Questo deve essere il posto (This Must Be the Place)

 

Un film di Sorrentino presentato al Festival di Cannes 2011

 

Tra i tanti film presentati al Festival di Cannes 2011, da parte della giuria sarebbe occorso un pò di più  buon senso per escludere completamente dai premiati tutti i film degli italiani. Tutti belli, importanti, ben fatti, ma quello di Sorrentino  This Must Be The Place , interpretato da un favoloso Sean Penn, meritava almeno una citazione. Ma si sa come sono i francesi(La Mostra del cinema di Venezia, però li incensa troppo, anche per cose ridicole). In ogni caso, il protagonista, Sean Penn è eccezionale, merita l’amore e l’attenzione di chi ama veramente il cinema  e necessita che ricordiamo assolutamente che l’artista ha interpretato seriamente delle cose egregie, tanto da dire che il suo posto come attore sono esclusivamente le “storie del cuore”.

 

Il film: This Must Be The Place

titolo internazionale: This Must Be the Place

titolo originale: Questo deve essere il posto

paese: Italia

anno: 2011

genere: fiction

regia: Paolo Sorrentino

durata: 118′

sceneggiatura: Umberto Contarello, Paolo Sorrentino

cast: Sean Penn, Eve Hewson, Frances McDormand, Judd Hirsch, Heinz Lieven, Kerry Condon, Olwen Fouere, Simon Delaney

fotografia: Luca Bigazzi

montaggio: Cristiano Travaglioli

scenografia: Stefania Cella

costumi: Karen Patch

musica: David Byrne, Will Oldham

produzione: Indigo Film, Lucky Red, Medusa Film, ARP Sélection, Element Pictures, Pathé Films, Intesa San Paolo

supporto: MEDIA Programme, Irish Film Board, Section 481, Eurimages

distributori: ARP Sélection

rivenditore estero: Pathé International

 

Trama

 

Cheyenne, un facoltoso ex-divo del rock, ormai stanco e svogliato, apprende che il padre, con cui non andava d’accordo, è malato e sul punto di morire. Corre da lui nella speranza di riconciliarsi ma arriva troppo tardi. Solo allora comprende quanto è stata dura la vita di suo padre. Tra i pochi sopravvissuti ad Auschwitz, è stato infatti torturato da un criminale nazista, l’ufficiale delle SS Aloise Muller. Deciso a vendicarlo, e sapendo che l’ex-nazista si nasconde da qualche parte negli Stati Uniti, Cheyenne si mette sulle sue tracce,

 

 

DOMANDE & RISPOSTE A PAOLO SORRENTINO

 

This Must Be The Place sarebbe esistito senza il Festival di Cannes?
Paolo Sorrentino: Mi sono rivelato qui. Il mio incontro con Sean Penn è avvenuto nel 2008, quando ha visto Il divo durante il festival e mi ha fatto sapere che gli sarebbe piaciuto lavorare con me. Da quel momento, mi sono messo a scrivere per lui e non avevo nessun altro in mente per il ruolo di Cheyenne. Sono contento che abbia accettato di interpretare questo personaggio, perché se avesse rifiutato il film non ci sarebbe stato. Non volevo raccontare questa storia senza di lui, quindi sì, il festival di Cannes è all’origine di questo film.

 

Il personaggio di Cheyenne era molto scritto?
Vedevo Cheyenne in un certo modo e Sean Penn ha letto e ascoltato a lungo tutte le mie raccomandazioni, ma quando ha cominciato a dare vita al personaggio, ho assistito a qualcosa di incredibile e sono io che mi sono messo ad ascoltare i suoi aggiustamenti. Alla fine, Cheyenne è stato modellato sulla base della mia visione iniziale del personaggio, ma soprattutto dall’esperienza di Sean Penn, che lo ha fatto evolvere appropriandosene completamente.

 

Perché ha scelto prima l’Irlanda e poi l’America come location per le riprese?
Non vedevo questa storia cominciare in Italia. Semplicemente, la cultura italiana non è passata per l’ondata New Wave che ha segnato il rock degli anni ’80, e poi il ruolo del fascismo nella storia politica italiana rendeva il tema del film più complicato da spiegare. Non volevo lottare per giustificare la plausibilità di questa storia, perché il pubblico deve già avere a che fare con il personaggio di Cheyenne, che sembra venire da un altro pianeta. Poi l’America è venuta naturale da un desiderio che condividevo con il mio amico Umberto Contarello, co-autore della sceneggiatura. Sognavo da tempo di filmare alcuni paesaggi magnifici che avevo visto al cinema. Con il peso di Sean Penn nel cast, è diventato possibile e ne abbiamo tenuto conto in fase di scrittura. Mi sono fatto un favore, ma l’America è talmente un simbolo dell’esodo che i luoghi raccontano da soli una parte della storia. Non è una civetteria da parte mia.

 

E’ un procedimento che ha utilizzato già ne Il divo, ma in This Must Be The Place le scene girate alla Louma, o più in generale da una gru, sono tante. Perché questa scelta?
Il film è un viaggio, ma mi è parso importante anche viaggiare negli spazi che erano a nostra disposizione. E poi mi piace l’idea di grandi movimenti intorno a un soggetto che si muove molto lentamente, come fa Cheyenne nel film. A seconda di dove si posiziona lo sguardo, del cammino che percorre, la percezione del soggetto cambia ed evolve. Il film parla anche di questo cambiamento di prospettiva. Lo sguardo esterno sui personaggi cambia, ma finiscono anche per vedersi in modo diverso.

 

La musica è quasi un personaggio del film. Perché l’ha utilizzata come simbolo nostalgico?
Non è nostalgia, anche se è vero che avevo voglia di parlare un po’ dell’evoluzione del rock. Nel film i temi sono tanti e si sovrappongono. Uno di questi è la paura di crescere. Utilizzare una corrente forte, ma passata, del rock mi ha permesso di creare un divario tra l’evoluzione del mondo intorno a Cheyenne e il suo aspetto immobile, che passa per l’abbigliamento strano, la devozione a un genere musicale, il rifiuto di utilizzare il cellulare, ecc. Il rock è stato la grande stagione di Cheyenne, ma è proprio l’attitudine rock a provocare il suo blocco e il suo scivolamento nella depressione.

 

David Byrne non è solo il compositore del film. Ha un ruolo importante.
Quando si ha la fortuna di poter lavorare con David Byrne, che è un artista completo, sarebbe stato un peccato non coinvolgerlo al massimo. Il titolo del film (This Must Be The Place è il titolo di una canzone dei Talking Heads,, la spiegazione del dramma di Cheyenne e l’universo sonoro del film sono direttamente legati a David, che interpreta anche se stesso. Le sue opere folli hanno ispirato molto i miei film e ci sono diversi punti in comune tra la sua scenografia e la realizzazione di This Must Be The Place, che è anche un modo per rendergli omaggio.

 

 

 

 

 

 

Chi è Sean Penn


Nato  a  Santa Monica, il17 agosto 1960,  è attore, regista, produttore cinematografico e sceneggiatore statunitense. È famoso per le partecipazioni a celebri film tra i quali Carlito’s Way, Dead Man Walking – Condannato a morte, La sottile linea rossa, Mystic River (premio Oscar al miglior attore protagonista nel 2004), 21 grammi e Milk (premio Oscar al miglior attore protagonista nel 2009) e regista, produttore e sceneggiatore del pluripremiato Into the Wild – Nelle terre selvagge.

E’ premiato nel 1998 come miglior attore al Festival di Venezia per Bugie, baci, bambole & bastardi, nello stesso anno è stato tra i protagonisti di La sottile linea rossa di Terrence Malick. Woody Allen l’ha voluto interprete del chitarrista geniale e squinternato di Accordi e disaccordi. Considerevole anche la sua partecipazione nell’enigmatico e affascinante Il mistero dell’acqua di Kathryn Bigelow. Nel 2001 ha ottenuto la nomination all’Oscar quale miglior attore per la sua straordinaria interpretazione di un padre ritardato in Mi chiamo Sam di Jessie Nelson.

Dopo anni difficili, ha saputo costruirsi una seconda carriera di regista molto serio, con film crudi, sinceri, carichi di dolore e fieramente indipendenti (al su citato Lupo solitario, seguono dopo dieci anni Tre giorni per la verità, La promessa, più un episodio in 11 settembre 2001). Nel 2002 dirige il videoclip di Peter Gabriel The Barry Williams Show. La sua straordinaria intensità drammatica ha lasciato un segno indelebile nel 2003. È suo il ruolo dell’ex delinquente, ora buon padre di famiglia, la cui vita viene sconvolta dall’assassinio della figlia in Mystic River, di Clint Eastwood, per la cui interpretazione vince l’Oscar come miglior attore protagonista nel 2004 oltre al Golden Globe; e anche del professore malato terminale in 21 grammi.

Ha girato The Assassination, la storia vera del tentativo (sventato) di Samuel Byck, un modesto negoziante di Cincinnati, di far schiantare un piccolo aereo sulla Casa Bianca allo scopo di uccidere il presidente Nixon. Ha recitato anche con Nicole Kidman in The Interpreter, girato nel Palazzo di Vetro dell’ONU messo a disposizione da Kofi Annan. Nel 2007 dirige l’intensa storia di Christopher McCandless in Into the Wild – Nelle terre selvagge, attualmente il maggior film di successo del regista.

Nel maggio del 2008 è presidente della giuria del Festival di Cannes. Il 22 febbraio 2009 vince il suo secondo Oscar per la performance nel film Milk, dove interpretata Harvey Milk, paladino dei diritti gay assassinato nel 1978. Entra così a far parte della ristretta cerchia (Spencer Tracy, Gary Cooper, Fredric March, Marlon Brando, Dustin Hoffman, Jack Nicholson, Tom Hanks, Daniel Day-Lewis) degli attori che hanno ottenuto due Oscar per il miglior attore protagonista.

La sua capacità drammatica lo rende unico nell’effimero mondo cinematografico, tanto che difficilmente chi l’ha visto in Mi chiamo Sam, dove interpreta un padre con un grave handicap, lo dimenticherà per la struggente prova d’amore verso la sua bambina che vuole assolutamente crescere lui , anche se la sua intelligenza è pari a quella di un bambino di 7 anni!

 

 

 

 

 

 

XXII Domenica del Tempo Ordinario (A)

XXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 

Lectio – Anno A

Prima lettura: Geremia 20,7-9

 

Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me.

Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza! Oppressione!». Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.

