Nella scuola entri l’educazione alla solidarietà

 

Un appello all’inizio della scuola:  occorre è più che mai un cambiamento di mentalità e di stili di vita, “essere per gli altri”.

 

Bello spettacolo quello di Madrid invasa da centinaia di migliaia di giovani venuti dai cinque continenti per assistere alla Giornata mondiale della gioventù, presieduta da Benedetto XVI, che per diversi giorni ha trasformato la capitale spagnola in un’affollata Torre di Babele. Tutte le razze, lingue, culture, tradizioni si sono mescolate in una gigantesca testa di ragazze e ragazzi adolescenti, studenti, giovani professionisti venuti da ogni angolo della terra per cantare, ballare, pregare e proclamare la loro adesione alla Chiesa cattolica. Tutto è trascorso in pace, in allegria, in un clima «simpatia generale». A scrivere queste parole su El País di domenica 28 agosto è Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura 2010. Lo scrittore peruviano (significativamente L’Osservatore Romano ha ripreso per intero l’articolo il martedì successivo), dichiaratamente agnostico, non si limita a constatare la bellezza di ciò che è successo a Madrid: ne indica un significato profondo, quello per cui «tutti, credenti e non credenti, dobbiamo rallegrarci di quanto è accaduto nella capitale spagnola». Lo esprime così: «Una società democratica non può combattere efficacemente i propri nemici -a iniziare dalla corruzione – se le sue istituzioni non sono saldamente sostenute da valori etici, se al suo interno non fiorisce una ricca vita spirituale come antidoto permanente contro le forze distruttrici, dissocianti e anarchiche che sono solite guidare la condotta individuale quando l’essere umano si sente libero da ogni responsabilità». E aggiunge che non la religione è superstizione, ma precisamente la presunzione ideologica di ritenerla tale, una superstizione moderna, «che la realtà ha pian piano fatto a pezzi».

È a partire da queste considerazioni del premio Nobel peruviano che vorrei proporre alcune riflessioni dedicate soprattutto ai ragazzi e ai giovani che iniziano in questi giorni il nuovo anno scolastico. Non è difficile ritenere che essi avvertano in maniera più o meno consapevole la grave situazione di difficoltà che sta attraversando il nostro Paese, insieme peraltro all’intero Occidente. La crisi annunciatasi tre anni fa ha mostrato progressivamente i suoi effetti drammatici sul mondo del lavoro e sulla vita quotidiana delle nostre famiglie: la menzogna che aveva indotto molti a ritenere equivalenti l’economia reale e quella virtuale dei giochi finanziari, ha prodotto conseguenze devastanti in Paesi, la cui stabilità era finora ritenuta immune da rischi, e si fa sentire da noi nel settore produttivo e dell’occupazione, nella fatica di molte famiglie a tirare avanti fino alla fine del mese, nei provvedimenti da “lacrime e sangue” di cui chi governa dovrà farsi carico, con la speranza che – fra tanti sconcertanti tentennamenti – sia salvaguardata al massimo l’equità e l’attenzione ai più deboli.

Certamente i nostri ragazzi avvertono sulla propria pelle il peso di queste difficoltà, anche quando esse non avessero toccato direttamente le loro famiglie, e questo perché a rischio è non solo il presente, ma anche l’immediato futuro di cui saranno i primi protagonisti. Il senso diffuso di scoraggiamento e di frustrazione, che colpisce specialmente chi ha perso il lavoro o non riesce a trovarlo, potrebbe diventare nei nostri ragazzi la tentazione pericolosa di cedere a illusioni violente o l’altra, non meno grave, espressa dalle parole fulminanti di Corrado Alvaro, di «pensare che vivere rettamente sia inutile».

Mi sembra perciò giusto chiederci quale contributo i nostri giovani possono dare al superamento della crisi in atto. In quanto essa nasce da processi economico-sociali, che hanno evidenti risvolti politici ritengo che il primo compito che spetti loro sia quello di impegnarsi al massimo nello studio per prepararsi a portare un contributo qualificato alla società di domani. Non esito a dire loro studiate, leggete, informatevi, pensate, fatevi un’idea di ciò che è avvenuto e sta avvenendo, individuatene le cause e cercate di vaccinarvi il più possibile nei confronti degli errori che sono alla base delle difficoltà attuali!

Nella sua radice più profonda, però, la crisi è di ordine morale: egoismi e cecità colpevoli hanno permesso che alcuni si avvantaggiassero a scapito di molti altri, i più deboli. L’Italia, nonostante la vivacità del suo tessuto imprenditoriale e manifatturiero e la qualità dei suoi lavoratori, non è stata meno colpita dalla tempesta etica ed economica che ha investito il “villaggio globale”. Il bisogno di motivazioni morali e di spiritualità, ritenuto decisivo da Vargas Llosa per il “bene essere” di ogni società democratica, si affaccia qui in tutta la sua gravità. Ciò che occorre è più che mai un cambiamento di mentalità e di stili di vita: alla logica egoistica dell’accaparramento bisogna opporre un’educazione alla solidarietà e allo spirito di servizio in vista del bene comune; al consumismo sfacciato e ai falsi modelli che puntano all’avere di più per essere di più, bisogna reagire con una scelta di sobrietà, allenandosi al sacrificio e alla condivisione con i più deboli. Questo non avverrà senza il concorso di tutti e specialmente senza il concorso dei giovani, nostro futuro.

È l’ora di un sussulto etico e spirituale che parta da uomini e donne dal cuore puro, sinceramente desiderosi di impegnarsi per il bene di tutti: e i giovani dovranno stare in prima linea in questa “rivoluzione morale”. E mia convinzione profonda che l’aiuto di Dio, cercato attraverso la preghiera e sperimentato nell’esercizio dell’amore al prossimo, sia forza decisiva di cui tutti abbiamo bisogno per vivere e sviluppare questo nuovo inizio. Ai giovani specialmente ripeterei, perciò, le parole dell’amatissimo Papa Giovanni Paolo II, dichiarato beato lo scorso 1° maggio: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!» (22 ottobre 1978).

A tutti, comunque, credenti e non credenti, è lanciata la sfida dell’urgenza indicata: è tempo di scelte radicali, di un vigoroso ritorno al primato del bene comune e alla concezione della vita vissuta come “essere per gli altri”, e quindi come dono e servizio! Solo preparando a queste scelte la scuola potrà contribuire a far crescere la qualità della vita di tutti. A docenti e studenti l’appello a non sottrarsi a questo compito decisivo.


*Arcivescovo di Chieti-Vasto

in “Il Sole 24 Ore” del 4 settembre 2011

 

Io, religioso senza fede


spesso abbiamo laicizzato malamente e  abbiamo erroneamente rinunciato anche ad alcuni degli aspetti più utili e affascinanti della religione.


Sono cresciuto in una famiglia di atei convinti, figlio di ebrei non osservanti che mettevano la fede religiosa sullo stesso piano della fede in Babbo Natale. Mio padre era riuscito a far piangere mia sorella quando aveva tentato di estirpare dalla sua mente l’idea, nemmeno troppo radicata, che da qualche parte dell’universo si nascondesse un dio solitario.
Aveva otto anni, a quell’epoca. Se i miei scoprivano che qualcuno, nella loro cerchia di conoscenze, covava segretamente un sentimento religioso, cominciavano a trattarlo con la commiserazione che in genere si riserva a chi soffre di una malattia degenerativa. Da quel momento, per loro, era impensabile ricominciare a prenderlo sul serio. Nonostante fossi stato fortemente influenzato dall’atteggiamento dei miei genitori, passati i vent’anni il mio ateismo mi ha mandato in crisi. I dubbi sono affiorati quando ho ascoltato per la prima volta le cantate di Bach, si sono sviluppati mentre osservavo alcune Madonne del Bellini e sono diventati un tormento quando mi sono avvicinato all’architettura zen.
Comunque, è stato solo parecchi anni dopo la morte di mio padre – seppellito sotto una lapide incisa in ebraico in un cimitero ebraico di Willesden, zona nord-ovest di Londra, perché, dettaglio interessante, si era scordato di lasciare istruzioni più laiche – che ho incominciato ad accettare il peso della mia ambivalenza nei confronti dei principi indiscutibili che mi erano stati inculcati durante l’infanzia.
La mia certezza che Dio non esiste rimaneva intatta. Mi sentivo semplicemente più libero all’idea che ci fosse un modo di avvicinarsi alla religione senza dover accettarne per forza anche il lato sovrannaturale; un modo, per dirla in termini più astratti, di pensare ai Padri senza offuscare la memoria di mio padre. Mi sono reso conto che la mia protratta resistenza alle teorie sull’aldilà o sugli abitanti del paradiso non era una giustificazione sufficiente per liquidare la musica, gli edifici, le preghiere, i rituali, le celebrazioni, i santuari, i pellegrinaggi, i pasti in comunione e i manoscritti miniati.
Dopo aver perso tutta una serie di pratiche e tradizioni che gli atei trovano insopportabili perché di quello che Nietzsche definiva «il cattivo odore della religione», la società laica si è  ingiustamente impoverita. Ormai il termine «moralità» ci fa paura, e al pensiero di ascoltare un sermone preferiamo darcela a gambe.
Rifuggiamo l’idea che l’arte possa elevarci o avere una missione etica. Non andiamo in pellegrinaggio. Non sappiamo più costruire templi. Non abbiamo strumenti per esprimere gratitudine. L’idea di leggere un manuale di auto-aiuto ci pare in contrasto con i nostri nobili principi. Rifiutiamo l’esercizio mentale. Di rado vediamo degli sconosciuti cantare tutti insieme.
Purtroppo ci troviamo di fronte a una scelta: abbracciare la bislacca nozione che esistano delle divinità immateriali, oppure abbandonare in blocco una serie di rituali confortanti, raffinati o semplicemente affascinanti di cui fatichiamo a trovare un equivalente nella società laica. Forse è giunto il momento di liberare i nostri bisogni spirituali dalla patina religiosa che li ricopre,  anche se paradossalmente è spesso lo studio delle religioni a fornire la chiave per riscoprire e riformulare questi bisogni.
Il mio è un tentativo di leggere le fedi, principalmente quella cristiana e, in misura minore, quella giudaica e quella buddista, alla ricerca di intuizioni che possano tornare utili nella vita laica, soprattutto in relazione ai problemi sollevati dalla convivenza all’interno di una comunità e dalle sofferenze mentali e fisiche.
Ben lungi dal negare i valori della laicità, la mia tesi è che spesso abbiamo laicizzato malamente, cioè che, mentre cercavamo di liberarci di idee inattuabili, abbiamo erroneamente rinunciato  anche ad alcuni degli aspetti più utili e affascinanti della religione.

