Liquidazione della religione?

 

«Il fanatismo scientifico»un libro di Richard Schröder

 

Laureato in teologia, docente di filosofia alla Humboldt-Universität di Berlino, giudice costituzionale del Brandeburgo, presidente del senato della Deutsche nationalforschung di Weimar, membro del Consiglio nazionale di etica e dell’Accademia delle scienze di Berlino, insignito di vari premi e lauree honoris causa e altro ancora: a un auto

La vergogna e la fortuna

 

un libro coraggioso  di Bianca Stancanelli (Marsilio, 350 pagine, 19 euro): ventuno storie di vita rom, ognuna con la sua specificità, senza mai nascondere nulla.

 

Nel 1422 una nuova popolazione si affacciò in Italia, e non riscosse il plauso di un cronista bolognese, rimasto anonimo. «Era la più brutta genia che mai fosse in queste parti. Erano magri e negri e mangiavano come porci». È passato qualche anno da allora, loro sono rimasti dalle nostre parti. Ma l’opinione di molti sui rom non è molto differente da quella riportata qui sopra. Anche per questo — per il suo essere un piccolo antidoto alla nostra eterna  paura dell’altro, perché affronta un tema scabroso e difficile — La vergogna e la fortuna (Marsilio, 350 pagine, 19 euro), di Bianca Stancanelli, è un libro coraggioso. Ventuno storie di vita rom, ognuna con la sua specificità, senza mai nascondere nulla, senza mai cadere nello stereotipo opposto, quello del popolo che a forza di essere vento assurge a una categoria poetica. Coraggioso non è sinonimo di militante. Stancanelli applica lo stesso metodo che ha usato per raccontare la vita di don Pino Puglisi in A testa alta: è la cara, vecchia cronaca, niente di più. Solo che questa volta il tema è dei più difficili per i nostri palati abituati al pregiudizio. E per vederne gli effetti, basta leggere la vicenda dei genitori dei 4 bimbi bruciati in una roulotte a Livorno nel 2007. Provate, se avete figli, a mettervi nei loro panni, come
talvolta capita in questi giorni con i padri storditi dall’afa che dimenticano i bimbi in macchina, ai quali offriamo una confusa solidarietà. E poi a proseguire, seguendo la violenza giudiziaria che hanno dovuto patire, colpevoli soprattutto di essere zingari. Questo libro non è un almanacco di tipi umani, perché ogni vicenda personale si fonde con informazioni decisive e sconosciute ai più. La vergogna e la fortuna, che tra gli altri pregi ha quello della bella scrittura, non fa sconti alla nostra memoria. Quanti si ricordano di Emilia Neamtu? Era la rom che tentò di fermare la mano di Nicolae Mailat, il delinquente che aggredì e straziò Giovanna Reggiani, al buio di un vialetto all’uscita di un fermata periferica della metropolitana di Roma. Mailat, romeno, divenne rom per ellissi e convenienza, Emilia cadde nell’oblio, non era funzionale alla narrazione richiesta allora. Alla fine restano soprattutto i volti delle persone, gli esempi di vita. Marta, che considerava Natale il tempo della vergogna, perché quello era il periodo in cui le toccava chiedere  l’elemosina per strada. La giovane rom di Torino che miete premi con i suoi film e un giorno, forse, stringerà la mano a
Woody Allen. E anche l’autrice, che non fa sconti a neppure a se stessa e descrive la sue esitazioni nel premere il citofono di un palazzo elegante per incontrare l’ex operaio Graziano Halilovic: in fondo, si scopre a pensare, uno zingaro deve stare in una baracca, non in un quartiere borghese.
Appunti a futura memoria da un libro esemplare, magari da far leggere a chi ancora la pensa come l’anonimo bolognese e straparla di zingaropoli. I rom sono fragili e forti, umani e furbi, virtuosi e imperfetti. Come tutti, come noi.

 

Marco Imarisio
in “Corriere della Sera” del 30 maggio 2011

Come si diventa un ateo credente

 

Hilary Putnam, Filosofia ebraica, una guida di vita, Carocci, 2011

intervista a Hilary Putnam, a cura di Antonio Gnoli

 

Dopo aver letto il libro – bello e intenso come un appassionato esame di coscienza – verrebbe voglia di capire perché Hilary Putnam – che per sessant’anni ha scritto di “fatti e valori” e di filosofia della scienza, con l’autorità che tutti gli riconoscono a livello internazionale – abbia deciso di aprirsi alle grandi interrogazioni religiose e al mistero che le avvolge. Putnam ha da poco pubblicato Filosofia ebraica, una guida di vita (edito da Carocci con una postfazione di Massimo Dell’Utri e Pierfrancesco Fiorato) e già il titolo mette in chiaro che non si tratta di una ricostruzione neutra del pensiero di Rosenzweig, Buber, Lévinas e Wittgenstein, ma di una vera e propria lettura che implica una scelta di campo, un’adozione e una solidarietà intima con il pensiero ebraico.
Putnam è nato a Chicago, ha 85 anni ed è considerato il più grande filosofo analitico in circolazione. Egli ha appena consegnato per la Harvard University Press una raccolta di saggi dal titolo Philosophy in the Age of Science. Di formazione è un matematico e un logico e in passato si è occupato di filosofia del linguaggio e della mente.

 

Professor Putnam da dove nasce il bisogno di misurarsi con i problemi della fede, oltretutto abbracciandone la sostanza spirituale?
«È stato Kierkegaard a parlare del salto della fede, che deve avvenire solo dopo la riflessione. Io ritengo che avere una propria vita spirituale sia una benedizione, ma senza riflessione si rischia di provocare quei disturbi o malesseri che spesso accompagnano la religione».

 

Quali malesseri?
«Kant ne ha elencati quattro: fanatismo, superstizione, delusione, stregoneria. Sono un gran pericolo per chiunque abbracci una religione».


Lei utilizza alcuni importanti pensatori ebraici come antidoto ai pericoli che una religione può rappresentare. Ma che cosa hanno in comune Rosenzweig, Buber e Lévinas?

«Sono molto diversi tra loro, ma hanno in comune il fatto di filosofare nel solco della tradizione ebraica e di essere tutti e tre dei filosofi esistenzialisti. Ossia tutti e tre sarebbero d’accordo nell’affermare che filosofi e religiosi sono tali per il loro modo di essere al mondo e non solo per la loro capacità di sviluppare una teoria. Questo aspetto, che reputo fondamentale, è un loro debito nei confronti di Kierkegaard».