 

v Il dramma vocazionale più grave che la Bibbia registra è quello di Geremia, il giovane di Anatot che il Signore invita a salire a Gerusalemme ad annunziare la sua parola alla popolazione, agli uomini di corte, al clero, allo stesso sovrano. Un compito arduo di cui man mano che ne scopre i tragici risvolti il suo animo è attraversato da momenti di panico, di sofferenza, di sconforto. Sono le «confessioni» di Geremia: 11,18- 12,16.15,10-20; 17,12-18; 18,18-23:20,7-18.

La vocazione diventa così per l’uomo di Anatot il fardello di tutta la sua vita: l’accetta e la respinge, la benedice e la condanna. E le diatribe più frequenti e più aspre sono con Dio stesso che gli ha affidato un incarico che lo fa apparire sempre «uomo di litigi e di contese» (15,10). Egli svolge un compito benefico ed è perseguitato, mentre «la vita degli empi prospera» e «i perfidi vivono tranquilli» (12,1). Un quesito che lo tormenta a lungo ma a cui non sa dare risposta.

Lo sconforto tocca momenti di estrema esasperazione: «Me infelice, madre mia perché mi hai generato» (15,10). «JHWH, ricordati di me e soccorrimi; nella tua longanimità non farmi perire, sappi che io a causa tua sopporto oltraggi» (15,15). «Non diventare per me oggetto di spavento, tu sei il mio rifugio nel giorno della sventura» (17,17). Un dialogo sempre serrato, aperto, leale, ma qualche volta anche aggressivo. Gli sembra di essere stato ingannato. Il Signore gli aveva fatto ampie promesse: «ti renderò una città fortificata», «una colonna di ferro», «una muraglia di bronzo» (1,18); di fatto tutti «si beffano» di lui (20,7). Sembra che JHWH l’abbia allettato con un miraggio falso, come si fa con i bambini o come capita ai viandanti del deserto che a ogni riflesso di raggi solari si illudono di aver trovato uno stagno d’acqua.

La frase «mi hai sedotto» prima che un significato mistico ne ha uno realistico. Il profeta sente di essere stato aggirato come un’ingenua fanciulla che si è lasciata incantare e alla fine sopraffare dalla loquacità, dal fascino, dalla violenza del suo seduttore. L’amarezza è così grande che giunge alla risoluzione di ritirarsi dal servizio divino: «non parlerò più nel suo nome ». Sono attimi di debolezza, di confusione, di smarrimento, ma subito ritorna l’orientazione di fondo. Anche se la bocca pronuncia parole dissennate dentro di sé sente bruciare il fuoco dell’amore di Dio che lo divora e lo spinge ancora a parlare. «Trovate le tue parole io le divorai e la tua parola fu la letizia e la gioia del mio cuore» (15,16).

Geremia moriva senza aver chiarito il suo dramma, il mistero della sua chiamata, e lasciava ai suoi continuatori la sua dura eredità.

 

 

Seconda lettura: Romani 12,1-2

Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.  Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

 

v I pochi versetti di Rm 12 aprono la seconda parte della lettera etica e parenetica. Uscito dal giogo del «peccato» (5,1-11), dalla schiavitù della legge e della «morte» (5,12-7,25) il cristiano è una nuova creatura. Avverte ancora tutta la forza e la seduzione delle passioni e dei sensi, ma non può assecondarle poiché il suo «corpo» pur di sua appartenenza ha assunto con il battesimo una funzione nuova. Il cristiano non solo con il suo spirito ma

anche con tutta la entità fisica, pur rimanendo sulla terra, vive con un’orientazione e quasi una collocazione sopraterrestre. La sua realtà corporea, dice chiaramente Paolo, è come un’«ostia», un dono sacrificale, un’offerta fatta a Dio. È un bene che Dio ha partecipato alla creatura, ma questa ne ha fatto un presente al Signore, perciò è ormai una «cosa santa», messa a parte per far risaltare ed esaltare la santità di Dio.

Il vecchio culto si trova radicalmente rinnovato; non è più legato a un determinato luogo, ma alle persone che ovunque si trovino cercano di modellare la loro vita su quella di Cristo che ha offerto se stesso al Padre per il bene dei fratelli (Rm 3,21-31). La comunità cristiana secondo Paolo nel suo insieme e nei suoi componenti crea intorno a sé come un’area di sacralità e di santità: un monito per quelli che vi appartengono e una testimonianza salutare per quelli che son fuori. È un’oasi in cui regna la serenità, la pace, l’amicizia con Dio, la carità. Da essa sale a Dio e si espande all’intorno un soave odore che scaturisce dalla vita virtuosa e santa dei suoi componenti. È un sacrificio spirituale perché mosso e guidato dallo Spirito, cioè dall’amore stesso di Dio, diffuso in tutti i suoi figli (Rm 8).

Paolo adopera il linguaggio sacrificale e forse fa riferimento alla portata teologica dei sacrifici del tempio alla cui luce interpreta anche il sacrificio della croce, ma le vedute teologiche dell’apostolo non coincidono automaticamente con il pensiero di Dio. L’offerta che il cristiano è invitato a fare di se stesso, anche se richiesta da Dio, non è tanto per confermare o ampliare la sua gloria, che è piena e nessuno può rendere più grande, quanto il bene, la promozione, la salvezza dell’uomo, sempre in pericolo e sempre a rischio. È questo il modo di condividere «la misericordia di Dio», cioè la sua capacità di comprensione e di perdono, verso tutti gli uomini, particolarmente i più bisognosi, ovvero i più piccoli dei fratelli (cf. Mt 25,40). Gesù nel discorso della montagna chiede di essere misericordiosi come il Padre (Lc 6,36), «perfetti» come lui che sa mandare il sole e la pioggia a tutti anche a quelli che non la meritano (Mt 5,43-48).

È quanto in altre parole chiede Paolo ai romani di adoperarsi a capire e a compiere prima di tutto la volontà di Dio, cioè di cercare di comprendere e di realizzare fino alla sua perfezione il programma di bene, il progetto creativo salvifico, che egli sta attuando. La «volontà di Dio» è sicuramente ciò che egli ha ideato e si adopera direttamente e indirettamente a portare a termine. Ciò che egli vuole è ciò che egli fa.

 

 

Vangelo: Matteo 16,21-27

In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.

Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.

Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?  Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

 

Il vangelo in immagini

XXII DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

Esegesi

 

Gesù sulla via di Cesarea di Filippo «interroga» i discepoli sulla sua identità. La loro risposta per bocca di Pietro non è sbagliata, ma inopportuna. Essi hanno intravisto in Gesù l’inviato, il figlio prediletto di Dio, ma non pensano, qui come altrove (17,22-23; 20,20-23), che il successo promesso al Messia sia subordinato a prestazioni onerose, non esclusa la morte.

Gesù non può accettare la risposta dei discepoli; addirittura vieta loro di ripeterla e di divulgarla. L’infatuazione popolare che era sempre sul punto di esplodere avrebbe finito col mettere in pericolo la sua missione, soprattutto di far luce sulla logica o dinamica della salvezza che era chiamato a portare.

L’ebreo era abituato a far coincidere benessere e protezione divina, quindi aveva collegato il messianismo e l’era messianica con una straordinaria manifestazione di gloria e di potenza (cf. la teologia del Deuteronomista), ma secondo quanto lo spirito andava suggerendo a Gesù era una connessione infondata, senz’altro erronea. Era la singolare notizia che egli aveva non solo da trasmettere ma soprattutto da fare intendere ai suoi. Non bastava un semplice annunzio, occorreva una catechesi vera e propria. «Da allora cominciò a dire apertamente», si tratta di un cambiamento tematico e tattico.

I discepoli avevano visto Gesù operare prodigi (capp. 8-9.14-15), avevano ascoltato le «parabole» del regno (c. 13) ma non avevano mai sentito parlare delle «prove» del messia, delle sue sofferenze, dei suoi insuccessi. Sarà questo il tema con cui d’ora in poi dovranno cominciare a prendere familiarità.

La comitiva apostolica si era trovata sino allora in Galilea, la terra di origine in cui ci si poteva muovere con una certa fiducia e tranquillità, ma era giunto il momento di doversene allontanare, di affrontare zone meno note e meno familiari, come la Samaria, o meno sicure, come la Giudea e soprattutto Gerusalemme, la sede del potere religioso e politico, delle scuole ufficiali della nazione. Un incontro che poteva diventare anche scontro. Se il maestro avesse continuato a parlare con la libertà rivendicata sino allora avrebbe ritrovato le difficoltà incontrate presso i corregionali (cf. Mt 9,14;12,2,24,38;15,l-19) e facilmente delle più gravi. «Farisei e scribi» erano già venuti a indagare sulla sua ortodossia (Mt 15,1); sarebbe stato temerario andarli a disturbare nella loro roccaforte, ma era una scelta a cui l’inviato divino non poteva sottrarsi. Un profeta non poteva tenersi lontano da Gerusalemme (cf. Lc 13,33). È quanto i suoi discepoli debbono ormai sapere.

Non si tratta tuttavia di una scelta facoltativa, ma d’obbligo. Ritorna il verbo fatidico «deve» (dei). Era come scritto nei decreti divini; in essi rientrava la missione gerosolimitana del Cristo. La frase che riassume il faticoso ministero nella città santa è pollá pathein, «soffrire molto» Non è spiegato il genere di sofferenze, ma sono segnalate le persone da cui provengono: gli anziani, i sommi sacerdoti, gli scribi. In pratica i componenti del Sinedrio. Si trattava di un cimento con l’organo giudiziario, dell’assoggettamento a un processo che si sarebbe concluso con una condanna a morte. Ma Gesù si sforza di rassicurare i suoi che questa sorte ignominiosa, sebbene la croce non sia menzionata, non segna una vittoria dei nemici quanto del decreto di Dio che già da tempo aveva previsto un tale esito (cf. Is 53), ma anche lo stravolgimento («risurrezione») che avrebbe provocato nella vita del Messia. «Se i principi di questo mondo», afferma Paolo, avessero previsto l’effetto della loro sentenza, «non avrebbero mai crocifisso il Signore della gloria» (1Cor 2,8).

Il verbo «risorgere» in contrapposizione a «messo a morte» allude non tanto a una semplice sopravvivenza quanto al passaggio nel regno, nel mondo della vera vita di cui quella presente era solo un’ombra. La morte avrebbe tolto Gesù dalla prima esistenza per trasferirlo in un’altra superiore ed eterna.