 

in “Il Sole 24 Ore” del 4 settembre 2011

«Un cuore che arde per tutta la creazione»

 

Il 1° settembre, capodanno della Chiesa ortodossa, è la Giornata del Creato.

In occasione di questo appuntamento dedicato alla riflessione sulla necessità di salvaguardare l’ambiente che abbiamo  ricevuto in dono con il dovere di lasciarlo in eredità alle generazioni future, ci sembra importante tradurre il messaggio per l’occasione del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, anche perché su questo tema la Chiesa ortodossa e le Chiese evangelico-luterane sono state le prime a mostrare consapevolezza e sensibilità.
La Giornata del Creato si celebra nella Chiesa ortodossa dal 1989 su proposta del patriarca Dimitrios all’Assemblea ecumenica di Basilea. In Italia – come negli altri Paesi cattolici – l’iniziativa è stata introdotta nel 2006.

 

Amati figli nel Signore,
Per grazia di Dio, iniziamo oggi ancora un altro anno della Chiesa, ancora un altro ciclo di festa, con tutte le opportunità che ci fornisce, benedetto per noi così da intensificare la nostra lotta spirituale in modo che ci possiamo rendere conto dell’opportunità che ci è stata concessa di diventare “a somiglianza di Dio” e che anche noi possiamo diventare i suoi santi.
Questo giorno, il 1 ° settembre, il primo giorno dell’anno della Chiesa, è anche, proprio su iniziativa del Patriarcato ecumenico, dedicato alla preghiera per l’ambiente naturale. Questa dedica è  tutt’altro che estranea al significato della giornata che ci invita ad un rinnovato impegno spirituale, dal momento che questa lotta fa sì che ‘il cambiamento buono’ in una persona contribuisca al miglioramento delle sue relazioni con l’ambiente e della sua sensibilità nel riconoscere l’importanza della sua tutela e conservazione.
E così oggi siamo chiamati a glorificare il santo nome di Dio, perché egli ha fatto dono al genere umano della natura da conservare e sostenere come l’ambiente più ideale per un sano sviluppo del corpo e dello spirito. Non possiamo, tuttavia, trascurare il fatto che l’uomo non ha riconosciuto il valore di questo dono di Dio, come avrebbe dovuto e continua a distruggere l’ambiente per avidità  o altri desideri egoistici.
Il nostro ambiente, come sappiamo, è composto da terra, acqua, sole e aria e anche, naturalmente, fauna e flora. L’uomo può sfruttare la natura a suo vantaggio fino ad un certo limite che garantisce la sostenibilità delle risorse energetiche consumate e salvaguarda la riproduzione di tutte le creature viventi. In effetti, questo sfruttamento della natura in senso buono è esplicito comando di Dio per l’uomo prima della sua caduta nel peccato. La trasgressione di questo limite, però, che è stata una caratteristica degli ultimi due secoli della storia umana, e ha condotto alla distruzione  dell’armonia dei costituenti naturali dell’ambiente, al loro logoramento e, alla lunga, alla morte del creato e dell’uomo stesso che non può sopravvivere in eco-sistemi che sono diventati sbilanciati in un modo irreversibile. Un risultato di questo fenomeno è la comparsa e la diffusione di malattie a causa dell’alterazione della catena alimentare causata dalle attività umane.
L’importanza fondamentale delle foreste (il 2011 è l’Anno dedicato dalle Nazioni Unite alle foreste) e della flora in generale per la sostenibilità della terra in quanto eco-sistema è giustamente sottolineato al giorno d’oggi, così come la necessità di preservare le sue risorse idriche, ma non dobbiamo sottovalutare l’enorme contributo della vita animale nel garantire lo sviluppo armonioso e il funzionamento della natura. Gli animali sono sempre stati amici per l’uomo e servi dei bisogni umani, fornendoci cibo, vestiario e trasporto, nonché protezione e compagnia. Lo stretto rapporto dell’uomo con gli animali è dimostrato dal fatto che sono stati creati lo stesso giorno (Gen 1,24-31) e dal comando di Dio di Noè di salvare una coppia di ogni specie dal diluvio imminente  (Gen 6,19 ). E’ molto significativo che Dio mostri particolare attenzione alla conservazione del regno animale. Spesso nelle Vite dei Santi incontriamo storie sui rapporti meravigliosi tra Santi e  animali, anche feroci, che in altre circostanze sarebbero stati tutt’altro che amichevolmente disposti verso l’uomo. Questo, naturalmente, non è dovuto alla loro natura malvagia, ma alla resistenza dell’uomo alla grazia di Dio e la sua successiva rotta di collisione con gli elementi e le creature della natura.
Inoltre, un’ulteriore conseguenza della rottura del rapporto tra Adamo ed Eva e il loro Creatore, Dio, è stata l’interruzione del loro rapporto con l’ambiente: “Maledetto il suolo per causa tua! Con dolori ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!” (Gen 3,17-19); la riconciliazione dell’uomo con Dio comporta la sua riconciliazione con gli elementi della natura.
In quest’ottica è chiaro che un buon rapporto dell’uomo con l’ambiente si sviluppa quando insieme a questo si sviluppa un buon rapporto tra l’uomo e Dio. C’è un passo ben noto della vita di Sant’Antonio che racconta come, all’età di novantanni il Santo avesse deciso sotto la guida di un angelo del Signore di partire addentrandosi nel deserto per andare a trovare un altro eremita, San Paolo di Tebe, così da beneficiare del suo consiglio spirituale. Dopo aver camminato per tre giorni in cerca del Santo seguendo le tracce di animali selvatici, finalmente ha incontrato un leone che con calma ha piegato la testa davanti a lui e, facendo un dietrofront, ha condotto Antonio alla grotta di San Paolo, dove trovò l’eremita servito da animali selvatici. La sua razione di pane gli veniva portata ogni giorno da un corvo! Infatti, il giorno in cui Sant’Antonio gli ha fatto visita, l’uccello ha portato una doppia razione, dato che aveva pure previsto l’ospite! Questi santi avevano sviluppato
un rapporto benedetto con Dio, e quindi avevano altresì gentili rapporti con tutte le creature della natura. La creazione di questo buon rapporto con Dio deve essere la nostra preoccupazione principale, e al servizio di questo obiettivo, dobbiamo lottare per una buona relazione con il nostro ambiente, animale, vegetale e fisico. Da questa prospettiva il nostro amore per gli animali non sarà semplicemente una manifestazione di solidarietà con quanti amano gli animali e che, ahimè, troppo spesso viene accompagnato da indifferenza alle sofferenze del nostro prossimo, immagine di Dio, ma sarà il risultato autentico del nostro buon rapporto con il Creatore di tutte le cose. Vorrei che il Creatore dell’universo “estremamente buono” e della realtà terrena “estremamente buona”, vale a dire l’ecosistema, ispirasse tutti noi a comportarci con compassione verso tutti gli elementi della natura con cuore che pieno di misericordia per tutti: esseri umani, animali e piante. Quando a San Isacco il Siro è stato chiesto: “In cosa consiste un cuore misericordioso?” ha risposto: “Un cuore misericordioso è un cuore che arde per tutta la creazione, per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie e per ogni cosa creata e dal ricordo e dalla contemplazione di queste cose sono riempiti gli occhi di lacrime Dall’intensità e sovrabbondanza di misericordia del cuore, e dalla sua profonda contrizione, il cuore non può sopportare di sentire o di vedere alcun danno o alcuna creatura cui accada dolore ” (Isacco il Siro, Discorso 81).
Attraverso tale compassione verso tutto il creato onoreremo il ruolo che ci è stato conferito da Dio di reggitori della creazione, guardando con cura paterna a tutti i suoi elementi. In questo modo questi elementi saranno obbedienti a noi, rimanendo a nostra disposizione con benevolenza e fedeltà nell’eseguire la loro missione di servire alle nostre esigenze secondo il comando del Signore”.
Il vostro caro fratello in Cristo in preghiera fervente davanti a Dio

