Viva ed efficace è la parola di Dio

 

Pastore Corrado (a cura), Viva ed efficace è la parola di Dio (Ebr 4,12). Linee per l’animazione biblica della pastorale, Elledici, Leumann (TO) 2010, pp. 334.

 

Si tratta di una Miscellanea offerta a Don Cesare Bissoli, da parte dell’Istituto di Catechetica dell’Università Salesiana, in cui per oltre un trentennio ha prestato il suo servizio nell’ambito della pastorale e catechesi biblica, con innumerevoli interventi di riflessione e di pratica nella comunità ecclesiale italiana.

Il volume è stato pensato come uno strumento che servisse all’animazione biblica della pastorale, in un momento di affermazione di tale compito da parte del Sinodo sulla Parola di Dio e specificamente nella fase di crescita dell’incontro della gente con la Bibbia grazie anche all’apostolato biblico coltivato sempre più nelle diocesi e nelle comunità cristiane.

L’obiettivo è stato realizzato grazie al contributo di 22 esperti riconosciuti, tra cui sei vescovi, che hanno realizzato il progetto articolato in quattro parti.

Prima parte: elementi di fondazione biblico-teologica della Scrittura nella pastorale. Viene qui trattato il rapporto Bibbia e Tradizione nell’azione pastorale (B. Forte), come incontrare la Bibbia nel contesto culturale di oggi (L. Meddi), la lettura storico-critica e lettura spirituale del Libro sacro (R. Fabris), la relazione tra Parola, libro e lettore per una lettura orante della Scrittura (G. Benzi), il senso del detto gregoriano “La Scrittura cresce con chi la legge” (L. Chiarinelli).

Seconda parte: elementi di contenuto in vista dell’azione pastorale. Leggere la Bibbia e fare teologia (C. Buzzetti), l’AT nel cammino di fede (M. Cimosa), l’AT nella liturgia di rito romano (M. Sodi).

Terza parte: elementi attinenti alla comunicazione. Qui vengono presentate le luci ed ombre nella pastorale e catechesi biblica oggi (G. Giavini), Parola di Dio e ri-figurazioni audiovisive (D. Viganò), Bibbia, arte e catechesi (A. Scattolini), l’animatore biblico e la sua formazione (E. Biemmi), formazione di animatori di Gruppi di Ascolto (G. Barbieri).

Quarta parte. riferimenti ai destinatari. Iiniziare alla Bibbia nella comunità cristiana (A. Fontana), potenziale e limiti dell’incontro del bambino con la Bibbia (F. Feliziani Kannheiser), i giovani e la Bibbia (R. Tonelli), la Bibbia nell’esperienza scout (F. Chiulli – L. Marzona – D. Boscaro), Bibbia e  famiglia (C. Ghidelli), la Bibbia in America Latina oggi (C. Pastore).

Merita ricordare le pagine di inizio e di conclusione del volume. Il Cardinal A. Bagnasco, presidente della CEI, nella sua presentazione con accenti di stima ed amicizia ricorda il servizio di Don Bissoli alla Chiesa italiana. A conclusione lo stesso Don Cesare compie un bilancio del suo lavoro facendo una sintesi della sua bibliografia, che è andata oltre il campo strettamente biblico-pastorale, toccando tematiche riguardanti la catechesi, l’insegnamento della religione, la pastorale giovanile, temi pedagogici… Tutto – egli afferma – “al servizio della Chiesa oggi”. Questa può essere ritenuta la prospettiva di fondo di tutto il suo lavoro.

Gli operatori pastorali e gli animatori biblici possono qui trovare un materiale solido, aggiornato e fruibile per l’animazione biblica della pastorale. (Corrado Pastore)

Nucleare addio, parola di teologo


Intervista a Robert Spaemann a cura di Guido Kalberer

 


La Germania abbandona l’energia atomica. Cosa ne pensa?
«Meglio tardi che mai. Ma l’uscita è solo in una legge e non al 100%. Se ci saranno difficoltà di approvvigionamento energetico la legge potrà cambiare o si potrà rimandare lo spegnimento dei reattori. L’unico modo di prevenire queste eventualità è prescrivere l’abbandono dell’energia atomica nella Costituzione».

È ciò che lei propone?
«Sì, benché io non sia favorevole a scrivere nella Costituzione obiettivi politici di attualità. Ma in questo caso la posta in gioco supera ogni normale metro di paragone umano».

Le energie alternative potranno soddisfare il fabbisogno?
«Se non riusciamo a coprire in modo alternativo il fabbisogno energetico, dovremmo ridurre il fabbisogno.
Non possiamo dare per scontato di avere a disposizione in qualunque momento qualunque quantità di energia. È desiderabile ma non possiamo pretenderlo. Se possiamo produrre energia solo con  una tecnologia che minaccia il genere umano, allora è necessario disporre diversamente».

Quindi dobbiamo fare rinunce?
«Sì. Solo quando l’uomo è con le spalle al muro diventa inventivo. È stato sempre così. Finché si pensa che in caso di emergenza si può fare affidamento su ciò che già esiste, non si mobilitano tutte le forze. Solo la certezza che l’energia atomica non è più in gioco attiverà l’ingegno creativo».

Come risponde a chi dice che non è possibile vivere senza energia atomica?
«Questa sarebbe una costrizione oggettiva, ma non è un argomento: le costrizioni sono oggettive quando vogliamo un certo risultato. Allora si è obbligati a fare una cosa e non altre. Se però questa cosa si rivela impraticabile, bisogna cercare alternative. Chi non lo fa è ostile a innovare».

Occorrono disastri per spingere l’uomo a pensare diversamente?
«Sembra di sì. Questo immenso pericolo avrebbe potuto essere riconosciuto molto prima, considerando che nessuna assicurazione è disposta ad assumersene il rischio».

A cosa serve che Svizzera e Germania abbandonino l’energia atomica se la Russia ha in programma 30 nuovi reattori?
«In primo luogo, abbiamo un beneficio locale spegnendo i nostri reattori. È diverso se un reattore va fuori controllo nel nostro Paese o in Giappone. Si può ridurre il rischio locale, senza dover risolvere il problema globale. Poi possiamo essere un esempio. Qualcuno deve pur cominciare; se la Germania saprà fare a meno dell’energia atomica, ciò avrà ripercussioni sul mondo intero».

Quali sono gli argomenti contro l’energia atomica?
«Soprattutto l’incontrollabilità. Chi assicura che si può fare un uso pacifico dell’energia atomica pone sempre condizioni: per esempio che non avvengano guerre o attentati.
Ma il porre condizioni dimostra che l’uomo non sa controllare questa tecnologia. Si immagina un mondo perfetto in cui le maggiori fonti di pericolo vengono nascoste. E ciò che resta lo si dichiara sicuro. Ma ci sono anche argomenti filosofici. Cosa fa l’uomo quando si serve dell’energia atomica?
L’energia degli atomi è alla base della nostra esistenza materiale. Serve a mantenere la realtà quale essa è. E lo fa pacificamente e senza il nostro intervento. Quando sottraiamo questa energia alla sua funzione naturale, quando scindiamo i nuclei degli atomi e ne liberiamo la forza, tocchiamo qualcosa che ci trascende. È arroganza dire che ce la faremo».