 

Ma si può essere, come nel suo caso, insieme atei e credenti? Non si rischia di confondere due piani inconciliabili?
«Da un lato, non credo nel sovrannaturale e agli occhi di molta gente questo mi rende un ateo; benché preferisca personalmente usare questo termine solo per chi si oppone attivamente alla religione. D’altro canto, credo che gli ideali religiosi e morali abbiano una qualche validità. In altre parole, penso che valori e ideali sono costruzioni umane, ma le richieste che questi ci permettono di esaudire non sono state inventate da noi. Non scherzo né mento quando affermo che pregare Dio – cosa che faccio ogni giorno – , non è pregare un essere fittizio. Per alcuni questo fa di me un
credente. Ma ciò in cui credo quando dico: “credo in Dio” non è affatto quello che l’ateo nega quando dice: “Dio non esiste”. Capisce perché quello tra un ateo e un credente può diventare un dialogo tra sordi».

 

Si può ricondurre la distinzione tra atei e credenti a una più generale distinzione tra fatti e valori?
«Non penso che i valori non religiosi – morali, epistemologici ecc. – presuppongano la religione o Dio. Ci dicono, semplicemente, che esistono modi di vivere, di ragionare, di agire che sono migliori o peggiori di altri. Non vedo il naturalismo in filosofia incompatibile con il credere nella realtà normativa. Chi è scettico sulla normatività del mondo lo sarà sicuramente anche sull’idea che il modo di vita religioso possa avere un valore oggettivo».


Nella sua visione filosofica viene prima la conoscenza scientifica o quella religiosa?

«Penso che la religione non dovrebbe essere considerata una forma di conoscenza. Quando alcuni invocano l’autorità della religione per negare dei dati scientifici (per esempio l’evoluzione), ebbene essi sono semplicemente irrazionali. Inoltre la conoscenza morale – il sapere cioè che tutti noi siamo degni di rispetto e abbiamo dei diritti – non dipende dalla religione che professiamo».

 

Lei è considerato un filosofo realista. Immagino che sia una definizione che non la soddisfi più?
«Al contrario mi soddisfa pienamente, come cercherò di dimostrare con il nuovo libro che ho appena consegnato».

 

La sua idea di religione?
«Un mio amico e grande studioso delle religioni di tutto il mondo, ripeteva spesso che nessuna delle religioni era interamente buona e, per spiegare la sua piccola provocazione, aggiungeva: “potrei mostrarti altrettante differenze tra i Metodisti della Londra del 1815, quante si presuppone ce ne siano tra tutte le altre religioni del mondo”. Dal mio punto di vista, un modo di vita religioso soddisfacente deve condurre verso il fiorire, compreso il fiorire morale, dell’individuo e della comunità. Quello che la religione non deve fare è creare dei dogmi su argomenti scientifici e morali».

 

Lei ha scritto della pagine molto interessanti su Lévinas che come sa è stato un allievo di Heidegger. Cosa pensa di Heidegger?
«Credo che il pensiero di Heidegger sia stato profondamente permeato dalla sua lunga simpatia per il nazionalsocialismo. Già da prima che Hitler prendesse il potere. So che questa interpretazione è controversa. Ma è un fatto che già in Essere e Tempo Heidegger è convinto che noi scegliamo il nostro destino scegliendo il nostro eroe e aggiunge che non si sceglie solo per se stessi, ma anche per il proprio Volk. L’autenticità che egli difende non ha nulla a che vedere con l’individualità. Essa nasce dalla venerazione per il Volk e la sua presunta grandezza. Non nego che fosse un genio. Dal mio punto di vista ritengo però fosse un genio del male».

 


Lei sostiene di non credere in una vita ultraterrena e di non credere nei miracoli o in un Dio che ci salva dai disastri. Su cosa basa la sua fede?

«Come Kant, ritengo che il genere più prezioso di religiosità non riponga sull’attesa di una qualche ricompensa. E d’altronde, Kant aveva ragione quando affermava che molte persone hanno bisogno di credere nella vita eterna e in una ricompensa dopo la morte. Io no. Ma non posso disprezzare ciò che dà alla gente il coraggio di andare avanti. Purché questo non porti all’intolleranza».

 

 

in “la Repubblica” del 31 maggio 2011

I banchi si svuotano

 

 

nel 2010 aumenta ulteriormente la popolazione complessiva

ma si abbassa l’indice di natalità

 

 

 

Nell’annuale bilancio dell’andamento demografico del nostro Paese che l’Istat pubblica a maggio per la situazione relativa all’anno precedente, si confermano due tendenze che hanno riflessi anche sulla scuola: nel 2010 aumenta ulteriormente la popolazione complessiva, superando i 60 milioni e 600 mila unità (60.626.442), grazie anche alla consistente presenza di stranieri, ma contestualmente si abbassa l’indice di natalità, scendendo a 9,27 nati ogni mille abitanti presenti, grazie, anche qui, al minor apporto delle famiglie straniere (che in questi anni ha fornito un sensibile contributo all’incremento di alunni, soprattutto nelle aree settentrionali e centrali).

Oltre all’abbassamento dell’indice (era stato del 9,43 nel 2009 e del 9,60 nel 2008) in parte dovuto anche all’aumento complessivo della popolazione, sono calate anche in valori assoluti le nascite (circa 562 mila, cioè 7 mila meno dell’anno precedente che già aveva fatto registrare un decremento di altre 8 mila unità rispetto al 2008).

Se si abbassa l’indice di natalità, mentre cresce il numero complessivo delle persone presenti nel Paese, è segno che l’Italia sta invecchiando e avrà meno giovani da seguire e formare e più anziani da assistere. L’Italia del futuro dovrà occuparsi più di anziani che di giovani. Nelle recenti previsioni che il Mef ha fatto sull’evoluzione della spesa pubblica, sulla base di studi e proiezioni della Ragioneria Generale dello Stato, è emerso che tra alcuni decenni l’investimento della ricchezza prodotta dal Paese (PIL) per la scuola tenderà a diminuire. Si tratta di proiezioni che, a invarianza di scelte politiche e legislative, considera soltanto la previsione di sviluppo demografico del Paese: meno nati, quindi meno classi, meno docenti, meno spesa per la scuola.