+ Bartolomeo di Costantinopoli

in “Vino Nuovo” (www.vinonuovo.it) del 1 settembre 2011 (traduzione: Maira Teresa Pontara Pederiva)

XXIII Domenica del tempo ordinario (A)

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Ezechiele 33,1.7-9

 

Mi fu rivolta questa parola del Signore:  «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.  Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.  Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu sarai salvato».

v Se il Vangelo c’invita a essere custodi gli uni degli altri, a sua volta il testo del profeta Ezechiele indica nell’immagine della sentinella la caratterizzazione del proprio ruolo. Tale immagine, naturale in un contesto militare e in cui la guerra ha un posto importante nella vita quotidiana, come in una civiltà nella quale le mura della città erano appunto custodite da sentinelle, era immediatamente percepibile: la sentinella ha il compito di avvertire il popolo appena avvista il pericolo. Il profeta, da parte sua, non avvista i pur notevoli pericoli di eserciti nemici, bensì quelli ancora più insidiosi dell’allontanamento da Dio, dalla sua legge.

Ciò che, però, il profeta Ezechiele afferma si rivela sorprendente perché egli non sarà sentinella nel senso che, avendo visto l’empio agire male, lo riprende di sua iniziativa. Al contrario, dovrà seguire un criterio ben preciso e determinato: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (33,7). Dunque, è Dio stesso che si preoccuperà di dare l’«allarme» alla sentinella-profeta! Dio, cioè, si renderà garante dell’oggettività del richiamo, che ha il solo scopo di conseguire la salvezza dell’empio, la cui vita, davanti agli occhi di Dio, non ha meno valore di quella del giusto, essendo Egli il creatore dell’una come dell’altra: «Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te» (33,8).

Il profeta risulta perciò responsabile in caso di omissione del compito che Dio gli ha affidato: anche la vita dell’empio appartiene al Signore ed Egli non vuole certo sciuparla, perderla. Tuttavia, l’empio, da parte sua, conserva la responsabilità sulla propria vita e sul suo esito, qualora si ostini a non convertirsi: «Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato» (33,9). Si tratta del famoso principio della responsabilità personale, secondo il quale le colpe personali ricadono soltanto su chi le ha commesse. Di questo l’empio dev’essere altamente consapevole, sapendo comprendere e scorgere nel richiamo del profeta-sentinella l’occasione per approfittare dell’offerta di misericordia da parte di Dio.

 

 

Seconda lettura: Romani 13,8-10

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».  La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.

 

v Fungere da sentinella, avvertendo con saggezza unita a fermezza circa i pericoli di determinati comportamenti, non è un compito tra i più gratificanti nell’ambito di una comunità, grande o piccola che sia. Bene lo sapevano i profeti dell’antichità come pure i profeti di oggi. Non si può negare, però, che anche questo rappresenti un vero servizio d’amore a vantaggio di un’umanità spesso disorientata. Ed è proprio sull’amore che l’apostolo Paolo invita a riflettere, insistendo su un particolare di non poco conto: l’osservanza della legge. Infatti, contrariamente a chi lo dipinge come abrogatore della legge, Paolo intende incoraggiare i cristiani di Roma a realizzare il fine proprio della legge, ossia l’amore.

Esaminando i tre versetti del brano, iniziamo dalla prima affermazione, la cui formulazione può sembrare un po’ strana: «non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (13,8). Paolo ritiene che, se dev’esserci una qualche obbligazione tra fratelli di una comunità, questa non può che essere l’agape, l’amore, di cui ha già parlato abbondantemente in 12,9-21, esortando a essere sinceri nella carità e a non rendere a nessuno male per male, bensì a vincere il male con il bene.

Nel versetto 9, poi, citando esplicitamente alcuni dei precetti mosaici e richiamando allusivamente gli altri, tira una conclusione che ben conosciamo, essendo tipica anche di altri passi del Nuovo Testamento, in particolare del Vangelo (Mc 12,28-31; Mt 22,34-40; Lc 10,25-28; Gv 13,34-35): «Infatti: “Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai”, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”». I tanti precetti della legge, cioè, in chi è giunto alla maturità della fede e dell’amore verso Dio, si rivelano riassumibili nel precetto dell’amore per il prossimo, il quale non ha bisogno di vietare, ma al contrario di spingere a fare di più per i fratelli. D’altronde, l’amore rende il cristiano più capace di vedere i bisogni di chi è il suo prossimo, non raramente anche di prevenirli.

Infine, con il v. 10 si chiude la breve riflessione, ribadendo il rapporto tra amore e compimento della legge: «La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità». È utile sottolineare che quanto dice Paolo non costituisce una semplice parenesi, quasi un appello ai buoni sentimenti, ma un ritrovare nel nucleo stesso della rivelazione (la legge) le motivazioni profonde che insegnano l’agire di Dio agli uomini.

La legge, quindi, secondo l’insegnamento paolino (cf. Romani e Galati), rimane efficace e necessario pedagogo che conduce a Cristo, giacché, in ultima analisi, colui che compie la legge si mette sulla medesima scia segnata dal Figlio di Dio, che ha interpretato la sua morte in croce come compimento della legge nell’amore. Una scia che porta alla croce, in quanto l’amore significa comunque rinunciare a se stessi per far posto a Dio e imitare la vita del Figlio.

 

 

Vangelo: Matteo 18,15-20

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.

In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

 

 

Il  vangelo in immagini

XXIII DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

 

Esegesi

 

Il capitolo 18 del Vangelo di Matteo, rispondendo alla domanda riguardo ai fondamenti della vita di una comunità, ne presenta due di non trascurabile valore: la correzione fraterna e la preghiera in comune.

Iniziamo dalla correzione fraterna, che viene esposta dall’evangelista in maniera abbastanza giuridica, come si deduce dal tipo di ragionamento seguito: a) v. 15, ossia la correzione in privato: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»; b) v. 16, la correzione in presenza di testimoni «se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»; c) v. 17, correzione davanti all’assemblea come extrema ratio, prima dell’espulsione: «Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».

In realtà, tra i vari riferimenti del Nuovo Testamento alla correzione (Mt 7,4; Lc 6,41-42; Gal 6,1; 2Ts 3,15; 1Tm5,l; 2Tm 2,25; Tt 3.10; Gc 5,19-20), questo di Matteo è il più preciso, ma è anche quello che si rivela subito, allo stato dei fatti, il più irrealizzabile, se non nel contesto limitato di comunità come Qumran (presso la quale esisteva una disciplina precisa in proposito) e, successivamente, quelle monastiche (si pensi al capitolo delle colpe). Può darsi che nella comunità dell’evangelista, di carattere giudeocristiano, si agisse in questo modo, poiché tale prassi risente della tradizione biblica. Infatti, 18,16 cita esplicitamente Dt 19,15, mentre il concetto generale della correzione fraterna si trova in Lv 19,17: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui».

Pur coscienti della problematicità storica di tale prassi nelle comunità antiche, non si può negare un dato: ogni membro della comunità si sente un po’ responsabile di chi gli sta a fianco, il che vuol dire che, per la salvezza del fratello e il buon nome della comunità stessa, egli ritiene proprio dovere intervenire nella correzione. Questa, poi, può addirittura giungere all’estremo dell’espulsione nei casi di perdurante ostinazione da parte di chi è stato corretto. Per confermare questo tipo di «potere» da parte della comunità. Gesù dice: «In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (18,18). Anche Dio accetta la decisione che la comunità, dopo aver attentamente ponderato ed esplorato ogni possibile strada di correzione, consideri non più discepolo l’ostinato e lo affidi alla misericordia divina affinché lo faccia ritornare sui propri passi.

L’altro fondamento, quello della preghiera in comune, è strettamente legato a quanto abbiamo detto finora: soltanto una comunità che sa riunirsi nella concordia della preghiera e della professione di fede in Gesù Cristo può intercedere per coloro che hanno voltato le spalle al vero pastore dell’umanità. Anzi, ancora più radicalmente, il Vangelo afferma che basta essere in due, che, in accordo, possono chiedere qualsiasi cosa al Padre, perché egli la conceda. E quale cosa migliore si può chiedere al Padre se non che nessuno si perda di quelli che Egli ha chiamato?

