Che cos’è libertà

 

 

La libertà è il fondamento della stessa possibilità della vita morale:

hanno infatti significato etico soltanto quegli atti nei quali la libertà si esercita, e la loro eticità è misurata dal grado e dalla qualità di libertà che in essi si esprime. Libertà ed eticità sono dunque grandezze direttamente proporzionali, che rinviano l’una all’altra come a criteri correlativi di definizione del significato morale dell’agire.

 

Laddove non sussiste libertà non si dà eticità; gli atti che l’uomo realizza, in condizione di totale assenza di libertà sono infatti atti che provengono dall’uomo senza che ne sia padrone e possa farsene di conseguenza responsabilmente carico. Per questo vi è chi afferma che libertà ed eticità coincidono; che l’identità del soggetto umano è data dalla libertà — è questa l’opinione di Jean Paul Sartre  —; in altri termini, che l’uomo non ha la libertà ma è libertà.

 

tra libertarismo e determinismo

Questa concezione è oggi largamente condivisa, al punto che ad essa si ispirano molti comportamenti sia individuali che sociali. La dinamica del desiderio è spesso considerata l’unica sorgente delle scelte nei vari ambiti dell’esistenza. L’economia di mercato ha assunto come paradigma una forma di liberismo selvaggio, insofferente di qualsiasi regola. La società è caratterizzata dalla presenza di logiche corporative e da una esasperata rivendicazione dei diritti alla quale non corrisponde una altrettanto seria assunzione dei doveri e della responsabilità personale. Anche la politica si è fatta sempre più autoreferenziale in presenza di capi carismatici che fanno del populismo la loro bandiera e gestiscono il potere secondo la logica dello scambio, privilegiando le corporazioni forti e l’interesse privato.
La libertà rischia perciò di essere identificata con il capriccio individuale; di assumere cioè i connotati di un libertarismo individualistico, che prescinde da ogni legame con gli altri e con il mondo dei valori. La cultura «radicale» è l’espressione compiuta di questo assunto: i pilastri su cui poggia sono l’assolutizzazione del diritto soggettivo e il riferimento al principio del piacere come parametro valutativo dell’agire: «vale ciò che vale per me, vale per me ciò che mi piace». Così concepita la libertà dà origine a un’interpretazione soggettivistica della vita dalla quale è esclusa in
partenza ogni dimensione relazionale.
A questa affermazione della libertà in termini incondizionati si oppone la drastica negazione che fa di essa chi mette fortemente l’accento sugli esiti delle scienze umane — da quelle biologiche a quelle psicologiche, da quelle sociali a quelle culturali — , le quali insistono nel rilevare i condizionamenti cui l’uomo è soggetto. I meccanismi istintuali, i dinamismi della psiche e le strutture sociali e culturali incidono profondamente sulla condotta umana; le scelte che l’uomo fa sono spesso soltanto apparentemente libere; le loro cause profonde vanno ricercate in aree della soggettività che sfuggono al controllo — si pensi al mondo del subconscio — perché le dinamiche ad esse soggiacenti non sono
oggettivabili.
La trasformazione delle scienze umane in ideologie dà luogo a un rigido determinismo: l’agire umano, lungi dall’essere espressione della libertà, si trasforma in agire meccanicistico, frutto dell’intreccio di forze interne ed esterne che condizionano radicalmente la condotta dell’uomo. Le azioni dell’uomo sono il prodotto di fattori riconducibili alla struttura originaria della persona e al successivo sviluppo della personalità, che prescindono cioè dalla responsabilità soggettiva. L’assenza di libertà implica infatti la negazione dell’eticità, se è vero — come si è detto — che libertà ed eticità sono direttamente proporzionali.

 

dalla «libertà da» alla «libertà per»

Più che il risultato di una dimostrazione razionale, la libertà è una realtà che ciascuno sperimenta di fronte alle diverse scelte della vita: da quelle più impegnative a quelle più feriali. Tutti infatti avvertiamo, quando ci troviamo a dover decidere, che siamo noi gli attori della scelta; in altre parole, che essa dipende dalla nostra volontà.
La libertà si presenta dunque anzitutto sotto la forma di «libertà da» (o «libertà di elezione»); essa coincide con l’assenza di un condizionamento totalizzante che ridurrebbe l’agire ad agire deterministico. La volontà umana, che ha per oggetto il Bene assoluto, misurando la distanza esistente tra esso e i beni particolari (sempre limitati) con cui entra in contatto nel contesto della contingenza storica, percepisce di non essere da essi radicalmente condizionata. La sproporzione tra il Bene e i beni dà origine a uno stato di indeterminazione, che può essere superato soltanto autodeterminandosi, cioè mediante la libera decisione personale. Non essendo le motivazioni fornite dalla ragione apodittiche, vi è infatti spazio per una presa di posizione della persona, che deve farle diventare le proprie motivazioni, giustificando in questo modo la propria scelta.
Per quanto estremamente importante la «libertà da» non esaurisce tuttavia l’intero contenuto della libertà: essa è soltanto il presupposto a partire dal quale è possibile attingerne il senso più profondo, costituito dalla «libertà per» (o «libertà di perfezione»), la quale ha come obiettivo il perseguimento della piena liberazione. La libertà ci è data perché ci liberiamo, perché portiamo a compimento il processo della nostra realizzazione personale; in una parola, perché, attraverso le nostre opzioni concrete, perseguiamo la nostra vocazione. A contare non è dunque la possibilità di scegliere ma la scelta fatta in modo conforme alle istanze della propria soggettività. All’inizio e al termine della libertà vi è infatti la persona; all’inizio come dato ontologico che ne fonda possibilità; al termine come fine cui essa tende e che si identifica con la completa integrazione della personalità. Non è dunque libero chi rinuncia a scegliere per mantenere aperte tutte le possibilità di scelta; è invece libero chi fa scelte autentiche, conferendo attraverso di esse un  orientamento ben definito alla propria esistenza. Ogni scelta ha i suoi costi: comporta una rottura (sempre dolorosa) con altre possibilità di scelta che vengono automaticamente escluse o almeno accantonate; ma questo risvolto negativo è compensato dalla convergenza dell’agire attorno a un polo che conferisce unità alla vita della persona.
La libertà è, in definitiva, una realtà articolata, la cui traiettoria va dalla capacità di autode terminarsi – senza il riconoscimento del libero arbitrio non si può parlare di libertà – fino all’autodeterminazione, che ha luogo quando la scelta è finalizzata alla realizzazione di sé.