Anziché subire questa depressione demografica con effetti di contrazione delle risorse umane per l’istruzione e la formazione, è necessario trasformare questa difficoltà in opportunità di crescita per il Paese, reinvestendo sulla scuola i risparmi di sistema.

Clemente Vismara: un missionario beato


Ha passato la vita in missione. Ha piantato la Chiesa dove mai il cristianesimo era arrivato. Una santità ordinaria, che semplicemente ha  messo in pratica il Discorso della Montagna



La beatificazione di Giovanni Paolo II ha scosso come un ciclone il mondo intero. “Ma vi sono anche altri testimoni esemplari di Cristo, molto meno noti, che la Chiesa addita con gioia alla venerazione dei fedeli”: così ha detto Benedetto XVI al “Regina Cæli” di due domeniche dopo.

Quello dei santi umili e ordinari – anche quelli che non avranno mai l’aureola – è un tema chiave nella predicazione di papa Joseph Ratzinger. Per lui i santi sono “la più grande apologia della nostra fede”. Assieme all’arte e alla musica, ha aggiunto spesso. E molto più degli argomenti di ragione.

Detta da un papa grande teologo e grande ragionatore, l’affermazione può sorprendere. Ma è del tutto in linea con un altro dei suoi tratti caratterizzanti: quello di mettere la teologia al servizio della “fede dei semplici”.

I santi – ha detto Benedetto XVI in più occasioni – “sono quella grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia. Vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni. Lì c’è veramente la luce dalla luce”.

Una di queste luci si accenderà a una più larga attenzione il 26 giugno, giorno della festa del Corpus Domini, quando a Milano sarà beatificato un sacerdote di nome Clemente Vismara, morto nel 1988 all’età di 91 anni, spesi fino all’ultimo in terra di missione, in un angolo remoto della Birmania.

La sua biografia è il racconto di quella santità ordinaria che tanto piace a questo papa che s’è definito “umile lavoratore nella vigna del Signore”.

Il profilo del nuovo beato riprodotto qui sotto è stato scritto da un confratello che l’ha conosciuto molto da vicino: padre Piero Gheddo, anche lui appartenente al Pontificio Istituto Missioni Estere, anche lui da decenni missionario con quello stile “antico” che risale agli stessi apostoli. Non per nulla Giovanni Paolo II chiese a padre Gheddo di scrivergli una traccia per l’enciclica del 1990 “Redemptoris Missio”, mirata a rinvigorire il genuino spirito missionario in un’epoca in cui sembra andato fuori moda.

Nella buddista Birmania, oggi detta Myanmar, i cattolici sono poco più di uno ogni cento abitanti. Ma se la fede cristiana vi si è radicata, lo si deve proprio a un missionario come padre Vismara, prossimo beato.

Lo si deve alla “scia luminosa” irradiata dalla sua santità.

Questo profilo del nuovo beato scritto da padre Gheddo è uscito su “Asia News”, l’agenzia on line dell’istituto missionario al quale padre Vismara apparteneva.

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IL NUOVO BEATO CLEMENTE VISMARA, PATRIARCA DELLA BIRMANIA

di Piero Gheddo

Domenica 26 giugno in Piazza Duomo a Milano verrà beatificato padre Clemente Vismara (1897-1988), che nel 1983, quando compì i suoi sessant’anni di missione in Myanmar, la conferenza episcopale del luogo proclamò “Patriarca della Birmania”.

Nato ad Agrate Brianza nel 1897, partecipa come fante di trincea alla prima guerra mondiale, alla fine della quale è sergente maggiore con tre medaglie al valor militare. Capisce che “la vita ha valore solo se la si dona agli altri” (come scriveva), diventa sacerdote e missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, PIME, nel 1923 e parte per la Birmania. Giunto a Toungoo, l’ultima città con un governatore britannico, si ferma sei mesi a casa del vescovo per imparare l’inglese, poi è destinato a Kengtung, territorio forestale, montuoso, quasi inesplorato e abitato da tribali, ancora sotto il dominio di un re locale (saboà) patrocinato dagli inglesi. In quattordici giorni a cavallo arriva a Kengtung, tre mesi di sosta per imparare qualcosa delle lingue locali e poi il superiore della missione in sei giorni a cavallo lo porta a Monglin, la sua ultima destinazione ai confini tra Laos, Cina e Thailandia.

Era  l’ottobre 1924 e in 32 anni (con la seconda guerra mondiale in mezzo, nella quale cade prigioniero dei giapponesi), Clemente Vismara fonda dal nulla tre parrocchie: Monglin, Mong Phyak e Kenglap. Scriveva ad Agrate: “Qui sono a 120 chilometri da Kengtung, se voglio vedere un altro cristiano debbo guardarmi allo specchio”. Vive con tre orfani in un capannone di fango e paglia. Il suo apostolato è girare i villaggi dei tribali a cavallo, piantare la sua tenda e farsi conoscere: porta medicine, strappa i denti che fanno male, si adatta a vivere con loro, al clima, ai pericoli, al cibo, riso e salsa piccante, la carne se la procurava con battute di caccia. Fin dall’inizio porta a Monglin orfani e bambini abbandonati per educarli. In seguito fondò un orfanotrofio e divenne la casa di 200-250 orfani e orfane. Oggi è invocato “protettore dei bambini” e fa molte grazie che  riguardano i piccoli e le famiglie.

Una vita poverissima e Clemente scriveva: “Qui è peggio che quando ero in trincea sull’Adamello e sul Monte Maio, ma questa guerra l’ho voluta io e debbo combatterla fino in fondo con l’aiuto di Dio. Sono sempre nelle mani di Dio”. A poco a poco nasce una comunità cristiana, arrivano le suore di Maria Bambina ad aiutarlo, fonda scuole e cappelle, officine e risaie, canali d’irrigazione, insegna la falegnameria e la meccanica, costruisce case in muratura e porta nuove coltivazioni, il frumento, il granoturco, il baco da seta, la verdura (carote, cipolle, insalata: “Il padre mangia l’erba”, diceva la gente).

In breve, il beato Clemente ha fondato la Chiesa in un angolo di mondo dove non ci sono turisti ma solo contrabbandieri d’oppio, stregoni e guerriglieri di varia estrazione; ha portato la pace e stabilizzato sul territorio le tribù nomadi che, attraverso la scuola e l’assistenza sanitaria, si sono elevate e oggi hanno medici e infermiere, artigiani e insegnanti, preti e suore, autorità civili e vescovi. Non pochi si chiamano Clemente e Clementina.