L’uomo si sopravvaluta?
«Sì. C’è una situazione analoga in cui i miei argomenti sono altrettanto categorici: è la manipolazione del genoma umano. Proprio come con l’atomo, anche qui tocchiamo una struttura di base della nostra realtà non come materiale, ma come esseri viventi. Con la costruzione di nuove combinazioni genetiche possiamo mettere in moto processi di cui perdiamo il controllo».

Lei argomenta qui come Jürgen Habermas. L’uomo non può progettare il risultato della sua procreazione.
«Su questo siamo d’accordo.
L’umanità si dividerebbe in due classi: chi fa e chi è fatto. E ciò avrebbe conseguenze imprevedibili».

Lei è contrario anche perché ciò sarebbe una manipolazione del Creato?
«Si deve condurre il dibattito su basi puramente razionali. Ma l’argomento diventa più forte se si evoca il concetto di Creato: permette di imbrigliare la superbia dell’uomo che crede di poter fare
tutto».

Hans Jonas prescrive un’etica della responsabilità verso le generazioni future. Condivide il concetto?
«Sì. In relazione alle generazioni future c’è soprattutto il problema dei rifiuti radioattivi. I responsabili delle tecnologie atomiche dicono sempre: troveremo un deposito definitivo.
Qui si fa della suggestione basandola in modo irresponsabile su un ‘principio speranza’.
Sembrerebbe che Dio abbia il dovere di metterci sempre a disposizione ciò che risponde ai nostri bisogni momentanei. Oltre al dovere di considerare i rischi immediati posti da una centrale atomica, vi è l’obbligo di non costruire un reattore, prima di aver trovato un deposito definitivo per le scorie radioattive».

Dove vede il problema principale dei rifiuti radioattivi?
«Come si può oggi garantire per migliaia di anni la sicurezza di un deposito radioattivo definitivo?
Non abbiamo alcuna responsabilità positiva per le persone che popoleranno il pianeta nel futuro, ma non ci è permesso di rovinare la loro esistenza in modi già prevedibili, per esempio con la contaminazione atomica in aree che diventano così invivibili. Abbiamo l’ingenua e diffusa idea che, a differenza del passato, la nostra civiltà scientifico-tecnologica continuerà all’infinito. È assurdo. Il nostro sapere attuale sarà interamente tramandato e sarà a disposizione delle generazioni future?
Oggi non sappiamo più come sia stato possibile realizzare Stonehenge (sito neolitico con megaliti posti in circolo, ndt). Forse i nostri discendenti non conosceranno più i pericoli ai quali noi consapevolmente li esponiamo.
Non può essere questa la nostra eredità. È sconsiderato aumentare con l’energia atomica il potenziale di pericolo che la natura già contiene».

Lei non riesce a trovare niente di buono nell’energia atomica.
«La prima fissione nucleare servì ad annientare esseri umani. Non è un caso che con la prima applicazione dell’energia atomica si siano sterminate centinaia di migliaia di persone a Hiroshima. ‘Funziona davvero’, fu la prima reazione di Carl Friedrich von Weizsäcker (fisico nucleare e filosofotedesco). L’orrore venne più tardi. Se gli scienziati sono solo scienziati, non saranno capaci di aiutarci».

Per lei non c’è progresso, ma progressi. Cosa vuol dire?
«L’Europa vive da secoli della menzogna del progresso al singolare. Progresso vuol dire: migliore, più veloce, più brillante.
Sono cresciuto nel periodo nazista e fui assillato fino alla nausea con lo slogan ‘Con noi avanza la nuova era’. L’ideologia del progresso la proclamavano anche i nazisti. Il mio scetticismo verso il progresso risale a quel periodo buio: essere poco progressivo mi sembrava meglio che mettere le persone in campi di concentramento e ucciderle. Il progresso può essere meraviglioso, ma anche terribile. Da una parte ci sono progressi nella tecnica anestetica, dall’altra progressi della bomba atomica. A chi nomina il progresso dico: progresso di cosa e in quale direzione?».

Il pensiero cristiano ci porterebbe avanti?
«Certo! In tempi in cui la religione cristiana è stata dominante, non si pensava a un futuro infinito, come si fa oggi. Si aspettava la fine del mondo. Come descritto nel Nuovo Testamento, la storia termina con il ritorno di Cristo. Sì, credo che l’esistenza dell’umanità non durerà così a lungo; e ciò più per ragioni immanenti che non religiose. Il mio scetticismo sul fatto che l’umanità  sopravviverà è alimentato dal modo in cui l’uomo prende ora in mano il suo destino».

Come cristiano lei crede all’Apocalisse. Se siamo destinati a finire, a cosa serve lottare contro l’energia atomica?
«La sua domanda si basa sull’idea erronea che se una cosa accade in natura possiamo farla anche noi: se in natura ci sono vulcani, possiamo anche noi fare vulcani; se in natura un ramo cade su un uomo, allora anche noi possiamo fare lo stesso.

Non sappiamo cosa vuole la natura e quali siano i piani di Dio. Siccome Lenin credeva di conoscere il fine della storia, diceva che coloro che lavorano a rendere felice l’umanità non possono essere sottomessi a regole morali. L’arroganza è nel credere che qualcuno conosca quale sia il fine della storia. La concezione cristiana del termine della storia invece implica un’irruzione dall’esterno e non un immanente paradiso come risultato di uno sviluppo continuo. Il regno di Dio è la conseguenza di una fine improvvisa della storia precedente».

(traduzione di Marco Morosini)

in “Avvenire” del 19 lulgio 2011

Libri digitali

 

aumentano le scelte dei libri digitali. Ora anche in  Israele

 

Libri digitali per gli studenti. Nuovo passo in avanti in Israele verso la progressiva sostituzione dei libri stampati con supporti elettronici.

Una commissione ministeriale ha dato luce verde alla proposta di legge della deputata centrista Einat Wilf che chiede agli editori di testi scolastici di fornire agli studenti anche una copia digitale dei libri, identica a quella stampata, senza spese aggiuntive.

La sostituzione completa fra testo elettronico e testo a stampa dovrebbe concludersi nel giro di cinque anni. Wilf ha reso noto che il suo progetto riceve il pieno sostegno delle associazioni dei genitori di bambini ipovedenti o diversamente abili per la facile adattabilità dei libri digitali alla versione Braille o a quella con lettura ad alta voce.

Nuova luce sul medioevo

 

con la Disciplina Clericalis e Valfrido Strabone

Collana inedita della casa editrice Pacini curata dal professor Francecso Stella

 

Riscoprire l’affascinante e oscuro Medioevo attraverso i testi che lo hanno reso grande. È stato tradotto in italiano “La Disciplina Clericalis”, opera,  in latino, più famosa di Pietro Alfonsi, ebreo spagnolo convertito al cristianesimo. Una raccolta di storielle e aneddoti esemplari che introduce all’interno della letteratura latina medievale temi e forme delle culture orientali, ebraica ed araba, riferibile sia a tradizione orale, sia, a tratti, a capolavori letterari, dal Kalila e Dimna alla Storia dei sette sapienti, dal Pancatantra alle Mille e una notte. L’opera, in sostanza, intende fornire un’istruzione ai “chierici” e influenzerà le raccolte di novelle del Basso Medioevo, dal Decameron di Boccaccio al Novellino.  Un libro davvero sorprendente e che si suppone rappresenti la prima introduzione, nell’Europa cristiana, della narrativa orientale. Comprende ben 33 dialoghi di fonte araba e, in qualche caso, persianaindù.