 

condizionamenti e libertà morale

Ma la libertà, di cui è stata fin qui delineata la struttura portante, non è mai una libertà assoluta; è una libertà «situata», soggetta a una serie di limitazioni che ne circoscrivono il campo di azione. Se infatti è giusto rifiutare la tesi del determinismo che affiora – come si è visto – nell’ambito delle scienze umane, non si deve tuttavia misconoscere il peso dei condizionamenti che si esercitano sulla libertà e che ne limitano la possibilità di espressione. La ragione di fondo di questi condizionamenti è di natura antropologica: in quanto esse-re essenzialmente corporeo – il corpo non è nell’uomo un dato accidentale, ma un fattore costitutivo della sua soggettività – l’uomo è inserito nello spazio e nel tempo; fattori che, se danno, per un verso, consistenza reale all’agire, ne segnano, per altro verso, in partenza la direzione obbligata.
La libertà morale, che è libertà-liberazione (o, come si è detto, libertà di perfezione), si realizza pertanto all’interno di ben definite coordinate che dettano le condizioni del suo esercizio. Essa si identifica anzitutto con la scelta di fondo messa in atto dal soggetto nel momento in cui progetta l’esistenza, conferendo in tal modo un indirizzo preciso al proprio agire. È questa – come giustamente rileva Sartre – la «libertà fondamentale», che si incarna nelle scelte particolari le quali possono confermarla (e dunque rafforzarla) oppure opporsi ad essa fino a provocarne il  ribaltamento.
Tra le due forme di libertà si dà un rapporto di interdipendenza dialettica: la libertà fondamentale si costruisce mediante le scelte particolari e all’interno di esse – e questo a causa del fatto che l’agire umano è, come si è detto, un agire «situato» -; ma essa esercita, a sua volta, il proprio condizionamento sulle scelte particolari, che sono da essa in parte influenzate.
La libertà è dunque doppiamente alla radice dell’eticità: lo è in origine, come condizione preliminare: solo un atto libero è infatti un atto autenticamente umano, e solo un atto autenticamente umano è un atto morale. Ma lo è anche in relazione al fine che l’eticità persegue, il quale non consiste tanto nella perfezione dell’atto ma nella perfezione dell’agente, cioè nel progetto di vita che l’uomo si dà e che non può che essere frutto della sua libera scelta.

 

l’ apertura al valore

Nonostante la sua grande rilevanza sul piano morale, la libertà non si identifica tuttavia totalmente con l’eticità. La piena identificazione rischia di condurre a un vicolo cieco. Non avendo né origine né fine, la libertà è destinata a implodere: l’uomo infatti – osserva Sartre – in quanto non è libero di essere libero, è condannato alla libertà. È allora necessario ancorare la libertà a un dato oggettivo che stabilisca, in qualche modo, le condizioni per il suo corretto sviluppo in relazione alla autentica promozione umana.
Il concetto che viene oggi utilizzato per dare contenuto a questo dato è quello di «valore». Esso rappresenta il momento di congiunzione feconda tra l’aspetto soggettivo e quello oggettivo della moralità. Se è vero infatti che la libertà rinvia al valore come a suo necessario approdo, non è meno vero che il valore rinvia alla libertà come a condizione essenziale della sua stessa possibilità di esistere. O forse, più correttamente, è vero che la libertà, in quanto «libertà per», ha quale oggetto la piena liberazione umana, che trova realizzazione in un progetto che ha nel mondo dei valori il proprio ineludibile riferimento.

 

di Giannino Piana
in “Rocca” n. 11 del 1 giugno 2011

Perché non tutta l’arte «religiosa» è adatta alle chiese

 

La liturgia ha bisogno dell’arte, sia in quanto liturgia dell’incarnazione sia perché non si può concepire una liturgia senza arte.

La liturgia confessa la trasfigurazione della realtà e l’arte è capace di evocare in modo particolare questa trasformazione, di alludere a questo processo di metamorfosi che ha come soggetto lo Spirito santo. È dunque vero che la liturgia abbisogna del linguaggio dell’arte, espresso nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nelle vetrate, nella musica.
Nello stesso tempo, però, la liturgia cristiana deve discernere e giudicare quali opere d’arte possono entrare in essa e acquisire la capacità di essere concelebranti, di essere mistagogiche, in grado cioè di condurre al mistero di Cristo; oppure deve valutare se, al contrario, le opere d’arte costituiscono una contraddizione, un impedimento alla liturgia stessa. Non si dimentichi che c’è un’arte religiosa, a volte straordinaria, che però non è adeguata, non ha la capacità di entrare nella liturgia. Oggi regna molta confusione sull’argomento, e per questo ci si avventura troppo facilmente sulle vie della sperimentazione e dell’improvvisazione, ma tale modo di procedere contraddice lo statuto della liturgia cristiana. Occorre pertanto ricordare che una cosa è l’arte religiosa, anche cristiana, e un’altra è l’arte cristiana liturgica: quest’ultima è giudicata a partire dalla sua capacità mistagogica.
Non dovremmo mai dimenticare, in proposito, le parole dette da Henri Matisse (che destarono anche una certa sorpresa): «Tutta la mia opera è religiosa, ma non tutte le mie opere religiose possono stare in una chiesa». Qual è dunque il fine a cui deve tendere l’arte quando vuole entrare nella liturgia? Con la sua bellezza, della materia e dell’arte umana, è chiamata a narrare la bellezza della presenza e dell’azione del Signore vivente. Simboli e arte testimoniano la convinzione che l’invisibile esiste, che la liturgia è una finestra aperta sull’invisibile, che il credente vuole esercitarsi
a vedere l’invisibile (Eb 11,27), per restare saldo in un mondo in cui il visibile sembra essere l’unica possibilità di lettura. In un mondo limitato al visibile, e di conseguenza all’empirico, simboli e arte chiedono di essere letti, di essere presenti per aiutare gli uomini a una comprensione più profonda e totale della loro vocazione. Detto altrimenti, il problema è quale simbolica, quale linguaggio e immaginario simbolico può attivare il desiderio spirituale dell’uomo attuale e aprire la sua mente e il suo immaginario verso l’eschaton e l’eterno, cosa già difficile di per sé, e oggi ancora di più per l’uomo contemporaneo costantemente di corsa, «in fuga».
Questa simbolica (e arte) nella liturgia deve avere come fine quello di suscitare la capacità di gratuità e di   contemplazione, non di consumo o di possesso; deve saper introdurre al senso del mistero, che non è affatto l’inconoscibile, ma ciò per il quale l’interesse e la ricerca non si esauriscono mai, anche quando lo si conosce parzialmente: il mistero infatti, e in particolare il mistero di Dio, diviene sempre più interessante, seducente, capace di condurre a sé, nella misura in cui a esso ci si avvicina progressivamente e se ne conosce qualcosa. Occorrono una lunga disciplina e una costante educazione di ogni cristiano, perché possa percepire la vera bellezza nell’arte la
quale, se è autentica, insegna, fa memoria, emoziona, plasma il cristiano stesso. E noi dobbiamo credere, insieme alla tradizione cristiana orientale, che l’arte non solo può narrare l’agere Dei , ma può anche riflettersi sul cristiano che la legge e la abita, trasfigurandolo di gloria in gloria, a immagine di colui che è la fonte di ogni bellezza.

