La rivincita della spiritualità

Lasciata fuori (o quasi) l’editoria religiosa dai libri che hanno fatto l’Italia, i temi della spiritualità si prendono la rivincita nelle sale del Lingotto, dove alcuni degli incontri più seguiti di ieri riguardavano appunto questi argomenti. Non è un caso che Erri De Luca, nel pomeriggio, abbia riempito la Sala Oval ed Enzo Bianchi, nella serata, abbia trattenuto nella Sala Rossa molti lettori, nonostante un disguido che ha fatto slittare l’incontro di mezz’ora. Sono stati due degli appuntamenti più seguiti (oltre naturalmente a Umberto Eco, abbonato al tutto esaurito), che hanno convogliato quello che Ernesto Ferrero definisce un bisogno «di fare qualcosa per la collettività e che forse sopperisce a una drammatica assenza di riferimenti nella società». Il volto religioso del Salone è affidato a non credenti come Erri De Luca, che afferma di escludere la divinità dalla sua vita, ma non da quella degli altri; agli uomini di Chiesa più progressisti, quelli che parlano, come Enzo Bianchi, anche agli increduli; ai preti di battaglia impegnati nel sociale, come don Virginio Colmegna e don Giacomo Panizza, anche loro ieri impegnati, allo stand di Ibs, in un incontro,
moderato da Marco Revelli, che ha affrontato i temi caldi dell’immigrazione e dell’accoglienza. Di Chiesa e religione si parla abbondantemente in questo Salone e spesso in chiave critica, soprattutto verso le gerarchie. Oggi toccherà al potere temporale con incontri che certo non saranno indulgenti, a partire dal «dialogo immaginario» del matematico Piergiorgio Odifreddi con Joseph Ratzinger, fino al «Dossier Vaticano» in cui Bruno Ballardini, che affronta l’opera di evangelizzazione della Chiesa come una strategia che adotta gli strumenti del marketing, dialoga con Ferruccio Pinotti,
autore di una controinchiesta su Wojtyla. Domani sarà Michela Murgia a raccontare gli stereotipi in cui la Chiesa ha rinchiuso l’immagine femminile. Ieri però è stato il giorno delle Sacre Scritture. E non è un caso che Erri De Luca, da anni impegnato, ricorda Ferrero, «in un corpo a corpo con parole antiche» per le sue traduzioni della Bibbia, e il priore della comunità monastica di Bose,  Enzo Bianchi, abbiano entrambi analizzato la stessa pagina del Vangelo di Giovanni, quella dell’adultera condannata alla lapidazione che Gesù salva con le parole «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». De Luca, che ha appena pubblicato E disse (Feltrinelli), risale al cuore nel monoteismo, raccontando la storia di Mosé che «va a prendersi» sul Monte Sinai «la notizia della divinità», e la recapita a un popolo che accetta di prendere su di sé quel carico, ma parla anche delle Sante dello scandalo (Giuntina), cinque donne tra cui Maria, una «genealogia che passa attraverso Davide e arriva fino al Messia, figure che hanno avuto un ruolo decisivo nel rapporto con la divinità, mortificato, nel corso, dei secoli, da traduzioni che hanno attribuito alle Scritture una condanna del corpo femminile». Delle donne nella Bibbia parla anche Bianchi, che presenta una pubblicazione liturgica, un Evangeliario secondo il rito romano, pubblicato dal Messaggero di Padova. Un incontro che insiste sulla necessita di «riseminare il Vangelo, liofilizzato nei valori cristiani», dice Ugo Sartorio, direttore del «Messaggero di Sant’Antonio». «Vangelo — ricorda il priore di Bose — significa buona notizia. Non tutta la Bibbia è Vangelo. Ho l’impressione che noi
oggi non sentiamo il Vangelo come una buona notizia perché le stesse Chiese l’hanno imbalsamato, ne hanno fatto un breviario di etica, un deposito di dogmi. Il Vangelo dovrebbe rallegrare, spingere verso la felicità, è una buona notizia, che non si può dare in modo rabbioso, arrogante, nemico. Il fatto è che noi cristiani non sappiamo più dare una buona notizia» .

di Cristina Taglietti
in “Corriere della Sera” del 14 maggio 2011

 

Ripudiare la guerra. davvero

 

«L’Italia ripudia la guerra», dice la nostra Costituzione del 1948 all’articolo 11.

 

Ma non la ripudiano gli italiani, per lo meno quelli che contano sul piano economico e politico. E per questo si continuano a costruire armi, anche dispendiose (come i cacciabombardieri da 16 miliardi di euro), che fanno lavorare e guadagnare molte imprese, e così si va a bombardare in Libia (come già in Iraq ed in Afghanistan), perché ci si copre con l’ombrello dell’Onu o della Nato.
Non è che il ripudio della guerra della Costituzione corrispondesse al disinteresse per la pace. Anzi ripudiare la guerra era un’espressione di amore alla pace, se è vero quanto scriveva nel 1963 papa Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, che è follia (alienum a ratione…fuori dalla ragione) pensare che la guerra possa portare alla giustizia e alla pace. E ne dà, papa Giovanni, anche la ragione: da una parte i terribili mezzi di distruzione di cui si arricchiscono costantemente gli arsenali, dall’altra l’accresciuta possibilità di dialogo e di verifiche sotto la tutela di organismi internazionali.
È proprio questa mancanza di ricerca di dialogo che porta i problemi a situazioni così gravi da rendere pressoché indispensabile l’intervento militare. Ed è quello che sta accadendo con la Libia, con la quale si sono intrattenuti rapporti più che amichevoli con un’iniziale dimostrazione di disinteresse se non di favore (per non «disturbarlo», si disse), cercando poi di non lasciarsi scavalcare dagli europei più decisi, fino ad andare anche noi a bombardare, con l’avallo del presidente della Repubblica. Non solo però ce n’eravamo lavate le mani prima, ma abbiamo continuato a lavarcele anche dopo, senza mai tentare un serio intervento diplomatico e senza darci veramente da fare perché l’Onu o l’Europa se ne facessero promotori. Anche con Hitler si fece così: lo si lasciò fare (vedi Monaco 1938), trovandosi poi nella necessità di fare una guerra per garantire la pace. Si farà così anche con la Siria, per cui si spendono molte parole ma senza seri interventi diplomatici, per giungere poi a dimostrare necessario l’intervento militare? Non sarà esplicita, ma si ha l’impressione di un’implicita convinzione che tanto poi andremo a bombardare, così useremo le nostre armi raffinate (se no, cosa ci stanno a fare?) e poi ne faremo altre ancora più raffinate. E alla fine per lo meno ci guadagneremo.
Quello che manca – a chi governa, ma anche ad ancora troppi cittadini – è la convinzione che la guerra va veramente ripudiata, e che quindi bisogna cercare in tutti i modi gli espedienti politici e diplomatici che la rendano superflua. Se, come dice il proverbio, la necessità aguzza l’ingegno, il dovere di ripudiare la guerra deve farci trovare i modi necessari per giungere alla pace.
L’obiezione comune è che questa è un’utopia, in un mondo di violenza. Eppure si faceva guerra un tempo fra le nostre città, finché lo Stato nazionale le ha rese impossibili, così come sono inimmaginabili oggi le guerre che hanno insanguinato per secoli le Nazioni dell’Europa. E allora si dovrà dare forza e autorità all’Onu come arbitro veramente superiore (ridimensionando i veti che ne minano la democrazia e quindi l’attendibilità) in grado, con una forza di polizia, di garantire una soluzione dei problemi senza il ricorso alla guerra (così, sia pure in altre situazioni, l’Onu riuscì ad evitare nel 1956 la guerra per il Canale di Suez).
Abbiamo ricordato in questi giorni, riflettendo sulla figura di Giovanni Paolo II, che il potere del mondo comunista è caduto senza una guerra. Invece non si è saputo cercare la via nonviolenta per portare la pace in Afganistan ed in Iraq, come lo stesso papa Wojtyla cercava e supplicava, e ci siamo immersi nelle tragedie e nei drammi tuttora in corso. Purtroppo anche noi cristiani, malgrado i forti appelli alla coerenza con il Vangelo per il rifiuto della violenza e per la costruzione di una vera pace basata sulla solidarietà, siamo più sensibili all’idolo di “mammona”, cioè della ricchezza
e del potere, che co nducono inevitabilmente alla guerra.
Vorrei fare eco all’appello del Consiglio Nazionale di Pax Christi per sollecitare tutti a «ripudiare la guerra» con convinzione e con impegno, reagendo, muovendoci, appoggiando le iniziative che sorgono, condizionando la vita sociale e le elezioni, facendoci sentire in ogni modo, obbligando così i politici, i responsabili, a cercare e trovare le vie nonviolente ed efficaci per una pace effettiva.

 

di Mons. Luigi Bettazzi

Vescovo emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi
in “Adista” – Segni Nuovi – n. 40 del 21 maggio 2011

don Michele Do: “qui è nato un uomo”

don Michele Do

 

 

 

«Quando in un branco un compagno dà una zampata,

l’immediato istinto dell’animale è la ritorsione.

La prima volta che un animale trattiene la zampata,

avverte l’orrore del sangue e non reagisce alla violenza:

qui è nato un uomo».

 

Di lui mi avevano spesso parlato amici comuni, ma anche laici e sacerdoti che accorrevano lassù nel paesino della Val d’Aosta ove aveva trascorso la maggior parte della sua vita, nella purezza assoluta della natura e della sua meditazione e testimonianza. Sto parlando di don Michele Do (1918-2005) e oggi lo rievoco attraverso queste sue righe che vogliono rappresentare simbolicamente quando si compie la vera ominizzazione.

