi aperti ad accogliere la Parola del Signore; la lingua «si scioglie», l’uomo è quindi liberato dai legami del male che lo tenevano prigioniero.

     Viene poi la raccomandazione del segreto, caratteristica di Marco (v. 36): l’ora non è ancora giunta, e tuttavia la notizia del prodigio viene diffusa nonostante il divieto di Gesù. La reazione (v. 37) è di stupore, il miracolo risveglia qualcosa di più della superstizione che lo aveva preceduto. Queste persone credevano possibili guarigioni prodigiose, ma l’a-zione di Gesù li sorprende: ancora adesso non è fede, ma un passo ulteriore si è compiuto, ci si interroga su chi sia quest’uomo che fa udire i sordi e fa parlare i muti.

    

Meditazione

Il passo evangelico di questa domenica inizia con una breve introduzione di carattere geografico. Sono nominate le città di Tiro e Sidone, il territorio della Decàpoli: l’evangelista Marco ha cura di farci sapere che Gesù, dopo l’episodio della donna siro-fenicia (cfr. 7,24-30), rimane nella regione pagana del paese e quindi anche il personaggio che tra poco incontrerà è un pagano.

    «Gli portarono un sordomuto…» (v. 32). Sulla scena compaiono all’improvviso alcune persone anonime che si preoccupano di condurre a Gesù un uomo gravemente colpito nella sua dimensione comunicativa (è infatti «sordo» e «muto», cioè incapace di ascoltare e di parlare) per chiederne la guarigione. È da notare che il termine impiegato da Marco per connotare il mutismo di quest’uomo (in greco: mogilálon, «che parla a fatica, con difficoltà») si trova solo qui in tutto il NT e ricorre un’altra volta soltanto nell’AT, precisamente nel testo di Is 35,6 (vedi il brano proposto come prima lettura). Con ciò l’evangelista vuole invitare i suoi lettori a comprendere questo episodio come il compimento di una profezia, come uno dei segni messianici che Gesù realizza.                                  

    Subito, senza perdere tempo e senza troppi discorsi, Gesù mette in atto la sua ‘terapia’ (vv. 33-34). E per prima cosa «prende con sé» il sordomuto (il verbo evidenzia un tratto di delicata accoglienza da non trascurare, soprattutto nel difficile rapporto che a volte si instaura tra malato e guaritore) e lo porta «in disparte». Per un incontro vero e personale con Gesù è necessario separarsi dalla folla, allontanarsi dagli umori sempre ambigui e volubili di essa. Poi Gesù compie due gesti molto concreti (all’apparenza quasi rozzi e poco eleganti) che esprimono la volontà di stabilire un contatto con il malato – anche fisico, corporeo -, di stabilire una comunicazione che prende avvio proprio dagli organi malati: gli orecchi e la lingua. È un «toccare» che mira a riaprire i canali chiusi della comunicazione alla loro sorgente, là dove ogni suono e ogni voce entra nel corpo (gli orecchi) e là dove ogni parola prende forma per uscire verso l’esterno (la lingua). Gesù quindi prosegue levando gli occhi al cielo, in un gesto di preghiera, ed emettendo un sospiro, un «gemito», quasi a esprimere un appello, un’invocazione muta e silenziosa a quel Dio che può donargli la forza di vincere ogni resistenza insita nel corpo dell’infermo. Un sospiro che dice la sua pena e, insieme, la sua partecipazione a una tale condizione umana. Da ultimo pronuncia un comando, forte e imperioso, che è la parola centrale e decisiva di tutto il racconto: «Effatà». È  una parola in aramaico, come altre parole cruciali e decisive riportate da Marco nel suo vangelo. È curioso che qui Gesù parli al singolare: «Apriti!»: è anzitutto l’uomo come tale, nella sua totalità, che deve aprirsi, che deve lasciare che questa parola rompa, infranga, vinca la sua chiusura. Prima che essere rivolta alle sue orecchie, questa parola di Gesù è rivolta al suo cuore, al centro interiore dell’intera sua persona.