 

di Enzo Bianchi
in “Avvenire” del 29 marzo 2011

Per una corretta interpretazione del Concilio Vaticano II

 

 

Un ampio dibattito  sulla corretta interpretazione dei documenti del Concilio Vaticano II  ha coinvolto, in questi ultimi tempi, personalità significative, dell’area conservatrice e di quella progressista, del mondo cattolico.

 

Le critiche di alcuni tradizionalisti si concentrano in particolare su come Benedetto XVI interpreta il Concilio Vaticano II e il postconcilio. Il papa sbaglia – a loro giudizio – quando limita la sua critica alle degenerazioni del postconcilio. Il Vaticano II, infatti – sempre a loro giudizio –, non è stato solo male interpretato e applicato: fu esso stesso portatore di errori, il primo dei quali fu la rinuncia delle autorità della Chiesa ad esercitare, quando necessario, un magistero di definizione e di condanna; la rinuncia, cioè, all’anatema, a vantaggio del dialogo.

La stessa giornata di “riflessione, dialogo e preghiera” assieme a cristiani di altre confessioni, a esponenti di altre religioni e a “uomini di buona volontà” che Benedetto XVI presiederà ad Assisi il prossimo 27 ottobre dovrebbe  segnare una svolta e ripulire da ogni ombra di assimilazione della Chiesa cattolica alle altre fedi.
Un aspetto di quella più generale confusione che ha avuto origine dal Concilio Vaticano II e sta disgregando, secondo alcuni,  la dottrina cattolica.

Possiamo citare a questo proposito  il volume recentemente pubblicato dal professor Roberto de Mattei: “Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”. Sul piano teologico, invece, il volume  “Concilio Vaticano II. Un discorso da fare”, di Brunero Gherardini, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista di teologia tomista “Divinitas”. Di Gherardini è uscito ora un nuovo libro intitolato: “Concilio Vaticano II. Il discorso mancato”.  A questi testi possiamo aggiungere  il saggio “Ingresso alla bellezza” del 2007, di Enrico Maria Radaelli, filosofo e teologo, discepolo del maggior pensatore tradizionalista del secolo XX, Romano Amerio. Di Radaelli è  uscito in questi giorni l’edizione di un secondo saggio altrettanto rimarchevole, dal titolo: “La bellezza che ci salva”.

Per tutti loto fonte di confuzione è la convocazione dell’incontro interreligioso ad Assisi e l’aver dato vita al “Cortile dei gentili”. La colpa maggiore addebitata a papa Ratzinger è quella di essersi “reso drammaticamente disponibile a essere anche criticato, non pretendendo alcuna infallibilità”, come ha scritto lui stesso nella prefazione ai suoi libri su Gesù. Errore, questo, capitale del Concilio Vaticano II: la rinuncia alle definizioni dogmatiche, a vantaggio di un linguaggio “pastorale” e quindi inevitabilmente equivoco. A queste voci si uniscono anche quelli di auterevoli presuli quali quelle del Cardinale, Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo, di Mario Olivieri vescovo di Albenga-Imperia

Lo scorso dicembre si è tenuto a Roma un convegno, “per una giusta ermeneutica del Concilio alla luce della Tradizione della Chiesa” in cui sono intervenuti tra gli altri De Mattei, Gherardini, Radaelli ed  hanno tenuto relazioni anche il cardinale Velasio de Paolis, il vescovo di San Marino e Montefeltro Luigi Negri e monsignor Florian Kolfhaus della segreteria di stato vaticana. E un altro vescovo molto stimato, l’ausiliare di Astana nel Kazakistan, Athanasius Schneider, ha concluso il suo intervento con la proposta al papa di emanare un “Syllabus” contro gli errori dottrinali di interpretazione del Concilio Vaticano II.

Il vescovo Schneider, però, come quasi tutti i partecipanti al convegno non ritiene che vi siano nei documenti del Vaticano II effettivi punti di rottura con la grande tradizione della Chiesa. L’ermeneutica con la quale egli interpreta i documenti del Concilio è quella definita da Benedetto XVI nel suo memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005: “l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. È un’ermeneutica sicuramente compatibile con l’attaccamento alla tradizione della Chiesa. Ed è anche l’unica capace di vincere la contrarietà di alcuni tradizionalisti riguardo alle “novità” del Concilio Vaticano II.

 

Riportiamo di seguito una significativa documentazione del dibattito intercorso:

 

26.5.2011

Libertà religiosa. La Chiesa era nel giusto anche quando la condannava?

Nella disputa sul Concilio Vaticano II interviene il teologo benedettino Basile Valuet. Contro i tradizionalisti Gherardini e de Mattei. Ma anche contro il “ratzingeriano” Rhonheimer. Che in un Post Scriptum replica. E replicano anche Cavalcoli, Introvigne… Con la controreplica di Valuet

 

11.5.2011:  Benedetto XVI “riformista”. La parola alla difesa

Introvigne replica a de Mattei, capofila degli anticonciliaristi. E il professor Rhonheimer torna a spiegare come e perché il Vaticano II va capito e accettato. Nel modo indicato dal papa

 

5.5.2011: La Chiesa è infallibile, ma il Vaticano II no

E ha commesso errori, sostiene lo storico tradizionalista Roberto de Mattei. Continua la disputa pro e contro i papi che hanno guidato il Concilio e mettono in pratica le sue innovazioni

 

28.4.2011: Chi tradisce la tradizione. La grande disputa

Si infiamma la discussione su come interpretare le novità del Concilio Vaticano II, soprattutto sulla libertà di religione. I tradizionalisti contro Benedetto XVI. Un saggio del filosofo Martin Rhonheimer a sostegno del papa.

 

18.4.2011: I delusi hanno parlato. Il Vaticano risponde

Inos Biffi e Agostino Marchetto replicano su “L’Osservatore Romano” ai tradizionalisti Brunero Gherardini e Roberto de Mattei, che rimproverano all’attuale papa di non aver corretto gli “errori” del Concilio Vaticano II.