Noi passiamo dallo stato bestiale a quello umano nel momento in cui il nostro pugno lascia cadere a terra il sasso di Caino o la spada della vendetta o la zampata dell’assalto, e proviamo nausea e orrore della violenza.
Questo è, certo, il primo grande passo verso la nascita dell’uomo, ossia la scoperta del perdono e dell’amore. Ma don Michele va oltre e continua così, prospettando un’altra tappa fondamentale:

 

«Quando uno degli animali che procede nel branco,

alza gli occhi e vede le stelle,

quando ne avverte per la prima volta lo stupore, la meraviglia, il mistero,

quando – come dice Fogazzaro – sente su di sé, sul proprio cuore,

il peso delle stelle: qui è nato l’uomo».

 

La nostra realtà è, infatti, bidimensionale. Noi non guardiamo solo orizzontalmente, incontrando con gli occhi le altre
creature; noi abbiamo un altro sguardo che sale verticalmente, verso l’infinito e il Creatore. È questa l’estrema avventura dell’uomo e della donna, affacciarsi sulle immensità del mistero e cercare di raggiungerle. Siamo un microcosmo che può contenere il cosmo e persino l’infinito, come suggeriva Pascal.

 

di Gianfranco Ravasi
in “Avvenire” del 19 maggio 2011

 

 

 

Don Michele Do
di Carlo Carozzo
in “Il Gallo” del maggio 2011

 

Fra le persone che hanno influito sulla mia formazione spirituale di adulto c’è sicuramente Michele Do, un prete che aveva scelto di vivere in montagna a St. Jacques, un paesino della Valle D’Aosta per ripensare nel silenzio e nella solitudine la sua formazione appassionandosi alla lettura, tra l’altro, dei teologi francesi e di alcuni autori del modernismo. Dopo non molto tempo la sua solitudine prese a essere molto frequentata da cristiani in ricerca e da studiosi di spicco come padre Turoldo e Panikkar che salivano fino alla rettoria per scambiare con lui e attingere alla sua sapienza.

 

Uomo dell’amicizia

Personalmente lo conobbi al Gallo verso il 1964 quando, come ogni anno, passava a salutare e conversare con la

nostra Katy Canevaro. Era l’uomo dell’amicizia considerata da lui «sacramento dell’amore di Dio», fedelissimo agli amici che trovavano sempre in lui accoglienza, comprensione delle loro traversie e dei loro dubbi. Dal 1979 ogni anno salivamo in gruppo da lui come discepoli a un discepolo perché, come diceva lui, non c’è altro maestro oltre Gesù. Noi ci attendevamo che ci parlasse di Dio, come poi accadeva, ma prima ci spiazzava con domande rivolte a noi per stimolare la nostra responsabilità e partecipazione alla conversazione.
Non amava scrivere se non qualche lettera agli amici, era l’uomo della parola appassionata, lucida, serena, mentre la voce si incrinava talvolta quando parlava del mistero del male, suo grande tormento.
Ci voleva allora la pazienza e l’amore di due suoi grandi amici, Piero Racca e Silvana Molina, per sbobinare, ordinare e raccogliere in un libro dal titolo Per un’immagine creativa del cristianesimo le sue relazioni in gruppi, omelie, appunti con lunghe prefazioni di Piero e Silvana, un intervento di Giancarlo Bruni e preziose note di Clara Gennaro. Don Michele aveva affrontato e lungamente macinato i grandi interrogativi dell’esistenza, il male, Dio, il senso della vita, l’uomo che considerava abitato da una legge profonda, «una legge ascensionale, di ascensione in ascensione» (p. 157).

 

Un cammino e una fatica che
non possono essere annullati né abbreviati, neppure da Dio. La pienezza divina, l’interiorizzazione di Dio, il diventare uno con Dio, è come il pane che deve essere guadagnato con il sudore della nostra fronte. Leonardo diceva: «Dio cede tutti i suoi beni a prezzo di fatica e il sommo bene, che è Dio, a prezzo di somma fatica». Non si salta a piedi giunti nel regno di Dio e neanche a colpi di miracoli e di sacramenti, neanche con quello del battesimo (p. 224).

La meta, che è diventare, come in Gesú, «uno con Dio» è dunque senza fine, giorno per giorno, età per età, una fatica sfibrante, si potrebbe dire, ma non è cosí perché Dio attrae nell’intimo e ci dona la forza dello Spirito senza di cui si rimane immobili, ripetitivi, vecchi anche a vent’anni. Questo perché Dio, è Dio, l’inesauribile:

Siccome Dio è l’inesauribile, l’uomo non esaurirà mai il suo cammino ascensionale verso la pienezza. Un traguardo appena raggiunto diventa inizio per un nuovo cammino. Questa è la visione cristiana della vita. Dio è nel cuore dell’uomo, è immanente, ma anche trascendente. Gesú ci dice: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli». L’uomo è, dunque, una realtà che deve essere continuamente trascesa e superata. È una gioiosa trascendenza che fa ascendere, trasfigura e veste l’uomo di grazia e di verità fino al suo compimento, quando Dio sarà tutto in tutte le cose e quindi Dio sarà tutto in tutto l’uomo (pp. 155-156).

 

Due letture del cristianesimo

C’è da un lato la lettura tradizionale. La creazione, e quindi l’uomo, nascono perfetti, poi subentra il peccato di Adamo ed è lí la sorgente del male che intacca la natura e l’uomo in profondità al punto che occorrerà il sacrificio espiatorio di Gesú in cui il Verbo si è incarnato, per placare la collera del Padre, è la Redenzione; in questa logica Cristo fonda la chiesa la quale applica a tutti noi con i sacramenti, in particolare con il battesimo, i meriti, la salvezza e la giustificazione ottenuti da Cristo sulla croce. Ma c’è tuttavia anche una seconda lettura:

Dio non crea il mondo e l’uomo nella sua divina pienezza, lo crea come il fiore del campo che nasce dalla povertà originaria della zolla (…) All’inizio del Genesi si dice: «Dio creò il cielo e la terra, ma la terra era vacua, informe, tenebrosa» (Gn 1, 2). In questa lettura non c’è un peccato originale ed originario, c’è una povertà originaria.
E su questa terra povera, vacua, informe e tenebrosa aleggia lo Spirito. E, a mano a mano che la terra si apre e lo Spirito la penetra e la intride, lí incomincia il cammino ascensionale: dal caos originario, alla bellezza e al miracolo del cosmo
(pp. 219-220).

 

Purtroppo nella sua vicenda storica, senza escludere l’oggi, nella pratica e nella riflessione cristiana ha prevalso il giuridismo stretto alleato del moralismo che non solo hanno impoverito il mistero cristiano, ma anche, se non soprattutto, lo hanno alterato facendo di Dio un grande Faraone dispotico e dell’uomo una creatura infima, pressoché impotente e tenebrosa:

Ricordate il prologo di Giovanni: «E la luce venne e le tenebre non l’hanno accolta … ma a coloro che l’hanno accolta, ha dato il potere di diventare figli di Dio». Ecco il miracolo: compiere questo cammino ed essendo figli di Dio poter fare cose che Dio solo sa fare; questo è il potere che ci è stato dato, non il potere che noi abbiamo impoverito interpretandolo carnalmente. Perdonare i nemici, trasfigurare il dolore, immedesimarsi nel prossimo, queste sono cose divine: qui c’è, infatti, un salto oltre il biologico, oltre l’umano (p. 220).

L’essenziale della fede non è soltanto rispettare la morale nei comportamenti, ma prima di tutto lasciarsi guidare dallo Spirito per giungere a «interiorizzare Dio e fare le cose di Dio: questa è la salvezza» (p. 220), siamo quindi lontanissimi, a tutt’altro livello da quello etico e giuridistico!
L’azione liberatrice della creatura costitutivamente imperfetta è quindi una realtà molto profonda perché essa

è qualcosa in via di creazione, in divenire; è, direi, una realtà in cammino, siamo tutti in itinere, siamo degli itineranti, non dei passanti. Nella visione nichilista, invece, noi siamo dei passanti; veniamo da un nulla e torniamo nel nulla, fuochi fatui nella notte, momenti effimeri dell’effimero, siamo pura inconsistenza. Nella visione religiosa cristiana, veniamo, sí, dal nulla, ma siamo pellegrini verso una patria e verso una pienezza. Homo viator, spe herectus, noi siamo ontologicamente tensione verso Dio, in cammino verso Dio. (…)

Il vero grande esodo, è l’esodo dal nulla alla divina pienezza, e, in fondo, alla radice di ogni religiosità, c’è la grande preghiera indú: «guidami, luce benigna, dall’irreale (dal nulla originario) al reale, dalla tenebra alla luce» (pp. 222-223).
Questi itineranti che noi siamo camminano guidati dallo Spirito verso una divina pienezza, una ascesa che non è indolore, né facile, incontra difficoltà, tentazioni, e conosce anche la croce, nessuno può essere sottratto alla  condizione umana, tanto meno i seguaci di un Crocifisso:

Questo cammino ascensionale dal vacuum, dal caos che è in noi si compie nella lotta, nella fatica, nel dolore e nel travaglio. (…) Non c’è strada di circonvallazione che possa evitare la strada che porta al calvario. Il caos, l’inanis, il
vacuum è legge strutturale (pp. 224-226).

A differenza del Dio di Gesú annunciato forse per secoli, questa immagine delineata, annunciata, vissuta da don Michele non desta paura, ma suscita gioia e una grande serenità, quella che egli ha sperimentato durante una gravissima crisi cardiaca nella quale aveva rischiato di morire:

Il volto di Dio, infatti, è infinitamente piú grande e del cuore e del sogno dell’uomo, ma non contro, né il mio cuore, né il mio sogno. Per questa immagine di Dio allora, amici, lietamente do la vita. Cerco in questa direzione. Cerco perché, in fondo, è una ricerca: non ho soluzioni. Di cominciamento in cominciamento, di ripresa in ripresa, di cominciamenti e riprese senza fine (p. 232).