La reazione di Pietro è spontanea. Egli e i suoi compagni erano passati al seguito del loro rabbi con la speranza di venirsi a trovare a fianco del promesso discendente davidico in procinto di instaurare un’intramontabile dominazione su Israele e le genti, e più di una volta si erano trovati a discutere tra di loro su chi sarebbe toccato il posto più vicino al futuro sovrano. Il nuovo discorso di Gesù contraddiceva tutte le loro aspettative. Era un assurdo inaccettabile. Come più anziano del gruppo, Simone si sente in dovere di intervenire. Le cose che Gesù diceva contraddicevano tutte le speranze d’Israele, le promesse dei profeti: non potevano perciò provenire da Dio. Egli era talmente convinto del suo ragionamento che deve aver fatto ricorso a richiami accorati, prolungati, insistenti da provocare in Gesù una reazione decisa.

Anche questa volta, come nell’esperienza della trasfigurazione (Mc 9,6) o della lavanda dei piedi (Gv 13,8), Pietro partiva dal suo buon senso, ma non era il consigliere idoneo che lo poteva portare a capire i misteri di Dio, i segreti della salvezza. Gesù stigmatizza l’intervento di Pietro come un’istigazione satanica, dell’avversario per eccellenza dell’opera di Dio. Egli ha ripetuto le proposte avanzate da Satana all’apertura del suo ministero: che era meglio far leva sui prodigi e su altri segni di potenza che sul nascondimento per far leva sugli spettatori (Mt 4,1-11). Ma non era la strada che egli capiva essergli stata assegnata.

Certo la sofferenza, il martirio non era una prospettiva piacevole per nessuno; neanche per Gesù, ma se erano collegate con l’adempimento del proprio dovere diventavano inevitabili come il dovere stesso. L’uomo non può decidere su ciò che è bene e ciò che è male come una volta avevano preteso i progenitori (Gn 3,4), ma deve rimettersi alle decisioni di chi l’ha stabilito, il creatore del cielo e della terra.

La proposta di Simone è rovesciata radicalmente. Gesù non parla più all’apostolo ma a tutti i discepoli. La «croce» sarà il patibolo in cui egli finirà i suoi giorni, ma diventa il simbolo del cumulo di sofferenze, umiliazioni, abnegazioni, rinunce, prove che un discepolo di Cristo sarà costretto a subire a motivo della sua fede. Se il maestro sarà perseguitato a morte, i discepoli non possono cavarsela con qualche escoriazione. «Non c’è discepolo superiore al maestro» aveva già detto Gesù (Mt 10,24), che possa avere cioè un trattamento migliore del suo. Non c’è alternativa. Non si può essere cristiani all’acqua di rose. Far propria la testimonianza di Cristo, incarnare la sua legge di amore e di perdono, la sua sete e fame per la verità e la giustizia ed essere lasciati indisturbati.

L’evangelista ha toccato il tema della «salvezza» temporale ed eterna ora chiude il discorso con un richiamo al giudizio finale, all’incontro di tutti con il figlio dell’uomo che viene a rendere a ciascuno il premio o la condanna a seconda dei meriti o demeriti accumulati. Il testo riprende quanto è detto al termine della spiegazione della parabola della zizzania (Mt 13,41-42) e verrà descritto a lungo nella scena del giudizio ultimo (Mt 25,31-46).

 

 

Meditazione


L’obbedienza alla parola di Dio conduce il profeta a denunciare le ingiustizie e le violenze che si commettono all’interno del popolo di Dio e ad incontrare così opposizione, emarginazione, derisione da parte di coloro a cui profetizza (prima lettura); la sequela di Gesù immette il discepolo in un cammino segnato dall’assunzione della croce e il cui orizzonte è la perdita della vita (vangelo).

L’esperienza spirituale di Geremia, dopo l’entusiasmo dell’adesione al Signore e la dolcezza e la bellezza sperimentate nei momenti iniziali della chiamata, quando la parola del Signore fu per lui «la gioia e la letizia del suo cuore» (cfr. Ger 15,16), è divenuta, col passare degli anni e lo svolgersi del suo ministero profetico, esperienza di amarezza e di sofferenza. Il profeta si sente ingannato da Dio: fu vera vocazione? O si trattò di un abbaglio? Di un inganno? Dio lo ha chiamato o violentato? Al cuore della crisi, in cui il profeta è tentato di abbandonare il ministero ricevuto («Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!»: Ger 20,9), Geremia trova il rinnovamento e la conferma della vocazione nel più profondo di sé stesso, nel cuore ancora infiammato dalla parola di Dio. Se il Signore è una passione, allora anche la crisi sarà un momento di verità della fede e della vocazione. Il Signore come passione: questa è la sfida per i cristiani oggi.

Pietro, Cefa, la «roccia», colui che è chiamato a confermare nella fede i fratelli (cfr. Lc 22,32), a cui il Signore ha affidato un compito basilare nella chiesa (Mt 16,18), può divenire «scandalo», cioè pietra di inciampo nel cammino di fede. Gesù addirittura lo rimprovera duramente apostrofandolo come «satana» (Mt 16,18). E questo avviene quando Pietro esce dalla sequela per mettersi davanti a Gesù e fargli la lezione. Allora egli dimostra di non sentire e di non pensare secondo Dio, ma in modo mondano.

Così la beatitudine rivolta da Gesù a Pietro in Mt 16,17 viene non certo annullata, ma ridimensionata da questo rimprovero che situa Pietro in una luce molto realistica. Unico è il fondamento della chiesa: Gesù Cristo (1Cor 3,11; 1Pt 2,4-5). Il servizio di Pietro è al servizio di questa unicità.

La croce è sempre scandalo: solo integrando lo scandalo della croce nel nostro cammino di fede, possiamo evitare di divenire noi stessi motivo di scandalo per il vangelo e di scandalizzarci noi del Messia crocifisso (cfr. Mt 26,31: «Tutti voi vi scandalizzerete di me in questa notte»). Pietro, nella sua ribellione alla croce di Gesù, esprime l’atteggiamento di repulsione che spesso è anche nostro e che ci porta a confessare rettamente la fede e a smentire tale confessione nella prassi. La croce è l’elemento più radicalmente estraneo al «mondo»: il Pietro che vi si ribella mostra il suo conformismo mondano, il suo essere conforme ai parametri e ai criteri della mondanità, il suo pensare e sentire in modo conforme agli uomini e non secondo Dio.

Le parole di Gesù al discepolo parlano della perdita di sé necessaria per essere in contatto con il proprio vero sé (Mt 16,24-26). C’è un rinnegamento di sé, uno smettere di conoscere se stessi, un uscire da una vita autocentrata, dalla ricerca di autogiustificazioni, che consente al discepolo di trovare, come dono, e di essere raggiunto, per grazia, dalla vera vita. Si tratta del passaggio pasquale dalla vita come possesso e come potere, alla vita come dono e come grazia. È la vita vissuta in Cristo e per Cristo, è la vita di Cristo in noi: «Chi perderà la sua vita per causa mia, la troverà» (Mt 6,25).

«Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?» (Mt 16,26). Il testo intravede la situazione di uomini tutti tesi a possedere, a estendere il proprio agire e il proprio accumulare al di fuori di sé, di fatto fallendo la propria vita, perdendo se stessi. Forse, tutti estroversi proprio per non incontrare se stessi, per non entrare nel doloroso faccia a faccia con se stessi.

Seguire Cristo significa porre la propria vita nella sua vita per amore. Ciò che per amore si perde, in realtà non è perso, ma donato. E ciò che è donato per amore, è ritrovato nella relazione.

 

 

Preghiere e racconti


Lo scandalo della nudità

Spesso, durante l’estate, chi vede le pecore mi chiede:

“Vende formaggio? Di quello buono, genuino?”.

“Non so se è buono” rispondo “ma se vuole glielo faccio assaggiare.”

Restano male quando dico che lo produco per uso personal. Per rimediare, offro loro un pezzo da portare a casa.

“Va bene, però lo pago” rispondono molti.

“Non è necessario.”

“Ci tengo.”

“Va bene, se lei è più felice così…”

“Ma lei non è un pastore.”

“Quando sto con le pecore, sono un pastore.”

“D’accordo, ma non vive di questo.”

“Quando mangio il formaggio, vivo di questo.”

“E quando non fa il pastore, cosa fa, qual è il suo lavoro?”

“Produrre le cose che mi servono per vivere.”

“Tutto qui?” commentano stupiti. “Ma non è un vero lavoro!” Alcuni sorridono:”Beato lei! Come vorrei vivere anch’io quassù!”. […] I primi tempi non riuscivo ad accettare questo continuo bisogno di trovare una definizione. Non esisti se non c’è un aggettivo, un nome che aiuti a sistemarti da qualche parte. Poi mi sono abituato, ho capito che questa forma di classificazione fa parte della natura dell’uomo. Se so chi sei, so come comportarmi nei tuoi confronti, ma se sei un uomo senza legami e senza ruoli, non so più cosa pensare. Sei nudità e ti offri come nudità. E la nudità provoca scandalo.

(Susanna TAMARO, Per sempre, Giunti, Firenze, 2011, 8-10)

 

L’accettazione della Croce

Gesù ha potuto accettare la Croce perché sapeva di essere indefettibilmente amato dal Padre. Facciamo comprendere anzitutto all’uomo di essere amato dal Padre; allora egli accetterà. Anche la mortificazione e la croce… Si tratta certamente di valori poco compresi e scarsamente presenti nell’odierna spiritualità, ma, ovunque ricompaiono, si diffonde e si attiva anche la carità.. Dopo tutto, questa deficienza potrebbe consentire una prossima fecondità: nella misura in cui la croce non potrà più essere separata, come lo è stata a volte in passato, dal dinamismo della carità. Gesù è passato attraverso la Croce perché ha amato, sapendosi amato.

(A.M. Besnard, Volto spirituale dei tempi nuovi)

 

“…Chi perderà la sua vita… la troverà”

Ci vuole coraggio per muoversi dalla sicurezza all’incognito, anche se si sa che il rifugio sicuro offre una falsa sicurezza e che l’incognito promette un’intimità salvifica con Dio. È evidente che rinunciare alle cose familiari per estendersi a braccia aperte verso colui che trascende tutto quello che la mente può afferrare e trattenere, rende assai vulnerabili. In qualche modo, si ha l’impressione che seguitando a vivere nell’illusione si può avere un’esistenza incompleta, ma che la resa amorosa conduce alla croce. La vita di Gesù fu quella dell’amore ma anche quella del dolore. A Pietro egli disse:

“ Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,189.

È indice di maturità mentale rinunciare ad un’autocontrollo illusorio tendendo le mani fino a Dio. Ma sarebbe solo una nuova illusione credere che estendersi fino a Dio liberi dal dolore e dalla sofferenza. Sovente, di fatti, questo potrebbe portarci dove non vorremmo arrivare. Noi sappiamo però che senza arrivarci non troveremo la vita “…chi perderà la sua vita… la troverà”  (Mt 16,25), dice Gesù ricordandoci che l’amore si purifica nel dolore.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia, 1980, 139).