 

8.4.2011:I grandi delusi da papa Benedetto

Sono alcuni dei maggiori pensatori tradizionalisti. Avevano scommesso su di lui e ora si sentono traditi. Ultime delusioni: il Cortile dei gentili e l’incontro di Assisi. L’accusa che fanno a Ratzinger è la stessa che fanno al Concilio: aver sostituito la condanna col dialogo

 

 

 

 

 

Cristiani perseguitati e persecutori

 

un libro in cui Franco Cardini affronta il tema del rapporto tra cristianesimo e violenza subita e inflitta (Salerno, pp. 186, €12,50).

 


Non facile il compito che si è dato Franco Cardini nel suo recente Cristiani perseguitati e persecutori (Salerno, pp. 186, €12,50): affrontare il tema del rapporto tra cristianesimo e violenza subita e inflitta non attraverso una «conta» delle vittime di persecuzioni religiose nei duemila anni di cristianesimo, né con una contrapposizione del numero di uccisi o dell’efferatezza dei crimini compiuti da parte di opposti schieramenti, ma piuttosto attraverso una ben più approfondita disamina di un nodo e un’epoca cruciali: come e perché tra il I e il VI secolo d.C. i cristiani da perseguitati diventano anche persecutori. Un lavoro accurato da storico onesto e documentato, quale è Cardini, svolto «non al fine di giudicare e tanto meno di condannare, ma, semplicemente, per comprendere».

 

Lo spunto è fornito dall’amara realtà che si è venuta affermando in questi ultimi trent’anni: la rinascita di «appelli a guerre sante», l’apparire di «nuovi carnefici e nuove vittime tali anche e magari soprattutto nel nome di Dio».
Ma l’analisi di quanto accaduto – dalle violenti persecuzioni contro i cristiani nei primi quattro secoli dell’era volgare fino all’affermarsi nei due secoli successivi di una società cristiana anche attraverso l’imposizione di «una fede di pace e d’amore con strumenti che furono … anche quelli dell’intimidazione … e della vera e propria violenza» – porta a un’amara constatazione: «le persecuzioni condotte e i massacri perpetrati nel nome della croce non sono stati né eccezioni confermanti la regola, né fatali ma casuali incidenti di percorso». Sarebbe piuttosto l’inevitabile conseguenza di una fondamentale impossibilità a vivere il Vangelo come cristianità: «il Vangelo non solo non è stato attuato nel cristianesimo, ma questo non si esaurisce affatto in quello».

 

L’equilibrio di giudizio di Cardini, docente di Storia medievale, riesce a svelenire la polemica senza tacere fatti e misfatti e fornisce chiavi di interpretazione solo apparentemente paradossali, come quando ricorda che la società cristiana che si afferma dal IV secolo in poi «è composta per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensì dei persecutori».

 

Certo, il quadro che emerge ha toni amari, ma in questa luce cupa che ferisce la «buona notizia» portata da Gesù di Nazaret assumono un significato ancor più pregnante quei discepoli di Cristo restati «costantemente fedeli alla consegna di pace affidata dal maestro tanto da rinunziare perfino a difendersi». Non si tratta di evocarli quasi a coprire o sminuire i misfatti di altri, servono invece a ricordare che vivere da cristiani non è impresa sovrumana ma umanissima, che nulla e nessuno può impedire a un discepolo di seguire fino in fondo il suo Signore e restare fedele al Vangelo.

 

È quanto due celebrazioni chiave del Giubileo del 2000 mai troppo ricordate: la giornata del perdono e la commemorazione ecumenica dei martiri del XX secolo – hanno idealmente accostato: solo quando la chiesa riconosce i peccati commessi nel nome del cristianesimo può anche gloriarsi della luminosa testimonianza di tanti suoi figli che – con semplicità e risolutezza, con fierezza e senza arroganza alcuna hanno affermato con la loro vita e la loro morte che sì, il Vangelo è vivibile fino in fondo anche quando ogni cosa attorno, perfino in ambito cristiano, sembra spingere a un
compromesso con le forze del male.

 

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 21 maggio 2011

 

 

Dal prologo:



La ricerca storica e magari le ragioni della discussione e perfino della polemica, ispirate talvolta anche da convinzioni o da propensioni anticlericali ma sostenute sovente anche dal ridimensionamento di certi eventi e dall’approfondimento di certe ricerche, ci avevano indotti a ritenere che non sempre i “martiri della fede” fossero stati tanto frequenti e numerosi quanto in passato era stato sostenuto. Gli eventi dell’ultimo trentennio circa hanno presentato invece l’allarmante ritorno di un incubo che credevamo dissolto: nuovi appelli a “guerre sante”, nuovi carnefici e nuove vittime tali anche e magari soprattutto nel nome di Dio. Come dice Pascal, sembra proprio che l’uomo non sia mai tanto capace di fare del male come quando lo commette nel nome di una fede religiosa: una sentenza che mantiene la sua verità anche da quando, cioè dal tardo Settecento in poi, sono sorte le “religioni laiche”.

Vero è altresí che, a partire dall’ultimo quarto circa del XX secolo, abbiamo assistito a una sorta di “ritorno selvaggio di Dio” e a un riaffermarsi di nuove forme di “guerra santa”. Da molti ambienti dell’immenso mondo musulmano alle regioni induiste del subcontinente indiano alla Cina, all’Africa, all’America latina, molti religiosi e anche semplici credenti laici sono stati uccisi: e, sempre piú spesso, si è trattato non solo di cristiani vittime della violenza, ma di vittime della violenza tali proprio in quanto cristiani. In effetti – a parte casi molto particolari e specifici, per esempio in Irlanda o in Libano o in Rwanda – in linea di massima i cristiani hanno rivestito il ruolo, nelle tristi effemeridi degli ultimi anni, mai di carnefici e persecutori bensí sempre di vittime e perseguitati. (…)

Ma, al di là delle forzature e delle vere e proprie calunnie, secondo le idées reçues che al riguardo circolano ordinariamente, episodi come i massacri dei sassoni pagani in età carolingia, le violenze compiute durante le crociate in Terrasanta o la Reconquista iberica, la repressione inquisitoriale, la liquidazione del catarismo nella Linguadoca duecentesca, le campagne dei Cavalieri Teutonici nel Nordest europeo, le stragi di native Americans che accompagnarono la conquista spagnola e portoghese dell’America centrale e meridionale o quella francese, inglese e olandese di quella settentrionale e infine la Riforma e le “guerre di religione” cinque-seicentesche con relative mattanze di “eretici”, cacce alle streghe e “Notti di San Bartolomeo”, altro non furono se non eccezioni confermanti una regola di pietà e di misericordia: incidenti di percorso d’una fede d’amore che di quando in quando ha tuttavia potuto venir meno a se stessa (e ciò varrebbe soprattutto per la Chiesa cattolica) e i cui fedeli hanno agito in contraddizione con la natura della loro religione e con le loro stesse convinzioni. (…)