Quando tutte le altre metodologie falliscono, non rimane che implorare dal Padre il suo onnipotente intervento per raddrizzare ciò che ha preso una cattiva piega.

 

 

Meditazione


La fede in Dio diviene responsabilità verso il fratello e questa si declina come ammonizione e correzione del fratello: questo il messaggio che unisce prima lettura e vangelo.

La correzione fraterna richiede un profondo senso di fede. Questo emerge dalle parole di Gesù secondo le quali essa deve esercitarsi nei confronti di chi «ha peccato», commettendo una colpa pubblica, non diretta in modo particolare contro l’altro. Il testo non dice: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te». In quel caso, rivelerà Gesù, vi è il perdono senza misura (Mt 18,21-22).

La maturità di fede consiste nel sentirsi feriti dal peccato in quanto tale, non soltanto dall’offesa personale.

La correzione fraterna si oppone al silenzio complice, alla pigrizia di chi non vuole inimicarsi l’altro, ai meccanismi di autogiustificazione sempre pronti a trovare buoni motivi per non intervenire e non denunciare il male là dove è commesso. A livello ecclesiale la correzione corrisponde a una parola audace e profetica pronunciata a qualunque prezzo, perché di mezzo c’è il vangelo. Uno dei più frequenti peccati di omissione è il sottrarsi alla denuncia del male e del peccato, è il sottrarsi alla correzione fraterna.

La capacità di correzione dice la libertà del credente. E anche la sua obbedienza radicale al vangelo e la sua appartenenza al Signore.

L’autenticità dell’amore sgorgato dal vangelo si manifesta nella capacità di correggere colui che si ama. L’amore «spirituale», non psichico, vince la tentazione di tacere il peccato commesso dall’amico per timore di perderne l’amicizia. La correzione fraterna dice che l’amore cristiano deve essere vissuto all’interno della responsabilità per gli altri e per il mondo.

La correzione fraterna va colta anche dal punto di vista di chi la riceve, che è sempre un fratello, un membro della comunità cristiana. Occorre molta umiltà e disponibilità a ricredersi e a ricominciare. L’autentica correzione fraterna non è un giudizio, e ancor meno una condanna, ma un evento sacramentale che fa regnare Cristo come terzo tra chi la esercita e chi la riceve. Essa richiede il coraggio della parola: coraggio che può nascere solo radicando la propria parola nella parola evangelica.

I tre «gradi» del processo disciplinare nei confronti di chi ha peccato nella chiesa (Mt 18,15-17) indicano quantomeno imprudenza e la gradualità in cui si svolge il tentativo di accordare l’istanza evangelica con il rispetto del fratello peccatore al fine di recuperarlo. L’orizzonte della correzione è infatti quello espresso dal profeta Ezechiele, secondo cui Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr. Ez 33,11).

La scomunica (Mt 18,17) appare come extrema ratio. E certamente la prassi storica delle comunità potrà e dovrà creare e inventare forme di intervento che cerchino in ogni modo di evitare l’allontanamento di un fratello. Impressiona, nella Regola di san Benedetto, la procedura prevista nei confronti di un fratello peccatore: «L’abate si comporti come un esperto medico: se ha usato i lenitivi, gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle divine Scritture, e, da ultimo, il cauterio dell’esclusione o delle battiture della verga, se vede che tutto il suo darsi da fare non serve a nulla, allora ricorra a ciò che è ancor più efficace: la preghiera sua e di tutti i fratelli per lui, affinché il Signore, che tutto può, operi la guarigione del fratello malato» (28,2-5).

L’estensione ai membri della comunità, o almeno ai suoi responsabili, del potere di «sciogliere e legare», riservato al solo Pietro in Mt 16,19, dice l’importanza della corresponsabilità nell’esercizio dell’autorità nella comunità cristiana. E ribadisce un principio importante della prassi sinodale: «Ciò che nel corpo ecclesiale concerne tutti, deve essere discusso e approvato da tutti».

Se nella Chiesa vi è divisione e peccato, essa però trova la sua unità nel Nome del Signore: lì, fosse ben tra due o tre credenti, perché mai nel Nuovo Testamento la Chiesa dipende dal numero, si può creare la sinfonia (vb. symphonéo: v. 19) gradita al Signore e da lui ascoltata.

 

 

Preghiere e racconti


Le sentenze dei padri del deserto

Per molti anni due uomini erano vissuti insieme senza mai litigare. Un giorno, uno disse: “E se litigassimo almeno una volta come fanno tutti?”. L’altro rispose: “Io non so come si fa a litigare… Il primo disse: “Ecco: io colloco un mattone fra noi due e io dico che è mio e tu dici che è tuo. È così che comincia un litigio. Collocarono quindi il mattone fra di loro. Uno disse: “È mio”. L’altro disse: “No, è mio”. Riprese il primo: “Sì  è tuo; prendilo e vattene. E si separarono senza riuscire a litigare.

(L. Regnault, Le sentenze dei padri del deserto)

 

Correzione con amore

«Rabbi Aronne arrivò un giorno nella città in cui cresceva il piccolo Mardocheo, il futuro Rabbi di Lechowitz. Il padre di questi gli condusse il ragazzo e si lamentò che non avesse costanza nello studio. “Lasciatemelo qui un poco”, disse Rabbi Aronne. Quando fu solo con il piccolo Mardocheo, strinse il bambino al suo cuore e in silenzio ve lo tenne vicino fino a che il padre tornò. “Gli ho fatto un discorsino” disse quindi Rabbi Aronne. “D’ora in poi la costanza non gli mancherà”. Quando il Rabbi di Lechowitz raccontava questa vicenda aggiungeva: “Ho imparato allora come si convertono gli uomini”».

(MARTIN BUBER, I racconti dei Chassidim, Milano, Garzanti,1985, 245).

 

Assemblea nella falegnameria

Raccontano che nella falegnameria si ebbe un volta una strana assemblea. Fu una riunione di utensili (attrezzi) per risolvere le loro differenze. Il martello esercitò la presidenza, ma l’assemblea gli notificò che doveva rinunciare. La causa? Faceva troppo rumore! E, inoltre, passava il tempo battendo. – Il martello accettò la sua colpa, ma chiese che fosse anche espulsa la vite ; disse che era necessario dare molti giri perché servisse per qualche cosa . – Davanti a questo attacco, la vite accettò anche, ma a sua volta chiese l’espulsione della lima. Fece vedere che era molto aspra e aveva sempre frizioni con gli altri. – E la lima fu d’accordo, a condizione che fosse espulso il metro che passava il tempo misurando gli altri come se lui fosse l’unico perfetto.

Stando così le cose entrò il falegname, si mise il grembiale e iniziò il suo lavoro. Utilizzò il martello, la lima, il metro e la vite. Finalmente, l’aspro legno iniziale diventò un bellissimo mobile.

Quando la falegnameria restò di nuovo vuota, l’assemblea riprese la deliberazione. Fu allora che prese la parola la sega e disse: “Signori, è rimasto chiaro che abbiamo difetti, ma il falegname lavora con le nostre qualità. E’ questo che ci fa preziosi. Dunque non dobbiamo pensare ai nostri punti cattivi e concentriamoci nell’utilità dei nostri punti buoni.”

L’assemblea trovò allora che il martello era forte, la vite univa e dava forza, la lima era speciale per affinare e limare le asprezze e osservarono che il metro era preciso ed esatto. Si sentirono tutti un’equipe capace di produrre mobili di qualità. Si sentirono orgogliosi delle loro fortezze e di lavorare insieme.

 

L’amicizia e la correzione fraterna in S. Giovanni Crisostomo

«Più di noi stessi, se lo volete, voi potete beneficarvi a vicenda: passate più tempo insieme, conoscete meglio di noi le vostre relazioni reciproche, non vi sono nascoste le vostre mancanze vicendevoli, avete più franchezza, più amore, più consuetudine reciproca: questi non sono piccoli vantaggi per ammaestrare, anzi ne offrono una possibilità grande e opportuna; e più di noi potete rimproverare ed esortare. E non solo questo, ma io sono solo, e voi molti; e tutti potete, quanti siete, essere maestri. Perciò vi scongiuro: non trascurate questa grazia! Ciascuno ha una moglie, ha un amico, ha un servo, ha un vicino: questi ammonisca, quelli esorti. Non è un assurdo? Per il cibo si fanno banchetti e simposi, vi sono giorni stabiliti per riunirsi e quello in cui uno manca personalmente, viene compiuto dalla società, come ad esempio se si debba partecipare a un funerale, o a un banchetto, o si debba aiutare in qualcosa un prossimo. E, invece, per ammaestrare alla virtù non si fa nulla di ciò! Sì, vi scongiuro! Nessuno lo trascuri! Riceverà da Dio una grande ricompensa!