 

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […] «Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

 

Povertà di cuore

Johnnes Metz descrive bene questa disposizione, dicendo:

“Dobbiamo dimenticare noi stessi permettendo che l’altra persona si avvicini a noi, dobbiamo saperci aprire a quella persona perché la personalità che la distingue si riveli  anche se talvolta ci impaurisce e ci ripugna. Sovente opprimiamo l’altro e vediamo solo ciò che vogliamo vedere; in tal modo non incontreremo mai il misterioso segreto del suo essere, ma solo noi stessi. Non arrischiando la povertà dell’incontro indulgiamo ad una nuova forma di auto-affermazione e ne paghiamo lo scotto con l’isolamento. “Chi avrà trovato la sua vita la perderà” (Mt 10,39) e non avrà la grazia della pienezza dell’esistenza umana. Si rimarrà soli, con l’ombra del nostro essere reale”.

La povertà del cuore crea la comunità perché non è autosufficienza ma interdipendenza creativa, in cui il mistero della vita viene rivelato.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia, 1980, 96-97).

 

Rinascere dalle ceneri del tuo dolore

Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi. La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale. Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato. Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione. Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore. Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza. Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino. Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.  Guardati allo specchio. Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune. Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.  Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti. Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua. Sei parte della forza della vita stessa. Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano. Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.

(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).

 

Preghiera

Cristo, tu hai santificato il dolore umano con la tua vita e con la tua parola. Tu, stanco per il camminare e sbattuto dalla fatica, ti sei buttato giù a sedere e a riposare sull’orlo del pozzo di Sicar. Tu hai detto: «S’e il chicco di frumento, affidato alla terra, non muore, rimane solo...». Hai detto: «Voi piangerete e avrete da tribolare; il mondo, invece, si divertirà». Hai detto ancora: «Se uno vuole venire dietro a me, la smetta di pensare solo a se stesso, prenda quotidianamente la sua croce in santa pace e mi segua».

Per mezzo dei tuoi apostoli ci hai ripetuto: per essere meno indegni di entrare nel regno della vita, bisogna passare attraverso molte tribolazioni. Gesù, i tuoi seguaci hanno confermato questa via come quella ‘règia’ per entrare nell’eternità, dove ritroveremo le tribolazioni della vita presente trasformate in gloria e tu ci hai assicurato: «Fatevi coraggio, questa gloria eterna nessuno ve la potrà rapire!».

Ci crediamo, Gesù!

Ma tu aiutaci a tirar avanti nelle molte tribolazioni e stanchezze quotidiane.

Aiutaci almeno a saper sopportare la pesantezza, il ‘martirio bianco’ della quotidianità.

Aiutaci a saper sopportare la vita con le sue sconfitte e delusioni, con le sue angosce e i problemi.

Crediamo, Signore, ma aumenta in noi la fede, affinché credendo di più, speriamo anche di più: e sperando di più amiamo anche di più!

Così è e così sia!

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

I giovani e la razionalità del sacro

Si fa un gran parlare dei giovani. È, in fondo, la forma retorica più antica e consolidata che si conosca. Tanto è vero che si sprecano sempre affermazioni solenni e proverbiali quando non si
comprende nulla o quasi di un certo fenomeno. Ben più complesso diviene, invece, il discorso non appena si vuole parlare realmente con cognizione di causa delle nuove generazioni, in un contesto, come quello attuale, nel quale non sembra sia più possibile restare nei limiti di una sola cultura o di una specifica civiltà determinata.
Alcuni eventi sono una buona occasione per farlo. Il più espressivo del protagonismo peculiare dei ragazzi è certamente la Giornata Mondiale della Gioventù che si sta svolgendo in questi giorni a Madrid alla presenza di Benedetto XVI. Ho avuto modo di sperimentare personalmente di cosa si tratti in tutte le occasioni in cui ho accompagnato Giovanni Paolo II dai primi energici appuntamenti fino agli ultimi più faticosi. E poi anche a Benedetto XVI in Germania nel 2005. È stupefacente che dopo 28 anni non solo non è finita la spinta partecipativa, ma il coinvolgimento sembra perfino aumentato. Quest’anno, il profilo essenziale dei partecipanti si esprime così: età media intorno ai 22 anni, il 48 per cento studia (di cui il 58 per cento in un’istituzione  universitaria), il 40 per cento lavora, il 6 per cento è disoccupato; uno su dieci è già sposato; il 55 per cento vive in casa coi genitori. Provengono da 187 Paesi diversi. La cifra totale dei  partecipanti supererà il milione di persone.
Il dato è fin troppo chiaro per essere commentato. È un campione rappresentativo, vasto ed eterogeneo di persone normali.
D’altronde, anche in altre occasioni diverse vediamo i giovani raccogliersi insieme per qualche scopo, senza particolari segni distintivi. È il caso, ad esempio, delle proteste inglesi che hanno messo a ferro e fuoco la città di Londra o della Primavera araba nel Magreb. Giovani, sempre giovani, differenti gli uni dagli altri, che agiscono in modo peculiare e per motivi comuni imparagonabili. Ma sempre e solo giovani, senza specifiche qualità.
Ecco così che, leggendo ogni volta le statistiche, si rimane insoddisfatti, sprovvisti di una spiegazione valida sulle ragioni per cui non un bambino o un adulto, ma un ragazzo non più adolescente  decida di dedicare alcuni giorni della propria vita a stare con altri coetanei che non conosce, in una città che non gli è familiare, a vivere un evento di natura religiosa.
Il citato paragone può, in questo senso, aiutare a capire. I movimenti di ribellione britannica, sono espressione di un moral collapse come ha detto in modo sintetico il premier inglese David Cameron. 
Una paradossale assenza di finalità e di principi che si traduce in un nichilismo sconfinato.
Distruggere, lo si capisce bene, è la quintessenza di una rabbia che trova soddisfazione unicamente nella violenza urbana e nel saccheggiare negozi. In quel caso siamo, evidentemente, agli antipodi di Madrid, davanti ad un malessere generazionale che pone interrogativi duri e chiare responsabilità; direi soprattutto a noi adulti.
Ma anche le rivolte politiche in Africa sono animate da una simile spinta generazionale, questa volta evidentemente positiva. Anche lì sono i giovani a farla da protagonista, non volendo più  accettare e tollerare di vivere al di sotto di loro stessi, delle proprie capacità, possibilità, libertà. È lampante che rispetto al primo caso non è il nichilismo a spingere all’azione, ma una giusta volontà di cambiamento, un anelito civile a riempire il vuoto sociale in cui si è costretti a vivere.
Paragonate a queste agitazioni di massa, quanto spinge giovani di tutto il mondo a stare alcuni giorni con il Papa è il desiderio di fare un’esperienza opposta e decisiva rispetto ad ogni altra. Anche se, a ben vedere, vi è una medesima opzione motivazionale forte, alternativa al restarsene a casa o al mare. Mi ricordo che proprio in occasione della giornata dei giovani a Roma nel Giubileo del  2000 Indro Montanelli scrisse che una spiegazione, in casi del genere, non la dà né la sociologia, né la demografia: bisognerebbe entrare nell’ambito della religione. O esiste un fatto che chiamiamo sacro, oppure, in questi casi, non si motiva né si capisce niente di niente.
Logicamente, resta particolarmente importante chiarire cosa s’intenda qui con fatto religioso. Perché alcuni dei ragazzi che partecipano alla Giornata non sono credenti; allo stesso modo che non tutti coloro che rompono le vetrine sono criminali o tutti coloro che gridano libertà sono democratici.
Mi ricordo di aver indagato in passato sulle ragioni di simile affluenza e di aver trovato delle risposte insolite ma coincidenti tra i ragazzi stessi che partecipavano. Alcuni mi rispondevano che nessuno, in società, a scuola o in famiglia, era in grado di dire qualcosa di simile a quello che stavano ascoltando. Alcuni confessavano il dubbio se sarebbero stati in grado di vivere sempre al livello etico che il Papa chiedeva loro, anche se si sentivano per questo, ancora di più, chiamati ad esserci. Tutti, con disarmante semplicità affermavano: «Ma lui (il Papa) ha ragione». Cioè, dice il vero.
Comprendere giornate intense di preghiera e ascolto, non prive di sacrifici per i partecipanti, significa andare al cuore dell’esperienza religiosa. Richiede di superare in modo drastico quel relativismo imperante che spinge a fare solo ciò che le proprie pulsioni (anche la noia) impongono.
Davanti a sé e accanto a sé c’è una ragione che è vera, una spiegazione umana che garantisce di trovare la propria identità, oltre il proprio nulla e oltre i miraggi del convenzionalismo insipido con cui spesso si presenta la politica.
D’altronde, tale spinta forte a afferrare con il pensiero, il cuore e la volontà il senso della vita, è l’essenza della sana ribellione che si chiama “vita interiore”. L’alternativa, non a caso, è il fondamentalismo irrazionale e il relativismo cinico, ma mai, in nessun modo, l’esperienza spirituale.
Perciò, in definitiva, ad attirare tanti giovani a radunarsi è unicamente la razionalità del sacro, un desiderio di ascoltare la verità e di far parlare la coscienza, che solo può soddisfare le fresche aspirazioni di un giovane ad oltrepassare i circoscritti confini determinati dello spazio e del tempo.
E quelli ancora più determinati della banalità.



in “la Repubblica” del 19 agosto 2011

Segnare la svolta di un’epoca. Le parole che mancano ai cattolici


La svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce. Lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. È una «krisis» nel senso del Vangelo: un  «giudizio». Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo. Dunque solletica le paure, incoraggia i minimizzatori, svela la statura dei sovrani, denuncia la sordità di chi ha fatto spallucce per anni, chiama intelligenze politiche e spirituali dal domani.