 

L’opera, in modo più dettagliato,  si compone di un prologo, che tratta del concetto del timor di Dio, e di tre parti centrali, che trattano dei vizi e delle virtù umane, delle relazioni dell’ uomo con il suo prossimo, del rapporto dell’uomo con Dio e della fugacità delle cose terrene. Termina riprendendo l’idea del prologo e l’epilogo consiste in una vera e propria invocazione a Dio. Questa raccolta, è doveroso sottolinearlo, costituisce uno dei testi principali della novellistica medievale e grande è stata la sua fortuna anche in età moderna e contemporanea. “La Disciplina Clericalis” si inserisce nella collana inedita “Scrittori latini dell’Europa Medievale”, curata dal professor Francesco Stella ed edita dalla Casa Editrice Pacini. Esito di un progetto europeo per la conoscenza di testi mai tradotti in italiano, ospita racconti fantastici, poemi epici, storie di furti di reliquie, raccolte di canzoni latine e di aneddoti arabi, lettere, trattati medici, visioni dell’Aldilà e satire sociali che spalancano le porte del pubblico più ampio a un patrimonio sommerso finora riservato a pochi specialisti.

Obiettivo della collana, come scrive il curatore Francesco Stella nella premessa generale, è contribuire a superare “l’oscuramento della memoria testuale del Medioevo latino dai programmi scolastici e da gran parte dei curricula universitari, che lascia inesplorato un patrimonio immenso di invenzioni, racconti, cronache, meditazioni, favole, trattati, visioni, liriche, fatti, luoghi ed emozioni”. Questa limitazione ha impedito a lungo di inserire la conoscenza dell’arte, della religiosità e dell’immaginario medievali in una rete di testi che si potessero leggere in traduzioni accessibili.

Nove i volumi tradotti finora, ma la collana è destinata a crescere con nuovi testi. Tra questi  la prima visione poetica dell’aldilà, antenata della Divina Commedia nel “Valfrido Strabone”, un’opera del più grande poeta dell’epoca carolingia appena diciottenne, che inaugura in mille versi una tradizione tipicamente medievale con un viaggio fra Inferno e Paradiso, che apre squarci potenti sulle figure storiche principali del periodo, sulla società delle corti e delle abbazie,sui movimenti di riforma che agitavano la società del IX secolo. I sogni di un monaco dell’isola di Reichenau, sul lago di Costanza, diventano allora strumento per produrre satira di costume e critica politica in versi di fattura epica.


Eleonora Prayer

 

Bibbia e Corano, i tabù da superare


Oggi, nel mondo musulmano, il Corano non è oggetto di confronto, non viene assolutamente rimesso in discussione.


Alcuni ricercatori musulmani, il più delle volte formati o residenti in Occidente, azzardano qualche interrogativo sulla redazione del Corano, ma incorrono immediatamente nella condanna delle autorità religiose. Il problema dello spirito critico è un problema reale. Tutto quanto riguarda la religione è ancora tabù: è vietato discuterne e lo è ancora di più se si tratta del Corano o della tradizione maomettana; Maometto, la sua vita, ciò che ha fatto e ciò che ha detto, sono tuttora tabù.

Quindi i musulmani non possono parlare delle guerre condotte da Maometto se non in maniera apologetica, per affermare che il suo unico scopo era quello di difendersi dai persecutori. Eppure a leggere le opere delle prime generazioni di musulmani, si rimane colpiti dall’atmosfera più libera che vi si respira. Gli autori esprimevano con molta semplicità il loro punto di vista, positivo o negativo che fosse, per così dire senza complessi.

Lo stesso vale per i rapporti umani di Maometto con altri gruppi, come gli ebrei, i cristiani e soprattutto con i politeisti della città natale e di tutta l’Arabia, nonché per le relazioni con le donne: tutti questi argomenti non sono mai affrontati in modo critico, ma sempre elogiativo e agiografico (dal greco hagios = santo). È lo stile tipico della tradizione cattolica che si adoperava in passato per raccontare la vita dei santi: sono sempre persone straordinarie, che hanno pregato, digiunato e altro ancora sin dall’infanzia. Tuttavia, il lettore sa che quel genere di racconto non vuole essere una descrizione storica dettagliata, ha bensì il solo scopo di incitarlo a imitare le virtù del santo di cui narra la vita.

Ahimè, ancora oggi la vita di Maometto viene raccontata in modo puramente agiografico, si espongono i suoi intrighi come fatti storici realmente accaduti, i racconti abbondano di dettagli presunti, che si amplificano man mano che ci si allontana nel tempo dalla persona del fondatore dell’islam. Sebbene nel Corano non vi sia il seppur minimo accenno ad alcun miracolo compiuto da Maometto, nonostante le richieste avanzate dagli arabi di farne, fosse pure uno solo, a esempio di Mosè e di Gesù, i biografi posteriori ne aggiungono a piacimento. E più passano gli anni, più i biografi scoprono nuovi miracoli, come ha ben dimostrato padre Focà.

Oggi il problema dell’interpretazione del Corano è sicuramente la questione principale sia nella religione musulmana sia nella vita dei musulmani. Molti intellettuali musulmani ne sono consapevoli e sono migliaia coloro che cercano di proporre nuove interpretazioni del Corano, un compito estremamente arduo dal momento che questi studiosi devono scontrarsi con una lunga tradizione e spesso vengono accusati di lasciarsi guidare dall’Occidente e dai non musulmani. Accusa suprema!

In che cosa consiste il problema dell’interpretazione del Corano? Il Corano è presentato come «disceso» dal cielo su Maometto, il quale lo ha proclamato ai suoi contemporanei. Alcuni di essi lo hanno memorizzato nel proprio «petto» (sudur) e dopo qualche decennio lo hanno dettato a degli scribi. In un’ultima fase, i fedeli hanno raccolto tutte queste pagine sparse, scritte su svariati supporti (palme, ossa, ostraca, carta, eccetera), per farne un libro. La stessa parola utilizzata per «libro», mus-haf, non è di origine araba, è bensì un termine etiopico che stava a indicare la Bibbia. Tutte queste osservazioni di carattere filologico sono importanti in quanto permettono di vedere come l’islam nascente abbia integrato elementi provenienti dalla cultura cristiana o dalla cultura giudaica (per le questioni di ordine rituale e giuridico).

Il Corano si presenta quindi come il risultato di questo insieme di procedure. La discesa su Maometto, la declamazione di Maometto, la deposizione di tale declamazione nei «petti» di coloro che l’hanno memorizzata, la recitazione della deposizione ad alcuni scribi, la collazione dei fogli sparsi in un libro che è il Corano. Tutto questo è solo la prima fase.

Il passo successivo venne con l’unificazione del Corano e l’eliminazione di tutte le varianti; si passò poi, con l’inizio dell’VIII secolo, a distinguere le consonanti mediante l’indicazione dei punti. Per finire, nel IX secolo, sotto la pressione dei sapienti furono aggiunte le vocali. Un lungo processo, durato due secoli, che ha portato a un testo: il Corano.