Le pagine che seguono non intendono affatto costituire un j’accuse non diciamo contro il cristianesimo in quanto tale, ma neppure contro le società che nei secoli si sono dette cristiane o contro le Chiese e le confessioni cristiane storiche. Non si proporranno dunque piú o meno grandguignoleschi cataloghi di errori e di orrori, non si allineeranno argomenti “scandalosi” e recriminatorii, non si procederà ad alcuna macabra e ripugnante computisteria funebre. Ci si limiterà a richiamare i caratteri fondamentali delle persecuzioni delle quali i cristiani furono vittime tra I e IV secolo per mostrare come, nei due secoli successivi, la società divenuta a sua volta cristiana – e composta, non dimentichiamolo, per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensí dei persecutori – si sia affermata a sua volta proponendo, ma anche imponendo, una fede di pace e d’amore con strumenti che furono non certo soltanto, ma tuttavia anche quelli dell’intimidazione, della costrizione legale, della seduzione e perfino della corruzione morale, della legislazione restrittiva o addirittura inibitrice della libertà di coscienza, dell’esibizione della forza militare e della vera e propria violenza. Ne sarebbe derivata una storia lunga secoli, che dall’alto Medioevo all’età coloniale andò di pari passo con l’impegno missionario: senza nulla togliere, beninteso, ai meriti di tanti missionari che anche in tempi recenti e recentissimi si sono sacrificati per amore dei poveri e degli ultimi.

Quel che intendiamo qui ricordare è che, all’origine delle pagine piú nere e sconcertanti non già del cristianesimo – che a sua volta non consiste tuttavia semplicemente ed esclusivamente nel rispetto dei valori evangelici –, ma della storia della società cristiana e delle Chiese storiche, non stanno momentanee fasi di obnubilamento bensí lo sviluppo e la conseguenza di premesse intrinseche non ai loro princípi, ma senza dubbio alla loro natura e alla dinamica secondo la quale esse si sono affermate nel mondo.

La Settimana Sociale sul passo dei giovani

concluso il forum nazionale dei giovani  che si è svolto a Milano il 21 e 22 maggio con la partecipazione di più di 90 giovani provenienti da tutte le regioni d’Italia e da molte aggregazioni laicali nazionali.

 

Non dobbiamo lasciarci strumentalizzare come semplici portatori di acqua verso mulini che spesso macinano grano inquinato; dobbiamo essere portatori di vino, di quell’acqua trasformata da Gesù a Cana, il buon vino del Vangelo; dobbiamo essere capaci di assumerci nuove responsabilità sociopolitiche, cominciando dai livelli più bassi, nei comuni, nei municipi, nelle istituzioni, nelle piccole associazioni.

 

Così il vescovo Mons. Miglio ha introdotto il Forum nazionale dei giovani dopo le Settimane Sociali di Reggio Calabria che si è svolto a Milano il 21 e 22 maggio; al Forum hanno partecipato più di 90 giovani provenienti da tutte le regioni d’Italia e da molte aggregazioni laicali di livello nazionale.

 

Edoardo Patriarca, Segretario del Comitato scientifico per le Settimane sociali della CEI, ha concluso i lavori nelle conclusioni, ha presentando l’Italia come un paese da “stappare”; in Italia ci sono troppi “tappi”, ben sigillati.; ha quindi chiesto ai giovani presenti di impegnarsi per levare il tappo alla bottiglia “Italia” affinchè possano uscire un po’ di “bollicine”, di entusiasmo, di brio, di novità. Patriarca ha incoraggiato i giovani a non lasciarsi intimorire qualora fosse necessario dire parole o fare gesti scomodi.

 

La scelta di Milano va a completare il percorso attraverso l’Italia che ha toccato precedentemente Roma e Reggio Calabria. Al Forum sono intervenuti sei adulti esperti, alcuni provenienti da associazioni ecclesiali, che hanno animato i lavori delle aree tematiche medico-sanitaria, imprenditoriale-commerciale, giudirico-legislativa, culturale-massmediale, artistico-urbanistica, educativa-formativa; un modo concreto di realizzare quell’incontro intergenerazionale auspicato dagli Orientamenti pastorali “educare alla vita buona del Vangelo”. Il Forum si inserisce in un impegno che il Servizio nazionale per la pastorale giovanile sta portando avanti per la conoscenza presso i giovani della Dottrina sociale della chiesa. Il Santo padre Benedetto XVI, il card Bagnasco ed altri vescovi italiano ripetutamente hanno chiesto ai giovani un rinnovato impegno nel servizio al bene comune, auspicando la nascita di “una nuova generazione di politici italiani”.

 

Il cammino, dice don Nicolò Anselmi, continuerà certamente negli anni a venire, già a partire dal 2012; molte diocesi e associazioni si stanno già muovendo; i giovani si stanno riavvicinando alla politica, desiderano prendere in mano il proprio futuro; siamo fiduciosi che il mondo adulto li aiuterà a crescere anche in questo ambito e, a tempo opportuno lascerà loro spazio. L’Italia ha bisogno della freschezza e della passione dei giovani, soprattutto della loro capacità di costruire comunione, rete, senza prevenzioni ideologiche.

 

Nei prossimi giorni sarà possibile trovare il materiale del Forum su www.chiesacattolica.it/giovani in cui c’è un link al Sito delle Settimane Sociali.

L’Assemblea generale dei Vescovi

 

la prolusione del Cardinale Presidente, Angelo Bagnasco, all’Assemblea generale dei vescovi italiani

 

 

“In un tempo facilmente catturabile dall’apparenza e dall’effimero, si è assistito all’esaltazione di un autentico uomo di Dio, la cui santità è stata riconosciuta col dovuto rigore dall’autorità della Chiesa, la quale ha così intercettato un consenso sorprendente, più ampio dei confini cattolici”.