In questo rimestarsi della storia (per ora incruento, come nel ’29  e nell’89), la Chiesa è parca nel dire le parole che pur possiede. Questi non sono i tempi di Gregorio Magno, che davanti alla fine di un’era, raduna il popolo in basilica per spiegare il profeta Ezechiele. Non sono i tempi di papa Giovanni, che nel montare del fatalismo atomico, scardina i parametri dottrinali della guerra giusta.Sono i tempi nostri, nei quali la generazione del benessere più prepotente sente di lasciare ai propri figli le macerie di un disastro politico e morale. E in questo tempo la Chiesa, nel senso più ampio del termine, è come ritratta: articola lentamente le consunte condanne degli «ismi», sussurra cose ovvie o interessate, quasi che anche per lei fosse così poco leggibile una realtà che urla da ogni orizzonte, Nel Medio Oriente sunnita esplode una jihad nella quale il nome di Dio non viene usato per aggredire, ma per sopportare, senza che chi ne ha giustamente criticato le perversioni violente ne sappia dare una lettura. Un assassino psicotico norvegese trascina fuori dall’oscurità il fondamentalismo di antisemiti classici, omofobici aggressivi, tradizionalisti paranoidi, monoculturalisti fascisti, che il diritto penale e canonico hanno ignorato, prima e dopo quel crimine.


Il genio di personaggi come Pacelli, Adenauer, De Gasperi e Schuman che — parlando in tedesco e pensando in cattolico — hanno dato all’Europa un orizzonte politico di pace, viene irriso per mesi dall’egoismo tedesco senza che il discorso cattolico sappia uscire dal vittimismo delle radici, dall’euforia dei crocifissi e dall’ossessione dei diritti dei gay.

La guerra di Libia suscita proteste periodiche del Papa che cadono nel vuoto di una Chiesa più sensibile allo spiritualismo che alla realtà. E quel pezzo di Africa che annega fra la Sirte e Lampedusa estorce qualche senso di colpa alle anime colte, ma alla fine viene trattato come una fatalità che non deve essere capita, ma accettata. La forza che ha avuto la Chiesa in transizioni di magnitudo comparabile a questa — nel VI secolo si diceva, ma anche nell’XI e nel XVI con le riforme, nel XX con il Concilio — è stata quella di saper leggere i processi storici nella loro globalità: trovarne quella chiave supremamente sintetica che, a partire dall’atto di fede in Gesù Cristo morto e risorto, sa indicare le vie di un nuovo tempo e preparare quel che è già tutto scritto nelle premesse presenti. Oggi questo atto — reso più urgente dal tragico nanismo delle leadership politiche — tarda a farsi sentire.

Eppure solo l’intuito spirituale di una comunità globale come quella cattolica può dire con autorevolezza che, se crolla un’Europa poco amata, non finisce l’euro, ma la pace. Può spiegare alla luce del proprio tesoro di insegnamenti sulla sobrietà e la condivisione che il crollo di uno stile di vita è un’opportunità di giustizia o l’anticamera del cannibalismo economico. Ma la Chiesa sa anche che per ogni profezia c’è un tempo opportuno, un «kairós», perduto il quale resta solo il peso silenzioso della penitenza: anche questa testimoniata dalle lunghe epoche buie della sua storia.

Sarebbe stupido e irriverente pensare che il dire tocchi al Papa o che l’afasia di questi mesi sia la sua. Certo Benedetto XVI ha certo modo di farsi sentire: in questi giorni a Madrid davanti a milioni di ragazzi, soprattutto a Berlino nel discorso al Bundestag di settembre, a ottobre alla preghiera interreligiosa di Assisi. E quel che dice resterà. Ma è dalla Chiesa come communio che il mondo attende una lettura del tempo che mostri la capacità di rompere quella omologazione ai riti del potere e dei media. È la communio che permette di leggere un tempo che deve essere trattenuto dalla tendenza a diventare prebellico proprio da una forza spirituale che lo lega, se sa di essere una forza e se sa di essere spirituale.


in “Corriere della Sera” del 20 agosto 2011

 

 

Le catechesi dei Vescovi italiani alla GMG di Madrid


In questa pagina, dedicata alle Catechesi dei Vescovi italiani a Madrid, è possibile scaricare i testi giorno per giorno.
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Un appello per carceri più umane

 

Quando, nel febbraio del 1980, entrai a Milano, era prevista una prima parte in automobile e una seconda a piedi, accompagnato da una presenza di decine di migliaia di ambrosiani. Nella parte percorsa in automobile vi fu un momento nel quale passammo vicino ad un luogo dalle mura altissime. Compresi subito che si trattava del famoso carcere di San Vittore e diedi spontaneamente la mia benedizione a tutti i carcerati che vivevano là dentro.


Dovetti imparare ben presto che in carcere non ci sono solo detenuti ma anche guardie carcerarie, militari, suore come la beata Enrichetta (detta la madre dei carcerati), beatificata a Milano poco tempo fa. Queste suore avevano deciso di vivere nel carcere per essere più vicine alle sofferenze di cui erano testimoni.

Quando iniziai la visita pastorale, cominciando proprio dal carcere di San Vittore, venni a contatto diretto con tali sofferenze, soprattutto compresi che quella del sovraffollamento era quella da cui scaturivano molte delle altre. Le carceri che visitavo erano tutte piene sino all’inverosimile, ben al di là della loro capienza normale. In una cella per tre persone ne dormivano sei. Tutto questo conduceva a che il carcere divenisse non un luogo di redenzione, ma,  per tanti, una ulteriore scuola di delinquenza, nella quale i detenuti più giovani venivano tenuti in balìa dei vecchi.


Quante volte sono intervenuto per denunciare questo scandalo! Del resto questo costituiva un punto monotonamente fisso per il discorso del Procuratore all’inizio dell’anno giudiziario. Egli soleva insistere sulla eccessiva lunghezza dei processi e il conseguente ingorgo delle cause.
Capisco bene che il rimedio a questo stato di cose era legato a una qualche modifica legislativa, fatta da esperti, e che il Parlamento era responsabile di omissione in questa materia, dove emerge la negazione di diritti umani.

I veti incrociati delle varie posizioni e opposizioni non avrebbero mai risolto nulla.
Debbo anche testimoniare che alcuni carcerati venivano radicalmente scossi dalla realtà del carcere e facevano, con l’aiuto dei cappellani, un vero processo di conversione. Non mi meravigliavo di questa potenza di Dio, legata spesso alla conoscenza della Parola. Tuttavia è sempre preferibile che questo cammino avvenga fuori delle realtà del carcere, che è piuttosto incline a favorire la nuova delinquenza. Perciò il fatto che tale questione rimanga ancora aperta come una ferita dolorosa mi turba profondamente.


in “Corriere della Sera” del 21 agosto 2011

De Rita: “Fragili e sfiduciati, rinunciano ad indignarsi”

 

 

intervista a Giuseppe De Rita

 


Giovani esclusi da ogni prospettiva di futuro. Ma anche incapaci di scosse perché troppo fragili. E circondati da una società rattrappita. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, ragiona sul presente e futuro della generazione dimenticata dalle manovre e dai mercati.


Una generazione sfiduciata…
«La sfiducia dei giovani si ricollega a una sfiducia nel sistema. Non è la crisi a paralizzarli. Ma la barra abbassata sul futuro da un sistema incapace di tornare a fare sviluppo. Questo crea disagio».


Perché non si indignano?
«Se facessero come a Madrid o al Cairo, non sarebbero capiti. E poi qui non succederà».


Perché?
«Perché non hanno alcuna fiducia nella lotta collettiva per cambiare il mondo e dunque preferiscono adattarsi. E poi perché non esiste alcuna rappresentanza. I sindacati difendono l´articolo 18 e le pensioni. Le altre organizzazioni si occupano dei loro perimetri, i loro orti».


Come si adattano i giovani italiani?
«Nell´unico modo possibile da noi: il sommerso, l´arte di campare comunque, di arrangiarsi. Quella è la strada. Ma il sommerso non crea sviluppo».


In questo la politica non li aiuta.
«La politica conta poco. Anche se le nostre parti sociali non danno speranze o segnali. Solo tavoli. Nel ‘70 c´erano autunni caldi, l´arrivo al potere del Pci, la crisi della chimica e della grande industria, il governatore Baffi costretto a chiedere ai petrolieri di non attraccare al porto di Napoli perché non c´erano soldi. Eppure la scossa individuale alla ripresa portò a un milione di imprese,raddoppiandole».


E oggi la scossa perché non arriva?
«Da una parte la società è tutta rattrappita: imprenditori, Stato, Comuni, spesa pubblica, ripiegati su loro stessi. Dall´altra, i giovani sono fragili psichicamente e nella capacità a vivere la professione.
Anche perché hanno studiato cose che non servono. E questo non li aiuta a fare da sé, a sviluppare una professionalità propria».


La crisi li ha sommersi.
«Certo. Ma il sistema ha retto: il reddito della famiglia, la casa di famiglia e appunto il sommerso. I giovani si sono sentiti protetti e si sono adattati. Ma questo non si tradurrà in piccola impresa e lavoro autonomo, come negli anni ‘70».


in “la Repubblica” del 21 agosto 2011


Una grammatica per dialogare

«Non ritenere vittoria l’usare la violenza contro una forma di culto o un’opinione. Farai dunque così: cesserai di polemizzare con gli altri e parlerai della verità in modo che tutte le cose dette siano inattaccabili… Io sono consapevole di non avere mai polemizzato contro greci o altri, perché penso sia  sufficiente, per uomini onesti, poter conoscere ed esporre il vero in se stesso… Ciascuno infatti afferma di possedere la moneta regale, ma in realtà ha forse appena l’immagine ingannevole di una particella di verità». Milleduecento anni prima che Voltaire intonasse il suo inno alla tolleranza (per altro rivolto in forma orante al «Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e dei tempi»), tra il V e il VI secolo, un oscuro monaco nascosto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita intesseva questo programma di confronto teorico e personale, con l’orizzonte in cui era immerso, un programma concretizzato nei suoi scritti che si rivelavano come un’originale riformulazione della dottrina cristiana usando la strumentazione del pensiero neoplatonico. Siamo partiti così  lontano per proporre un tema che è iscritto nel Dna del cristianesimo, anche se spesso si sono assunti vigorosi anticorpi per estenuarne l’energia. Infatti, era già l’apostolo Pietro che ammoniva così i suoi interlocutori dell’Asia Minore nella prima delle due Lettere a noi giunte sotto il suo patronato: «Siate  pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi, ma questo sia fatto con dolcezza, rispetto e retta coscienza» (3, 15-16).