Un testo che i musulmani hanno provveduto a sfrondare di tutte le modalità con cui è stato trasmesso per poter infine affermare che viene direttamente da Dio, che è la parola di Dio trascritta fedelmente e alla lettera, senza possibilità di errore. Tutti i libri musulmani che citano il Corano insistono sulla fedeltà della sua trasmissione in contrasto con la supposta infedeltà della trasmissione dei Vangeli.

A tale scopo, essi fanno riferimento alle teorie più liberali dell’esegesi cristiana, affermando che parecchie generazioni separano il momento in cui il testo dei Vangeli fu stabilito definitivamente, alla fine del I secolo o all’inizio del II secolo, e la morte di Cristo intorno al 30 d.C. Cosa che, al contrario, non succede per il Corano, che è stato trascritto fedelmente senza ombra di errore, poiché, come tutti sanno, i memorizzatori (hafiz, huffaz) e i trasmettitori avevano una memoria da elefanti e Dio ne garantiva l’infallibilità! Si vede dunque come il fenomeno sia stato mitizzato. In virtù di questa mitizzazione del testo coranico, si è giunti ad affermare che il testo oggi in nostro possesso è il dettato letterale fatto da Dio a Maometto, trascritto fedelmente.

Si dice, in termini concreti, che Dio «ha aperto il petto del profeta» e l’arcangelo Gabriele vi ha depositato il Corano. In seguito Maometto non ha dovuto far altro che attingere, per così dire, da questo deposito per recitare i versetti utili in ogni circostanza. Si può quindi concludere che non vi siano intermediari. In questo modo di pensare non possono esserci interpretazioni: l’interpretazione consiste unicamente nell’accertarsi del senso esatto delle parole.

In realtà le prime generazioni di musulmani non hanno mai seguito questa linea di pensiero. Al contrario hanno tentato di comprendere ciascun versetto spiegando il contesto nel quale la frase era stata pronunciata da Maometto. Esistono interi libri, decine di libri (spesso di svariate migliaia di pagine) nella letteratura arabo-islamica che parlano di quelle che vengono definite le circostanze della «discesa» (asbab al-tanzil, che altri chiamano asbab al-nuzul) nel senso di «rivelazione».

Quindi ciascun versetto sarà spiegato in funzione delle circostanze presunte nelle quali Maometto avrebbe trasmesso la parola di Dio. Si tratta di un fatto importantissimo, eppure oggi questo contesto viene completamente ignorato.

 

 

Samir Khalil Samir

E’ ancora tempo di primo annuncio

 


A Matera Bibbia, arte e comunicazione

 

 

 

Il “Corso interdisciplinare Bibbia, Arte e Comunicazione”, organizzato dal Settore Apostolato Biblico dell’Ufficio Catechistico Nazionale e dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della CEI, sarà inaugurato mercoledì 6 luglio alle 17 dal coordinatore, don Pasquale Giordano e, quindi, dalla relazione “Primo annuncio e Nuova Evangelizzazione” di don Carmelo Sciuto, Aiutante di studio dell’Ufficio Catechistico Nazionale. La giornata di giovedì 7 prevede, dopo la lectio divina sul Vangelo del giorno (che sarà offerta quotidianamente da  don Cesare Mariano, Docente di Sacra Scrittura della Diocesi di Acerenza), la relazione di Rosalba Manes, Biblista e docente di S. Scrittura all’Ecclesia Mater di Roma (“Paolo e il suo vangelo: dall’evento all’annuncio”). Seguirà un laboratorio su pagine scelte dell’epistolario paolino. Alle 16 don Franco Mazza, della Pontificia Università Urbaniana di Roma, interverrà su “Il vangelo e i linguaggi mediatici”, dopo di che sono previsti un laboratorio e un cineforum.

Venerdì 8 luglio il programma prevede la relazione di don Sebastiano Pinto, Biblista della Facoltà Teologica Pugliese, su “Vangelo di Gesù Cristo (Mc1,1): dall’esperienza alla testimonianza scritta”, cui seguirà un laboratorio sui “Vangeli dell’infanzia”. Nel pomeriggio, suor Maria Luisa Mazzarello e Suor Maria Franca Tricarico, docenti di Catechetica e di Arte presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione dell’Auxilium di Roma, interverranno su “Il Vangelo nell’arte”, prima di un altro momento di laboratorio e in serata una lettura teatrale, aperta al pubblico, del Pianto della Madonna di Jacopone da Todi, a cura dell’attore Michele Casella.

Sabato 9 luglio al mattino sarà la volta di don Pasquale Giordano, del Seminario di Potenza e Coordinatore del corso, che interverrà su “Evangelizzate andando: il dinamismo dell’annuncio evangelico in Atti”, relazione che precederà un laboratorio su alcune pagine scelte degli Atti degli Apostoli. Alle 16 Annalisa Guida, docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, terrà una relazione su “L’arte narrativa dei vangeli apocrifi”, dopo di che è previsto ancora un laboratorio. Il corso si chiuderà domenica 10, con don Ivan Maffeis, Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, che terrà la relazione “Il rischio dell’annuncio e/o la via della testimonianza”, mentre alle 11 Mons. Salvatore Lagorio, Vescovo di Matera – Irsina, presiederà la Celebrazione Eucaristica insieme alla comunità locale.

Sì all’abbronzatura finta, no a interventi al naso

 

 

Un teologo morale inglese spiega perché si dovrebbe riflettere attentamente prima di chiedere interventi di chirurgia estetica.



Ornare il proprio corpo è una cosa antica quasi quanto l’umanità stessa. Essere come Dio ti ha fatto, storicamente parlando, non è stato mai abbastanza per la maggior parte delle culture del pianeta.
Invece di accontentarsi di star bene così, la gente da tempo immemorabile si è abituata a perforare, tatuare, rimuovere chirurgicamente certe estremità, anche tutte, si presume nella convinzione che queste azioni potessero migliorare il proprio corpo.


Molto prima che si giungesse all’età moderna con la sua capacità di trasformare le fattezze umane mediante la chirurgia plastica ed estetica, le culture primitive stavano già facendo questo. Ötzi, l’Uomo rinvenuto dal ghiaccio in Tirolo, il cui cadavere risale al Neolitico, ha dei tatuaggi, così come molte mummie dell’antico Egitto, risalenti a circa 2.000 anni fa. Anche in questo caso, ci sono prove che le mutilazioni genitali femminili (come si chiamano ora) risalgano ad almeno due millenni fa, e la circoncisione maschile deve essere ancora più antica. E non si sa chi fu il primo a bucare il lobo dell’orecchio per indossare gli orecchini. Queste sono solo alcune comuni modifiche del corpo, diffuse ancora oggi da noi: per fortuna l’idea di indossare anelli al collo per allungarlo non è andata diffondendosi oltre la cosiddetta “donna giraffa” della regione del Paudang in Myanmar.


Ma è nella nostra epoca che l’ornamento del corpo decolla sul serio. Con la chirurgia moderna poi si può fare molto di più. Lifting, miglioramenti al seno, riduzione del seno, interventi al naso, tutti questi sono diventati non solo possibili, ma vengono considerati persino di routine. E sappiamo tutti di chi ha intrapreso queste procedure troppo lontano nel tempo. Basta andare a vedere su Google le immagini di Michael Jackson da giovane per constatare gli interventi chirurgici cui è andato incontro, producendo quell’aspetto che i giornalisti amavano definire “bizzarre”. Lo stesso vale per quella signora chiamata “la sposa di Wildenstein”, una donna che si è letteralmente rovinata il volto con il ripetersi di procedure cosmetiche.