[…] «Ma non so parlare» si dice. Non c’è bisogno di saper parlare né d’eloquenza. Se vedi un tuo amico che si abbandona all’impudicizia, digli: «Ciò che fai è un’azione cattiva; non ti vergogni? Non arrossisci? È male!». Ma lui non sa che è male? si obietta. Certo, lo sa, ma la passione lo trascina. Anche gli ammalati sanno che una bevanda fredda fa loro male, e tuttavia c’è bisogno di chi glielo impedisca. Chi soffre, non sa facilmente dominarsi, se è ammalato. C’è bisogno di te, che sei sano, per curarlo; e se non riesci a persuaderlo a parole, osserva dove va e impedisciglielo, forse se ne vergognerà. «Ma che giova se agisce così per me, se solo per me se ne trattiene?». Non sottilizzare troppo: intanto distoglilo in qualsiasi modo dall’azione cattiva; si abitui a non precipitarsi in quel baratro sia per te, sia per qualsiasi altro impedimento: è già un guadagno. E quando si sarà abituato a non recarsi più là, allora, dopo che si sarà un po’ riavuto, potrai riavvicinarlo e insegnargli che bisogna evitare ciò per Dio e non per gli uomini. Non pretendere di correggerlo tutto in una volta, perché non ci riuscirai; bensì piano piano, un po’ alla volta.

E se lo vedi andare a bere, se lo vedi recarsi a banchetti dove ci si ubriaca, comportati nello stesso modo. Anzi, supplicalo di aiutarti a correggerti se vede che tu hai qualche difetto. In tal modo rivolgerà in sé il rimprovero, vedendo che anche tu hai bisogno di ammonizione, e che lo aiuti non perché sei il correttore di tutti, o il maestro, ma sei un amico e un fratello. Digli: Ho giovato a te ricordandoti qualcosa di utile; anche tu, se vedi in me qualche difetto, prendimi per i capelli e raddrizzami: se mi vedi irascibile, o avaro, frenami e legami con le tue ammonizioni. Questa è l’amicizia, così il fratello viene aiutato dal fratello e diventa una città fortificata (cf. Pr 18,19). Non è il mangiare o il bere insieme che crea l’amicizia: così l’hanno anche i ladri e gli assassini; ma se siamo amici, se veramente ci diamo pensiero l’uno dell’altro, ci dobbiamo anche accordare. E questo ci porta a un’amicizia utile e ci impedisce di precipitare nella geenna.

D’altra parte chi viene rimproverato non si turbi, siamo uomini e abbiamo difetti; e chi rimprovera non lo faccia pubblicamente, insultando e facendo mostra di sé, ma a quattr’occhi e con dolcezza; ha bisogno di tanta dolcezza colui che ammonisce, se vuole che sia ben accolto il suo discorso tagliente. Non vedete i medici, quando bruciano o quando tagliano, con quanta dolcezza applicano la loro terapia? E molto più lo deve fare chi ammonisce, perché il rimprovero è più violento del ferro e del fuoco, e fa sobbalzare. Per questo motivo anche i medici si esercitano molto per riuscire a incidere con calma, e lo fanno con dolcezza, in quanto è possibile, e incidono un poco e poi permettono di riprendere il fiato. Così si devono fare anche i rimproveri, perché chi viene ammonito non se ne sottragga. E se fosse necessario venire insultati e anche schiaffeggiati, non ricusiamolo; anche quelli infatti che subiscono un intervento urlano mille cose contro coloro che li operano, però essi non guardano a nulla di ciò, ma solamente alla salute dei pazienti. Così, anche nel nostro caso, si deve fare di tutto perché il rimprovero risulti utile, e si deve sopportare tutto guardando il premio che c’è preparato. È detto: Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge del Cristo (Gal 6,2). Così, ammonendoci e sopportandoci a vicenda, potremo completare l’edificazione del Cristo».

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

 

Correzione fraterna

Ciascuno deve rispondere del fratello, ciascuno è custode del fratello. Un’espressione tipica di questa corresponsabilità è data appunto dalla correzione fraterna. A proposito della quale sarà opportuno fare alcune precisazioni fondamentali:

1. Essere custode non significa comportarsi da spia o poliziotto dell’altro.

2. “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…”. Bisogna accertare la colpa, prima di tutto. E vedere di che colpa si tratta. Il fratello non pecca contro di te se non ha le tue stesse idee, non condivide le tue simpatie o antipatie, non si arruola per le tue cause. Il fratello non va ripreso per la colpa di non essere a tua immagine e somiglianza, a portare in giro la “sua” faccia, che non coincide con la tua.

Attenti, perciò, a non confondere il peccato con il diverso. A non definire “male” ciò che semplicemente non rientra nei nostri gusti e nei nostri schemi. Attenti, soprattutto, a non intervenire continuamente per delle sciocchezze, per delle cose assolutamente marginali. Certe persone religiose pare possiedano l’arte di “asfissiare”, più che liberare, aiutare, promuovere.

3. La procedura indicata da Matteo (Mt 18,15-20) non va confusa con un processo. Si tratta piuttosto di una mano tesa ostinatamente ma con delicatezza estrema verso l’altro che minaccia di allontanarsi, di separarsi. E non è detto che le fasi debbano essere rigidamente tre. Possono e devono essere molte di più, con tutte le iniziative suggerite dalla fantasia e dal cuore che non si arrende mai, malgrado i ripetuti insuccessi.

4. Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato, nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamano all’ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare.

5. La correzione fraterna implica, oltre che la carità, anche l’umiltà. Umiltà che si traduce nell’abbandono di qualsiasi atteggiamento di superiorità. Il peccatore deve comprendere che chi lo ammonisce è peccatore quanto e più di lui, uno che condivide la sua stessa fragilità e miseria. Non: «Guarda che cosa hai fatto!», ma: «Guarda che cosa siamo capaci di fare…».

6. Il metodo più efficace per far capire l’errore, non è l’impiego delle parole e delle dimostrazioni teoriche o le citazioni di un codice, ma l’illustrazione pratica, personale, della virtù dimenticata, del valore disatteso, dell’ideale calpestato. Meglio sempre gli “annunci” che le “denunce”. Anche perché le denunce possono essere sospette per il fatto stesso che non costano niente. Sovente parliamo e gridiamo troppo, perché la nostra condotta non è abbastanza eloquente. Siamo predicatori implacabili e moralisti insopportabili perché la santità della nostra vita non è tale da costituire una silenziosa condanna di certi difetti e deviazioni. Si può insegnare in maniera efficace anche col silenzio. Sempre che la vita parli, naturalmente.

7. I ruoli non sono mai definiti, ma risultano intercambiabili. Per cui non ti è consentito rivendicare il dovere di criticare l’altro, se non gli concedi il diritto di criticare, a sua volta, i tuoi comportamenti poco corretti.

8. La scomunica e l’esclusione, più che un elemento punitivo, devono costituire un motivo di riflessione e uno stimolo alla conversione. Devono avere una funzione pedagogica, non vendicativa. Non è tanto la comunità che decreta l’esclusione, quanto il fratello, peccatore ostinato, che si pone automaticamente, e pervicacemente, in stato di separazione, fuori dalla comunione. E lui che si scomunica. La comunità non fa altro che prendere atto, dolorosamente. Si tratta, perciò, di «aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza, ravvedersi. Lo scopo è quello di creare nel peccatore uno stato di disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno» (B. Maggioni). Illuminante, a questo proposito, risulta la cosiddetta “parabola del figliol prodigo”. Comunque, la comunità non deve mai alzare il ponte levatoio. Deve sempre tenere la porta aperta, la luce accesa. Una comunità si rivela cristiana quando non si rassegna alla perdita definitiva di un membro, ma si dimostra sempre pronta ad accogliere, perdonare, riconciliare. E fa tutti i passi possibili e impossibili perché avvenga il ritorno atteso. E ci dovrebbe sempre essere aria di festa, non musi lunghi, quando il fratello, lo sbandato, ricompare all’orizzonte. Teniamo pronta la musica, la tavola imbandita, non i rimbrotti, le accuse.

Tutti siamo al sicuro soltanto quando nessuno è fuori.

9. …E anche quando l’altro si pone fuori dalla comunità, si autoesclude, non per questo hai esaurito il tuo compito. Gli “devi” ancora più amore.

(A. Pronzato, “Tu solo hai parole . Incontri con Gesù nei vangeli”, vol. III, Torino, Gribaudi, 264-269).

 

Correzione fraterna: la correzione evangelica

Quando vuoi ammonire qualcuno alle cose belle, prima da’ ristoro al suo corpo e onoralo con una parola colma di amore. Non c’è nulla che renda modesto un uomo e lo persuada a convertirsi dalle cose cattive a quelle buone, come il bene corporale e l’onore dimostratogli da qualcuno.