 

Il male e Dio


Nell’età della cristianità durata per secoli la presenza di Dio era quasi un’evidenza, la società e la cultura erano come impastate con le religioni che in qualche modo spiegavano pressoché tutto. Pure per il Dio di Gesú è stato abbastanza cosí, anche se non solo per il popolo, la sua immagine era spesso perversa, era il Dio che premiava i buoni (non sempre però!) e castigava i cattivi, addirittura la peste veniva da Lui. Oggi nel nostro mondo secolarizzato per lo piú non è cosí. Tutt’altro! Oggi si cercano spiegazioni immanenti per tutto, talvolta pure per i miracoli, riconosciuti dalla chiesa dopo
un lungo processo di ricerca, molti pensano che non esistono perché è quello che la scienza non ha ancora spiegato, ma lo farà in futuro. Quindi credere è diventato molto piú difficile, e in particolare per la presenza del male non sempre spiegabile con le negatività dell’uomo e della natura. Il male, infatti, è l’opposto di Dio, se per troppa buona sorte non esistesse

Dio rientrerebbe nel novero di quelle verità che non si rifiutano se non per difetto di intelletto (…) Ma il male c’è, il male esiste. Ed è l’ostacolo: ostacolo non solo che nasconde o muro che impedisce, ma scandalo che piú radicalmente dice non Dio, dice negazione di Dio. Il male non è solo il silenzio, è assenza di Dio (p. 198).

Talvolta pensiamo che per i santi non sia cosí perché hanno uno sguardo piú profondo e, soprattutto, piú libero e fiducioso in Dio. Eppure santa Teresina di Lisieux, oggi dichiarata dal magistero dottore della chiesa, parlava di un buco nero in cui non si vede piú niente ed era il luogo dove lei stava con il corpo e con lo spirito. E inoltre diceva: «Quando io canto la bellezza, la pienezza e la gioia del regno, voi pensate che il velo per me si sia squarciato; ma non è un velo, è un muro che dalla terra si alza fino al cielo. Io canto quello in cui voglio credere» (p. 206).
La constatazione della presenza del male e dei disastri che provoca è dunque una potenza negativa cosí forte e intensa da non sfuggire a una santa dottore della chiesa. Non è incomprensibile perché le devastazioni che produce hanno interrogato l’uomo di tutti i tempi e ogni cultura ha cercato di rispondere all’unde malum di Agostino elaborando le ipotesi e talora anche le spiegazioni piú diverse. Quella cristiana è stata per secoli ed è tuttora, tranne eccezioni di qualche teologo, il peccato di Adamo che ha prodotto una caduta ontologica della creazione a cominciare dall’essere
umano. Don Michele definisce «follia» (p. 231) questa spiegazione se anche salva l’innocenza di Dio. Da dove dunque il male? Ecco che cosa scrive:


La radice del male originario non è una radice morale, il peccato dell’uomo o il peccato di Dio, ma una radice metafisica. La creazione non è segnata dalla colpa né dell’uomo né di Dio; è segnata ontologicamente dal suo nulla originario. Questa, mi pare, è la radice del male che è nella creazione e che è presente anche nell’uomo» (p. 222).

Al punto che
la vita è ancora, per tanta parte, vacua, inanis et tenebrosa. Simone Weil vede una «dura legge della necessità», che domina, nella vita domina la negatività, e dunque il non-Dio. Ma siamo in cammino (p. 225).

Appunto, questa è la risorsa per non cadere nel nichilismo e attingere la speranza:
…Occorre salire. L’ascensione è legge fondamentale dell’essere, costitutiva dell’essere: salendo conosco, salendo capisco, ma se non salgo non capisco e non conosco, (…) ma questo cammino, amici, è fatica nostra, è conquista nostra, certo in sinergia con la luce» (p. 226).

Dunque salire. È la «legge ascensionale» di cui tante volte ci ha parlato don Michele. Una legge di vita. Una legge di speranza. Nessun automatismo. È una conquista e, insieme, da lasciar essere in noi. Scavando con intelligenza e cautela per scartare tutto ciò che in noi la impaccia. E allora si sprigiona la vita.

 

Vita  Pastorale n. 2 febbraio 2009 - Home Page

In ricordo del grande sacerdote proveniente dalla diocesi di Alba e vissuto in Valle d’Aosta, è statopubblicato il volume Per un’immagine creativa del cristianesimo, curato dai suoi amici.

 

Shahabz Bhatti: il testamento spirituale di un martire

Una lezione di santità

“Fino all’ultimo respiro continuerò a servire Gesù

e questa povera, sofferente umanità”.

 

Lo scorso 2 marzo è stato ucciso, da terroristi islamici, Shahbaz Bhatti,  perché “cristiano, infedele e bestemmiatore”. Era il ministro delle minoranze religiose.

Un mese dopo, al termine dell’udienza generale di mercoledì 6 aprile, Benedetto XVI ha ricevuto suo fratello, Paul Bhatti, medico, per molti anni in Italia, rientrato in patria proprio per proseguire la sua missione e nominato consigliere speciale del primo ministro del Pakistan per le minoranze religiose.

Con Paul ha incontrato il papa anche il grande imam di Lahore, Khabior Azad, amico personale di Shahbaz.

La Bibbia che Shahbaz aveva sempre con sé è ora a Roma nel memoriale dei martiri dell’ultimo secolo, nella basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina.

In Pakistan, su una popolazione di 185 milioni di abitanti, i cristiani sono il 2 per cento, un milione dei quali sono cattolici. Ma anche tra i musulmani vi sono delle minoranze in pericolo: sciiti, sufi, ismailiti, ahmadi.

La legge contro la bestemmia è un’arma impugnata contro le minoranze. Fu introdotta dagli inglesi nel 1927 e mantenuta in vigore nel 1947, dopo l’indipendenza e la separazione del Pakistan dall’India. Per trent’anni non fu applicata. Ma a partire dal 1977, dopo il colpo di stato militare di Zia-ul-Haq, in Pakistan l’islamizzazione è andata crescendo e alla legge contro la bestemmia – rimessa in auge con aggravanti – si sono aggiunte altre norme basate sulla sharia. Ad esempio, occorrono quattro testimoni perché sia provata la violenza sessuale su una donna, che altrimenti è considerata adultera. Oppure, altro esempio, un musulmano che violenta una cristiana, ma poi la obbliga a sposarlo e a convertirsi all’islam, non è più perseguibile per stupro.

Per chi bestemmia Maometto è stata introdotta la pena di morte, e per la profanazione del Corano l’ergastolo. La commissione Giustizia e Pace dei vescovi cattolici del Pakistan ha calcolato che dal 1987 al 2009 sono state 1032 le persone ingiustamente colpite dalla legge contro la bestemmia.

Una di queste è Asia Bibi, una cattolica di 45 anni madre di cinque figli, condannata all’impiccagione nel novembre 2010 e in attesa della sentenza di appello. Fu accusata da altre donne del suo villaggio che erano al lavoro con lei nei campi, tra le quali era scoppiata una lite per l’utilizzo dell’acqua. Anche se venisse assolta o graziata, Asia non si sentirebbe al sicuro, perché vari esponenti musulmani l’hanno minacciata comunque di morte.

Un nuovo caso definito dai vescovi pakistani “di abuso della legge contro la bestemmia per vendette personali” ha colpito nei giorni scorsi un altro cristiano, Arif Masih, nel villaggio di Chak Jhumra.

Una giornata di preghiera per Asia Bibi, Arif Masih e tutte le altre persone arrestate per la medesima accusa sarà celebrata il 20 aprile, mercoledì santo, in Pakistan e in altri paesi. A Roma, nella cappella del parlamento italiano, il cardinale Jean-Louis Tauran celebrerà una messa, che sarà anche in memoria di Shahbaz Bhatti.

Le denunce di bestemmia si fondano sulla parola dell’accusatore, che non può però riferire i contenuti precisi dell’offesa per non essere imputato del medesimo delitto. I giudici temono a loro volta di essere uccisi, come talora è già avvenuto, se assolvono un imputato. Quindi tendono spesso a ritardare la sentenza, senza però concedere la libertà su cauzione. Inoltre, come regola generale, un non islamico, in tribunale, deve avere avvocato e giudice dei musulmani.

Su ciò che la sua uccisione ha significato in Pakistan e nel mondo intero, uno degli articoli più informati e allarmati è senz’altro quello uscito su “La Civiltà Cattolica” con la data del 2 aprile 2011.

 

 

 

 

 

L’ASSASSINIO DI SHAHBAZ BHATTI

di Luciano Larivera S.I.

 



[…] C’è uno stato, il Pakistan, il cui arsenale atomico continua a crescere. Ma la cui stabilità politica è minacciata ogni giorno, e in modo sistematico, da violenza e odio etnico e religioso. Il suo tragico esempio è l’avvertimento, per altri paesi islamici, di come il virus dell’intolleranza religiosa possa andare fuori controllo e condurre progressivamente una democrazia al collasso. […] Per questo non si può dimenticare un eroico e generoso politico pakistano, Shahbaz Bhatti. Un cristiano mite e serio.

*

“Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio e nella crocifissione di Gesù. Fu il suo amore che mi indusse a offrire il mio servizio alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo soltanto tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

“Mi è stato chiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solamente un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino di me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considero un privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia.

“Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, di amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: la gente non odierà, non ucciderà nel nome della religione, ma si ameranno gli uni gli altri, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.

“Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù e io potrò guardarlo senza provare vergogna”.