    Ed ecco il risultato immediato di tutta questa opera di guarigione: «E subito gli si aprirono gli orecchi…» (v. 35). C’è un’«apertura», c’è uno «scioglimento», c’è un parlare ritrovato e «corretto», che manifestano l’efficacia della ‘cura’ di Gesù e diventano altresì contagiosi, tanto che i presenti non riescono a ubbidire al comando di Gesù, che ingiungeva loro il silenzio, ma «più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano…» (v. 36). Con una bella immagine, il card. C.M. Martini nella sua lettera pastorale «Effatà, Apriti» così commenta: «La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea…». L’esclamazione conclusiva (v. 37), pronunciata al colmo dello stupore, rievoca la finale del racconto della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Siamo dunque in presenza di un evento che dischiude di nuovo la realtà originaria, un evento in grado di ricreare quell’umanità così come Dio l’aveva voluta agli inizi della creazione.

    S. Ambrogio, nella sua spiegazione al rito dell’ Effatà che si celebrava durante la liturgia battesimale (reinserito ora nella celebrazione del Battesimo degli adulti), chiama questo episodio evangelico: «il mistero dell’apertura». In un contesto di iniziazione è fondamentale che qualcosa venga ‘aperto’ ed è nondimeno fondamentale la consapevolezza del bisogno di ‘lasciarsi aprire’. Tutto il vangelo di Marco è attraversato da questa ‘apertura’ (dai cieli che si aprono al battesimo di Gesù fino al velo del tempio che si squarcia «da cima a fondo» al momento della sua morte) e forse non è un caso che questo racconto di guarigione sia stato collocato a questo punto della narrazione evangelica: la sua valenza simbolica in ordine al cammino di sequela dei discepoli può essere illuminante. Ricordiamo che siamo nel contesto della cosiddetta «sezione dei pani» (Mc 6,30-8,21) in cui è più volte sottolineata l’ottusità dei discepoli, la loro lentezza di mente, la loro durezza di cuore: di fronte a sempre nuove e più grandi rivelazioni di Gesù corrisponde da parte loro un’incomprensione sempre maggiore. I discepoli appaiono come ciechi e sordi, incapaci di vedere e udire la novità del vangelo. Ecco allora che la fatica impiegata da Gesù per guarire quel sordomuto (la molteplicità dei dettagli è indicativa di tutta la laboriosità e lo sforzo compiuto per risolvere il caso) diventa segno della fatica usata a guarire i discepoli dalla loro cecità e sordità spirituale (riguardo alla cecità, l’episodio del cieco di Betsàida, in 8,22-26, svolge una funzione analoga). Ma, nello stesso tempo, l’’apertura’ del sordomuto diventa anche segno della possibilità offerta a tutti (discepoli compresi!) di ottenere la guarigione, di ritrovare una capacità nuova di ascolto e comprensione del mistero di Gesù. Ed è proprio questo il vero miracolo a cui tende tutto il vangelo…

 

Preghiere e racconti

 

Effatà

«A tante domande sulla malattia del comunicare umano contrapponiamo ora una scena di risanamento. Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare. Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37. S. Ambrogio chiama questo episodio -e la sua ripetizione nel rito battesimale – “il mistero dell’apertura”: “Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto” (I misteri, I, 3).

Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di apertura, il miracolo e le sue conseguenze.

1. La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo. E’ uno che non sente e che sì esprime con suoni gutturali, quasi con mugolìi, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù. Il caso è in sé disperato (7, 31-32).

2. Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui. Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche. Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza. Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti. Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ? come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel comando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie. Il risanamento della lingua sarà conseguente.

A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana. Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34). E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toccando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n. 202).

3. Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si aprirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritrovata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”). Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano”. La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”” (7, 35-37).

In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comunicare interpersonale, ecclesiale, sociale. Possiamo anche individuare le tre parti di questa Lettera: 1. rendersi conto delle proprie difficoltà comunicative; 2. lasciarsi toccare e risanare da Gesù; 3. riaprire i canali della comunicazione a tutti i livelli.

Il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa. E’ anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipazione al mistero di Dio che è comunicazione».

(Card. C.M. MARTINI, Lettera pastorale: Effatà, apriti, 1990-1991).

 

Dal silenzio alla parola

Vivere è percorrere la stessa avventura del sordomuto della Decapoli: ognuno è un uomo che non sa parlare, un uomo che non sa ascoltare. Un nodo in gola, un nodo in cuore. Penso alle mie sordità, al mio ascoltare senza partecipazione; penso alla mia lingua annodata, all’insignificanza dei miei messaggi e delle mie parole. E ne comprendo la causa. Non so ascoltare chi è appena fuori del mio spazio vitale, dall’ambito della famiglia o delle amicizie; o ascolto distrattamente, “a mezzo orecchio”, sperando solo che l’altro finisca in fretta, perché ho cose più intelligenti da dire, osservazioni più acute, idee più importanti.