Un secondo strumento di persuasione è lo sforzo di un uomo a essere lui stesso uno spettacolo lodevole. Colui che ha ottenuto di possedere se stesso per mezzo della preghiera e della vigilanza, potrà facilmente avvicinare il suo compagno alla vita, anche senza la fatica delle parole o l’ammonizione esplicita. Colui che prende le difese dell’oppresso, trova un difensore nel suo Creatore. Colui che presta il suo braccio per aiutare il suo prossimo, riceve il braccio di Dio per lui. Colui che accusa suo fratello per i suoi mali, troverà Dio come suo accusatore. Colui che raddrizza suo fratello nel segreto di una stanza, cura il suo male; ma colui che lo accusa nell’assemblea, rinsalda le sue ferite.

Colui che cura suo fratello in privato, rivela la forza del suo amore; ma colui che lo espone all’occhio dei suoi compagni, fa conoscere la forza della sua propria invidia. L’amico che cura nel segreto, è un medico sapiente; ma colui che cura all’occhio di molti, in verità è uno che ingiuria. Il segno della misericordia è il perdono di qualsiasi offesa, e il segno di una cattiva intelligenza è che si mutino le parole rivolte al peccatore. Colui che accosta la medicina alla correzione, corregge con amore, ma colui che cerca la vendetta è vuoto di amore. Dio corregge nell’amore e non per amore di vendetta. Non sia mai! Perché egli cerca di guarire la sua immagine e non conserva la sua collera. Se sei adirato contro qualcuno, o ardi di zelo a motivo della fede o a motivo delle sue opere cattive, o lo accusi o lo ammonisci, vigila sulla tua anima, perché tutti abbiamo nei cieli un giudice giusto.

Se infatti tu hai pietà e cerchi di convertirlo alla verità, soffrirai sofferenza a causa sua. Con lacrime e con amore gli dirai una o due parole, senza ardere d’ira contro di lui, allontanando da te i segni dell’inimicizia.

L’amore non sa adirarsi, non si irrita, non rimprovera con passione. Il segno dell’amore e della conoscenza è una profonda umiltà che proviene dall’intelligenza dell’intimo. Guarda di non essere dominato dalla passione di coloro che sono ammalati del desiderio di correggere gli altri e che da se stessi vogliono essere i censori e i correttori di tutte le infermità degli uomini. Questa è una dura passione …

In verità, è meglio per te trovarti a cadere nella lussuria, piuttosto che in questa malattia.

(ISACCO DI NINIVE, Un umile speranza, Magnano, Qiqajon, 1999, 198 -200).

 

Con grande misericordia e discrezione

Quelli cui è stata affidata la guida di molti con la loro mediazione devono far progredire i più deboli nel cammino di assimilazione a Cristo, come dice il beato Paolo: «Fatevi miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo» (1 Cor 1,1). Conviene dunque che essi per primi diventino un esempio perfetto praticando quella misura di umiltà che ci è stata consegnata dal Signore nostro Gesù Cristo. Egli dice infatti: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza nell’agire e l’umiltà di cuore siano quindi i caratteri propri di chi presiede la comunità. Se infatti il Signore non si è vergognato di servire i suoi servi, ma ha acconsentito a farsi servo della terra e del fango, che egli stesso ha plasmato e cui ha dato forma umana – dice infatti: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) – che cosa non dovremo fare noi per i nostri simili prima di crederci giunti a imitarlo? Questa è dunque la prima qualità che deve possedere in così grande misura chi presiede. Sia inoltre misericordioso e sopporti pazientemente quelli che mancano al loro dovere per inesperienza, non passi sotto silenzio i peccati ma sopporti con mitezza chi si comporta come un bambino e gli offra le sue cure con grande misericordia e discrezione. Dev’essere infatti capace di trovare il modo appropriato per curare ogni passione, senza rimproverare con arroganza, ma ammonendo e correggendo con mitezza, come sta scritto (cfr. 2Tm 2,25); sia attento all’oggi, previdente per il domani, capace di lottare con i forti e di portare le infermità dei deboli, di fare e dire ogni cosa per guidare alla perfezione quanti vivono con lui.

(BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse 43,1-2, in ID., Le regole, Bose, 1993, pp. 192-193).

 

 

Preghiera


Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

Rivoluzione organizzativa nella scuola italiana

 

Scuola, tutti i numeri della rivoluzione organizzativa

 

Per 5 milioni di famiglie cambierà il riferimento del dirigente scolastico. Verrà rivoluzionata la rete delle istituzioni scolastiche sul territorio: 5.600 (oltre la metà) verranno accorpate in 4.500, cioè le varie sedi verranno aggregate in un minor numero di istituzioni scolastiche (presidenze), con la soppressione di oltre 1.100. In totale le istituzioni scolastiche passeranno da 10.500 a 9.400, di cui 2 mila, le più piccole, date in reggenza a presidi di scuole più grandi. A Bari dovrà essere accorpato il 95% degli istituti del 1° ciclo. Nelle Isole verrà soppressa un’istituzione scolastica su 5.

Eliminato il 30% dell’organico di dirigente scolastico (-3.180 posti), al punto che una parte dei vincitori del prossimo concorso non troveranno posto. Salterà anche l’11% dei posti di direttore amministrativo (1.130 posti) e verranno tagliati 1.100 posti di assistente amministrativo, ma saranno almeno in 30 mila a dover produrre documentazione e dichiarare servizi per difendere la propria sede e non essere trasferiti d’ufficio o rimanere senza sede. Decadranno 53 mila consiglieri di istituto e dovrà essere rieletta la maggior parte delle RSU (almeno 14 mila rappresentanti).

Tuttoscuola ha fatto i conti e spiegato in un nuovo dossier cosa accadrà, per effetto della manovra bis di luglio, nei prossimi 12 mesi, che si annunciano tra i più caldi nella storia dell’organizzazione del servizio di istruzione.

Nelle prossime ore su tuttoscuola.com verranno pubblicate progressivamente notizie sul tema, e sarà a breve scaricabile gratuitamente il testo integrale del dossier. Seguiteci.




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tuttoscuola.com mercoledì 31 agosto 2011

 

Rivoluzione organizzativa/1: i risparmi e gli obiettivi della manovra

 

Pochi se ne sono accorti, ma la scuola italiana sta per essere investita da una profonda riorganizzazione, di portata simile a quella che ha accompagnato l’avvio dell’autonomia scolastica nel 2000, che entro un anno ne cambierà i connotati dal punto di vista organizzativo e gestionale.

Infatti la manovra bis di luglio (Decreto Legge n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011 n. 111, “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”), ha chiamato ancora una volta la scuola a contribuire ai risparmi di sistema in modo più incisivo di quanto, forse, sia stato percepito dall’opinione pubblica e in molti casi anche dai diretti interessati.

Cosa succederà, in sintesi? Ecco una breve rassegna predisposta da Tuttoscuola degli effetti, diretti e indiretti, della manovra:

  • l’accorpamento in istituti comprensivi e il loro ridimensionamento coinvolgerà tre quinti delle istituzioni scolastiche (ognuna – che accorpa più sedi o scuole – con la presidenza e la segreteria amministrativa, e quindi con il dirigente scolastico e il direttore dei servizi amministrativi), cioè circa 5.700 delle attuali 10.500 istituzioni esistenti, quasi tutte del 1° ciclo;

  • i consigli di istituto delle 5.700 istituzioni scolastiche coinvolte nella ristrutturazione decadranno: per questo ultimo anno funzioneranno regolarmente poi si dovrà procedere a nuove elezioni;

  • tutte le rappresentanze sindacali di istituto (rsu) dovranno essere rielette negli istituti ristrutturati; si tratta di circa 14 mila rappresentanti da rieleggere;

  • vi sarà una contrazione di organico di circa 3.180 posti di dirigente scolastico (-30%), di circa 1.130 posti Dsga (-11%), di circa 1.100 posti di assistente amministrativo; non vi sarà incidenza sull’organico dei docenti;

  • la ristrutturazione delle istituzioni scolastiche comporterà una notevole discontinuità didattica e amministrativa (revisione dei Pof, ricomposizione dei collegi docenti, cambio dei revisori dei conti, nuovi bilanci, gestioni finanziarie di esercizi diversi, ecc.);

  • le dotazioni in carico alle istituzioni soppresse o aggregate comporteranno passaggi di beni alle nuove istituzioni e saranno modificati gli inventari, per un valore stimabile in 150 milioni di euro;

  • più di 5 milioni di famiglie vedranno modificato il loro riferimento con la segreteria della scuola e con il dirigente scolastico;

  • accorpamenti delle istituzioni e soppressione di organico modificheranno profondamente la funzione dirigenziale non solo relativamente alla riduzione di posti, ma anche per la modifica della funzione con nuovi carichi di lavoro, riorganizzazione dei servizi e diffusa situazione delle reggenze (circa 2mila).

Tutto ciò è la conseguenza di poche righe contenute in tre commi dell’articolo 19 della legge n. 111, che stabiliscono queste modifiche:

  1. tutte le istituzioni scolastiche del 1° ciclo dovranno essere accorpate in istituti comprensivi;

  2. i nuovi e i vecchi istituti comprensivi dovranno avere almeno 1000 alunni;

  3. le micro-istituzioni scolastiche con meno di 500 alunni non potranno avere il dirigente scolastico titolare, ma saranno affidate in reggenza ad altro dirigente.