È il testamento spirituale di Shahbaz Bhatti, ministro federale delle minoranze religiose del Pakistan, nato il 9 settembre 1968 e assassinato lo scorso 2 marzo da un commando estremista nella capitale Islamabad. Era membro del principale partito di governo, il PPP, Partito Pakistano del Popolo. Poche settimane prima aveva chiesto: “Pregate per me. Sono un uomo che ha bruciato le sue navi alle sue spalle: non posso e non voglio tornare indietro in questo impegno. Combatterò l’estremismo e mi batterò a difesa dei cristiani fino alla morte”. Bhatti abitava con la madre e altri familiari. Aveva deciso di non sposarsi per consacrarsi alla sua missione. Non aveva scelto il sacerdozio “perché voleva stare in mezzo alla gente, a contatto diretto con le persone e le loro difficoltà, cosa che spesso i sacerdoti non riescono a fare nel suo paese”.

Il 2 marzo il ministro si trovava con l’autista e una nipote nell’auto di servizio, non blindata nonostante le richieste. Il commando terrorista ha strappato Bhatti fuori dalla vettura e lo ha massacrato con 30 colpi di arma da fuoco. L’assassinio è da attribuire ai talebani pakistani del Punjab. Hanno agito indisturbati e hanno lasciato sul luogo del delitto alcuni volantini firmati Tehrik-e-Taliban-Punjab. Il ministro non aveva voluto la scorta, memore che il suo amico e collega di partito Salmaan Taseer, governatore del Punjab e musulmano, era stato ucciso proprio da un membro della sua scorta, senza che gli altri uomini a sua protezione intervenissero. Era avvenuto due mesi prima, il 4 gennaio. E il suo assassino è stato trasformato in eroe, con una gara tra avvocati per difenderlo gratis.

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Taseer e Bhatti perseguivano l’ideale di Muhammad Ali Jinnah, padre fondatore del Pakistan, di un paese dove, rispetto ai musulmani sunniti, le minoranze religiose (sciiti, musulmani sufi, ismailiti, ahmadi, cristiani, sikh, indù, zoroastriani, bahai…) godano di uguali diritti. Entrambi sono stati “puniti” per aver lottato per l’abolizione o almeno la riforma della legge sulla blasfemia, la radice dei problemi dei cristiani pakistani. Voci estremiste chiedono che venga considerata blasfemia qualsiasi richiesta di modificare la “legge nera”. Tale legge sembra intoccabile. E se ne fa un uso strumentale, soprattutto nel più popoloso Punjab, per dirimere controversie personali anche tra musulmani. C’è l’impunità per chi la fa applicare in forme extragiudiziali. Ma come ha osservato di recente il direttore della sala stampa vaticana, p. Federico Lombardi, questa legge “in sé è veramente blasfema, perché in nome di Dio è causa di ingiustizia e morte”. […] Bhatti voleva tenere in vita la commissione per la revisione della legge sulla blasfemia, voluta dal presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, e presente nel suo programma elettorale per il voto del 6 novembre 2008.

Un’ulteriore colpa del governatore musulmano e del ministro cattolico è di aver chiesto la liberazione di Asia Bibi, una cattolica di 45 anni madre di cinque figli, condannata all’impiccagione nel novembre 2010 per avere offeso il Profeta Maometto, ma in attesa della sentenza di appello. Bhatti non alimentava clamore mediatico sulla vicenda di Asia Bibi, per non rinfocolare la reazione fondamentalista. E, in generale, i cattolici si dissociano dalle iniziative che tendono a innescare un conflitto con le istituzioni pakistane. Ciò nonostante, in occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, la Chiesa cattolica pakistana e i cristiani indiani hanno lanciato l’ennesimo appello per la liberazione di Asia Bibi, che rischia di essere uccisa in carcere. Inoltre hanno affermato che questa donna simboleggia tutte le altre, dietro le sbarre o in apparente libertà, oppresse da disparità, intolleranza e violenza a causa del sesso o della fede professata.

Dopo i funerali di stato nella capitale, il “martire” Bhatti è stato sepolto, alla presenza di 10.000 persone di ogni credo, a Khushpur nei pressi di Faisalabad, in Punjab. In questo villaggio cattolico fondato dai domenicani, il ministro passò la sua fanciullezza. Con l’ultimo rimpasto di governo, il premier Yousaf Raza Gilani del PPP aveva confermato l’incarico a Bhatti, viste anche le insistenze occidentali, nonostante il taglio dei ministri da 60 a 22 per contenere la spesa pubblica, e le pressioni dei partiti islamici di coalizione per eliminare quel dicastero. Bhatti era, inoltre, il solo non musulmano nel governo federale del Pakistan.

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Benedetto XVI, lo scorso settembre, lo aveva incontrato nella sua qualità di ministro; e, nel discorso al corpo diplomatico del 10 gennaio, il pontefice aveva menzionato la legge contro la blasfemia in Pakistan, incoraggiando “di nuovo le autorità di quel paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla”. Inoltre aveva reso omaggio al sacrificio coraggioso del governatore Taseer. Ma una parte dei pakistani non intende ascoltare le parole del papa. In particolare, i partiti religiosi considerano gli interventi di Benedetto XVI un’ingerenza nella politica interna. I fondamentalisti controllano la mente dei loro seguaci, fomentando odio e violenza. Eppure i cristiani hanno buoni rapporti con la maggioranza dei musulmani. Dopo l’Angelus dello scorso 6 marzo, il papa ha rivolto questo appello e ulteriori gesti per confortare i cattolici pakistani traumatizzati dall’omicidio: “Chiedo al Signore Gesù che il commovente sacrificio della vita del ministro pakistano Shahbaz Bhatti svegli nelle coscienze il coraggio e l’impegno a tutelare la libertà religiosa di tutti gli uomini e, in tal modo, a promuovere la loro uguale dignità”.

La gigantografia di Bhatti dal 5 marzo è esposta sulla facciata del ministero degli esteri italiano, per non dimenticare l’uomo e per affermare l’impegno della diplomazia italiana a difesa della libertà religiosa nel mondo. Il ministro degli esteri Franco Frattini, intervistato da “Avvenire” il 3 marzo, ha riferito una confidenza avuta da Bhatti, nel suo modesto ufficio di Islamabad lo scorso novembre: “Mi disse che i suoi avversari stavano cercando di togliere i fondi al ministero per le minoranze religiose, un modo per ridurlo all’insignificanza e, quindi, alla chiusura. E mi disse di aiutarlo a far conoscere il suo lavoro nella comunità internazionale, perché soltanto così avrebbe potuto salvare il suo ministero”. Frattini ha poi aggiunto: “Adesso i codardi di quell’Europa che rifugge dalla condanna del fondamentalismo religioso verseranno le loro lacrime di coccodrillo, alleati di quei codardi che in Pakistan conoscono solamente il sangue degli attentati […]. Penso a coloro che in Europa sono molto attenti al ‘politically correct’, fino al punto di non utilizzare mai, nei documenti ufficiali, le parole ‘cristiani perseguitati’. La ritengo una codardia politica che oggi, di fronte a un nuovo martire, è ancor più scandalosa”. […]

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Davanti a questo crimine terroristico, i vescovi pakistani hanno subito dichiarato e confermato che “si tratta di un perfetto, tragico esempio dell’insostenibile clima di intolleranza che viviamo in Pakistan. Chiediamo al governo, alle istituzioni, a tutto il paese, di riconoscere e affrontare con decisione tale questione perché si ponga fine a questo stato di cose in cui la violenza trionfa”. Essi hanno anche inviato la richiesta alla Santa Sede perché Bhatti sia proclamato martire, ucciso “in odium fidei”. Lo stesso imam della moschea Badshahi a Lahore, Khabior Mohammad Azad, sconvolto per la morte del suo “buon amico” Bhatti, ha denunciato che “la gente non ha più il diritto di esprimere le proprie opinioni” e che “quanti hanno rivendicato l’assassinio non sono musulmani, né esseri umani”, perché “l’islam è una religione di pace, che insegna a rispettare le minoranze”.

Purtroppo gli omicidi motivati dalla religione sono perorati pubblicamente da estremisti islamici come atti che fanno piacere ad Allah e che garantiscono l’immediata salvezza. Ma lo stato pakistano non riesce a prevenire e a sanzionare la violenza contro le minoranze. Anzi, l’odio religioso è alimentato addirittura nelle scuole pubbliche pakistane. Nei testi ufficiali di studio sono esclusi i riferimenti alle minoranze religiose, non considerate parte della nazione. Oltre alla istruzione deformata, ci sono predicatori nelle moschee, in televisione e su internet che proclamano la lista dei nemici da abbattere e così alimentano la “cultura” dell’intolleranza religiosa. Adesso all’indice c’è la deputata Sherry Rehmam, che nel 2010 aveva proposto una modifica della legge sulla blasfemia, senza ricevere l’appoggio del suo partito, il PPP, che l’ha costretta a ritirare l’iniziativa. Vive semi-nascosta e riceve continue minacce di morte. Per altri non resta che cercare asilo all’estero.

Oltre ai cristiani, in Pakistan, sono legalmente discriminati gli ahmadi in quanto non-musulmani ma eretici, e per questo boicottano le elezioni. Ci sono tensioni tra le due scuole sunnite dei Deobandi e dei Barelvi. E la violenza religiosa è sistematica e può colpire tutti. Così, ad esempio, il 4 marzo dieci musulmani sufi, in quanto considerati eretici da altri musulmani, sono stati uccisi nei pressi di un loro luogo sacro vicino a Peshawar. Ma le manifestazioni di piazza delle minoranze o dei musulmani moderati non fanno paura, e la loro voce si perde, oltre che essere esposte ad attentati suicidi. Il 5 marzo, un musulmano, Mohammad Imran, è stato assassinato in un villaggio vicino a Rawalpindi. Era stato scarcerato per mancanza di prove con l’accusa di aver offeso Maometto. Il 15 marzo è morto in carcere Qamar David, un cristiano condannato ingiustamente all’ergastolo per blasfemia. Aveva ricevuto percosse e maltrattamenti dalle guardie penitenziarie. E la sua morte, per arresto cardiaco, desta molti dubbi tra i cristiani. Cadono vittime degli estremisti anche gli attivisti dei diritti umani, come Naeem Sabir, ucciso nella provincia del Beluchistan lo scorso 1° marzo.