I nemici del dialogo – questo è appunto il tema a cui rimandavano san Pietro e lo Pseudo-Dionigi –sono molteplici e spesso antitetici tra loro. Da un lato, il fondamentalismo integrista che mette mano subito alla spada per un duello; d’altro lato, il sincretismo che gorgheggia in un duetto confuso e incolore. Da una parte, ecco la rigidità intellettuale scambiata per rigore; d’altra parte, l’approssimazione vaga che impedisce la pesatura delle argomentazioni,  perché sui piatti della bilancia si deposita solo nebbia o mucillagine ideologica. Certo, il dialogo è faticoso, talora arduo, anche perché – come suggerisce l’etimo stesso del vocabolo – è l’attraversamento (dià) di un lógos, ossia di un discorso scomponendone tutti i segmenti argomentativi e, se si vuole, è anche l’incrociarsi (dià) di due lógoi di matrice diversa se non opposta. Ai nostri giorni s’imbocca spesso la via in discesa dello scontro immediato, senza ascolto o verifica dell’altrui pensiero, nella tipica aggressività inconcludente e pirotecnica del talk-show televisivo. La forza dimostrativa più alta è nell’insulto («Capra, capra, capra…!») oppure nel più pacato ma sempre “esclusivo” asserto dello statista vittoriano Disraeli: «Il mio concetto di persona piacevole è quello di una persona che è d’accordo con me». La difficoltà del dialogo raggiunge picchi alti quando di mezzo sono le religioni con le loro concezioni dogmatiche e le loro concrezioni secolari: ci sono ormai volumi e volumi di documenti che attestano il costante e non di rado infruttuoso sforzo di un insonne dialogo interreligioso ed ecumenico.


Per non parlare poi del confronto all’interno della stessa singola confessione religiosa ove i conservatori scagliano anatemi contro chi, a loro avviso, cavalca oltre le frontiere dell’ortodossia e questi ultimi sbeffeggiano e scandalizzano quei tiratardi inconcludenti. Ecco perché è da tenere stretto tra le  mani il libro di un teologo francese, Jean-Marie Ploux, 74 anni, che – sulla base anche di una lunga esperienza pastorale – ha elaborato una sorta di  grammatica del dialogo come impegno irreversibile per il credente. La stessa sorgente della fede cristiana è proprio in un dialogo divino che squarcia il silenzio del nulla e che ha come interlocutore privilegiato la creatura umana.


Sulle tonalità differenti di questo colloquio, che ha appunto «in principio il Lógos» per usare il celebre incipit del Vangelo di Giovanni, si leggono in questo  saggio pagine illuminanti attorno a soggetti che ora elenchiamo soltanto: l’«ospite interiore», accettare la differenza, la libertà e la verità, il «paese  dell’altro», il rischio dell’incontro, la gratuità e così via. All’abbondante sequenza di lezioni, di regole, di eccezioni che questa grammatica ideale propone si  associano anche i capitoli degli «esercizi» pratici: l’incrocio con l’ebraismo, il Dio del Corano, il risveglio del buddhismo, il confronto con coloro che non credono in nessun Dio (un «esercizio», quest’ultimo, che mi coinvolge particolarmente attraverso il progetto di un «Cortile dei Gentili», simbolo giudaico destinato a illustrare il dialogo credenti-atei). Ma Ploux s’impegna anche a declinare i “casi” dell’incontro attorno ai nodi incandescenti della verità scientifica, etica e teologica. E il suo sguardo s’allunga fino ad Assisi, divenuta per merito del beato Giovanni Paolo II l’emblema del dialogo interreligioso e  che Benedetto XVI, il prossimo 27 ottobre, ha voluto riproporre come sede del convergere attorno alla verità e alla pace della folla dei credenti secondo le mille denominazioni, ma anche dei non credenti che s’interrogano sull’«oltre» e sull’«altro» rispetto al «qui» e al «se stessi».


La certezza e la speranza sono, alla fine, quelle che il poeta surrealista francese Paul Eluard ben esprimeva in alcuni suoi versi: «Non verremo alla meta a uno a uno / ma a due a due. / Se ci conosceremo a due a due, noi ci conosceremo / tutti, noi ci ameremo tutti e i figli / un giorno rideranno / della leggenda nera dove un uomo / lacrima in solitudine».


Jean-Marie Ploux, Il dialogo cambia la fede?, Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 296, € 25,00


in “Il Sole 24 Ore” del 21 agosto 2011

Intimidazione e disinformazione sui cattolici


 

 

La chiesa e le tasse.

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Che la denuncia del cardinale Angelo Bagnasco delle «impressionanti cifre dell’evasione fiscale» provocasse questa reazione da parte del segretario dei radicali italiani («il cardinale non può stigmatizzare l’evasione fiscale se prima non rinuncia alle agevolazioni ….») può non sorprendere, ma sorprende che sia stata ripresa in modo così clamoroso dalla rete e da tanta stampa. Mi sarei atteso invece parole di apprezzamento per una posizione netta e giusta, in un momento in cui il Paese sente di dovere preliminarmente condividere un giudizio morale solido su cui poggiare scelte e responsabilità politiche non elusive in primo luogo del dato di realtà.


Ne è seguita al contrario una aggressione alla Chiesa, di carattere oggettivamente intimidatorio, per di più fondata su una vera e propria disinformazione, utilizzata e intenzionalmente indotta. Intanto facendo confusione fra Vaticano e Chiesa italiana, ben sapendo che la competenza dello Stato italiano riguarda solo la seconda, essendo il primo un altro stato su cui non può interferire l’ordinamento tributario italiano.


Entriamo nel merito. Per quanto riguarda l’Ici si contesta la norma che prevede l’esenzione per gli immobili nei quali gli enti non commerciali svolgono attività «destinate esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, ….. (articolo 7, c1, lettera I del d.lgs. 30dicembre 1992, n. 504)». Gli immobili sono dunque esenti solo se utilizzati da enti non commerciali e se destinati totalmente all’esercizio esclusivo di una o più tra le attività indicate.


Si tratta di un’esenzione riservata non solo alla Chiesa cattolica, ma a tutte le confessioni e a tutti gli enti non commerciali come ad esempio le associazioni sportive dilettantistiche, le organizzazioni di volontariato, le onlus, le fondazioni, le proloco, le aziende sanitarie, e gli enti pubblici territoriali in genere. L’esenzione richiede che l’intero immobile sia destinato ad attività non commerciali (sono esclusi quindi alberghi, ristoranti, negozi, librerie) pena la perdita dell’agevolazione: non è vero dunque che basti inserire una cappella in un immobile per godere del beneficio.


Lo stesso discorso vale per l’Ires, nel senso che l’articolo 6 del dpr 60/1973 prevede l’esenzione per: a) gli enti di assistenza sociale, gli enti ospedalieri, eccetera; b) le scuole, le fondazioni, le accademie, gli istituti scientifici, eccetera; c) gli istituti per le case popolari.


Analogo ragionamento si deve fare per la stampa cattolica non destinataria di un contributo specifico ma di quanto è previsto per tutte le pubblicazioni dalla legge di sostegno all’editoria.


Ho voluto intenzionalmente rinunciare ad ogni valutazione sull’utilità sociale delle numerose attività assistenziali beneficiarie delle agevolazioni come la Caritas (mense, centri di assistenza, solidarietà internazionale) o la fittissima rete delle parrocchie (scuole per l’infanzia, assistenza agli anziani, o – per dire solo di un servizio divenuto oggi indispensabile per la generalità delle famiglie che non sanno a chi rivolgersi per la cura dei figli nel tempo  extrascolastico – i campi gioco estivi), che sollevano gli enti locali e lo Stato da spese ben superiori alle esenzioni di cui abbiamo parlato.


Mi sono limitato a contestare l’assurdità di una polemica costruita sul presupposto falso di un “privilegio” che non vedo, poiché le agevolazioni concesse a taluni immobili, come ho dimostrato, non riguardano solo gli enti ecclesiastici, ma la generalità delle istituzioni che non svolgono attività commerciali. E, allora, di cosa si sta discutendo?


in “l’Unità” del 22 agosto 2011

 

 

Contributi da Avvenire


Agevolazioni, ecco la verità
di Patrizia Clementi


Quelli che l’Ici
e la Chiesa cattolica

di Umberto Folena


Ici e Ires, i Radicali
insistono a sbagliare

di Umberto Folena

Raimon Panikkar: Vita e parola

 

Raimon Panikkar, Vita e parola. La mia Opera, Jaca Book, Milano 2010 (pp. 158, euro 16,00)

 

Il 26 agosto 2010 si spegne, all’età di 92 anni, Raimon Panikkar, personalità ricca e complessa, profeta del dialogo e maestro dell’esperienza mistica.

Da qualche anno, con grande coraggio, la Jaca Book sta curando la pubblicazione dell’Opera Omnia di Panikkar a cura dell’Autore stesso e di Milena Carrara Pavan, che hanno organizzato i numerosi scritti in dodici volumi tematici (ma che arrivano a 17 poiché alcuni volumi sono in due tomi). È da notare anche che l’iniziativa dell’editore italiano è la prima in assoluto e sebbene Panikkar vivesse in Spagna e parlasse numerose lingue, sarà in italiano che comparirà per la prima volta l’edizione integrale delle sue Opere.

 

Sono quattro i volumi finora pubblicati, probabilmente cinque entro la fine dell’anno. Ma abbiamo la fortuna della pubblicazione – pochi mesi prima della sua morte – del volumetto di cui facciamo la recensione e che contiene le 16 Prefazioni riscritte da Panikkar a tutti i volumi che compongono il piano dell’Opera Omnia. Un testo dunque preziosissimo per accostarsi integralmente, anche se in modo essenziale e sintetico, alla pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita estremamente ricchi e stimolanti. Il volume è arricchito da una ampia nota biografica a cui manca solo la data della sua recente scomparsa.