Nel 1956, dopo che aveva fondato la cittadella cristiana di Monglin e convertito una cinquantina  di villaggi alla fede in Cristo, il vescovo lo sposta a Mongping, a 250 chilometri da Monglin nella sterminata diocesi di Kengtung, dove deve ricominciare da zero. Clemente scrive ad un suo fratello: “Obbedisco al vescovo perché capisco che se faccio di testa mia sbaglio”. A sessant’anni dà inizio a una nuova missione e fonda la cittadella cristiana e parrocchia di Mongping, una seconda parrocchia a Tongtà e lascia in eredità altri cinquanta villaggi cattolici.

Muore il 15 giugno 1988 a Mongping ed è sepolto vicino alla chiesa e alla grotta di Lourdes da lui costruite. Sulla sua tomba, visitata anche da molti non cristiani, non mancano mai i fiori freschi e i lumini accesi. Ora, 23 anni dopo,  il 26 giugno 2011, padre Clemente Vismara è proclamato beato della Chiesa universale ed è il primo beato della Birmania. Una causa di beatificazione rapidissima, considerando i tempi lunghi di questi “processi” romani.

Perché padre Clemente Vismara diventa beato? In vita non ha fatto miracoli, non ha avuto visioni o rivelazioni, non era un mistico e nemmeno un teologo, non ha compiuto grandi opere né è emerso per qualità o carismi straordinari. Era un missionario come tutti gli altri, tant’è vero che quando nel PIME si discuteva di iniziare la sua causa di beatificazione, qualche suo confratello della Birmania diceva: “Se fate beato lui dovete fare beati anche tutti noi che abbiamo fatto la sua stessa vita”. Nel 1993 sono andato a Kengtung con due missionari che erano stati con Clemente in Birmania e abbiamo chiesto al vescovo Abraham Than: “Perchè vuol fare beato padre Clemente?”. Ha risposto: “Abbiamo avuto tanti santi missionari del PIME che hanno fondato questa diocesi, compreso il primo vescovo Erminio Bonetta, ancora ricordato come un modello di carità evangelica, e altri il cui ricordo è vivo. Ma per nessuno di essi si sono verificati questa devozione e questo movimento di popolo per dichiararli santi, come per padre Vismara. In questo io vedo un segno di Dio per iniziare il processo conoscitivo diocesano”.

Diceva un suo confratello: “Vismara era straordinario nell’ordinario”. A ottant’anni aveva lo stesso entusiasmo per la sua vocazione di prete e missionario, sereno e gioioso, generoso con tutti, fiducioso nella Provvidenza, un uomo di Dio pur nelle tragiche situazioni in cui è vissuto. Aveva una visione avventurosa e poetica della vocazione missionaria, che l’ha reso un personaggio affascinante attraverso i suoi scritti, forse il missionario italiano più conosciuto del Novecento.

La sua fiducia nella Provvidenza era proverbiale. Non faceva bilanci, né preventivi, non contava mai i soldi che aveva. In un paese in cui la maggioranza della gente in alcuni mesi dell’anno soffre la fame, Clemente dava da mangiare a tutti, non rimandava mai nessuno a mani vuote. I confratelli del PIME e le suore  di Maria Bambina lo rimproveravano di accogliere troppi bambini, vecchi, lebbrosi, handicappati, vedove, squilibrati. Clemente diceva sempre: “Oggi abbiamo mangiato tutti, domani il Signore provvederà”.  Si fidava della Provvidenza, ma scriveva a benefattori di mezzo mondo per avere aiuti e collaborava con articoli a varie riviste. Le sue serate le spendeva scrivendo al lume di candela lettere e articoli (ho raccolto più di 2000 lettere e 600 articoli). Bisogna aggiungere che gli scritti di padre Vismara, poetici, avventurosi, infiammati di amore per i più poveri, hanno suscitato numerose vocazioni sacerdotali, missionarie e religiose non solo in Italia.

Clemente rappresenta bene le virtù dei missionari e i valori da tramandare alle generazioni future. Nell’ultimo mezzo secolo la missione alle genti è cambiata radicalmente, sempre però continuando ad essere quello che Gesù vuole: “Andate in tutto il mondo, annunziate il Vangelo a tutte le creature”. Ma i metodi nuovi (responsabilità della Chiesa locale, inculturazione, dialogo interreligioso, ecc.) debbono essere vissuti nello spirito e nella continuità della Tradizione ecclesiale che risale agli apostoli.

Clemente è uno degli ultimi anelli di questa gloriosa Tradizione apostolica. Era  innamorato di Gesù (pregava molto!) e del suo popolo, specie dei piccoli e degli ultimi e scriveva: “Questi orfani non sono miei ma di Dio, e Dio non lascia mai mancare il necessario”. Viveva alla lettera quanto dice Gesù nel Vangelo: “Non preoccupatevi troppo dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Come ci vestiremo? Sono quelli che non conoscono Dio che si preoccupano di tutte queste cose. Voi invece cercate il regno di Dio e fate la sua volontà: tutto il resto Dio ve lo darà in più” (Matteo 6, 31-34). Utopia? No, in Clemente era una realtà vissuta, che gli portava la gioia nel cuore nonostante tutti i problemi che aveva.

L’ho visitato in Birmania nel 1983, a 86 anni era ancora parroco a Mongping. Volevo intervistarlo sulle sue avventure e mi diceva: “Lascia perdere il mio passato che ho già raccontato tante volte. Parliamo del mio futuro”. E mi parlava dei villaggi da visitare, delle scuole e cappelle da costruire, delle richieste di conversioni che gli venivano da varie parti. Come diceva un confratello: “È morto a 91 anni senza mai essere invecchiato”. Aveva conservato l’entusiasmo dei primi tempi per la sua missione.

Padre Clemente Vismara è uno dei circa 200 missionari del PIME che dal 1867 ad oggi hanno fondato nella Birmania nord-orientale sei delle 14 diocesi di Myanmar: Toungoo, Kengtung, Taunggyi, Lashio, Loikaw e Pekong, con circa 300 mila battezzati, vescovi, preti e suore indigeni, più di metà dei cattolici della Birmania.