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Il Pakistan soffre di innumerevoli lacerazioni etniche e politiche. Il clima di intolleranza è alimentato dagli estremisti omicidi e da leader religiosi radicali, ma anche da avvocati, giornalisti, politici per loro fini egemonici. Nel Beluchistan sono ancora attivi i movimenti separatisti, anche perché la distribuzione della ricchezza è molto disuguale sul territorio pakistano. L’etnia pasthun, pur non cercando la secessione e l’annessione con una parte del territorio afghano, è sempre più dominata dall’ideologia fondamentalista e antigovernativa. Poi ci sono le tensioni con l’India per il Kashmir. C’è inoltre insofferenza nei confronti del governo filoindiano di Hamid Karzai in Afghanistan. Con Pechino, l’alleato più stretto di Islamabad in chiave anti-indiana, si è rafforzata la cooperazione per costruire centrali nucleari. La relazione del Pakistan con gli Stati Uniti è invece sempre più difficile. E il sentimento antiamericano è diffuso anche perché, in territorio pakistano, l’azione della CIA è parzialmente indipendente dalle autorità nazionali, e proseguono gli attacchi dei droni statunitensi contro i talebani afghani e i membri di Al-Qaeda nel Pakistan occidentale.

Inoltre gli estremisti religiosi si sono infiltrati nelle forze armate e nei servizi segreti, che sostengono i talebani afghani ma sono in conflitto con parte dei talebani pakistani, coordinati a loro volta con gli jihadisti che lottano per l’annessione del Kashmir indiano al Pakistan. La costellazione dei gruppi estremisti è ampia e nebulosa. Dietro il paravento di attività educative e caritative, il loro reclutamento si rafforza nelle madrasse, le scuole coraniche, e nei campi dei profughi afghani o degli sfollati dopo le alluvioni della scorsa estate. Per di più le forze armate hanno un forte potere di veto sul governo; ma non sembrano disposte a un colpo di stato, magari su ispirazione islamista, perché la soluzione dei problemi sociali ed economici del paese è fuori della loro portata, e i militari non vogliono rischiare l’impopolarità. Purtroppo il governo e la magistratura spesso sembrano aver capitolato davanti alle ingerenze degli estremisti e dei servizi segreti pakistani. La legge antiblasfemia, nelle sue varie applicazioni, giustifica il terrore politico e scoraggia i pakistani liberali. I musulmani moderati sono stritolati dall’autorità delle forze armate, dal fanatismo religioso e dall’ingerenza dei paesi stranieri, quando favoriscono corruzione, abuso di potere e crimini contro i diritti umani, come la tortura. Le rivendicazioni sociali stanno quindi diventando appannaggio dei fondamentalisti, che però non hanno gli strumenti culturali, tecnici e burocratici per risolvere i problemi di cronico sottosviluppo economico del paese.

L’intimidazione e l’impunità delle violenze estremiste e delle rappresaglie militari sono i cardini su cui si regge il caos pakistano. La stessa fragile identità nazionale rischierebbe di svaporare se queste due pratiche guidassero la costituzione materiale del paese. Inoltre, benché improbabile, non si può escludere che la crescente anarchia pakistana permetta a gruppi jihadisti di impossessarsi di materiale e armi atomiche, di cui gli USA non sembrano conoscere interamente l’allocazione. È il Pakistan il boccone più ghiotto per al-Qaeda, che sta nutrendo ideologicamente l’estremismo interno, affermando che il governo civile di Islamabad è illegittimo, perché irreligioso, e andrebbe distrutto. Così, purtroppo, l’esecutivo e il PPP sembrano ostaggio dei partiti fondamentalisti e degli estremisti.

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Tuttavia Paul Bhatti, fratello dell’ucciso, è stato nominato consigliere speciale del premier per le minoranze religiose. Se nella “Terra dei puri” arriverà quello che resta della “primavera democratica” araba, il nuovo patto sociale pakistano, per bloccare la spirale autodistruttiva, richiede il rapido ristabilimento di un sistema giudiziario penale funzionante. Ciò include necessariamente la riforma radicale della legge antiblasfemia, che giustifica l’uso extragiudiziale della violenza, anche contro chi si converte dall’islam. Nel medio e lungo periodo è indispensabile un sistema scolastico pubblico universale e aperto a un’educazione più moderna, anche per creare valide competenze lavorative. Nuove idee di giustizia e veritiere ricostruzioni della storia del paese possono fare capitalizzare la ricchezza del pluriforme popolo pakistano. Ciò impone che la spesa pubblica non possa essere drenata in modo sproporzionato dalle spese militari, e che la pace con l’India e in Afghanistan sia ritenuta necessaria per lo sviluppo sostenibile del Pakistan. Nel paese non è in atto un conflitto religioso ma politico, col rischio di guerra civile. E il dialogo interreligioso è impotente quando una religione è usata come strumento di potere, di oppressione e di sottosviluppo.

 

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La rivista da cui è stato ripreso l’articolo, stampata con il previo controllo e l’autorizzazione della segreteria di stato vaticana:

> La Civiltà Cattolica

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Khushpur, il villaggio natale di Shahbaz Bhatti, nella fertile pianura del Punjab, è stato fondato da missionari cattolici un secolo fa e i suoi 5 mila abitanti sono quasi tutti battezzati.

Il villaggio è pulito, operoso, ospitale. Ha scuole frequentate. C’è parità tra uomo e donna. Padre Piero Gheddo del Pontificio Istituto Missioni Estere, che l’ha visitato, lo descrive in un articolo su “Tempi” come “un esempio concreto e ben visibile della differenza che passa tra cristianesimo e islam”:

> Ecco perché i cristiani in Pakistan danno fastidio

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Un libro-intervista di Shahbaz Bhatti è uscito in Italia nel 2008, per i tipi di Marcianum Press, l’editrice del patriarcato di Venezia:

Shahbaz Bhatti, “Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza”, Marcianum Press, Venezia, 2008.

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La scheda sul Pakistan del rapporto internazionale sulla libertà religiosa curato dal dipartimento di stato degli Stati Uniti:

> Pakistan

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La catechesi di Benedetto XVI sui santi non canonizzati, sui santi “semplici”, la cui “bontà di ogni giorno” è però “la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità”:

> Udienza generale di mercoledì 13 aprile 2011

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Due messe per un’unica Chiesa

 

 

Un solo rito romano in due forme, antica e moderna.

È la medicina di Benedetto XVI per sanare un disordine liturgico arrivato “al limite del sopportabile”.

Per chi non si fida, è uscito un nuovo documento con le istruzioni

 

Per capire il perché della liberalizzazione della messa in rito romano antico, decisa da Benedetto XVI col motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007 e confermata con l’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi, la guida più sicura continua a essere la lettera ai vescovi con cui papa Joseph Ratzinger accompagnò quel motu proprio:

> “Cari fratelli nell’episcopato…”

In essa, Benedetto XVI descriveva la situazione “al limite del sopportabile” che intendeva sanare. Se non solo i lefebvriani – la cui volontà di rottura era “però più in profondità” – ma anche molte persone fedeli al Concilio Vaticano II “desideravano ritrovare la forma, a loro cara, della sacra liturgia”, cioè tornare all’antico messale, il motivo era il seguente, a giudizio del papa:

“In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”.

La convinzione di Benedetto XVI è invece che “le due forme dell’uso del rito romano possono arricchirsi a vicenda”. Il rito antico potrà essere integrato da nuove feste e nuovi testi. Mentre “nella celebrazione della messa secondo il messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso”.

Il che è proprio ciò che avviene, sotto gli occhi di tutti, ogni volta che papa Ratzinger celebra la messa: col rito “moderno” ma con uno stile fedele alle ricchezze della tradizione.

Nell’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi con la data del 30 aprile 2011, festa di san Pio V, è citato quest’altro passaggio della lettera di Benedetto XVI del 2007:

“Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del ‘Missale Romanum’. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.

E viceversa – ribadisce l’istruzione al n. 19 – i fedeli che celebrano la messa in rito antico “non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della santa messa o dei sacramenti celebrati nella forma ordinaria”.

Ecco dunque il link all’istruzione diffusa il 13 maggio 2011 sull’applicazione del motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007.

> Universæ Ecclesiæ

Mentre questa è la nota di sintesi curata dal direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi:

> “L’Istruzione sull’applicazione del motu proprio…”

Sia l’istruzione che la nota sono state diffuse nelle principali lingue. Così come si trova tradotta in più lingue, nel sito del Vaticano, anche la lettera di Benedetto XVI ai vescovi del 2007.

Curiosamente, però, il motu proprio “Summorum Pontificum” continua ad essere presente nel sito della Santa Sede soltanto in due lingue, e tra le meno conosciute: la latina e l’ungherese:

> Summorum Pontificum

Intanto, il prossimo 15 maggio, IV domenica di Pasqua, sarà celebrata nella basilica papale di San Pietro in Vaticano, all’Altare della Cattedra, per la prima volta, una messa solenne in rito antico.

Il celebrante sarà il cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della congregazione per il culto divino.

Dirigerà il coro, con musiche di Giovanni Pierluigi da Palestrina, il cardinale Domenico Bartolucci, già maestro perpetuo della Cappella Musicale Sistina.

La messa concluderà un convegno sul motu proprio “Summorum Pontificum”, tra i cui relatori figurano lo stesso cardinale Cañizares, il vescovo Athanasius Schneider e monsignor Guido Pozzo, segretario della pontificia commissione “Ecclesia Dei” che ha emesso l’istruzione “Universæ Ecclesiæ”.