 

Il primo pensiero del Cardinale Presidente è stato per Giovanni Paolo II; alla luce della sua testimonianza ha riletto, tra l’altro, la stessa responsabilità che è affidata ad ogni Vescovo: “Egli ha accettato il pontificato ma non ha chiesto di scendere dalla croce… Giovanni Paolo II ha cesellato la propria vita secondo la forma pasquale, e dimostrando a tutti che cosa può diventare l’esistenza di una persona quando si lascia afferrare da Cristo”. Ha quindi evidenziato “il legame spirituale intenso e amico che correva, benefico per la Chiesa intera, tra Giovanni Paolo II e colui che − nel disegno della Provvidenza – sarebbe stato il suo successore”; un legame che è più della semplice continuità: “C’è una perdurante ammirazione spirituale che diventa stupefacente lezione di stile, di umiltà e di candore, dalla quale noi sentiamo di dover imparare”.

 

Tra i motivi di gratitudine a Benedetto XVI, il Cardinale ha posto anche “la «lettera circolare», inviata ad ogni Vescovo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in vista della preparazione di necessarie «linee guida» per i casi di abusi sessuali perpetrati da chierici ai danni di minori”. Tali abusi costituiscono, secondo il Presidente, “un’infame emergenza non ancora superata, la quale causa danni incalcolabili a giovani vite e alle loro famiglie, cui non cessiamo di presentare il nostro dolore e la nostra incondizionata solidarietà”. Tra le iniziative messe in campo dalla Chiesa ha annunciato che “da oltre un anno, su mandato della Presidenza CEI, è al lavoro un gruppo interdisciplinare di esperti proprio con l’obiettivo di “tradurre” per il nostro Paese le indicazioni provenienti dalla Congregazione”.

 

Tra gli altri temi affrontati nella Prolusione, la Giornata Mondiale della Gioventù che si svolgerà a Madrid, dal 16 al 21 agosto (“La formula ha dato tono a tutta la pastorale, inducendola ad uscire allo scoperto, andare incontro alle persone, adottare i loro linguaggi, per far comprendere a tutti, specialmente ai giovani, che Cristo c’entra con la vita, con tutti i suoi ambiti”) e il Congresso Eucaristico Nazionale, in programma ad Ancona dal 3 all’11 settembre (“il suo tema, «Signore, da chi andremo?», vuol rigenerare il nostro sguardo grazie all’energia del Risorto”).

 

Sulla situazione nazionale il Presidente dei Vescovi italiani ha sottolineato che “l’Italia non è solo certa vita pubblica” e che “se, nonostante tutto, il Paese regge è perché ci sono arcate, magari non immediatamente percepibili, che lo tengono in piedi”. Sono “arcate” gettate sopra “un individualismo indiscriminato” che sta determinando “in alcuni ambienti, che forse si ritengono per altri versi i più emancipati ed evoluti, la tendenza ad una chiusura ermetica rispetto all’istanza sociale”. Dopo aver ricordato che “dalla crisi oggettiva in cui si trova, il Paese non si salva con le esibizioni di corto respiro, né con le slabbrature dei ruoli o delle funzioni, né col paternalismo variamente vestito, ma solo con un soprassalto diffuso di responsabilità che privilegi il raccordo tra i soggetti diversi e il dialogo costruttivo”, ha risposto indirettamente ad una critica diffusa: “Se non parliamo ad ogni piè sospinto, non è perché siamo assenti, anzi, ma perché le cose che contano spesso sono già state dette… Crediamo che vi siano tante forze positive all’opera, che non vanno schiacciate su letture universalmente negative o pessimistiche”.

 

Il Card. Bagnasco ha dedicato l’ultima parte della Prolusione ad alcune urgenze: la legge sul fine vita (“Ci si augura cordialmente che il provvedimento − al di là dei tatticismi che finirebbero per dare un’impressione errata di strumentalità − non si imbatta in ulteriori ostacoli, ottenendo piuttosto il consenso più largo da parte del Parlamento”), la famiglia (“sull’analisi delle carenze e delle debolezze che riguardano l’assetto dell’istituto familiare ci sia ormai nel Paese una larga convergenza. Ciò che serve, ed è quanto mai urgente, è passare alla parte propositiva, agli interventi strutturali efficaci per dare dignità e robustezza a questa esperienza decisiva per la tenuta del Paese e il suo futuro. Nulla è davvero garantito se a perdere è la famiglia”), l’occupazione (“Il lavoro che manca, o è precario in maniera eccedente ogni ragionevole parametro, è motivo di angoscia”). L’analisi non ha concesso spazio ad alcun catastrofismo: “nell’animo degli italiani non sta venendo meno la voglia di migliorarsi, di crescere, di impegnarsi. La maggioranza non si è staccata dalla vita concreta, ha resistito al canto delle sirene che continuano a veicolare modelli di vita facile, di successo effimero, di mondi virtuali, del tutto e subito”).

 

In conclusione, lo sguardo del Cardinale Presidente si è soffermato su alcuni contesti nazionali di crisi: la Siria, il Libano, l’Egitto e, in particolare, la Libia. In merito a quest’ultima ha osservato: “la non chiarezza emersa al momento dell’ingaggio, ha continuato a pesare sullo sviluppo temporale e strategico delle operazioni che avrebbero dovuto avere la forma dell’ingerenza umanitaria, e hanno ugualmente causato gravissime perdite umane, anche tra i civili. Difficile oggi non convenire che nel concreto non esistono interventi armati “puliti”. È, questo, allora un motivo in più per intensificare gli sforzi che portino ad un cessate il fuoco, e quindi a sveltire la strada della diplomazia”.

 

 

Prolusione.doc

 

 

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“All’assemblea generale dei vescovi, il presidente della Cei, Angelo Bagnasco propone alla vita pubblica una serie di accorati «vorremmo», chiede alla politica un soprassalto di responsabilità, lancia l’allarme-disoccupazione giovanile e critica le strategie sull’immigrazione («soldi per i missili e non per i profughi»)… Perciò rilancia l’appello papale per una nuova generazione di politici cattolici e indica i temi chiave: biotestamento, scuola, famiglia… Con l’auspicio che la legge sul fine vita… non trovi ulteriori ostacoli” [ndr…….]

 

“«da oltre un anno, su mandato della presidenza Cei, è al lavoro un gruppo interdisciplinare di esperti proprio con l’obiettivo di “tradurre” per il nostro Paese le indicazioni provenienti dalla Congregazione della Dottrina della Fede». Un obiettivo che… «oggi viene autorevolmente richiesto a tutte le Conferenze episcopali del mondo»… anche con la necessità di raccogliere dati e informazioni a livello nazionale. Fino all’anno scorso i vescovi italiani non avevano ritenuto di procedere in tal senso”

 

 

Potere, regole e vita privata

 

 

La vicenda che ha portato nell’arco di poche ore all’arresto di Dominique Strauss-Kahn appartiene, a pieno diritto, a quegli eventi che segnano in modo definitivo non soltanto la brillante carriera di un uomo politico, ma la biografia stessa di una persona.