Prima di soccombere di fronte all’orrore di tutto questo – e questi esempi estremi sono davvero agghiaccianti – è importante sottolineare la differenza tra la chirurgia plastica e chirurgia estetica. La chirurgia plastica si occupa del recupero di forma e funzione di alcune parti del corpo. Molto di tutto questo è davvero essenziale – il trattamento delle vittime di ustioni e la ricostruzione, per esempio, di volo e mani dopo un incidente. Gli interventi di chirurgia cosmetica – alle volte chiamati chirurgia estetica – sono invece interventi chirurgici volti a migliorare l’aspetto di una persona. Questo a volte può anche essere lodevole: se qualcuno ha una deformità che deteriora gravemente la qualità della propria vita, è perfettamente accettabile: se il rischio di un intervento chirurgico è proporzionato al beneficio che si otterrà, per correggere la deformità, è positivo.


L’idea di proporzionalità costi/benefici è uno strumento importante dal punto di vista morale nel considerare se tali operazioni debbano andare avanti. Qualcuno la cui vita è stata resa difficile per via di un naso troppo grande potrebbe giudicare l’intervento chirurgico un piccolo prezzo da pagare,
nel caso che la rinoplastica possa migliorare in qualche modo la socializzazione. Qui, un chirurgo e uno psicologo avrebbero bisogno di consultare il paziente circa la strada migliore da intraprendere.
Ma cosa accade quando qualcuno vuole soltanto ottenere un aspetto esteticamente migliore, e pensa che il modo migliore per ottenerlo sia un naso più piccolo o un seno più prosperoso? Si può dire che il problema della chirurgia sia giustificato dalle ragioni avanzate sopra?


Come regola generale, la chirurgia non deve essere mai intrapresa senza un motivo serio. I motivi psicologici possono anche essere anche di grave entità, ma il desiderio di un aspetto migliore è immediatamente da ritenersi sospetto. Le apparenze sono per loro natura molto superficiali.
Cambiamo i nostri vestiti regolarmente, e alteriamo il nostro “look” – questo è un fatto che riguarda la moda in sé – ma possiamo davvero, ritenerci nel giusto se consideriamo il desiderio di cambiare, anche di molto, la nostra stessa carne ? Questa sembrerebbe essere non solo una misura estrema, ma fondamentalmente sbagliata. Il modo con cui si guarda a questioni di natura fisica – sarebbe sciocco negarlo – non dovrebbe importare più di tanto. Guardiamo a quanti mezzi abbiamo per indossare il make-up o sfoggiare un’abbronzatura, anche finta, ma risparmiamo il bisturi su noi stessi.
Indossare il make-up, anche andare dal parrucchiere, è un po’ come arrendersi alla pressione sociale per un aspetto più attraente, ma il ridurre chirurgicamente il proprio naso per apparire migliori davvero alla lunga ha il sapore di una resa. A questo punto potrebbe essere utile ricordare le parole
del grande Ann Widdecombe: “Ho trentadue denti, mi sento losca, brutta, sovrappeso, una zitella: che diavolo?”. Eppure lei era come Dio l’ha fatta, e noi siamo tutti quanti nelle sue stesse condizioni.


Ora il desiderio di modificare il proprio aspetto di per sé non è sbagliato, ma occorre valutarne anche la proporzionalità, vale a dire ci sono alcune altre considerazioni morali da valutare. Prima di tutto, si vuole davvero operare un cambiamento? Questo desiderio è il frutto di una decisione matura e deliberata? O in questo si è solo costretti dalla pressione esterna? A volte questo tipo di pressione è fin troppo facile da riconoscere (come nei casi di ragazze forzatamente sottoposte a mutilazioni genitali femminili), a volte, come in Occidente, è molto più sottile, ma comunque reale.
In secondo luogo, alcune procedure chirurgiche sono semplicemente sbagliate. Le mutilazioni genitali femminili costituiscono un buon esempio di questo: si tratta di un comportamento intrinsecamente negativo, sbagliato in sé, a prescindere dalle circostanze. Il motivo è che tale procedura non può mai essere per il bene della persona che viene “tagliata” in questo modo. Dal punto di vista medico può portare a complicazioni future, in modalità diverse: è impossibile pertanto vedere questo come qualcosa che sia un bene per la ragazza che lo riceve, ma piuttosto è qualcosa che la ragazza si vede imporre dalla società per un suo presunto bene. La circoncisione maschile, che può anche avere benefici per la salute, non è sbagliata di per sé, e può essere anche  giusta, a patto però che si svolga nelle condizioni adatte. Alcune procedure cosmetiche sono banali, nel senso che sono facilmente reversibili – come il taglio dei capelli, o la rasatura. Altre sono gravi, e se non ci sono motivi seri che le giustifichino, sono da ritenersi sbagliate.


Le donne (perché accade quasi sempre alle donne) devono resistere alla pressione a conformarsi a una forma particolare del corpo, di solito una forma del corpo che esse stesse, se fossero lasciate loro a decidere di loro stesse, non si sarebbero mai sognate di scegliere. Pensate alla figura della clessidra, così popolare nel XIX secolo. Alcune donne hanno una figura a clessidra naturale, ma altre hanno fatto interventi innaturali per ottenerne l’aspetto, come l’ingestione di tenie o la rimozione chirurgica di alcune costole. Questo non solo è contrario alla virtù della prudenza, ma rappresenta anche uno sforzo sproporzionato e, a guardare bene, rappresenta una pericolosa forma di ossessione del sé, del proprio aspetto fisico.


Francamente, il nostro modo di presentarci non è poi così determinante. La bellezza è solo una cosa esteriore e, come dice San Paolo: “Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, ma come si conviene a donne che onorano Dio con opere buone” (1 Tim 2,9-10). Questo dell’Apostolo non è il pensiero di un musone o un guastafeste, ma di uno che parla con buon senso. E’ il come sei dentro, ciò che conta veramente. Così che l’eccessiva enfasi sull’apparenza rappresenta quasi una forma di idolatria.


La maggior parte delle persone che leggono questo articolo probabilmente hanno dedicato anche oggi parte del loro tempo al proprio aspetto: anch’io ho spazzolato i capelli e mi sono lavato i denti, questa mattina, non solo per il mio bene, ma anche per quanti mi stanno intorno. Non sto sostenendo l’idea di vestire in maniera spartana, come messo in mostra dalla defunta moglie di Mao. Sto solo dicendo che abbiamo bisogno di mantenere una proporzione nelle cose, e che questo potrebbe riguardare soprattutto quanti si sentono sotto pressione per cercare di rispondere a diverse “presunte” necessità dettate dal costume sociale.