Clemente è uno dei tanti che, tutti assieme, rappresentano bene la tradizione missionaria e lo spirito del PIME, che continua ad assistere in vari modi la Chiesa del Myanmar, fra l’altro anche assumendo loro vocazioni missionarie, formandole e inviandole nelle comunità dell’istituto in tutti i continenti per annunziare Cristo e fondare la Chiesa anche in altri popoli.

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L’agenzia on line del Pontificio Istituto Missioni Estere al quale il beato Clemente Vismara apparteneva:

> Asia News

“Signore da chi andremo? Pellegrini, cercatori di Dio”


 

 

il Convegno per la pastorale del tempo libero, turismo e sport si svolge da giovedì 2 a sabato 4 giugno a Fano.

 

 

“L’uomo da sempre e ancor di più oggi è alla ricerca di senso, di significato, di andare in profondità. Facendosi pellegrino verso un luogo sacro si riappropria di una modalità di incontro con Dio che lo mette in strada, riscopre la sua minorità, recuperando i valori ad essa connessi: la sobrietà, la semplicità, l’essenzialità, il gusto dell’andare verso la meta, il gusto di incontrarsi e di stare insieme, il raccontare, il pregare, contemplare, ammirare, stupire”.Con queste parole don Mario Lusek, Direttore dall’Ufficio Nazionaleper la pastorale del tempo libero, turismo e sport, presenta il Convegno “Signore da chi andremo? Pellegrini, cercatori di Dio”, che si svolge da giovedì 2 a sabato 4 giugno a Fano. “L’iniziativa – spiega don Mario Lusek, Direttore di uno degli Uffici promotori, unitamente all’Ufficio Liturgico Nazionale, alla Diocesi di Fano, al Collegamento Nazionale Santuari e al Segretariato Pellegrinaggi Italiani (SPI) – vuole recepire gli Orientamenti Pastorali emersi nel 2° Congresso Mondiale della pastorale dei Santuari e dei Pellegrinaggi promosso a Santiago de Compostela dal Pontificio Consiglio dei Migranti nel settembre 2010 e prepararci al Congresso Eucaristico Nazionale del prossimo settembre ad Ancona”.

 

I lavori della tre giorni, che sarà moderata da Giovanni Gazzaneo, coordinatore de “I luoghi dell’Infinito”, si apriranno alle ore 15.30di giovedì 2 giugno con i saluti di S. E. Mons. Armando Trasarti, Vescovo di Fano – Fossombrone – Cagli – Pergola, di Stefano Aguzzi, Sindaco di Fano, di Matteo Ricci, Presidente della Provincia di Pesaro – Urbino, di Gian Mario Spacca, Presidente della Regione Marche e di don Mario Lusek, Direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport.

 

La prima sessione, intitolata “Camminare, l’homo viator del nostro tempo ed il suo cammino di ricerca” sarà presieduta da Don Luciano Mainini, Segretario Generale dello SPI. Dopo una lectio divina della biblista Rosanna Virgili, S.E. Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, presenterà la “Lettera ai cercatori di Dio”. In serata, alle 21.30, presso il Teatro della Fortuna avrà luogo la rappresentazione teatrale “Il Giullare Pellegrino”, a cura del Jobel Teatro di Roma.

 

Venerdì 3 giugno alle ore 9.30 avrà inizio la seconda sessione, intitolata “Accogliere, il ministero dell’accoglienza nei Santuari” e presieduta da Mons. Marino Maria Basso, Presidente del Coordinamento Nazionale Santuari. In apertura il Prof. Maurizio Boiocchi, Dottore di ricerca presso l’Università IULM di Milano, offrirà un “Identikit del pellegrino di oggi: una lettura socio pastorale”. Sarà poi affrontato il tema “Educare all’accoglienza e all’incontro: esperienze a confronto”, con gli interventi di P. Enzo Poiana, Rettore della Basilica di Sant’Antonio di Padova, di P. Francesco Biagioli, collaboratore del Rettore del Santuario di San Gabriele dell’Addolorata (Isola Gran Sasso d’Italia – TE) e di Don Ciro Favaro, Rettore del Santuario della Madonna del Pettoruto a San Sosti (CS). A seguire Mons. Giancarlo Perego, Direttore Generale della Fondazione Migrantes, interverrà su “Il Santuario luogo di educazione alla solidarietà”, mentre su “L’accoglienza degli stranieri nel Santuario di Pietralba (BZ)” interverrà il Rettore P. Lino Pachin.

Alle ore 12.00 S. E. Mons. Luigi Conti, Arcivescovo-Metropolita di Fermo e Presidente della Conferenza Episcopale Marchigiana, presiederà una Celebrazione Eucaristica presso la Basilica di San Paterniano.

Nel pomeriggio avrà luogo la terza sessione, intitolata “Celebrare, il servizio pastorale nei Santuari”, e presieduta da S. E. Mons. Claudio Maniago, Vescovo ausiliare di Firenze e Segretario della Commissione Episcopale per la liturgia. Il primo intervento sarà di Adelindo Giuliani, dell’Ufficio Liturgico del Vicariato di Roma, su “L’animazione nei Santuari: la via dei segni”.

Seguirà quello di Mons. Timothy Verdon, Direttore Diocesano per la catechesi attraverso l’arte, arte sacra e beni culturali di Firenze, su “La via della bellezza”; infine toccherà al Prof. Franco Cardini, Storico e Docente all’Università degli Studi di Firenze, che interverrà su “La via della memoria. Le antiche vie di pellegrinaggio”.

 

Sabato 4 giugno alle ore 9.30 avrà inizio la quarta ed ultima sessione dei lavori, intitolata “Ritornare, un cammino che continua”, e presieduta da Giovanni Gazzaneo.  Su “Il ministero delle Opere Diocesane di Pellegrinaggio” interverrà, in apertura, Don Claudio Zanardini, Responsabile Ecclesiastico di Brevivet, cui farà seguito S. E. Mons. Edoardo Menichelli, Arcivescovo-Metropolita di Ancona-Osimo e Vescovo Delegato Regionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport, che parlerà sul tema “Signore, da chi andremo? Pellegrini verso il Congresso Eucaristico Nazionale”.

Da ultimi, per tracciare le conclusioni (“Il ritorno, un cammino che continua”) prenderanno la parola S. E. Mons. Claudio Giuliodori, Presidente della Commissione Episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, e do

Assemblea CEI, il Comunicato finale

“La comunione nello Spirito Santo è la condizione del giusto discernimento”.