 

 

Ora, è abbastanza naturale che, davanti ad accuse tanto gravi quanto quelle di violenza sessuale, la reazione comune sia l’indignazione. In discussione qui, però, non è effettivamente il contegno più o meno irreprensibile di un uomo, ma la violenza da questi impartita ad una donna, per altro palesemente in una condizione sociale e lavorativa più fragile di lui, e quindi particolarmente vulnerabile.
Il caso, al di là delle diverse valutazioni, apre una questione generale che riguarda essenzialmente la difficile coerenza personale, evocata attualmente come in passato, sebbene amplificata dall’onnipresenza dei media. Si tratta della contraddizione tra i comportamenti sociali e personali dei governanti, o, come recitava il titolo di un famoso film di Miklós Jancsó, tra i “vizi privati e le pubbliche virtù”.
Senza voler proporre anacronistici appannaggi o paragoni impossibili, lo scandalo un tempo era come oggi arma di potere e ricatto, tant’è che dappertutto i potenti erano oggetto di critiche e di delegittimazioni shakespeariane. Inoltre, il consenso democratico, cui devono sottoporsi inevitabilmente i politici odierni, ha aggiunto un ulteriore controllo etico, come spiegava Jean Jacques Rousseau nel Contratto sociale. E quindi, reato a parte, non vale la pena propendere per un rigorismo puritano, poco produttivo in assenza di una dimostrata illegalità.
Tuttavia, il problema resta in piedi lo stesso. E optare per una separazione netta, precisa e drastica tra abilità o capacità gestionali – siano esse professionali o politiche – e comportamento individuale diviene assolutamente impossibile, perché totalmente assurda. Questa opinione, d’altronde, non è un prodotto culturale corrente, appartenendo in pieno alla mentalità e, direi perfino, alla cultura giuridica occidentale. Non soltanto Thomas Hobbes nel Leviatano concepì la sfera pubblica come un artificio sostanzialmente distinto dal privato, ma ritenne che l’estraneità delle due dimensioni fosse una condizione prioritaria per rispettare la vera essenza della politica che deve riguardare l’esclusivo esercizio del potere. Il più coerente teorizzatore di questo riduzionismo antropologico è stato Immanuel Kant, il quale nella Critica della ragion pura ha spiegato che l’identità personale è sconosciuta e irraggiungibile, autorizzando senza contraddizione una sorta di “valida incoerenza” nei comportamenti privati, sottoposti, di fatto, solo all’imperativo categorico della moralità pubblica. A ben vedere, quindi, l’attuale moralismo, che si concentra solo sul condannare o giustificare le nefandezze apparenti, presuppone lo stesso smarrimento scettico e originario dell’identità personale, sciolto, questa volta, in un relativismo multiplo, rivelatore sempre delle medesime contraddizioni.
La vera risposta, viceversa, sta nel tornare a parlare e a pensare in termini autenticamente personali.
Noi non siamo dei soggetti che hanno identità variabili e funzionali allo scopo: il mattino un professionista, a colazione un padre di famiglia, la sera un playboy, e così via. Ogni persona possiede in sé il valore e la responsabilità di  un’identità propria, l’Io, la quale non soltanto è e resta permanente, ma va gestita in coscienza e libertà per salvaguardare, tra l’altro, la salute mentale e la completezza stessa della personalità. L’alternativa dolorosa è, per l’appunto, la schizofrenia, la patologia psichiatrica o, usando una metafora letteraria, un’incomunicabilità finale tra il nostro Dottor Jeckyll e l’altrettanto nostro Mister Hyde. Va benissimo, insomma, difendere un amico in difficoltà, come alcuni hanno fatto disperatamente in questi giorni per Strauss-Kahn, specialmente quando il malcapitato è colpevole di un reato gravissimo. Come va benissimo screditare la sua minaccia politica con ogni mezzo. Ma non confondiamo la solidarietà e l’invettiva con la coerenza umana – prima ancora che etica – che è un dovere insostituibile per ciascuno, specialmente se ha assunto volontariamente un’alta responsabilità collettiva.
Il cosiddetto aspetto privato è diverso da quello pubblico e professionale, ma non appartiene ad un’altra persona, bensì alla stessa, la quale – similmente alle altre – deve mirare all’unità d’azione del proprio essere. Perciò, malgrado ogni retta concentrazione per evitare il moralismo, è chiaro che la vita privata di un uomo mi dice moltissimo sul suo essere affidabile o meno dal punto di vista pubblico. A meno che non consideriamo il lavorare una semplice mansione e il governare nulla altro che un potere assoluto, sottraendoci, in tal modo, definitivamente a qualsiasi valutazione antropologica del protagonista al di fuori del relativo e partigiano interesse.

 

di Joaquín Navarro-Valls
in “la Repubblica” del 24 maggio 2011

 

Michael”: il film del regista austriaco Markus Schleinzer

 

opera prima, presentata in Concorso alla 64.ma Edizione del Festival di Cannes

 

 

Che cosa narra il film MICHAEL

Michael, il titolo del film, è anche il nome del protagonista, un trentacinquenne dalla vita tranquilla per non dire mediocre e abituale. Metodico, appartenente alla classe media colpita dalla crisi economica, conduce un’esistenza tutta casa, lavoro e qualche amicizia superficiale. Ha solo un piccolo passatempo che lo appassiona in modo particolare: si chiama Wolfgang, ha dieci anni, e vive segregato nello scantinato di casa sua.

Michael è infatti un pedofilo, ma non uno di quei tipi borderline che suscitano subito dubbi, anzi, a prima vista sembra la persona più buona e mite del mondo. E come prova di questa gentilezza Michael offre al suo piccolo ’ospite’ parecchi comfort, cercando di rendergli la vita da recluso più comoda e gradevole possibile, con l’illusione di creare una sorta di rapporto paritario.