Nella Prefazione è Panikkar stesso a definire il contenuto del volume: “Mi era stato chiesto in più occasioni di elaborare una sintesi del mio pensiero, di pubblicare, cioè, un testo che potesse intitolarsi La mia Opera. Mi sono reso conto che in effetti il lavoro l’avevo già fatto, avendo preparato in questi ultimi anni le introduzioni ai vari volumi dell’Opera Omnia” (p. 7). Ecco dunque tutto il valore di questo agile volumetto, estremamente denso e ricco. Peraltro, come sottolinea Panikkar, queste introduzioni sono anche un preziosissimo accesso non solo al suo pensiero, ma anche alla sua vita, essendo le due cose strettamente interconnesse: “Colgo l’occasione per sottolineare che tutti i miei scritti rappresentano non solo un problema intellettuale della mia mente, ma una preoccupazione del mio cuore e, ancor più, un interesse reale della mia intera esistenza, che ha cercato per prima cosa di raggiungere chiarezza e profondità studiando seriamente i problemi della vita umana […] Ora che ho fatto lo sforzo di riunire i miei scritti per argomenti, mi accorgo che lo schema di questa Opera Omnia rappresenta il percorso non solo del mio pensiero ma anche della mia vita, senza esaurirne, come dicevo, l’esperienza. I miei scritti coprono un lasso di circa settant’anni, in cui mi sono dedicato ad approfondire il senso di una vita umana più giusta e piena” (pp. 7-8). In questa prospettiva, aggiunge Panikkar, “non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono soltanto dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte superiore che si può forse chiamare Spirito” (p. 8). In seguito, sintetizza in modo estremamente chiaro tutto il suo itinerario di vita: “Attratto fin da giovane dalla spiritualità, mi sono avvicinato allo studio delle religioni approfondendo prima la religione in cui sono nato e cresciuto, il cristianesimo, scoprendo poi la religione di mio padre, l’induismo, e subendo infine il fascino del buddhismo, pur rimanendo fedele alla mia origine cristiana. Con tale bagaglio di esperienze e conoscenze mi sono aperto in forma spontanea al dialogo con le diverse culture e religioni, avendolo già vissuto interiormente. Non si può scoprire infatti la verità di un’altra religione se non la si vive in profondità dall’interno […] Dalla rielaborazione della Trinità, che considero il fulcro del cristianesimo, sono giunto alla formulazione della mia visione della realtà che ho chiamato cosmoteandrica. Per comunicare agli altri ciò che non può essere descritto direttamente sono ricorso al mito, al simbolo e al culto, che sono alla base di ogni formulazione di fede, sviluppandone l’ermeneutica. Sono sempre stato attratto dalla filosofia come amore per la verità e per il Mistero. Non volendo chiudermi in un mondo di speculazione astratta, mi sono aperto alla vita che mi sta attorno nella sua concretezza e ho scoperto che non era profana ma sacra, da qui il mio interesse per i problemi che riguardano la secolarità” (pp. 8-9).

Vediamo ora, nello specifico, come è articolato il densissimo volume. È questo anche un modo per accostarci all’articolazione dell’Opera Omnia che raccoglie – come detto – per temi e con la supervisione dell’Autore stesso, tutti gli scritti di Panikkar.

Il primo capitolo – Mistica, pienezza di vita – contiene il saggio che fa da introduzione al tomo 1 del primo volume dell’Opera Omnia, intitolato Mistica e spiritualità. A proposito del volume – già pubblicato – Panikkar scrive che “è in parte autobiografico in quanto tratta del tema più importante della mia vita, che ha ispirato in forma discreta tutti i miei scritti, così da divenirne una chiave ermeneutica indispensabile” (p. 11). La mistica, per Panikkar, altro non è che esperienza integrale della vita; in questa prospettiva, essa non è “un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. L’uomo è essenzialmente un mistico” (p. 12). La mistica è qualcosa che “non disumanizza” (p. 13); è “esperienza gioiosa” (p. 14), appunto in quanto esperienza integrale della Vita, di “quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina: Vita, tuttavia, che si ‘sente’ palpitare, o, per meglio dire, semplicemente vivere in noi” (p. 15). In questo senso, l’esperienza mistica è quella che “ci permette di godere pienamente della Vita” (p. 16). Ne consegue allora, che “il grande ostacolo a che scaturisca spontaneamente in noi l’esperienza della Vita è la nostra preoccupazione per il fare a scapito dell’essere, del vivere. La mistica, quindi, richiede una certa maturità, che è più facile raggiungere al crepuscolo della vita” (p. 18).

Il secondo saggio – Spiritualità, il cammino della vita – fa da introduzione al tomo 2 del primo volume. Se la mistica è l’esperienza suprema della realtà, la spiritualità viene intesa da Panikkar come il “cammino per giungere a tale esperienza” (p. 21). È evidente che i cammini sono stati e sono molti. Ma una spiritualità per l’oggi dovrà comunque essere integrale: “vuol dire che deve coinvolgere l’uomo nella sua totalità” (p. 21), e quindi, nel linguaggio di Panikkar, fare sintesi tra quattro dimensioni che sarebbero, invece, nella cultura di oggi divise, con il rischio di frammentare e alienare l’uomo. Le quattro dimensioni, che una genuina spiritualità deve ricomporre, sono sōma, psychē, polis, kosmos. Anzitutto, l’uomo non ha, ma è sōma, corpo. Ne deriva che una spiritualità “che faccia astrazione dal corpo umano, che lo sottovaluti o che lo releghi come cosa secondaria, sarebbe monca” (p. 22). Ma l’uomo è anche psychē, anima, cioè pensiero, immaginazione, fantasia, volontà. L’uomo inoltre è anche polis, non è cioè individuo, ma società, collettività, chiesa, famiglia. “La dicotomia (mortale!) tra individuo e collettività si trova proprio alla base delle tensioni di ogni specie” (p. 22). Infine, l’uomo è kosmos: non è solo società ma universo, mondo. Cioè non è e non può essere separato dagli animali, dalle cose, dalla terra; e allora la terra non può essere arbitrariamente sfruttata perché non è ‘l’altro’ ma è parte costitutiva dell’uomo. In questo quadro antropologico, Dio è insieme immanente e trascendente: “è nella stessa quaternitas degli elementi che definiscono l’uomo che si incontra il divino” (p. 24). Solo in questa prospettiva possiamo comprendere come la spiritualità genuina non sia affatto qualcosa che disincarni, ma anzi qualcosa che – componendo i frammenti, mettendo insieme interno ed esterno, alto e basso – aiuta piuttosto a vivere la Vita integralmente. Nel senso dell’incarnazione, dove “i problemi della terra non possono essere separati da quelli del cielo” (p. 26). E una tale spiritualità non potrà che aprirsi al dialogo interculturale e interreligioso: “Non bisogna perdere di vista il fatto che, considerando la situazione attuale dell’umanità, nessuna religione, nessuna civiltà, nessuna cultura ha la forza sufficiente o è in grado di dare all’uomo una risposta soddisfacente: le une hanno bisogno delle altre. Non si può pretendere che la soluzione per l’insieme dell’umanità, d’ora in poi, possa venire da un’unica fonte […] bisogna sforzarsi perché avvenga una mutua fecondazione tra le differenti tradizioni umane” (p. 25).

Il terzo saggio – Religione e religioni – fa da introduzione all’omonimo, secondo volume dell’Opera Omnia, di imminente pubblicazione. Il titolo intende sottolineare “l’ambiguità della parola ‘religione’ che al singolare rappresenta l’apertura costitutiva dell’uomo al mistero della vita mentre al plurale indica le diverse tradizioni religiose” (p. 27). In questa prospettiva, l’esperienza di Dio – ma meglio sarebbe dire, in senso ancora più ampio, l’esperienza integrale della Vita – non è e non può essere monopolio di nessuna religione. Ogni religione ne esprime una parte, ma non la esaurisce. Le religioni “sono vie che conducono gli uomini verso la loro pienezza”, in qualunque modo poi si concepisca questa pienezza. Le vie sono tante: alcune sono costituite dalle religioni tradizionali, altre sono vie nuove, a cui spesso è difficile dire se possano o meno essere chiamate religioni. Ne deriva che nessuna religione (o cultura, o tradizione) può pretendere “di esaurire la gamma universale dell’esperienza umana” (p. 28) e che quindi il pluralismo sia, soprattutto oggi, una stringente necessità: “l’incontro-dialogo tra religioni, ideologie e concezioni del mondo è un imperativo umano dei nostri giorni” (p. 28). E in questo incontro Panikkar comprende anche la possibilità del dialogo con un certo umanesimo ateo in quanto, comunque, impegnato in un medesimo sforzo per il perfezionamento umano. Questo è quanto Panikkar chiama ecumenismo ecumenico. Esso “tenta di arrivare a un fecondo arricchimento reciproco e di accettare una critica delle tradizioni religiose del mondo senza tralasciare per questo di riconoscere il ruolo unico spettante a ognuna di esse. Come le confessioni cristiane riconoscono un Cristo di cui non possiedono il monopolio, un Cristo che le unisce tutte quante, senza dovere per questo esserne amalgamate, così le distinte tradizioni dell’umanità riconoscono un humanum (diversamente interpretato alla stessa maniera in cui vi sono interpretazioni divergenti di Cristo) non manipolabile da chicchessia, cioè trascendente. Fedeli a questo humanum, discutono tra loro tentando di avvicinarsi all’ideale” (p. 29). Ebbene, solo un tale atteggiamento che rinuncia alla pretesa di monopolio su ciò che la religione rappresenta, potrebbe aprire ad un fecondo dialogo dialogale, con l’unico obiettivo di aiutare l’uomo a raggiungere la sua pienezza.

Il terzo volume dell’Opera OmniaCristianesimo – dà anche il titolo al quarto saggio. Qui Panikkar distingue tre diversi livelli contenuti nella parola ‘cristiano’: esso può essere l’aggettivo di cristianità, cioè riferirsi ad una civiltà. Nel Medioevo, ad esempio, era impossibile essere cristiani senza appartenere alla cristianità. Ma cristiano può anche alludere alla religione cristianesimo: fino a non molto tempo fa era difficile dirsi cristiano senza riconoscersi appartenente al cristianesimo. Ma cristiano, sostiene Panikkar, può anche riferirsi a cristianìa, cioè alla possibilità di riconoscersi cristiano “come atteggiamento personale, senza appartenere alla cristianità o aderire al cristianesimo in quanto struttura istituzionale” (p. 31). Si tratta di una coscienza cristiana più matura che, soprattutto per il terzo millennio che si è appena aperto, sembra costituire un forte appello. Essere cristiano come membro della cristianità appartiene infatti al passato o semmai, come dice Panikkar, “ai sogni di alcuni nei confronti del futuro” (p. 32), ma sembra non parlare più alla maggioranza dei cristiani. Il cristianesimo come religione ha preso posto nella coscienza cristiana a cominciare dal declino della cristianità come regime politico-religioso. Ma il cristianesimo come religione deve confrontarsi con le altre religioni esistenti e ciò mette in crisi la sua purezza dottrinale. Da qui l’emergere, oggi, di quella che Panikkar chiama cristianìa (Christlicheit, in tedesco; christianness, in inglese), e cioè la “confessione di una fede personale, che adotta un atteggiamento analogo a quello di Cristo, nella misura in cui Cristo rappresenta il simbolo centrale della propria vita” (p. 35), e che comporta un rendersi indipendenti rispetto alla sovraistituzionalizzazione del cristianesimo ufficiale. “Si tratta di un mutamento ecclesiale nella stessa autocomprensione cristiana” (p. 35). Ciò non significa, precisa Panikkar, disprezzare o ignorare le strutture giuridiche e gli apparati istituzionali, ma solo non identificarsi con essi. Si tratta di superare, non di respingere: è una nuova autocomprensione per la quale “ci si è resi indipendenti da un ordine politico fisso e determinato (cristianità)”, come anche “dall’identificazione tra essere cristiano e l’accettazione di una serie determinata di dottrine (cristianesimo)” (p. 38). In questa prospettiva, cristianìa apparterrebbe piuttosto alla dimensione mistica, che, peraltro, ha bisogno di istituzioni. Ebbene, proprio questa nuova autocomprensione mistica, dice Panikkar, sembra essere l’urgenza dei nostri giorni.