Ma perché tutto questo? Quali gli obiettivi della manovra?

Il decreto legge 98/2011 convertito nella legge n. 111/2011 ha disposto la ristrutturazione della rete scolastica con il duplice obiettivo di:

  • garantire nel 1° ciclo di istruzione un processo di continuità didattica, generalizzando il modello di istituti comprensivi;

  • ottenere una consistente riduzione nella spesa per la rete scolastica, quantificabile complessivamente in circa 200 milioni di euro all’anno

  • finanziare per il triennio 2012/2014, con le risorse conseguenti, il sistema nazionale di valutazione

 

Nelle prossime ore su tuttoscuola.com verranno pubblicate progressivamente notizie sul tema, e sarà a breve scaricabile gratuitamente il testo integrale del dossier. Seguiteci.




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tuttoscuola.com mercoledì 31 agosto 2011

 

 

Rivoluzione organizzativa/2: l’accorpamento in istituti comprensivi

 

Attualmente nel 1° ciclo di istruzione funzionano 7.311 istituzioni scolastiche:

  • 2.120 circoli didattici (organizzano scuole dell’infanzia e scuole primarie),

  • 1.198 istituti principali di scuola secondaria di I grado (organizzano soltanto scuole secondarie di I grado, le ex-scuole medie)

  • 3.933 istituti comprensivi (organizzano scuole dell’infanzia, scuole primarie e scuole secondarie di I grado).

Gli istituti comprensivi rappresentano oggi il 54% delle istituzioni scolastiche del 1° ciclo. Nati a metà degli anni ’90 dalla fusione sperimentale di circoli didattici e scuole medie nei territori di montagna e nei piccoli comuni, già al momento d’avvio dell’autonomia scolastica nel 2000 erano arrivati al numero di 3.277, il 43,5% delle istituzioni del 1° ciclo. In dieci anni sono aumentati di oltre 10 punti in percentuale, essendo stati considerati un modello vincente dal punto di vista didattico e organizzativo.

D’ora in poi diventeranno il 100% delle istituzioni scolastiche del settore, in quanto i circoli didattici e gli istituti principali di scuola secondaria di I grado (presidenze di scuola media) scompariranno completamente dal sistema nazionale di istruzione per essere accorpati in istituti comprensivi.

Che vuol dire, in pratica? Nulla accadrà alle singole sedi scolastiche (o punti di erogazione del servizio) dove vivono gli alunni, se non che cesseranno di far parte, ad esempio, di un certo circolo didattico, e diverranno parte di un istituto comprensivo. Quel circolo didattico verrà soppresso, insieme alla relativa presidenza e segreteria amministrativa. Ne consegue che per i docenti e per le famiglie cambieranno in molti casi il dirigente scolastico e il direttore amministrativo di riferimento. Cambieranno anche il consiglio di istituto e il collegio dei docenti, e aderiranno a un nuovo piano dell’offerta formativa (Pof). Dovranno essere eletti nuovi rappresentanti sindacali nelle RSU d’istituto.

Se la manovra finanziaria si fosse limitata a prevedere gli accorpamenti in istituti comprensivi senza mettere mano anche al parametro del dimensionamento (almeno mille alunni), la “rivoluzione” della rete avrebbe riguardato soltanto gli attuali 2.120 circoli didattici e i 1.198 istituti principali di scuola secondaria di I grado, cioè complessivamente quasi il 46% delle istituzioni scolastiche del 1° ciclo (che non è poco), ma, come vedremo, oltre agli accorpamenti vi sarà anche un forte ridimensionamento che toccherà anche i vecchi istituti comprensivi.

Tuttavia anche il solo accorpamento dei circoli didattici e delle presidenze di scuola media, in alcuni territori, scompaginerà l’intera rete, vista la scarsa presenza attuale di istituti comprensivi. È il caso, ad esempio, della Puglia, dove gli attuali istituti comprensivi costituiscono poco più di un quarto (26,7%) di tutte le istituzioni scolastiche del 1° ciclo. Anche la Campania, dove gli istituti comprensivi attualmente non raggiungono il 40%, dovrà mettere mano all’intera rete.

Avranno meno accorpamenti da fare le Marche, dove attualmente gli istituti comprensivi rappresentano già il 75% delle istituzioni del 1° ciclo o il Veneto dove i comprensivi sono il 72,5%.

A Oristano, su 27 istituzioni scolastiche del 1° ciclo, attualmente i comprensivi sono 24.

A Bari, invece, dove le istituzioni scolastiche sono 245, gli istituti comprensivi sono attualmente soltanto 12: dovranno essere accorpate – cioè verranno toccate dalla riorganizzazione – tutte le restanti 233 istituzioni, cioè più del 95%.

 

Istituzioni scolastiche del 1° ciclo – a.s. 2010-11

Regioni

tot. istituzioni scolastiche

circoli didattici

presidenze scuole medie

istituti comprensivi

Puglia

643

273

198

172

26,7%

Campania

977

363

230

384

39,3%

Umbria

118

42

27

49

41,5%

Abruzzo

196

66

41

89

45,4%

Piemonte

478

166

90

222

46,4%

Lazio

624

215

105

304

48,7%

Totale Nazionale

7.311

2.120

1.198

3.993

54,6%

Sicilia

836

253

108

475

56,8%

Liguria

149

38

25

86

57,7%

Friuli Venezia G.

135

32

23

80

59,3%

Sardegna

265

63

39

163

61,5%

Emilia Romagna

387

94

50

243

62,8%

Calabria

370

91

43

236

63,8%

Toscana

361

80

47

234

64,8%

Lombardia

923

189

94

640

69,3%

Basilicata

111

25

9

77

69,4%

Molise

64

12

6

46

71,9%

Veneto

494

84

52

358

72,5%

Marche

180

34

11

135

75,0%

 

Area Geografica

tot. istituzioni scolastiche

circoli didattici

Presidenze scuole medie

istituti comprensivi

Sud

2.361

830

527

1.004

42,5%

Totale Nazionale

7.311

2.120

1.198

3.993

54,6%

Centro

1.283

371

190

722

56,3%

Isole

1.101

316

147

638

57,9%

Nord Ovest

1.550

393

209

948

61,2%

Nord Est

1.016

210

125

681

67,0%

 




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Tuttoscuola.com mercoledì 31 agosto 201

La liturgia nell’insegnamento della religione cattolica

 

 

Rivista Liturgica 98/4 (2011) :

Editoriale

 

 

Nella sua storia quasi centenaria Rivista Liturgica ha elaborato monografie di vario genere e spessore tematico. Alcune “nuove” rispetto all’ordinario modo di considerare la liturgia; altre “ovvie” per l’importanza del tema che, di tanto in tanto, ha bisogno di essere riproposto anche in base alle variabili che la vita liturgica richiede.

Il presente volume rientra nella prima tipologia di temi mai affrontati; e anche questa volta lo facciamo quasi in punta di piedi, consapevoli della complessità dei problemi e delle realtà in gioco. E, soprattutto, tenendo presente che l’argomento considera in modo pressoché esclusivo la situazione italiana (ma l’urgenza della formazione liturgica dei docenti è presente anche in altri contesti culturali ed ecclesiali).

 

1. Educazione e formazione a partire anche dalla scuola?

 

La storia di ogni persona è anche la storia della propria educazione. Tutti – o quasi – vanno a scuola. E se molti pensano che la scuola sia il luogo dove si studiano varie discipline, pochi invece sono convinti che anche materie “figlie di un dio minore” – come l’educazione fisica, la religione, ecc. – sono saperi scolastici da studiare. Meno ancora sono coloro che pensano che l’educazione e la formazione integrale dell’uomo sono le finalità della scuola che con orgoglio si definisce laica, ma anche confessionale e libera.

Quando invece consideriamo la formazione non soltanto compito della scuola ma anche di quelle altre scuole frequentabili nei non-luoghi della quotidianità e in famiglia, molti non ne valutano la portata. Nel contesto si tenga presente la distinzione che intercorre tra catechesi e insegnamento della religione. Una distinzione che se in passato non è stata sempre chiara a livello operativo-scolastico, oggi risulta imprescindibile, anche in vista di un’accettazione più libera dell’offerta formativa nella scuola pubblica.

Rivista Liturgica non ha mai trattato questo argomento; se ora lo fa è per rispondere a istanze che provengono da luoghi e sensibilità di vario genere, ma soprattutto per non perdere l’occasione di ribadire che la liturgia non è solo “rito” fine a se stesso, ma espressione culturale che si inscrive nell’intimo della persona, e che è capace di incidere in modo determinante al fine di elaborare cultura proprio a partire da ciò che il culto è nella sua essenza.