Il programma del convegno:

> “Una speranza per tutta la Chiesa”

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Notizie, analisi documenti sulla Chiesa cattolica a cura di Sandro Magister

 

 

Vogliamo di seguito dare una sintetica documentazione sul dibattito in atto:


“Per poter assorbire la… contestazione [dei lefebvriani], il Vaticano ha moltiplicato le concessioni… Ma il risultato finora visibile è di averli incoraggiati a ulteriori appetiti… Sembra che la Chiesa di Ratzinger accetti di farsi liquida, se non babelica. In nome del principio dell’accoglienza ammette che gruppuscoli di cattolici arcaici con preti di loro gusto, anzi, che preti nomadi di passaggio si presentino occasionalmente in una parrocchia per far messe in latino. Le norme prescrivono ora che vengano accontentati… non si ricordava un simile grado di contestazione dell’autorità dei vescovi”
“Torna la messa in latino, per i fedeli che d’ora in poi la chiederanno. I vescovi dovranno mostrare «generosa accoglienza» nel concederla a chi la pretenderà… Ma i fedeli tradizionalisti che vogliono seguire la messa in latino… «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa messa o dei sacramenti celebrati con il rito del Concilio Vaticano II». E devono inoltre «riconoscere il Romano Pontefice come pastore supremo della Chiesa universale»”
“«Generosa accoglienza» verso quanti chiedono il messale precedente alla riforma liturgica, spiega il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, per garantire «la legittimità e l’effettività dell’uso del messale antico e lo spirito di comunione ecclesiale: la finalità papale di riconciliazione non va ostacolata o frustrata, ma favorita e raggiunta»” (ndr.: si continua a non tener conto delle gravi obiezioni alla reintroduzione dell’antico rito, sul rapporto tra lex credenti e lex orandi, sul fatto che la liturgia rinnovata è espressione della nuova consapevolezza di sé della chiesa espressa nel concilio, che in particolare la celebrazione liturgica è una celebrazione della comunità, la maggiore attenzione all’importanza della proclamzione e ascolto della Parola…)
“L’«istruzione… insiste… sulla finalità di riconciliazione» del Papa, ha spiegato padre Federico Lombardi: e infatti da una parte invita alla «generosa accoglienza» dei fedeli che chiedessero la forma extraordinaria, cioè la vecchia messa; dall’altra avverte che questi fedeli «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria»”
Universae, anzi Controversae Ecclesiae. Maggiori incertezze dopo la infelice Istruzione Universae Ecclesiae della Commissione “Ecclesia Dei” “Anche l’ultimo anello della catena – la Istruzione Universae Ecclesiae – risulta schiacciato da un problema strutturalmente insolubile: come si fa a “istruire” intorno ad una contraddizione patente? Più si istruisce e meno si capisce” ” Se all’improvviso – … – un rito “non più vigente”, superato dalla versione riformata dello stesso, torna magicamente in vigore e pretende di valere in parallelo rispetto a quello che lo aveva intenzionalmente emendato, rinnovato e superato, tutto subisce una sorta di deformazione irrimediabile”
“La continuità dell’affezione nei confronti di una forma rituale venerabile e sacra, che innumerevoli generazioni hanno abitato come espressione dell’immutabile tradizione apostolica, è dunque autorevolmente riconosciuta, in base a princìpi sempre condivisi e mai revocati in dubbio, come espressione legittima di una vera sensibilità cattolica.
“Ma come fai a non considerare che le affermazioni della Istruzione contribuiscano ad aprire il varco proprio alla “indifferenza” verso la Riforma liturgica, verso la chiesa comunione, verso la articolazione ministeriale della liturgia e della Chiesa, verso il canto come patrimonio comune, verso la partecipazione attiva, verso la iniziazione cristiana degli adulti, verso la corresponsabilità laicale nella offerta…” “A me pare, francamente, che se si deve lamentare una carenza grave in tutta questa vicenda è proprio una mancanza di stile. Precisamente di quello cattolico.”

 

Interessante editoriale del settimanale cattolico inglese”il clericalismo è ancora molto in voga e rappresenta una chiave di lettura per analizzare le motivazioni culturali che hanno dato origine allo scandalo degli abusi sessuali dei preti all’interno della Chiesa stessa.” ” al clericalismo era stato inferto un duro colpo dall’enfasi con cui il Concilio aveva parlato di sacerdozio comune dei fedeli come conseguenza del comune sacramento del battesimo. Ma è del tutto evidente oggi una reazione clericale tra quanti stanno percorrendo il cammino di formazione al sacerdozio o tra quelli di recente ordinazione” “Il Vaticano continua ad aggiungere munizioni nelle mani della lobby pro-Tridentino all’interno della Chiesa, come è accaduto anche con l’ultima istruzione, Universae Ecclesiae”

 

 

 

 

Festa della mamma – 8 maggio 2011.


“Il latte della mamma non si scorda mai”

 

E’ un titolo un po’ curioso per parlare ancora nel nostro tempo delle mamme. Però una cosa è certa: ciascuna donna famosa, povera, ignorante, culturalmente chic, ad un certo momento della vita desidera ardentemente un figlio. La sua natura non le perdona il tempo dedicato a tante sciocchezze e non all’unica cosa importante per cui è al mondo: generare. Basta guardare alle starlette, cantanti, dive della nostra TV, per rendersene conto.

Però- nello stesso tempo- c’è da spaventarsi per come tuttora le madri siano abbandonate e muoiano ed occorre plaudire alla campagna presentata presso il Ministero della Salute, per la promozione dell’allattamento al seno “Il latte della mamma non si scorda mai”. Si tratta di una campagna itinerante volta a sensibilizzare le neomamme sui vantaggi dell’allattamento al seno per la salute del bambino sia dal punto di vista nutrizionale che su quello affettivo- psicologico, in particolar modo nel Sud Italia, dove si registrano tassi di allattamento al seno esclusivo o predominante mediamente più bassi. Per questo le Regioni individuate per la realizzazione di maggiori iniziative sono state la Calabria e la Puglia(mi torna strano: da sempre le donne meridionali sono state orgogliose di allattare i figli…).
La campagna, che coinvolgerà direttamente le strutture sanitarie locali e le associazioni di settore, prevede un percorso a tappe che toccherà le città di Foggia, Bari, Roma, Cosenza e Reggio Calabria, dove un camper allestito ad hoc farà sosta nelle principali piazze promuovendo l’allattamento al seno attraverso la distribuzione di materiale informativo e attività di sensibilizzazione sul tema (mostre, convegni, consulenze di esperti e di operatori sanitari). Il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella,  ha spiegato il motivo di questo tour:”l’allattamento al seno è un gesto naturale, dobbiamo promuovere e restituire una cultura ‘spontanea’ della maternità. Va modificata anche la percezione comune che se ne ha, non è possibile che oggi venga visto come un gesto sconveniente in luoghi pubblici. C’è troppa paura a essere madri , una paura dovuta alla mancanza di sostegno da parte delle istituzioni, al veder sconvolta la propria vita. Ma anche paura del dolore. In questo senso mi piacerebbe poter allargare la prossima campagna anche alla promozione del parto naturale”( io …potrei farle da testimonial: i miei cinque figli sono nati tutti così)
Inoltre, anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha raccomandato l’allattamento materno esclusivo per almeno i primi sei mesi di vita del bambino e il mantenimento del latte materno come alimento principale fino al primo anno di vita, pur introducendo gradualmente cibi complementari.( cfr. i media  e i quotidiani del 5-5-2011) .

Bello , poi, l’evento organizzato dalla Fondazione Idis – Città della Scienza con un programma ricco di laboratori, incontri con esperti, visite guidate alle mostre e spettacoli al planetario.
All’interno del Science Centre le mamme, insieme ai loro piccoli, scopriranno il meraviglioso mondo delle cure parentali nel mondo animale; partendo con le visite guidate alla mostra sugli insetti per conoscere coleotteri, insetti stecco e insetti foglia, blatte e api, e le loro strabilianti capacità. Si  ammireranno in presa diretta la nidificazione di alcune specie di uccelli, come falchi e barbagianni, però il percorso non potrà che concludersi con i mammiferi, sicuramente i più “materni” di tutto il mondo animale.
Grazie ad Aicote( = Associazione Interdisciplinare COterapie che da molti anni svolge progetti di attività, educazione e terapie con gli animali), si conosceranno mamme e cuccioli di cincillà, cavie peruviane, conigli nani e criceti, apprendendone le esigenze, le cure, la gestione e tutto ciò che riguarda questi piccoli animali.
Ma per la festa della mamma perché non concedersi anche un po’ di tempo esclusivamente per sé e avere qualche suggerimento, consiglio e curiosità sull’essere ancora più belle? Risponderà alle nostre domande il make up artist di “Idea Bellezza” che per l’occasione offrirà prove trucco a tutte le mamme interessate. Nell’ Officina dei Piccoli, poi, i bambini si divertiranno con i laboratori creativi, dove potranno realizzare piccoli regali per le loro mamme, dai fiori di carta, ai biglietti di auguri in carta riciclata, dagli scarabei portafortuna a tanti, tanti cuori di mamma. Le attività di Lacci Sciolti daranno l’atmosfera festosa, con travestimenti e animazioni itineranti in tutte le aree espositive, giochi di squadra e attività ludiche per i più piccoli.

Questo è il bello, ma- purtroppo- c’è anche il lato brutto.