E la parola si fa dura e vuota. «Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell’ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore» (Bonhoeffer), come il fariseo nel tempio: «Io, Signore, io e i miei digiuni, io e le decime, io…». In quante famiglie si parla tra sordi. E diventano culle di silenzio e di solitudini. Quanti figli perduti nelle nostre case, e bastava forse solo ascoltarli.

Chi non sa ascoltare perderà la parola, perché parlerà senza toccare il cuore dell’altro.

Guariremo tutti dalla povertà delle parole solo quando ci sarà donato un cuore che ascolta. È ciò che fa Gesù: porta in disparte il sordomuto, lo tocca con le sue dita, con il segno intimo e vitale della saliva.

È ciò che continua a fare con me: mi tocca in ogni gioia e in ogni prova, i giorni vibrano della sua presenza, mi tocca in ogni fratello che mi viene incontro, nei poveri senza voce, negli anziani soli che nessuno ascolta.

Mi tocca e mi restituisce il dono di ascoltare e di “parlare correttamente”, che non è l’eloquenza ma una nuova capacità di comunicare, di indovinare quelle parole che toccano il nervo della vita, bruciano le ipocrisie, hanno il gusto dell’amicizia. Gesù ripete anche a me: «Effatà, apriti! Esci dal tuo nodo di silenzi e di paure; apriti ad accogliere vite nella tua vita, spalanca le tue porte a Cristo».

Se rimani chiuso in te, non scoprirai mai, diceva un tormentato scrittore, «un Dio che gioisce e ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del sole o del mare» (Pasolini) o che versa le sue lacrime nelle tue lacrime, ma solo distanza e solitudine.

«E comandò loro di non dirlo a nessuno».

Gesù aiuta senza condizioni. Per lui è più importante la gioia del sordomuto, che non la sua gratitudine; la felicità dell’uomo conta più della fedeltà.

Quanti miracolati del Vangelo sembrano scomparire nel nulla, rapiti nel gorgo della loro felicità. Invece stanno fecondando in silenzio la storia con una nuova capacità di vere relazioni.

(Ermes Ronchi)

 

La tua Parola

La tua Parola, Signore, non l’hai scritta perché io la studiassi e la spiegassi. La tua Parola, Signore, mi è giunta perché l’amassi, perché mi sforzassi di calarla nel mio intimo, perché anch’io potessi diventare una tua parola.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 119).

 

«Apri la tua bocca»

Sia sempre nel nostro cuore e sulla nostra bocca la meditazione della sapienza e la nostra lingua esprima la giustizia. La legge del nostro Dio sia nel nostro cuore. Per questo la Scrittura ci dice: «Parlerai di queste cose quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6,7). Parliamo dunque del Signore Gesù, perché egli è la Sapienza, egli è la Parola, è la parola di Dio.

Infatti è stato scritto anche questo: «Apri la tua bocca alla parola di Dio». Tu la apri, egli parla. Per questo Davide ha detto: «Ascolterò che cosa dice in me il Signore» (cfr. Sal 84,9) e lo stesso Figlio di Dio dice: «Apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80,11). Ma non tutti possono ricevere la perfezione della sapienza come Salomone e come Daniele. A tutti però viene infuso lo spirito della sapienza secondo la capacità di ciascuno, perché tutti abbiano la fede. Se credi, hai lo spirito di sapienza.

Perciò medita sempre, parla sempre delle cose di Dio «quando sarai seduto in casa tua» (Dt 6,7). Per casa possiamo intendere il nostro intimo, per parlare all’interno di noi stessi. Parla con saggezza per sfuggire al peccato e per non cadere con il troppo parlare. Quando stai seduto parla con te stesso, quasi come se dovessi giudicarti. Parla per strada, per non essere mai ozioso. Tu parli per strada se parli secondo Cristo, perché Cristo è la via. In cammino parla a tè stesso, parla a Cristo.