 


Padre Alexander Lucie-Smith è un teologo morale e autore di Narrative Theology and Moral
Theology (Ashgate, 2007).


in “Catholic Herald” del 4 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)

Sapienza pastorale formato famiglia

 

Un Master in Scienze del Matrimonio

 

 

 

Il Master offre una formazione accademica interdisciplinare in Scienze del Matrimonio e della Famiglia per sostenere quanti operano da esperti nella pastorale familiare, attraverso una preparazione specifica che li abilita a testimoniare e ad annunciare nelle comunità il “vangelo del matrimonio e della famiglia”. In particolare, si propone di preparare, al servizio delle Chiese locali, formatori di formatori nel campo della pastorale familiare; sposi capaci di dare un contributo competente e significativo allo sviluppo della teologia del matrimonio e della famiglia; esperti in tematiche riguardanti la visione integrale della persona, il disegno di Dio sull’amore umano e il valore della vita; animatori che valorizzano l’apporto della teologia, della filosofia e delle scienze umane nell’ambito della cultura e della vita sociale a servizio della famiglia.

Il Corso ha durata triennale, in forma ciclica, e richiede un numero minimo di 25 iscritti. Il percorso formativo si struttura in tre settimane intensive di frequenza ogni anno (una in primavera e due in estate), cui si aggiungono dei corsi integrativi in modalità e-learning, dei percorsi di insegnamento guidato (tutoring) e uno stage organizzato nella diocesi di appartenenza in accordo con l’Istituto Giovanni Paolo II. Per ottenere il titolo lo studente, superati gli esami delle materie previste, elabora una ricerca specializzata da presentare e discutere in sede di esame finale di grado. Oltre la discussione di tale elaborato, l’esame finale consisterà in una prova orale interdisciplinare. Il Master è diretto specificamente a coppie di sposi che operano o intendono operare nel campo della pastorale familiare, ma si rivolge anche a tutti coloro che, a diverso titolo, sono interessati a una formazione personale e all’abilitazione a un servizio ecclesiale qualificato nell’ambito dei temi e delle problematiche della vita di coppia e di famiglia. Sono ammessi al Corso di Master coloro che possiedono un diploma universitario almeno di primo grado. Alla fine del percorso formativo, si consegue il titolo di Master universitario con riconoscimento canonico.

Anche il Corso estivo di diploma in Pastorale Familiare è una tradizione ormai consolidata che ha già visto la partecipazione di centinaia di famiglie, di sacerdoti, di religiosi, di seminaristi e di persone singole. Quasi tutte queste persone sono impegnate nella pastorale familiare delle diocesi e delle parrocchie. Mira alla formazione di animatori qualificati di pastorale familiare nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle varie aggregazioni che si propongono di accompagnare e sostenere le famiglie nella loro crescita umana e spirituale e nel loro compito a servizio della Chiesa e della società. L’insegnamento ha carattere interdisciplinare ed è finalizzato alla “sapienza pastorale”. Il Corso ha durata triennale, in forma ciclica. Il percorso formativo si struttura in due settimane intensive di frequenza per ognuno dei tre anni: le lezioni si svolgono dal lunedì al sabato. Il pomeriggio è libero per le attività ricreative della famiglia. L’iniziativa è aperta a coppie di sposi, sacerdoti, religiosi/e, seminaristi, persone singole che, a nome della propria Chiesa particolare, si preparano a divenire “animatori di pastorale familiare” a vari livelli. Sono ammesse al Corso di diploma persone in possesso di un titolo quinquennale di studio di scuola media superiore. Alla fine del percorso formativo, si consegue il Diploma in Pastorale Familiare.

Tanto per il Corso come per il Master, è possibile reperire ulteriori informazioni consultando il materiale disponibile nel sito www.chiesacattolica.it/famiglia. *

Geografia dell’Italia cattolica

 

 

Cartocci Roberto, Geografia dell’Italia cattolica, Il Mulino, Bologna 2011, EAN 9788815150608, pp. 200 , Euro 15,00.

 

Descrizione

 

 

Secondo un’opinione diffusa il cattolicesimo è un tratto unificante degli italiani, con una tradizionale frattura tra Lombardo-Veneto “bianco” e regioni “rosse”. Ma quanto c’è ancora di vero in questa geografia? Quanti sono i cattolici praticanti e in quali aree del paese sono più numerosi? Da alcuni interessanti indicatori (frequenza alla messa, otto per mille, insegnamento della religione, matrimoni civili, nascite fuori dal matrimonio) risulta che i praticanti sono una minoranza del 30-40% concentrata nelle regioni del Sud, la vera zona “bianca”. Per un verso, dunque, il cattolicesimo si accompagna a una sindrome meridionale fatta di minore ricchezza, inefficienza delle istituzioni e carenza di capitale sociale; per un altro, nella generale crisi della partecipazione sociale e politica, i movimenti ecclesiali costituiscono una risorsa tale da fornire alla Chiesa-istituzione un forte potere di veto.

 

 

Il Dio personale degli italiani. Al Sud la messa non è finita
di Michele Smargiassi
in “la Repubblica” del 7 luglio 2011


A Verona si celebrano più matrimoni civili che a Modena. A Belluno nascono più bambini da coppie non sposate che a Lucca. I goriziani negano il loro otto per mille alla Chiesa più dei pisani. A Venezia la quota di studenti che “non si avvalgono” dell’ora di religione cattolica è identica a quella di Ravenna. Ma dove sono finite le “regioni bianche”, il Triveneto devoto, il Nord-Est cattolico, fabbrica di papi e serbatoio di voti democristiani? Certo, i veneti vanno ancora a messa (uno su tre) molto più dei toscani (uno su cinque); ma lontano dal sagrato, nelle scelte individuali, intime, familiari, private, l’etica dell’Italia che per decenni fornì un modello di modernità credente, antagonista di quello scristianizzato ed edonista delle “regioni rosse”, ormai appare definitivamente omologata al resto del Nord. Dove al massimo si declina il comportamento religioso su modelli personali. La pratica più intensa della fede è colata giù, lungo i meridiani, di parecchie centinaia di chilometri. Basta una sola occhiata ai colori stesi da Roberto Cartocci, docente di Scienze politiche
a Bologna, sulla mappa che riassume la sua Geografia dell’Italia cattolica, per rendersi conto che negli ultimi anni è avvenuto, silenziosamente, un terremoto nei costumi religiosi nazionali. Un travaso di coscienze, una decantazione, un’elettrolisi che hanno spezzato in due il paese: al Nord la secolarizzazione, al Sud la devozione.


Lo studio che Cartocci e la sua équipe hanno realizzato per l’Istituto Cattaneo di Bologna (e pubblicato in volume da Il Mulino) mettendo a confronto tutti gli sparsi indicatori dei comportamenti in qualche modo legati alla morale cristiana, a prima vista non offre sorprese particolari. Tutti i trend che ci si potrebbe attendere dall’avanzata della società del disincanto sono rispettati: calano pian piano i matrimoni all’altare, si spopolano via via le navate, soprattutto di adulti in età attiva (25-44 anni), le coppie di fatto salgono in dieci anni dal 3,5% al 5,5%, e tutto questo avviene specialmente nelle grandi città, tra le classi più istruite e ricche, tra i maschi adulti, eccetera. Un lento processo in corso da almeno mezzo secolo, che erode però soltanto quello che i
sociologi chiamano “cattolicesimo di maggioranza”, quella massa di italiani pari grosso modo al cinquanta per cento della popolazione che si limita a rispettare i precetti più generali, a far capolino in chiesa a Natale e Pasqua. Resiste invece, almeno da un ventennio, attorno al trenta per cento, il “cattolicesimo di minoranza” di chi va a messa tutte le domeniche, al cui interno si rafforza addirittura, ed è un’eredità della spinta di Wojtyla, un dieci per cento di “cattolicesimo militante” fatto di animatori di parrocchia e di membri attivi dei movimenti ecclesiali.