Queste parole, pronunciate dal Card. Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, nell’omelia della Concelebrazione eucaristica in San Pietro, individuano con efficacia i tratti caratterizzanti la 63ª Assemblea Generale della CEI (Roma, 23-27 maggio 2011).
in San Pietro

A essa hanno preso parte 231 membri e 18 Vescovi emeriti, a cui si sono aggiunti 22 rappresentanti di Conferenze Episcopali europee, i delegati dei religiosi, delle religiose, degli Istituti secolari, della Commissione Presbiterale Italiana e della Consulta Nazionale delle aggregazioni laicali, nonché alcuni esperti, in ragione degli argomenti trattati.
Uno spirito di comunione ha contraddistinto anzitutto la prolusione del Presidente, il Card. Angelo Bagnasco, che ha riletto, a partire dalla recente beatificazione, la figura e il magistero di Giovanni Paolo II, riproponendo la forza rigenerante dell’originalità cristiana, anche in un clima culturale segnato dal dilagare del secolarismo e del relativismo. Con fermezza, esprimendo “dolore e incondizionata solidarietà” alle vittime e alle loro famiglie, ha ribadito il dovere di affrontare l’infame piaga degli abusi sessuali perpetrati da sacerdoti; la preoccupazione per la crisi della vita pubblica e per l’individualismo indiscriminato che porta a ignorare le urgenze sociali; il bisogno di tutelare la persona in ogni momento della vita e la famiglia, come nucleo primario della società; la necessità di qualificare la scuola e di una politica del lavoro che abbia a cuore il futuro dei giovani. L’anelito alla comunione ha indotto a varcare i confini del nostro Paese, per soffermarsi sullo situazione del Medio Oriente e del Nordafrica, con particolare attenzione alla Libia, chiedendo un “cessate il fuoco” che apra la strada alla diplomazia e a un diverso coinvolgimento dell’Unione europea.

 

nella Basilica di S. Maria Maggiore

La comunione si è manifestata visibilmente nella celebrazione mariana del 26 maggio nella Basilica di S. Maria Maggiore, nella quale i Vescovi, riuniti in preghiera intorno al Santo Padre, hanno rinnovato l’affidamento dell’Italia alla Vergine Madre, nell’anno in cui ricorre il centocinquantesimo anniversario dell’unità politica.
L’Assemblea Generale ha esercitato il suo discernimento in particolare riflettendo sulle modalità secondo cui articolare nel decennio corrente gli Orientamenti pastorali Educare alla vita buona del Vangelo, approvati nel 2010. In quest’opera i Vescovi sono stati guidati da due relazioni magistrali, l’una volta ad approfondire cosa significhi introdurre e accompagnare all’incontro con Cristo nella comunità ecclesiale, e l’altra imperniata sulla sfida che il secolarismo pone all’universalità cristiana. Continuando l’opera iniziata nella precedente Assemblea Generale, tenuta ad Assisi nel novembre scorso, i Vescovi hanno esaminato e approvato la seconda parte dei materiali della terza edizione italiana del Messale Romano.
Fra gli adempimenti di natura amministrativa, spicca l’approvazione della ripartizione e dell’assegnazione delle somme derivanti dall’otto per mille.
A integrazione dei lavori, sono state svolte comunicazioni e date informazioni su alcune esperienze ecclesiali di rilevanza nazionale e sui prossimi eventi che coinvolgeranno le Chiese in Italia.

 

 

 

Comunicato finale – 27 maggio 2011.doc

Primavera araba alla prova delle minoranze

 

 

Dalle coste dell’Atlantico a quelle del Golfo persico, in numerosi Paesi del mondo arabomusulmano donne e uomini stanno chiedendo a gran voce la democratizzazione dei regimi in vigore, e talvolta anche la fine di dittatori che monopolizzano per il loro profitto potere e ricchezze nazionali.

 

 

La maggior parte degli osservatori ha troppo spesso sottovalutato, se non negato, la fortissima aspirazione dei popoli arabi alla democrazia; ora lo straordinario fermento al quale stiamo assistendo dimostra con efficacia l’universalità dei diritti dell’uomo e la compatibilità dell’islam con la democrazia.
Fino ad oggi, smentendo alcuni timori, le rivoluzioni arabe non hanno dato luogo né a manifestazioni xenofobe o anti-occidentali, né a una penetrazione significativa degli islamici.

 

 

La «Rivoluzione dei gelsomini» in Tunisia e le rivolte in piazza Tahrir al Cairo hanno portato, parallelamente e simultaneamente, alla fine dei regimi dittatoriali in vigore, e, insieme, hanno riproposto implicitamente la discussione sull’islamismo politico. Non è riferendosi alla sharìa o al mito di uno Stato teocratico fondato su una concezione fondamentalista dell’islam che i dimostranti hanno sfidato l’ordine. Hanno chiesto, e ottenuto, quello che altri sperano ancora di avere: il multipartitismo, la libertà di stampa, lo svolgimento di vere elezioni democratiche pluraliste.
Durante le manifestazioni, nessuna bandiera americana o israeliana è stata bruciata; nessuno slogan anti-ebreo è stato pronunciato. Piuttosto, sono stati i regimi in vigore, in Libia come in Siria, a denunciare in modo demagogico la «mano straniera», attribuendo al «Grande Satana americanoisraeliano » il vento che li vorrebbe spazzare via. Tutto questo, nel tentativo di delegittimare i movimenti di protesta, sull’esempio dell’Iran. Un “metodo” utilizzato troppe volte per essere ancora credibile, e i manifestanti hanno dimostrato di essere determinati a rifiutare l’anti-imperialismo che i dittatori hanno provato a impugnare. È questo un segnale profondamente incoraggiante.