 

 

Il dodicesimo Rapporto sullo Stato delle Madri del Mondo

Secondo il dodicesimo Rapporto sullo Stato delle Madri del Mondo”, presentato a Roma da Save the Children, 48 milioni le donne che ogni anno nel mondo partoriscono senza alcuna assistenza professionale, mille al giorno, 2 milioni quelle che lo fanno in completa solitudine e 358mila quelle che perdono la vita in conseguenza della gravidanza o del parto. Save the Children,  valuta il benessere materno- infantile in 164 paesi del mondo e istituisce una graduatoria, l’Indice delle madri, basandosi su parametri quali gli indici di mortalità infantile e materna, l’accesso delle donne alla contraccezione, la partecipazione delle donne alla vita politica.
Prima in questa graduatoria si conferma la Norvegia, seguita da Australia e Islanda. Nelle ultime dieci posizioni sono, invece, Afganistan, Niger, Guinea Bissau, Yemen, Chad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Mali, Sudan, Repubblica Centro Africana, dove a essere drammatiche non sono solo le condizioni delle partorienti ma anche quelle dei neonati. Secondo il rapporto, infatti, sono oltre  800.000 i  bambini nel mondo che muoiono alla nascita, quasi 3 milioni quelli che perdono la vita entro il primo mese e 8,1 milioni entro il quinto anno.  
E l’Italia? Il Bel Paese quest’anno esce dalla top 20, scendendo dalla posizione 17 alla 21, soprattutto a causa della bassa partecipazione delle donne alla vita politica, allo scarso uso di contraccettivi, alla mancanza di servizi alla famiglia. L’indice, infatti, oltre a prendere in considerazione la sopravvivenza della madre e del neonato al momento del parto e il loro stato di salute nel periodo immediatamente successivo, valuta anche la qualità della vita delle donne, il loro ruolo che ricoprono e il loro riconoscimento sociale. “Ed è su questo indicatore che l’Italia crolla”, spiega Raffaella Milano, responsabile dei programmi Italia- Europa di Save the Children. La percentuale delle donne sedute in parlamento, per esempio, in Italia è pari al 20%,  più bassa che in Afganistan (28%), Burundi (36%) e Mozambico (39%)(Cfr. quotidiani e media italiani dei primi di maggio 2011). Quest’anno poi la sezione italiana della ONLUS ha rilasciato, in concomitanza con il rapporto, anche un’altra indagine, “Piccole Mamme”,  condotta grazie al coinvolgimento di tre organizzazioni non profit impegnate nella tutela delle mamme: CAF Onlus di Milano, Il Melograno di Roma, L’Orsa Maggiore di Napoli. Secondo questa inchiesta, sono oltre 10.000 le mamme teenager (14 -19 anni) nel Bel Paese, molte delle quali già vivono un situazione familiare problematica. Circa 2.500 sono minorenni e fra queste ultime il l’82% è italiano. La maggior parte (71%) risiede nelle regioni meridionali e nelle isole, soprattutto in Sicilia, Puglia, Campania, Sardegna e Calabria, e a seguito della gravidanza interrompe la propria formazione scolastica.  
“Il numero delle mamme adolescenti è rimasto più o meno costante e contenuto negli anni, ma non per questo il fenomeno può essere ignorato”, spiega Raffaella Milano, secondo la quale molte sono le possibilità di intervento: implementare, e istituire laddove non sono presenti, adeguati corsi di educazione sessuale ed educazione alla maternità, ma soprattutto creare servizi di home visiting. E’ molto importante per le neomamme avere a disposizione figure professionali dedicate e formate che le sappiano guidare nella quotidianità della maternità e le aiutino a non abbandonare gli studi”, conclude la responsabile della ONLUS. C’è- inoltre- da tenere presente che per finanziare progetti di salute e nutrizione in 36 paesi, anche quest’anno Save The Children ha lanciato la campagna Every One: fino al 25 maggio è possibile contribuire ai programmi di salute e nutrizione portati avanti dall’associazione, donando 1 euro con un sms al 45599 e 2 o 5 euro chiamando lo stesso numero da rete fissa.

 

 

Se è una Festa della Mamma,

quali parole possono esprimere al meglio i nostri sentimenti, se non quelle del grande poeta Kahlil Gibran che scrive: La parola più bella sulle labbra del genere umano è “Madre“, e la più bella invocazione è “Madre mia”. E’ la fonte dell’amore, della misericordia, della comprensione, del perdono. Ogni cosa in natura parla della madre.


Ma altri degnissimi poeti hanno scritto:

Vergine madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’eterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti si’, che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si riaccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’eterna pace

così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridiana face

di caritate, e giuso, intra mortali,

se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre

sua disianza vuol volar senz’ali

(Poesia per la madre – Dante Alighieri)

 

 

E’ difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile

( Supplica a Mia Madre – Pier Paolo Pasolini)

 

 

Non sempre il tempo la beltà cancella

o la sfioran le lacrime e gli affanni

mia madre ha sessant’anni e più la guardo

e più mi sembra bella.

Non ha un accento, un guardo, un riso

che non mi tocchi dolcemente il cuore.

Ah se fossi pittore, farei tutta la vita

il suo ritratto.

Vorrei ritrarla quando inchina il viso

perch’io le baci la sua treccia bianca

e quando inferma e stanca,

nasconde il suo dolor sotto un sorriso.

Ah se fosse un mio prego in cielo accolto

non chiederei al gran pittore d’Urbino

il pennello divino per coronar di gloria

il suo bel volto.

Vorrei poter cangiar vita con vita,

darle tutto il vigor degli anni miei

Vorrei veder me vecchio e lei…

dal sacrificio mio ringiovanita!

( A Mia Madre – Edmondo De Amicis)

 

 

E il cuore quando d’un ultimo battito

avrà fatto cadere il muro d’ombra

per condurmi, Madre, sino al Signore,

come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,

Sarai una statua davanti all’eterno,

come già ti vedeva

quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,

come quando spirasti

dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,

ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,

e avrai negli occhi un rapido sospiro

(La Madre – Giuseppe Ungaretti).

 

 

… Tu sei di tua madre lo specchio,

ed ella in te rivive

il dolce aprile del fior

dei suoi anni…

( Poesia ad un figlio – William Shakespeare).

 

 

– ‘… Don… don e mi dicono Dormi!

Mi cantano Dormi! Sussurrano

Dormi! Bisbigliano Dormi!

Là, voci di tenebra azzurra…

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch’io torni com’era…

sentivo mia madre… poi nulla

sul far della sera’(

Mia madre – Giovanni Pascoli)

 

 

Mater dolcissima, ora scendono le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe,

gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve; non sono triste nel Nord:

non sono in pace con me, ma non aspetto perdono da nessuno,

molti mi devono lacrime da uomo a uomo.

So che non stai bene, che vivi come tutte le madri dei poeti,

povera e giusta nella misura d’amore per i figli lontani.

Oggi sono io che ti scrivo:

‘Finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì di notte

con un mantello corto e alcuni versi in tasca.

Povero, così pronto di cuore lo uccideranno un giorno in qualche luogo.- ‘

Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che portavano mandorle

e arance, alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, di sale, d’eucalyptus.

Ma ora ti ringrazio, questo voglio, ell’ironia che hai messo sul mio labbro,

mite come la tua. Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.

E non importa se ora ho qualche lacrima per te, per tutti quelli che come te

aspettano, e non sanno che cosa.

Ah, gentile morte, non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro

tutta la mia infanzia è passata sullo smalto del suo quadrante,

su quei fiori dipinti: non toccare le mani, il cuore dei vecchi.

Ma forse qualcuno risponde?

O morte di pietà, morte di pudore.

Addio, cara, addio, mia dolcissima Mater

(Lettera Alla Madre – Salvatore Quasimodo).

 

 

Per i nostri lettori più giovani, ci sono anche libri e canzoni da dedicare alla propria mamma:

Mamma, Mamma lo sai che il tuo fiore sta sbocciando… Mamma, mamma lo sai che l’amore lo sta colorando… (Biagio Antonacci)

Stella stellina, la notte si avvicina, la luna è d’argento rumori più non sento. La mucca col vitello, la pecora e l’agnello, la gatta e il suo micino, la chioccia col pulcino, il bimbo e la sua mamma, tutti fan la nanna. (Ninnananna popolare)

Di parole ho la testa piena, con dentro”la luna” e la “balena”. C’e qualche parola un po’ bisbetica: “peronospora”,”aritmetica”. Ma le più belle le ho nel cuore, le sento battere: “mamma”,”amore”. (Gianni Rodari)

Mamma, solo per te la mia canzone vola, mamma, sarai con me, tu non sarai più sola! Quanto ti voglio bene! Queste parole d’amore che ti sospira il mio cuore forse non s’usano più, mamma! ma la canzone mia più bella sei tu! Sei tu la vita e per la vita non ti lascio mai più! (C. A.Bixio – B.Cherubini, dalla canzone “Mamma”)

Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono. (Honoré de Balzac)

Essere mamma è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Infatti… anche  senza forze  quando c’è un figlio da accudire una forza vitale irresistibile ti guida  per dargli certezze che si aspetta solo da te

(Maria de falco Marotta).

Da Giordano Bruno alla Shoah quei «mea culpa» a sorpresa

 

 

Papa audace in tante direzioni — dalla lotta al comunismo alla predicazione del Vangelo «fino ai confini della terra» — in nessuna Wojtyla fu sorprendente quanto nel «mea culpa» che culminò nella «Giornata del perdono» del 12 marzo 2000.

Nei confronti di quell’eredità Benedetto XVI si pone come prudente continuatore: in due occasioni ha fatto sua la richiesta di perdono per la Shoah formulata dal predecessore e in un’altra ha formulato un proprio «mea culpa» per il peccato della pedofilia del clero.