Sulla base di questi indicatori è difficile dare una risposta univoca alla domanda fondamentale: gli italiani sono ancora cattolici? Ma certo, è quel che mostrano di essere nei loro comportamenti maggioritari: sei coppie su dieci si sposano all’altare, otto bambini su dieci nascono dopo le nozze, nove contribuenti su dieci regalano l’otto per mille alla Cei (e quindi lo fa anche la metà di quel venti per cento che non mette mai piede in chiesa), e nove ragazzi su dieci frequentano l’ora di religione a scuola. Ma questi parametri definiscono la fede o il conformismo sociale? Se è cattolico chi obbedisce almeno al precetto di santificare le feste (lo fa il 32,5%), bisognerà ammettere che in Italia i credenti sono solo una robusta minoranza, poco più di 18 milioni di persone, bambini compresi. E tuttavia «sono l’unica minoranza attiva e coesa che sia sopravvissuta alla crisi delle grandi ideologie», precisa Cartocci: dall’altra parte infatti non c’è un’organizzata, crescente e nuova moralità laica, ma solo un patchwork frutto della somma tra agnosticismo più o meno ideologico, materialismo distratto e consumista e religioni importate, dove i non-praticanti per convinta scelta non aumentano: sono il 15% da dieci anni.


Messo nel conto il disincanto generale della modernità, le cifre assolute di questa ricerca non dovrebbero dunque allarmare troppo i vescovi italiani. Le quantità, no. Ma la distribuzione territoriale invece sì, e parecchio. Perché il processo di secolarizzazione se non è travolgente, non è affatto omogeneo. Una polarizzazione fortissima è emersa: un confine antico che ricalca quello del regno borbonico, tagliando lo Stivale a metà. La più “laica” delle province meridionali, Latina, nella graduatoria dell’indice generale di secolarizzazione messo a punto dall’inchiesta, non raggiunge il punteggio della più “clericale” di quelle settentrionali, Vicenza.
Una delle spiegazioni è interna alla logica della statistica: il Nord-Est non si è affatto “sconvertito” in massa, piuttosto la base di credenti praticanti si è trovata diluita dall’arrivo di una popolazione non indifferente di immigrati di altre fedi. È probabilmente per effetto di questa redistribuzione demografica che in Friuli i non praticanti hanno sorpassato di recente i praticanti regolari. Ma gli immigrati ci sono anche nel Meridione. Dove  evidentemente è intervenuta una compensazione di altro genere. A sud di Roma la secolarizzazione ha rallentato, in molti casi si è arrestata (in Campania il record di frequenza alla messa domenicale, 42,8%, a Palermo quello delle nozze religiose, 76,1%), a volte si è ribaltata di segno, come nel caso clamoroso di Napoli, che fino al 1961 era la metropoli italiana col il numero più alto di matrimoni civili (17,7% nel ’51, quando a Milano erano il 5,4%), e che dagli anni Ottanta è passata in coda, scavalcata dall’irruenza laicista delle altre metropoli, anche meridionali (ora le nozze civili sono il 26,3 a Napoli contro il 57,6% di Milano e il 32,2% di Catania). Una “conversione” strepitosa che attende ancora una spiegazione, che però data dagli anni del dopo-terremoto e corre parallela al sorgere dell’impero di Gomorra: e le mafie sono sempre molto affezionate al rispetto delle tradizioni.
Devono essere allora contenti i vescovi della risorgenza al Sud dell’Italia “bianca” ormai estinta al Nord? Niente affatto, sostengono i ricercatori. Il Veneto cattolico aveva costruito una società ad alto “capitale sociale”, fondata su una rete di parrocchie che erano la trama vivificante del territorio, nuclei di partecipazione non solo religiosa ma anche civile e politica e verosimilmente non estranei al miracolo economico territoriale del Nord-Est oggi sofferente. La mappa della nuova Italia cattolica è invece sovrapponibile a quella dell’Italia del sottosviluppo economico, dell’inefficienza pubblica e del degrado civile. «Coincidenza non significa rapporto di causa ed effetto», è la cautela dello studioso, ma una coincidenza così perfetta invoca una richiesta urgente di spiegazioni. È un fatto, dimostrato dati alla mano nel volume: si prega di più dove c’è meno raccolta differenziata dei rifiuti, si va più a messa dove si emigra di più verso gli ospedali del Nord. La devozione meridionale tradizionale convive con una socialità disgregata, incapace di produrre più di un coinvolgimento puramente formale e rituale dei parrocchiani, di contrastare la corruzione delle istituzioni, il dilagare dell’illegalità, il degrado del senso di comunità, il deficit di Stato. Solo quando e dove la Chiesa si ribella a tutto questo, di colpo diventa incompatibile: è nel Meridione devoto, non riesce a non ricordare Cartocci spogliandosi dei panni dell’analista, che sono stati ammazzati due preti scomodi, don Pino Puglisi e don Peppino Diana. I vescovi questo lo sanno: e negli ultimi anni sfornano documenti sulla “questione meridionale” come mai prima. La “borbonizzazione” della pratica religiosa inquieta i pastori di un pezzo di Paese in cui risuona ancora, senza risposte, il furente grido di Giovanni Paolo II a Palermo: “Convertitevi!”.

«Caro Odifreddi, è un errore dividere matematica e fede»


«Caro Piergiorgio,


è l’alba e ho appena finito la tua “lettera” al Papa e devo dirti che la trovo una delle tue cose più belle (inclusa anche la Classical Recursion Theory). Tra l’altro mi sembra più profonda e riflessiva, e talora meno polemica di altre tue cose sul tema. Soprattutto ci intravedo la percezione della complessità del “fatto” religioso e credo che partendo di qui la distanza tra credenti e atei non sia poi tanto vasta.
Per un caso del destino ho finito di leggerla all’indomani del referendum, nel successo del quale pochi hanno osservato il ruolo svolto dal mondo cattolico, dai Francescani allo stesso Papa. In realtà la contrapposizione tra laici e cattolici è sempre stata nel XX secolo la fortuna della destra, e di questo era acutamente consapevole Enrico Berlinguer, il più grande leader della sinistra italiana nel secolo scorso, quando propose il “compromesso storico”, una proposta purtroppo presto svanita nella sinistra, nella nefasta opinione che il sostantivo, “compromesso”, derubricasse l’aggettivo, “storico”.

 

contrasti evidenti?


Ovviamente il tema mi ha sempre affascinato, in quanto matematico, cristiano e “di sinistra” (anche se, su tutti e tre i fronti, scarso a fede ed estraneo alle gerarchie). E ovviamente ci ho riflettuto sopra e mi sono chiesto perché tra religione e pensiero scientifico e laico io non trovo i contrasti evidenziati nelle tue parole (e anche in quelle del Papa): per me credere in Cristo e nel contempo esaltare la ragione laico-scientifica è, se non facile, sicuramente possibile, ed è per giunta un’avventura del pensiero tra le più affascinanti. Credo che questo accada anche perché ho un’idea della matematica (e della scienza) diversa da quella su cui mi sembra che voi due, papa reale e aspirante papa pentito, finiate col concordare: fate della matematica/logica lo strumento linguistico/ideologico e lo scheletro formale della scienza, fisica soprattutto. Il che per te è sinonimo di razionalità, per il Papa di scientismo freddo e formalista. Questa tesi storicamente si è consolidata parallelamente in campo teologico e in filosofia della scienza soprattutto in due periodi.