 

 

Anche se bisogna guardarsi da eccessivi entusiasmi: troppo avvenimenti recenti ci spingono a un’attenta vigilanza. Alla fine del 2010, l’Egitto fu teatro di un sanguinoso attentato contro una chiesa copta ad Alessandria. Nessuno,  llora, poteva immaginare che, solo poche settimane dopo, una folla in cui stavano fianco a fianco musulmani, cristiani e agnostici – perché ce ne sono – avrebbe spinto Hosni Mubarak alle dimissioni. Spetta a questa gente, ormai, agire  affinché una tragedia simile non possa più verificarsi. In Tunisia, all’indomani della caduta dell’ex presidente Ben Ali, un prete cattolico di origine polacca, padre Marek Rybinski, è stato sgozzato nelle aule di una scuola interconfessionale alla Manouba, nella banlieue tunisina, mentre decine di manifestanti islamici organizzavano un raduno davanti alla grande sinagoga di Tunisi e nelle stesse ore in cui un oratorio veniva incendiato vicino a Gabès. In risposta a questi avvenimenti, molte centinaia di tunisini sono scesi in piazza per una «Tunisia laica», mostrando manifesti sui quali si poteva leggere: «Noi siamo tutti ebrei, cristiani e musulmani». Una società viene sempre giudicata in base al trattamento che sa riservare alle altre. Un’affermazione che si applica anche alle nostre stesse società. E questo anche quando le minoranze sono così poco importanti da diventare, per così dire, invisibili. «Sono io il custode di mio fratello?», disse Caino. Bisogna smetterla di interpretare in modo restrittivo ed egocentrico questa domanda. Noi siamo i custodi dei nostri fratelli, ma non solo di essi.

 

 

Non c’è affatto bisogno di essere cristiano per prendere le difese dei copti d’Egitto, degli assiro-caldei dell’Iraq o dei maroniti del Libano. Non c’è affatto bisogno di essere musulmano per prendere le difese degli sciiti della Penisola arabica, dei sunniti iraniani, dei musulmani d’India o di Ceylon, o degli aleviti turchi. Non c’è affatto bisogno di essere ebrei per prendere le difese degli ebrei di Siria o dell’Iran. Questa difesa delle minoranze è innanzitutto interesse delle maggioranze in mezzo alle quali esse vivono; e non si può avere stima di se stessi se si disprezza l’Altro. I nuovi regimi saranno giudicati in base al trattamento che sapranno riservare alle loro minoranze etniche e religiose: cristiani d’Egitto, di Siria, di Giordania e del Libano, curdi della Siria, sciiti degli Emirati del Golfo Persico. La tesi fallace, troppo spesso ascoltata, secondo la quale solo i regimi autoritari sono in grado di garantire la sicurezza, e persino la sopravvivenza, delle loro minoranze merita una secca smentita. È dal posto che verrà riservato alle minoranze in queste società che potremo giudicare la vera natura della «Primavera araba».

di René Guitton (traduzione di Barbara Uglietti)
in “Avvenire” del 29 maggio 2011

 

Videoa allegato:

 

L’ Arcivescovo cattolico greco-melkita  racconta la difficile situazione che sta vivendo il paese mediorientale sulla scia della “primavera araba”. I progetti che la chiesa cattolica sta portando avanti per arginare l’esodo dei giovani cristiani da quelle terre.

 

Che cos’è libertà

 

 

La libertà è il fondamento della stessa possibilità della vita morale:

hanno infatti significato etico soltanto quegli atti nei quali la libertà si esercita, e la loro eticità è misurata dal grado e dalla qualità di libertà che in essi si esprime. Libertà ed eticità sono dunque grandezze direttamente proporzionali, che rinviano l’una all’altra come a criteri correlativi di definizione del significato morale dell’agire.

 

Laddove non sussiste libertà non si dà eticità; gli atti che l’uomo realizza, in condizione di totale assenza di libertà sono infatti atti che provengono dall’uomo senza che ne sia padrone e possa farsene di conseguenza responsabilmente carico. Per questo vi è chi afferma che libertà ed eticità coincidono; che l’identità del soggetto umano è data dalla libertà — è questa l’opinione di Jean Paul Sartre  —; in altri termini, che l’uomo non ha la libertà ma è libertà.

 

tra libertarismo e determinismo

Questa concezione è oggi largamente condivisa, al punto che ad essa si ispirano molti comportamenti sia individuali che sociali. La dinamica del desiderio è spesso considerata l’unica sorgente delle scelte nei vari ambiti dell’esistenza. L’economia di mercato ha assunto come paradigma una forma di liberismo selvaggio, insofferente di qualsiasi regola. La società è caratterizzata dalla presenza di logiche corporative e da una esasperata rivendicazione dei diritti alla quale non corrisponde una altrettanto seria assunzione dei doveri e della responsabilità personale. Anche la politica si è fatta sempre più autoreferenziale in presenza di capi carismatici che fanno del populismo la loro bandiera e gestiscono il potere secondo la logica dello scambio, privilegiando le corporazioni forti e l’interesse privato.
La libertà rischia perciò di essere identificata con il capriccio individuale; di assumere cioè i connotati di un libertarismo individualistico, che prescinde da ogni legame con gli altri e con il mondo dei valori. La cultura «radicale» è l’espressione compiuta di questo assunto: i pilastri su cui poggia sono l’assolutizzazione del diritto soggettivo e il riferimento al principio del piacere come parametro valutativo dell’agire: «vale ciò che vale per me, vale per me ciò che mi piace». Così concepita la libertà dà origine a un’interpretazione soggettivistica della vita dalla quale è esclusa in
partenza ogni dimensione relazionale.
A questa affermazione della libertà in termini incondizionati si oppone la drastica negazione che fa di essa chi mette fortemente l’accento sugli esiti delle scienze umane — da quelle biologiche a quelle psicologiche, da quelle sociali a quelle culturali — , le quali insistono nel rilevare i condizionamenti cui l’uomo è soggetto. I meccanismi istintuali, i dinamismi della psiche e le strutture sociali e culturali incidono profondamente sulla condotta umana; le scelte che l’uomo fa sono spesso soltanto apparentemente libere; le loro cause profonde vanno ricercate in aree della soggettività che sfuggono al controllo — si pensi al mondo del subconscio — perché le dinamiche ad esse soggiacenti non sono
oggettivabili.
La trasformazione delle scienze umane in ideologie dà luogo a un rigido determinismo: l’agire umano, lungi dall’essere espressione della libertà, si trasforma in agire meccanicistico, frutto dell’intreccio di forze interne ed esterne che condizionano radicalmente la condotta dell’uomo. Le azioni dell’uomo sono il prodotto di fattori riconducibili alla struttura originaria della persona e al successivo sviluppo della personalità, che prescindono cioè dalla responsabilità soggettiva. L’assenza di libertà implica infatti la negazione dell’eticità, se è vero — come si è detto — che libertà ed eticità sono direttamente proporzionali.