Quando ti alzi, parlagli per eseguire ciò che ti è comandato. Senti come Cristo ti sveglia. La tua anima dice: «Un rumore! È il mio diletto che bussa», e Cristo dice: «Aprimi sorella mia, mia amica» (Ct 5,2). Senti come tu devi svegliare Cristo. L’anima dice: «Io vi scongiuro, figlio di Gerusalemme, svegliate, ridestate l’amore» (Ct 3,5). L’amore è Cristo.

(S. Ambrogio di Milano).

 

La guarigione del sordomuto e la nostra liberazione

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Il percorso tracciato da Marco è molto significativo: con una lunga deviazione Gesù sceglie un itinerario che congiunge città e territori estranei alla tradizione religiosa di Israele; percorre le frontiere della Galilea, alla ricerca di quella parte comune ad ogni uomo che viene prima di ogni frontiera, di ogni divisione politica, culturale, religiosa, razziale.

Scrivo queste parole dalla Mongolia, da una piccola, giovanissima chiesa ad Arvaheer, dove risuonano vere; dove, nella fede sorgiva delle origini, senti che Gesù è davvero l’uomo senza confini, che lui è il volto alto e puro dell’uomo, e che per il cristiano ogni terra straniera è patria.

Gli portarono un sordomuto. Un uomo imprigionato nel silenzio, vita a metà, ma “portato” da una piccola comunità di persone che gli vogliono bene da colui che è Parola e liberazione, che parla come nessuno mai, che è l’uomo più libero passato sulla terra. E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più di ciò che gli è chiesto, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare la umanità e l’eccedenza, la sovrabbondanza della risposta di Dio. Allora Gesù lo prese in disparte, lontano dalla folla. In disparte, perché ora conta solo quell’uomo colpito dalla vita. Immagino Gesù e il sordomuto occhi negli occhi, che iniziano a comunicare così. E seguono dei gesti molto corporei e insieme molto delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Secondo momento della comunicazione, il tocco delle dita, le mani parlano senza parole. Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti dò qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell’uomo insieme al respiro e alla parola, simboli dello Spirito. Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo di incontro con il Signore. Gesù guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: Effatà, cioè: Apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua del cuore, quasi soffiando l’alito della creazione: Apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole. Apriti dalle tue chiusure, libera la bellezza e le potenzialità che sono in te. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Ed è un simbolo eloquente. Sa parlare solo chi sa ascoltare. Gli altri innalzano barriere quando parlano, e non incontrano nessuno. Gesù non guarisce i malati perché diventino credenti o si mettano al suo seguito, ma per creare uomini liberi, guariti, pieni. «Gloria di Dio è l’uomo vivente» (sant’Ireneo), l’uomo tornato a pienezza di vita.

(Ermes Ronchi)

 

La “salvezza” è fondamentalmente esperienza di alterità

La liberazione dalla schiavitù babilonese è descritta da Isaia con immagini che parlano di vita ritrovata, di vita che sgorga là dove c’era morte: sorgenti d’acqua scaturiscono nel deserto; i ciechi riacquistano la vista, i muti ritrovano la capacità di parola; i sordi possono ascoltare. Marco riprende le immagini del testo isaiano per narrare la guarigione di un sordomuto ed esprimere così l’avvento di una liberazione ancor più radicale: la liberazione messianica. L’espressione tradotta in italiano con “sordomuto” (Mc 7,32) indica una persona sorda che si esprime a fatica, con difficoltà, balbuziente. Tanto che la sua guarigione è espressa dicendo che egli “parlava correttamente” (Mc 7,35). Incapace di ascoltare, egli non sa neppure esprimersi correttamente e perde la capacità comunicativa trovandosi in un isolamento doloroso. È l’incapacità di comunicare che affligge così gravemente quest’uomo privandolo della sua soggettività: egli è totalmente passivo. Condotto da altri a Gesù, è oggetto di gesti e parole da parte di Gesù finché viene liberato dai vincoli che lo imprigionavano impedendogli di comunicare. Ed è interessante e significativo che, per guarire dalla sua incomunicabilità e ritrovare la sua soggettività, egli debba essere separato dalla folla e portato in disparte: lì può essere restituito a se stesso e diventare soggetto della sua parola. Lì avviene l’incontro personale con Cristo.