Colpisce in modo particolare la normalità che fa dà cornice a questa vicenda. Il regista infatti mostra gli avvenimenti dal punto di vista del pedofilo che, convinto di non compiere nulla di sostanzialmente sbagliato, restituisce allo spettatore un senso di serenità, che contrasta fortemente con le immagini da lucido aguzzino che scorrono sullo schermo. Paradossalmente Michael rimane spesso stupito dalle reazioni violente e ribelli di Wolfgang, che vorrebbe tornare a casa, e tenta più volte di convincere il bambino che sono stati i genitori ad abbandonarlo. Adottando uno stile che ricorda molto quello di Michael Haneke, del quale è stato assistente al casting per diversi film, il regista ha voluto realizzare una pellicola che colpisse dritto allo stomaco dello spettatore, mostrando l’orrore che affligge una piccola vita indifesa caduta nelle mani di un pericoloso orco(Cfr. quotidiani italiani del 16 maggio 2011).

 

 

Scheda del film

MICHAEL

titolo originale: Michael

paese: Austria

anno: 2011

genere: fiction

regia: Markus Schleinzer

durata: 96′

sceneggiatura: Markus Schleinzer

cast: Michael Fuith, Christine Kain, Ursula Strauss, Viktor Tremmel, Gisela Salcher

fotografia: Gerald Kerkletz

montaggio: Wolfgang Widerhofer

scenografia: Katrin Huber, Gerhard Dohr

costumi: Hanya Barakat

produttore: Nikolaus Geyrhalter, Markus Glaser, Michael Kitzberger, Wolfgang Widerhofer

produzione: Nikolaus Geyrhalter Filmproduktion

supporto: Österreichisches Filminstitut, Filmstandort Austria, ORF Film/Fernsehabkommen, Filmfonds Wien, Cine Tirol

distributori: Les Films du Losange

rivenditore estero: Les Films du Losange

 

 

Chi è Markus Schleinzer

Il regista  presenta per la prima volta un suo film da regista in concorso al Festival di Cannes, ma è un habitué della Croisette essendo stato direttore casting di Michael Hanneke, autore di  La pianista. Nel suo film si sente l’’influenza del maestro  per il suo soggetto tabù e il modo in cui è trattato, mantiene sia una filiazione artistica con Happiness di Todd Solondz che un legame diretto con l’attualità austriaca segnata dal caso Natascha Kampusch,la ragazzina che poi è diventata una star dei vari Talk Show, tenuta prigioniera per tanti anni dal suo aguzzino.
L’autore filma  la routine quotidiana con una neutralità sconcertante, dando poca importanza ai dettagli più sordidi o ai riferimenti temporali. Non si fa mai allusione al rapimento, ma il tentativo su un altro bambino lascia intendere il metodo e il lavaggio del cervello messi in atto. Per Schleinzer, suggerire è più importante che spiegare. I dialoghi sono ridotti al minimo che suppone il rapporto tra un pedofilo e la sua vittima manipolata. La natura sovversiva di questa relazione è costantemente anestetizzata da un trattamento basato sull’osservazione, senza pertanto entrare nel voyeurismo malsano.
Per il regista, il sequestro è come un ménage disfunzionale che ha al contempo le caratteristiche di una coppia e quelle di una famiglia monoparentale. Uomo e bambino guardano la televisione, mangiano tête à tête e lavano i piatti insieme. Michael arriva persino a portare la sua vittima in gita, fanno insieme i puzzle e le battaglie con le palle di neve. Ogni sera, il ragazzino viene riportato nella sua prigione sotterranea, dove viene chiuso a doppia mandata, vittima regolare di sevizie che il pedofilo segnerà più tardi con una piccola croce su un calendario. Il carnefice è organizzato e manipolatore, ma non ha niente del personaggio malvagio dei thriller. Piuttosto, emana da Michael un’impressione di naturalezza ed è dal potere di questa normalità che nasce l’orrore.
Schleinzer gioca con le aspettative del suo pubblico seminando, lungo tutto il film, false piste e indizi sul contesto di questo crimine e le sue implicazioni nella vita del personaggio principale. Non è presentato come un uomo particolarmente mostruoso né simpatico, e lo spettatore è tenuto a distanza dalle sue intenzioni abilmente svelate un po’ per volta, fino alla sorprendente conclusione( Cfr.. Domenico La Porta, in CINEUROPA del 17 maggio2011).

 

 

Ma non mi piace  che il nome Michael

venga associato solamente alle brutture che- simili a serpi velenosi, come quell’orribile prete bestemmiatore, pedofilo e commerciante di carne umana, qual’é Riccardo Seppia, il parroco della chiesa di Santo Spirito a Sestri Ponente.

E’ consolante sapere che è citato nella Bibbia ebraica, nel Libro di Daniele 12,1, come primo dei principi e custode del popolo di Israele.

Nel Nuovo Testamento è definito come arcangelo nella Lettera di Giuda 9, mentre nell’Apocalisse di Giovanni 12,7-8 è l’angelo che conduce gli angeli nella battaglia contro il drago, rappresentante il demonio, e lo sconfigge. Esso è implicitamente nominato in Giosuè 5:14-15 e in Zaccaria 3:2. Essendo qui chiamato Angelo Personale del Signore possiamo ritrovare la sua figura in Genesi 16,7 che rimanda a 1Corinzi 10,4 che a sua volta si ricollega a Esodo 3,2 e 23:21 che rimandano ad Isaia 9,5 e 63,9 per poi ritrovarsi in Giudici 2:1 e rivelarsi nel collegamento tra Malachia 3:1 e Marco 1,2 e Salmo 106:20 e Giovanni 1,1.

Numerosi poi sono gli scritti apocrifi vetero e neo-testamentari in cui l’arcangelo Michele compare a vario titolo. Per esempio, nell’ Apocalisse siriaca di Baruc è scritto che detiene le chiavi del Paradiso; nella Vita di Adamo ed Eva si dice che fu lui ad insegnare ad Adamo a coltivare la terra; nell’ Apocalisse di Mosè detta ai figli di Adamo ed Eva i doveri rituali verso i defunti; nel Vangelo di Bartolomeo si racconta che fu lui a portare a Dio la terra e l’acqua necessarie a creare Adamo; nella Ascensione di Isaia si racconta che fu lui a rimuovere la pietra dal sepolcro di Gesù; nella Apocalisse della Madre di Dio accompagnò la Vergine in un viaggio infernale per mostrarle le pene a cui sono sottoposti i dannati…. (Cfr. Wikipedia).

In ogni caso, il cinema può dare una mano alla gerarchia cattolica, per tentare di “spegnere” i troppi scandali dovuti ai molti, moltissimi preti pedofili. Non sarebbe più semplice permettere ai giovani che vorrebbero servire Cristo nella comunità, frequentare anche l’altro genere, in modo che la loro sessualità si sviluppi in maniera naturalmente umana?

E Dio li creò. Maschio e femmina li creò(Dal libro della Genesi)