Il quarto volume dell’Opera Omnia, è dedicato all’induismo. Il quinto e il sesto saggio costituiscono rispettivamente le introduzioni al primo e al secondo tomo del volume. Non ci soffermiamo su queste densissime introduzioni che hanno il grande merito di aiutare noi occidentali a comprendere meglio il cuore di una tradizione molto diversa dalla nostra. Il settimo saggio – Buddhismo – costituisce l’introduzione al quinto volume dell’Opera Omnia e raccoglie i testi di Panikkar su ciò che possiamo ritenere il messaggio fondamentale di questa religione. Un’impresa quasi paradossale, dato il carattere fondamentalmente apofatico del buddhismo. Caratteristica del buddhismo è infatti l’affermazione della non-realtà della realtà ultima: essa è niente. Ma, osserva Panikkar, “il buddhismo non afferma che l’Assoluto è un niente, che non esiste in generale un qualche cosa, ma piuttosto che nessun essere corrisponde a quel qualche cosa […] Significherebbe quindi falsare completamente il buddhismo, se si volesse fargli affermare che bisogna pensare l’Assoluto come un Niente; l’Assoluto non deve essere pensato, perché, in tal caso, si sarebbe costretti a pensarlo come Essere o non-Essere, ed esso «non è» nessuna delle due cose” (p. 75).

I saggi successivi – Pluralismo e interculturalità e Dialogo interculturale e interreligioso – sono le introduzioni ai due tomi del volume Culture e religioni in dialogo, il sesto dell’Opera Omnia. Sono saggi molto densi, perché vanno a toccare uno dei temi su cui Panikkar si è espresso di più e per il quale ha combattuto con maggiore convinzione: il tema del dialogo. Un tema oggi molto urgente, a motivo dei cambiamenti a cui il nostro mondo è andato incontro negli ultimi decenni e che hanno visto popoli e culture venire tra loro in contatto e mescolarsi, creando, spesso, scontri di civiltà e problemi di convivenza: “La verità di una tradizione si scontra con quella dell’altra e il dialogo rappresenta l’unica via per la sopravvivenza” (p. 77). Per l’analisi del contenuto del primo saggio, rimandiamo alla recensione che abbiamo fatto dell’intero tomo. I temi del pluralismo e del dialogo sono ripresi anche nel secondo saggio, il nono, che, come detto, costituisce l’introduzione al secondo tomo. Panikkar definisce un “mito nascente” della nostra epoca, un mito unificante, quello secondo cui l’uomo avvertirebbe sempre più l’insufficienza delle proprie culture e delle proprie religioni e tenderebbe verso una sorta di unità della famiglia umana, “nell’ottica globale di una cultura dell’uomo che abbraccia tutte le civiltà e le religioni come tante sfaccettature che si arricchiscono e stimolano a vicenda” (p. 91). Questo mito, curiosamente, prosegue Panikkar, si presenterebbe come l’opposto del vecchio mito del “monogenismo”, che ci presentava “l’unità della razza umana sottolineandone l’origine unica” (p. 92). Oggi, l’unità dell’umanità “ci appare molto meno al suo inizio che non al suo termine” (p. 92). A lungo andare,  “i sistemi di pensiero sembrano convergere su tutti i piani: la mutua fecondazione appare non solo possibile, ma auspicabile […] L’altro comincia a diventare un altro polo di noi stessi. Il confronto porta alla complementarietà” (p. 93). Dagli altri si può imparare e grazie agli altri si può crescere. Ma, conclude Panikkar, sarebbe un errore e un pericolo operare sintesi frettolose: “prima di arrivare a una qualche visione d’insieme dobbiamo studiare le dottrine, conoscere i fatti e scoprire lo spirito di un’altra tradizione” (p. 95). È dunque necessario un lungo e umile lavoro; si tratta di “conoscere quanto meglio possibile la nostra tradizione, sviluppare l’empatia e la comprensione, renderci conto che scoprire le altre religioni è al contempo approfondire e purificare la nostra e che iniziarci a un’altra tradizione non può che arricchirci” (p. 96).

Il decimo saggio – Induismo e cristianesimo – introduce l’omonimo volume focalizzato sul dialogo tra le due culture alle quali “l’autore appartiene fin dalla nascita e alle quali è stato fedele in tutta la sua vita: ha continuato sempre a sentirsi profondamente cristiano e autenticamente hindū” (p. 97). Per un cristiano il dialogo tra le religioni – afferma Panikkar – deve rispettare tre condizioni: “1. Si deve rimanere fedeli alla tradizione cristiana. Questo è il problema teologico; 2. Non si devono violare le altre tradizioni; devono essere interpretate secondo la loro stessa autocomprensione. Questo è il problema ermeneutico; 3. Non si deve mettere da parte l’esame critico della cultura contemporanea. Questo è il problema filosofico” (p. 102). All’esame di queste tre condizioni sono dedicate le pagine del saggio. L’undicesimo saggio introduce invece l’omonimo ottavo volume dell’Opera Omnia con il titolo Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo. Qui Panikkar presenta una sua visione della realtà, una cosmovisione che, a grandi linee, intende riprendere il tema cristiano della Trinità. Essa si situa come una terza, grande, visione, che cerca di superare i limiti delle due visioni precedenti, quella monista e quella dualista. La visione monista, fondandosi sulla ragione, intende ridurre ad unità i dati che le si presentano, giungendo al concetto di Essere: l’Essere è uno, l’Uno, o semplicemente la Realtà. “La ragione, per intendere, esige la reductio ad unum, come dicevano gli scolastici […] Se vogliamo intendere razionalmente la realtà, dovremo arrivare al monismo […] In breve, se non vogliamo rinunciare alla razionalità dovremo affermare che in ultima istanza tutto è Dio, o Essere, o Spirito, o Materia, o Energia, o Nulla” (p. 116). All’opposto, la visione dualista riconosce due irriducibili sfere della realtà: il materiale e lo spirituale. La via di uscita al dilemma tra monismo e dualismo è costituita dalla visione a-dualista o advaita, che è quella che Panikkar fa propria. Si tratta di superare il razionalismo, ma senza cadere nell’irrazionalismo. La realtà “è costituita da tre dimensioni relazionate le une con le altre – la perichōrēsis trinitaria – così che non solo una non esiste senza l’altra, ma tutte sono intrecciate inter-in-dipendentemente. Tanto Dio, quanto il Mondo e l’Uomo presi separatamente, o a sé, senza relazione con le altre dimensioni della realtà, sono semplici astrazioni della nostra mente” (p. 117).

Il volume nono dell’Opera OmniaMistero ed ermeneutica – è costituito da due tomi. L’introduzione al primo tomo – Mito, simbolo, culto – costituisce il dodicesimo saggio, mentre il saggio Fede, ermeneutica, parola introduce il secondo tomo. Il quattordicesimo saggio – Filosofia e teologia – introduce l’omonimo decimo volume dell’Opera Omnia. Nella prospettiva di Panikkar, filosofia e teologia sono inseparabili perché si implicano vicendevolmente. La filosofia è da lui intesa “non solo come amore della saggezza, ma anche come saggezza dell’amore” (p. 127). La filosofia, scrive ancora Panikkar, “è un tipo di amore molto particolare. È saggezza, la saggezza dell’amore, la saggezza che è contenuta nell’amore […] E la saggezza nasce quando l’amore del sapere e il sapere dell’amore si fondono spontaneamente” (p. 128). Ne consegue che una tale filosofia non può non cristallizzarsi in uno stile di vita, anzi è l’espressione della vita stessa. “Una filosofia che tratti solo di strutture, teorie, idee e si isoli dalla vita, eviti la prassi e reprima i sentimenti, non è solamente unilaterale perché non prende in considerazione altri aspetti della realtà, ma è cattiva filosofia […] Perciò tutte le tradizioni sostengono che per fare veramente filosofia si richiede cuore puro, mente ascetica, vita autentica. L’attività filosofica esige un coinvolgimento totale” (p. 128). La riflessione deve cioè divenire carne, e il pericolo della astrazione intellettuale è grande. “Un professore per me è «uno che professa», vale a dire che esprime una «professione», una confessione, con la totalità della sua vita”, esattamente come un religioso autentico “è colui che lotta, che si sforza per arrivare all’unione armoniosa del sacro e del secolare” (p. 129). La teologia descrive anch’essa questa esigenza di coinvolgimento in una immersione totale nella vita, in una comunione piena con la Realtà.

Il saggio successivo, il quindicesimo, introduce il volume undicesimo dell’Opera Omnia, intitolato Secolarità sacra. Secolarità sacra è – secondo Panikkar – “lo stile di vita cui siamo chiamati, superando la dicotomia tra il sacro e il profano” (p. 135). E aggiunge: “non si tratta di fuggire dal mondo, ma di trasfigurarlo. Bisogna ‘trovare’ il sacro e ‘scoprirne’ la via secolare” (p. 135). Non si tratta, in altre parole, di negare la trascendenza del divino, ma bensì di cogliere “l’immanenza del sacro nelle viscere stesse del mondo” (p. 135). Si tratta di re-imparare a cogliere la sacralità del mondo, senza confondere immanenza e trascendenza. “Se si riduce tutto il reale al meramente secolare, si soffoca la realtà privandola del suo carattere di infinitezza e libertà. Ma, allo stesso tempo, negare alla secolarità il suo carattere reale e definitivo, degrada la vita umana a un semplice gioco senza importanza reale, né dignità. Forse una delle ragioni della crisi apparentemente universale dell’umanità attuale è che non si è riusciti a operare una sintesi tra sacro e secolare” (p. 137). L’ultimo saggio, il sedicesimo, introduce l’ultimo volume dell’Opera Omnia, dedicato a Spazio, tempo e scienza. Il volume racchiude articoli e scritti che riguardano la scienza, apparsi nel primo periodo della vita di Panikkar.

Speriamo di essere riusciti a far cogliere, in queste pagine inevitabilmente troppo sintetiche, almeno qualche frammento della ricchezza e pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita che – crediamo – ha segnato profondamente il nostro tempo e non cesserà di parlare al nostro futuro.

Massimo Diana