«Confessione delle colpe e richiesta di perdono» era intitolata la speciale liturgia che si celebrò in San Pietro la prima domenica di Quaresima dell’anno 2000. Sette rappresentanti della Curia romana leggevano altrettanti «invitatori», ai quali rispondeva il Papa con sette «orazioni», riguardanti i «peccati in generale», le «colpe nel servizio della verità», i «peccati» che hanno diviso la Chiesa, le «colpe nei confronti di Israele», le «colpe commesse con comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni», i «peccati che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano», i «peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona». Ecco la seconda confessione di peccato, riguardante «le colpe nel  servizio della verità», che fu letta dal cardinale Ratzinger: «Preghiamo perché ciascuno di noi, riconoscendo che anche uomini di Chiesa, in nome della fede e della morale, hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici nel pur doveroso impegno di difesa della verità, sappia imitare il Signore Gesù, mite e umile di cuore». Così suonò la quarta delle sette «confessioni», riguardante la persecuzione degli ebrei: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il
tuo nome fosse portato alle genti; noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli e, chiedendo perdono a Dio, vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza». A conclusione di quella liturgia penitenziale, Giovanni Paolo pronunciò cinque «mai più» che suonano come una delle utopie evangeliche più forti che siano state affermate nella nostra epoca disincantata: «Mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi». Dal riesame del caso Galileo (impostato nel novembre del 1969) all’ultimo pronunciamento autocritico, riguardante i tribunali dell’Inquisizione (arrivato il 15 giugno 2004, con la lettera di accompagnamento della pubblicazione degli atti del simposio storico sull’Inquisizione dell’ottobre del 1998) sono oltre un centinaio le circostanze in cui Giovanni Paolo ha riconosciuto «errori» e «colpe» del passato e del presente, o ha invitato i cattolici ad applicarsi a questo «esame». Ai temi già detti vanno aggiunti— tra i principali— la tratta dei neri, il maltrattamento degli indios, la strage degli Ugonotti, il saccheggio di Costantinopoli da parte dei «crociati» nel 1204, il rogo di Giordano Bruno nell’anno 1600. Più volte Benedetto in questi sei anni si è richiamato all’atto penitenziale del  predecessore e in due occasioni (il 12 febbraio del 2009 e il 17 gennaio 2010, durante la visita alla sinagoga di Roma) ha fatto sua e ripetuto alla lettera la richiesta di perdono riguardante gli ebrei. L’ 11 giugno 2010 abbiamo invece avuto una richiesta di perdono formulata in proprio dal Papa teologo e proposta a nome della Chiesa per una colpa dei suoi «figli»: lo ha fatto per un «peccato» di oggi—gli abusi sessuali del clero— e non della storia, come invece tante volte aveva fatto Papa Wojtyla ma come lui ha accompagnato il «mea culpa» con l’impegno a fare in modo che quel misfatto non si verifichi «mai più» . Appare dunque chiaro come in questa pedagogia della penitenza e della purificazione Papa Ratzinger segua le orme del predecessore e nello stesso tempo se ne distingua”.

 

in “Corriere della Sera” del 1 maggio 2011

Ma fare festa è sbagliato

 

«Giustizia è fatta!» ha proclamato il Presidente degli Stati Uniti nell’annunciare al suo Paese e al mondo che Osama bin Laden è stato ucciso. Confesso che i sentimenti che mi abitano come cristiano e come cittadino di un Paese che non contempla nel proprio ordinamento la pena di morte sono contrastanti.

Da un lato c’è la soddisfazione legata alla uscita di scena di una persona che, per sua stessa ammissione, ha seminato morte e odio, ha avvelenato la comprensione della religione, usandola come droga per esaltare la violenza, ha inquinato mortalmente la convivenza civile e i rapporti sociali, a livello locale e planetario.

D’altro canto il Vangelo, ma anche la mia coscienza umana, non mi autorizzano a rallegrarmi per la morte di un essere umano, fosse anche il più malvagio sulla terra, fosse anche il nemico mortale che ha attentato alla vita delle persone più care. Non si tratta di evocare l’esortazione cristiana al perdono – argomento su cui a lungo si è riflettuto dopo l’epifania del male assoluto nei campi di sterminio nazisti – ma di riconoscere con gravità e amarezza che la morte di una persona non è mai motivo di gioia: forse di sollievo, perché ormai quel malvagio non potrà più nuocere, anche se il
seme dell’odio gettato non smette per questo di crescere; forse è fonte di appagamento di quel desiderio di vendetta che abbiamo vergogna di confessare e che ci affrettiamo a nobilitare con il termine di giustizia; forse è occasione di rinnovato rimpianto per le vittime della violenza omicida e per non aver saputo fermare prima quello strumento di morte. Ma gioia no, quella non l’ho sentita nascere in me nell’apprendere la notizia dell’uccisione di Bin Laden e non vorrei vederla sul volto di un altro uomo, un uomo come me, un uomo come lo era Bin Laden. Come cristiano penso a Bin Laden ora in giudizio davanti a Dio: quel Dio il cui nome ha bestemmiato per seminare morte e predicare la guerra, quel Dio creatore degli uomini e protettore della vita cui ha dato un volto perverso e mortifero.

E mi è anche difficile fare mie le parole del presidente Obama: «Giustizia è fatta!». E non perché ritenga che l’unica giustizia sia quella divina, che il giudizio autentico sia solo quello che ci attende tutti al cospetto di Dio. Ma perché rimango convinto che ogni essere umano è e resta più grande delle sue colpe, anche quando queste sono spropositate. D’altronde anche la rivelazione biblica e cristiana afferma riguardo all’immagine di Dio impressa in ogni essere umano: l’omicida può smarrire la somiglianza con Dio, ma non può perdere quell’immagine che Dio stesso ha voluto
consegnare a ogni creatura umana, Caino compreso.

Ma anche della giustizia umana ho un concetto che non mi consente di vederla realizzata nell’uccisione mirata di un pluri-assassino: la cattura, il giusto processo, la messa in condizione di non nuocere di un criminale non richiedono necessariamente la sua soppressione fisica e non traggono da questa maggiore autorevolezza o efficacia. Sopprimere l’ingiusto non è ancora fare giustizia: perché giustizia, anche umana, sia fatta, a ciascuno di noi resta un compito che nessuna arma né squadra speciale può svolgere per conto nostro. Resta la vicinanza e la solidarietà con i parenti delle vittime della sua barbarie umana, resta il contrastare nel quotidiano le energie di morte che l’assassino ha scatenato, resta la ricostruzione di un tessuto umano e sociale vivibile, resta il rifiuto di rispondere al male con il male, resta la costruzione della pace con gli strumenti della pace, resta di proseguire tenacemente nell’operare ciò che è giusto. Davvero non basta che un malvagio sia annientato perché giustizia sia fatta.

 

in “La Stampa” del 3 maggio 2011

il cortile dei gentili

 

 

«Un luogo che porti a tutti il contagio della fede»

 

«Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di ‘cortile dei gentili’ dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto». Queste parole di Benedetto XVI hanno prodotto un effetto anche concreto: un dicastero vaticano, il Pontificio Consiglio della Cultura, ha dato il via a un’istituzione, denominata appunto ‘Cortile dei gentili’, per aprire un dialogo serio e rispettoso tra credenti e agnostici o atei.

 

L’evento inaugurale è avvenuto lo scorso marzo a Parigi in contemporanea in più sedi: alla Sorbona, all’Unesco, all’Académie Française e, per i giovani, nel piazzale di Notre-Dame, secondo prospettive diverse. Quel simbolo di apartheid e di separatezza sacrale che era il muro del ‘Cortile dei gentili’ è, quindi, cancellato da Cristo che desidera eliminare le barriere per un incontro nell’armonia tra i due popoli. È con questa ulteriore precisazione paolina che ha senso l’applicazione metaforica del ‘Cortile’ suggerita da Benedetto XVI. Credenti e non credenti stanno su territori differenti, ma non si devono rinserrare in un isolazionismo sacrale o laico, ignorandosi o peggio scagliandosi sberleffi o accuse, come vorrebbero i fondamentalisti di entrambi gli schieramenti. Certo, non si devono appiattire le differenze, liquidare le diverse concezioni, ignorare le discordanze. Ognuno ha i piedi piantati in un ‘cortile’ separato, ma i pensieri e le parole, le opere e le scelte possono confrontarsi e persino incontrarsi, senza per questo rinunciare alla propria identità, senza scolorirsi in un vago sincretismo ideologico.

In questo incontro tra i due ‘Cortili’, una scelta previa è quella della purificazione dei due concetti di base. Da un lato, i ‘gentili’ devono ritrovare una propria concezione dell’essere e dell’esistere così com’era espressa dai grandi sistemi ‘ateistici’ (pensiamo a un Marx o alla celebre parabola sul Dio morto della Gaia scienza di Nietzsche), prima che venissero incapsulati in sistemi politicoideologici o piombassero nello scetticismo e nell’idolatria delle cose o degenerassero nell’ateismo sprezzante, sarcastico e infantilmente dissacratorio. Dall’altro, la fede deve ritrovare la sua grandezza, manifestata in secoli di pensiero alto e in una visione compiuta dell’uomo e del mondo, evitando le scorciatoie del devozionalismo o del fondamentalismo e rivelando che la teologia ha un suo rigoroso statuto metodologico parallelo e specifico rispetto a quello della scienza. Ma oltre a questo, l’incrocio tra le voci diverse può avvenire attorno a temi comuni – anche se affrontati e risolti con esiti eterogenei – come l’etica, l’antropologia, la spiritualità, le domande ‘ultime’ su vita e morte, bene e male, amore e dolore, verità e menzogna, pace e natura, trascendenza e immanenza.

Per questa via si può giungere persino alla domanda sullo Sconosciuto, quell’Ágnostos Theós, il Dio ignoto, a cui faceva cenno san Paolo nel suo celebre discorso all’Areopago di Atene ( Atti degli Apostoli 17, 22-31), e che era ricordato nel brano di Benedetto XVI citato in apertura.
Senza attesa di conversioni o di inversioni di cammini esistenziali, ma soprattutto evitando le diversioni nel vuoto, nella banalità, negli stereotipi, gentili e cristiani – i cui ‘Cortili’ sono contigui nella città moderna possono scoprire consonanze e armonie pur nella loro difformità e possono far alzare lo sguardo a un’umanità spesso troppo curva solo sull’immediato, sulla superficialità, sull’insignificanza, verso l’Essere nella sua pienezza.

 

in “Avvenire” del 5 maggio 2011