Quest’uomo simbolizza la situazione per cui la “salvezza” è fondamentalmente esperienza di alterità, è apertura e affidamento a un altro, passa attraverso un altro. Così come investe la corporeità: il testo presenta un incontro in cui la fisicità è centrale. Gesù comunica soprattutto con il corpo: il testo parla di mani, dita e tatto, di ascolto e di orecchi, di lingua, saliva e parola, di occhi e di sguardo. Se il corpo è il nostro modo di essere al mondo e di comunicare con il mondo, Gesù deve svegliare la vita corporea di quest’uomo, deve ridestarne i sensi perché egli possa ritrovare il senso del vivere. Lo spirituale avviene sempre grazie alla mediazione del corporeo. La guarigione del sordo balbuziente, connessa alla guarigione del cieco di Betsaida (cf. Mc 8,22-26), che presenta elementi letterari e tematici molto simili, svela certamente una dimensione simbolica. Le due pericopi inquadrano episodi in cui Gesù si confronta con l’incomprensione e con l’inintelligenza dei suoi discepoli (cf. Mc 8,4.14-21) che “hanno orecchi e non ascoltano, hanno occhi e non vedono” (cf. Mc 8,18), con l’ostilità dei farisei (cf. Mc 8,11-13), mentre moltiplica contatti salvifici con pagani (cf. Mc 8,1-9; anche il nostro episodio si svolge in terra pagana). Insomma, la sordità che impedisce di parlare correttamente riguarda i discepoli e significa un non-ascolto della Parola che conduce a non annunciarla correttamente o a non confessare adeguatamente la fede (come Pietro in Mc 8,27-33). Solo un ascolto della Parola assiduo e profondo genera un annuncio autentico e efficace; solo una ecclesia audiens può essere ecclesia docens. Fuori di questo ascolto, di questa apertura vivificante e sanante alla Parola, l’annuncio della chiesa si riduce a balbettio o addirittura a sproposito.

In questo senso, il gesto terapeutico di Gesù di mettere le dita negli orecchi dell’uomo acquista una valenza spirituale nella linea delle espressioni bibliche che parlano di circoncidere gli orecchi (cf. Ger 6,10), forare gli orecchi (cf. Sal 40,7), ovvero aprire il canale attraverso cui la rivelazione raggiunge il cuore dell’uomo e gli consente di lodare Dio e di annunciare le sue azioni (cf. il rapporto tra “risveglio” degli orecchi e lingua ben istruita in Is 50,4).

Uno solo è guarito, ma l’acclamazione della folla universalizza il gesto di Gesù parlando di muti e sordi al plurale (cf. Mc 7,37). L’esperienza di Dio conosciuta da qualcuno una volta nella storia può essere confessata nella sua estensione universale e nella sua dimensione di eternità nell’azione di grazie, massimamente nella celebrazione liturgica (cf. il salmo 136).

(Luciano Manicardi)

 

Preghiera

Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio,

per l’amore che hai mostrato a noi

in Gesù Cristo nostro Signore.

In Lui, che ci ha amati sino alla fine,

noi siamo vincitori sul dolore,

l’angoscia, la persecuzione, la fame,

la miseria, e pericoli e la morte violenta.

Nel silenzio dell’abbandono e della solitudine

Tu elargisci le ricchezze della tua benedizione

e sfami la fame di compagnia con l’abbondanza della Tua Parola e del Tuo Corpo.

Ti rendiamo grazie,

perché Tu ascolti il silenzio dei nostri cuori,

Tu agisci in noi con la tua potenza,

ci guarisci dall’incomunicabilità,

sciogli la nostra lingua

e metti sulle nostre labbra il nome

di Gesù tuo Figlio.

Fa’ che possiamo testimoniarTi

come nostro unico Salvatore, sempre più uniti

in una sola fede e in un solo Battesimo.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO

XXIII DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

Giornata Mondiale per la Cura del Creato 2018

Dal Messaggio del Santo Padre

…In questa Giornata Mondiale di Preghiera per la cura del creato, che la Chiesa Cattolica da alcuni anni celebra in unione con i fratelli e le sorelle ortodossi, e con l’adesione di altre Chiese e Comunità cristiane, desidero richiamare l’attenzione sulla questione dell’acqua, elemento tanto semplice e prezioso, a cui purtroppo poter accedere è per molti difficile se non impossibile. Eppure, «l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani. …