 


il tomismo


Nella media scolastica: il tomismo ha definito il rapporto tra teologia e scienza nei termini di fede e osservazione empirica connesse metafisicamente, i mertoniani hanno usato la metafora geometrica per descrivere gli osservabili fisici. E poi nel passaggio tra ottocento e novecento: il neotomismo ha visto il male nascere dalle filosofie moderniste (il materialismo, il relativismo, il socialismo, etc.), e positivismo e neopositivismo hanno ridotto la matematica/ logica ad aspetto linguistico di una scienza empirista.
In mezzo il concilio di Trento e il divorzio tra la cultura cristiana e la sua “figlia prediletta”, la scienza. E subito dopo Galileo, la sua scienza e il suo processo. Così oggi i teologi accettano la scienza come osservazione del Creato ma la rigettano nella sua forma razionale totalizzante, i
filosofi della scienza considerano la scienza come impresa sostanzialmente empirica, cui la matematica deve adeguarsi come linguaggio per esprimerne i risultati. Certo tu noti giustamente che la matematica non è solo esprit de geometrie, ma mi sembra che nella polemica tu a quello finisci col ridurla per difendere un’idea di verità di stampo tutto sommato positivista. Ti propongo invece un’idea che acquista sempre più peso nei miei corsi di storia: la complessità del “fatto” matematico.

 

la più antica disciplina


La matematica è la più antica delle discipline, individuata e caratterizzata da almeno quattromila anni. Al punto che uno scriba babilonese disibernato oggi potrebbe fare un ottimo corso di matematica alle elementari, e un matematico ellenistico arrivare anche alle medie inferiori. Potrebbe qualcuno fondare sull’Enuma Elish sumerico o sulla mitologia greca la formazione di un fisico o di uno psicologo o di un filosofo o di un teologo? Questo fatto può avere due spiegazioni: o la matematica è la più banale delle tecniche o è la più profonda delle antropologie. Io credo che la seconda sia quella giusta. Anche perché così diventa più chiara la profonda interconnessione tra matematica e religione che possiamo riscontrare sin dalla notte dei tempi, dai Babilonesi e Induisti sino a Cantor.
La connessione moderna tra matematica e fisica risale invece al massimo alla fine del Medioevo, mentre prima appariva indiscutibile l’osservazione aristotelica: come può la matematica che è scienza dell’essere applicarsi alla physis, e cioè al divenire? La fisica-matematica è ovviamente una delle più grandi creazioni dello spirito umano, ma questo non vuol dire che caratterizzi la natura dell’opera matematica. E la riduzione della matematica a strumento linguistico della scienza mi sembra una delle peggiori turpitudini moderne. E stupide le “difese” della matematica basate sulla sua utilità o sulla sua bellezza: la matematica è ben più che uno strumento più o meno “utile” e “bello” della scienza, è invece la più radicale delle antropologie. Anzi io staccherei i dipartimenti di Matematica dalla facoltà di Scienze.
Credo allora che il contrasto tra pensiero matematico e religione (non filosofica) sia dovuto solo al dogmatismo filosofico che caratterizza tanto i teologi quanto gli atei: svanito questo, svanisce anche quello. In realtà io sono abbastanza d’accordo con i tuoi argomenti (ad esempio sulla mania teologica per il verbo “essere”). E credo da cristiano che tu alla lunga potresti fare tanto bene alla Chiesa (più o meno quanto le denunce dei preti pedofili) da essere quasi beatificabile (anche se credo che spesso tu faccia polemica per puro amore della polemica e per difendere la tua “immagine”).
È quando riduci i tuoi argomenti a una presupposizione positivista che non concordo più: mi sembra una delle tante filosofie della scienza incompatibili con la storia della scienza. Credo che abbia ragione il Papa a considerare incompleta la ragione scientifica, ed abbia ragione tu a considerare incompleta la ragione teologica. Ma non potete dialogare poiché entrambi cercate nella filosofia la completabilità della vostra ragione. A Bari, terra di cinici, diremmo ’o policlin’k ’uè la salut’? (“al policlinico cerchi la salute?”). In realtà non sembra neanche un dibattito, ha più i caratteri di una sorta di “antinomia della ragion pura”. In verità, per quanto io ami la filosofia, divento sempre più intollerante del dogmatismo dei filosofi “con le idee chiare”, e sogno invece una filosofia rapsodica, una piantina insicura, umile e timida, cresciuta all’ombra della storia. Sono le filosofie “pesanti”, tanto analitiche che continentali, che vogliono essere coerenti e riempire tutti i buchi, ad affaticarmi
tanto in teologia quanto in filosofia della scienza. E a questo proposito potrei ammonire, come l’Amleto di Shakespeare, “there are more things in mathematics and religion, Horatio, than are dreamt in your philosophy!”.


Ti abbraccio gb


in “l’Unità” del 5 luglio 2011


Il libro

Odifreddi Piergiorgio, Caro Papa, ti scrivo, Mondadori,  Milano 2011, ISBN: 8804610077, pp. 196

Descrizione

Nell’autunno del 1959 Piergiorgio Odifreddi varcò la soglia del Seminario di Cuneo. La sua intenzione era quella di diventare un giorno papa, e benedire da una finestra di Piazza San Pietro la folla estasiata. Ma presto imparò che «il cammino che porta al soglio pontificio è più accidentato e tortuoso di quanto un bambino avesse ingenuamente potuto immaginare». E, soprattutto, che «per poter un giorno comandare bisognava iniziare subito a obbedire» e a essere rispettosi: cosa che già allora non gli piaceva particolarmente. Cinquant’anni dopo, il matematico impertinente ricorda quei tempi e, contenendo per una volta il suo abituale tono urticante e provocatorio, scrive con grande rispetto e sincerità a chi papa lo è diventato per davvero. Anche se, da scienziato, non abiura al dovere intellettuale di rimanere saldamente ancorato ai fatti della realtà fisica, storica e biologica. Ed è dunque costretto a confutare punto per punto il teologo Joseph Ratzinger, che crede invece in ciò che va «oltre » la realtà e sconfina nella metafisica, nella metastoria e nella metabiologia. In questa lettera si confrontano così due metodi, due atteggiamenti, due visioni del mondo. Da un lato il «comprendere per credere», che accetta prudentemente di dar credito soltanto a ciò che si capisce e si conosce. E dall’altro il «credere per comprendere», che si azzarda a scommettere su ciò che ancora non si capisce o non si conosce, nella speranza che tutto poi si chiarificherà o giustificherà. Ma, soprattutto, in questa lettera si contrappongono due Credi. Da un lato, il Credo canonico dei fedeli, commentato da Ratzinger nella sua memorabile Introduzione al cristianesimo. E dall’altro il Credo apocrifo dei razionalisti, enunciato da Odifreddi in una lettera che si presenta come un’altrettanto memorabile introduzione all’ateismo.