 

dalla «libertà da» alla «libertà per»

Più che il risultato di una dimostrazione razionale, la libertà è una realtà che ciascuno sperimenta di fronte alle diverse scelte della vita: da quelle più impegnative a quelle più feriali. Tutti infatti avvertiamo, quando ci troviamo a dover decidere, che siamo noi gli attori della scelta; in altre parole, che essa dipende dalla nostra volontà.
La libertà si presenta dunque anzitutto sotto la forma di «libertà da» (o «libertà di elezione»); essa coincide con l’assenza di un condizionamento totalizzante che ridurrebbe l’agire ad agire deterministico. La volontà umana, che ha per oggetto il Bene assoluto, misurando la distanza esistente tra esso e i beni particolari (sempre limitati) con cui entra in contatto nel contesto della contingenza storica, percepisce di non essere da essi radicalmente condizionata. La sproporzione tra il Bene e i beni dà origine a uno stato di indeterminazione, che può essere superato soltanto autodeterminandosi, cioè mediante la libera decisione personale. Non essendo le motivazioni fornite dalla ragione apodittiche, vi è infatti spazio per una presa di posizione della persona, che deve farle diventare le proprie motivazioni, giustificando in questo modo la propria scelta.
Per quanto estremamente importante la «libertà da» non esaurisce tuttavia l’intero contenuto della libertà: essa è soltanto il presupposto a partire dal quale è possibile attingerne il senso più profondo, costituito dalla «libertà per» (o «libertà di perfezione»), la quale ha come obiettivo il perseguimento della piena liberazione. La libertà ci è data perché ci liberiamo, perché portiamo a compimento il processo della nostra realizzazione personale; in una parola, perché, attraverso le nostre opzioni concrete, perseguiamo la nostra vocazione. A contare non è dunque la possibilità di scegliere ma la scelta fatta in modo conforme alle istanze della propria soggettività. All’inizio e al termine della libertà vi è infatti la persona; all’inizio come dato ontologico che ne fonda possibilità; al termine come fine cui essa tende e che si identifica con la completa integrazione della personalità. Non è dunque libero chi rinuncia a scegliere per mantenere aperte tutte le possibilità di scelta; è invece libero chi fa scelte autentiche, conferendo attraverso di esse un  orientamento ben definito alla propria esistenza. Ogni scelta ha i suoi costi: comporta una rottura (sempre dolorosa) con altre possibilità di scelta che vengono automaticamente escluse o almeno accantonate; ma questo risvolto negativo è compensato dalla convergenza dell’agire attorno a un polo che conferisce unità alla vita della persona.
La libertà è, in definitiva, una realtà articolata, la cui traiettoria va dalla capacità di autode terminarsi – senza il riconoscimento del libero arbitrio non si può parlare di libertà – fino all’autodeterminazione, che ha luogo quando la scelta è finalizzata alla realizzazione di sé.

 

condizionamenti e libertà morale

Ma la libertà, di cui è stata fin qui delineata la struttura portante, non è mai una libertà assoluta; è una libertà «situata», soggetta a una serie di limitazioni che ne circoscrivono il campo di azione. Se infatti è giusto rifiutare la tesi del determinismo che affiora – come si è visto – nell’ambito delle scienze umane, non si deve tuttavia misconoscere il peso dei condizionamenti che si esercitano sulla libertà e che ne limitano la possibilità di espressione. La ragione di fondo di questi condizionamenti è di natura antropologica: in quanto esse-re essenzialmente corporeo – il corpo non è nell’uomo un dato accidentale, ma un fattore costitutivo della sua soggettività – l’uomo è inserito nello spazio e nel tempo; fattori che, se danno, per un verso, consistenza reale all’agire, ne segnano, per altro verso, in partenza la direzione obbligata.
La libertà morale, che è libertà-liberazione (o, come si è detto, libertà di perfezione), si realizza pertanto all’interno di ben definite coordinate che dettano le condizioni del suo esercizio. Essa si identifica anzitutto con la scelta di fondo messa in atto dal soggetto nel momento in cui progetta l’esistenza, conferendo in tal modo un indirizzo preciso al proprio agire. È questa – come giustamente rileva Sartre – la «libertà fondamentale», che si incarna nelle scelte particolari le quali possono confermarla (e dunque rafforzarla) oppure opporsi ad essa fino a provocarne il  ribaltamento.
Tra le due forme di libertà si dà un rapporto di interdipendenza dialettica: la libertà fondamentale si costruisce mediante le scelte particolari e all’interno di esse – e questo a causa del fatto che l’agire umano è, come si è detto, un agire «situato» -; ma essa esercita, a sua volta, il proprio condizionamento sulle scelte particolari, che sono da essa in parte influenzate.
La libertà è dunque doppiamente alla radice dell’eticità: lo è in origine, come condizione preliminare: solo un atto libero è infatti un atto autenticamente umano, e solo un atto autenticamente umano è un atto morale. Ma lo è anche in relazione al fine che l’eticità persegue, il quale non consiste tanto nella perfezione dell’atto ma nella perfezione dell’agente, cioè nel progetto di vita che l’uomo si dà e che non può che essere frutto della sua libera scelta.

 

l’ apertura al valore

Nonostante la sua grande rilevanza sul piano morale, la libertà non si identifica tuttavia totalmente con l’eticità. La piena identificazione rischia di condurre a un vicolo cieco. Non avendo né origine né fine, la libertà è destinata a implodere: l’uomo infatti – osserva Sartre – in quanto non è libero di essere libero, è condannato alla libertà. È allora necessario ancorare la libertà a un dato oggettivo che stabilisca, in qualche modo, le condizioni per il suo corretto sviluppo in relazione alla autentica promozione umana.
Il concetto che viene oggi utilizzato per dare contenuto a questo dato è quello di «valore». Esso rappresenta il momento di congiunzione feconda tra l’aspetto soggettivo e quello oggettivo della moralità. Se è vero infatti che la libertà rinvia al valore come a suo necessario approdo, non è meno vero che il valore rinvia alla libertà come a condizione essenziale della sua stessa possibilità di esistere. O forse, più correttamente, è vero che la libertà, in quanto «libertà per», ha quale oggetto la piena liberazione umana, che trova realizzazione in un progetto che ha nel mondo dei valori il proprio ineludibile riferimento.

 

di Giannino Piana
in “Rocca” n. 11 del 1 giugno 2011