 

2. Tra istanze e problematiche

 

Una prima e sia pur parziale risposta all’emergenza formativa è presente in Rivista Liturgica n. 2, sotto il titolo: La risorsa educativa della liturgia. Nelle pagine che seguono siamo andati oltre e soprattutto è stata attuata la scelta di far interagire due ambiti che tradizionalmente trovano luoghi diversi di realizzazione: la liturgia nella Chiesa e l’insegnamento della religione nella scuola. Potrebbe mai durante l’ora di insegnamento della religione cattolica (= irc) verificarsi un’actuositas culturale a partire anche da istanze e contenuti che provengono dalla liturgia?

I contributi di questo numero tentano di evidenziare l’interazione tra liturgia e irc; ma soprattutto si impegnano a motivare istanze non sempre considerate in primo piano da parte di liturgisti e docenti di religione (= idr). Istanze che tentano di dare un contributo reale, concreto, professionale a quell’urgenza educativa più volte ricordata dal Magistero, e implicitamente condivisa da quelle voci senza pulpito di coloro che credono e operano nella scuola.

Le istanze alle quali queste pagine intendono offrire un’analisi concreta invitano ad una ulteriore ricerca per aprirsi a risposte operative e di competenza. È in questa linea che formuliamo domande che ci sembrano urgenti:

 

  • È possibile insegnare la liturgia – nella sua dimensione culturale – in quel tempo di apprendimento costituito dall’irc?
  • Quale definizione di sé la liturgia deve darsi per potersi presentare, quasi con un suo statuto epistemologico costituito da un metodo e da contenuti scolastici allo scopo di acquisire competenze adeguate ai traguardi previsti dall’irc?
  • Cosa pensano i liturgisti e gli IDR di queste prime due problematiche? Possono offrire lo spazio per un dibattito e soprattutto per un positivo incontro?
  • Docenti di altre discipline, che insegnano in sinergia e in cooperazione con l’iDR, ritengono che la liturgia sia da riservare alla catechesi e non all’irc? Come è possibile interagire con loro quotidianamente da parte dell’IDR anche nell’ambito della proposta culturale della liturgia?
  • Simili posizioni sono in sintonia con le risoluzioni d’intesa e di programmazione tra le due Istituzioni che presiedono all’irc, cioè il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (= MIUR) e la Conferenza Episcopale Italiana (= CEI), che regolamentano la configurazione e l’operatività scolastica dell’irc?

 

3. Per un quadro di riferimento e di azione

 

Alcune risposte a questi e ad altri interrogativi possono essere raccolte anche nelle pagine che seguono. Possiamo infatti trovare riferimenti a documentazione non sempre conosciuta sia in ambito ecclesiastico che statale. Ma possiamo incontrarci anche con letture degli obiettivi di apprendimento correlati in modo esplicito o implicito con la liturgia.

Un aspetto che va tenuto ben presente è costituito dal fatto di non creare confusione tra gli ambiti e gli obiettivi propri della catechesi e quelli dell’IRC; complementarietà rimanda alla differenza e alla distinzione, e viceversa, purché tutto concorra – secondo i rispettivi contesti e metodologie – alla formazione integrale della persona.

Poiché ogni insegnamento si avvale di strumenti di mediazione didattica specifici (libri di testo) come pure di media complementari e realmente incidenti (come internet, cellulari, face book, …) nell’apprendimento, si impone il confronto con i risultati circa la presenza del linguaggio liturgico nei testi per l’irc. Dall’esame fatto emerge che il riferimento alla liturgia è scarso. Una situazione che pone ulteriori interrogativi:

 

  • Qual è la formazione liturgica degli Autori?
  • Qual è la cura redazionale ed editoriale di consulenza (liturgica) nella progettazione e pubblicazione di un testo di religione da parte delle case editrici?
  • Qual è la competenza professionale pedagogico-didattica e biblico-teologico-liturgica dei revisori-censori che provvedono a valutare i libri di testo?

 

Quest’ultimo interrogativo richiama l’attenzione sui revisori-recensori scelti dal Servizio Nazionale per l’irc della CEI per quanto riguarda l’ambito pedagogico-didattico, e dell’Ordinario per quanto riguarda la “conformità alla dottrina della Chiesa”. Senza il nulla osta dalla CEI e l’imprimatur dell’Ordinario diocesano non è possibile infatti pubblicare e quindi adottare un testo, come concordato nell’Intesa originaria tra l’allora Ministero della Pubblica Istruzione e la CEI, e in quella aggiornata tra il MIUR e la CEI. La vigilanza appare alquanto delegata o addirittura disattesa qualora si considerino i risultati rilevabili dall’esame dei testi. E poiché ogni insegnamento è incarnato da un docente, ci si domanda ancora:

 

  • Quale consapevolezza hanno gli IDR circa il ruolo della liturgia nella formazione religiosa? E quale spazio di proposta formativa occupa la liturgia nella loro programmazione didattica?
  • Dal momento che la liturgia è “atto teologale” nel suo divenire esperienziale – e dunque espresso in una forma concreta e storicizzata –, può trovare valenze epistemologiche nei confronti di saperi destinati a divenire vita?

 

Da tutto ciò scaturisce il dovere di suscitare sensibilità negli idr. Si tratta di un impegno affidato dal MIUR esclusivamente alla CEI e al suo Servizio Nazionale per l’irc e delegato agli Ordinari diocesani che, a loro volta, si avvalgono degli Uffici di Curia (Ufficio scuola per l’irc, Ufficio di pastorale scolastica e irc, Servizio diocesano per l’irc, ecc.). Da qui il bisogno di rilevarne la sensibilità e la consapevolezza mediante la richiesta di quanto questi organismi istituzionali avessero fatto o prevedono di realizzare con interventi, convegni, corsi di aggiornamento… sulla liturgia e sulla sua didattica nell’irc. Richiesta da noi proposta a circa cinquanta Uffici scuola per l’irc, tra cui quelli di diocesi come Milano, Torino, Bologna, Bari, Napoli, Palermo… che gestiscono la formazione e l’aggiornamento di migliaia di idr.

Quali i risultati? I pochissimi Uffici che hanno risposto non pensano a un corso di formazione liturgica per sensibilizzare gli idr per la valorizzazione anche della cultura liturgica durante l’ora di religione. Una constatazione che solleva interrogativi, come si evince anche dalle risposte raccolte nel dossier.

Un servizio di qualificazione professionale per l’idr dovrebbe essere offerto da riviste specializzate. Da qualche anno in Italia per gli idr esistono soltanto quelle edite dalla Elle Di Ci: una per la Scuola dell’infanzia e primaria (L’Ora di Religione) e l’altra per la Scuola secondaria di primo e secondo grado (Insegnare religione). Abbiamo consultato le due ultime annate. Non c’è niente di liturgia, ancor meno di liturgia nell’irc. Formuliamo l’auspicio che queste pagine possano stimolare l’orgoglio e l’impegno di periodici che orbitano nel campo dell’educazione ad interessarsi di cultura specificamente liturgica.

Alcuni Uffici scuola per l’irc propongono l’aggiornamento degli IDR anche mediante pubblicazioni in carta oppure on line, come per esempio l’ufficio scuola dell’arcidiocesi di Milano (Informazioni IRC), di Bari-Bitonto (Tempo pieno, rivista per la scuola). La diocesi di Roma ha dismesso la rivista Religione Scuola Città, che si pubblicava in carta da quasi quindici anni. Ora occasionalmente appare qualche numero “in forma ridotta e digitale”, per “aiutare gli insegnanti nel proprio cammino personale, sia dal punto di vista spirituale che culturale” più che per professionalizzare gli idr. Altre riviste ospitano occasionalmente notizie riguardanti l’irc e gli idr. Per le une e le altre è possibile farsi un’opinione più documentata visitando i variegati e difformi siti delle diocesi italiane.

Vari docenti invece si sono fatti operatori di carità professionale grazie ai propri siti: qui è possibile rintracciare quel menu di operatività (esperienze didattiche, aggiornamenti, consulenze giuridiche), e quella solidarietà professionale che permette di sentirsi sempre in compagnia in un lavoro che rischia di autoreferenziarsi. Ed è possibile rintracciare anche qualcosa di liturgico, come documenta una ricerca pubblicata nelle pagine che seguono.

La formazione a monte degli idr avviene negli Istituti Superiori di Scienze Religiose (= ISSR). Era necessario quindi rintracciare nella ratio studiorum la presenza della liturgia, per quanto si può intravedere nei titoli e nel numero dei corsi, nella presenza di seminari di didattica dell’irc. E tutto questo alla luce della missio degli ISSR, che è quella di offrire opportunità di approfondimento della fede in vista di due competenze educative, quella del catechista e quella dell’idr, per quanto distinte e complementari.

L’impegno per un’educazione integrale, interculturale e interreligiosa, che le istituzioni scolastiche italiane tentano di dichiarare nelle intenzioni e i docenti progettano e praticano, induce anche a rilevare quanto la liturgia può favorire questo dialogo interreligioso nell’irc.

 

4. Se non nell’insegnamento della religione cattolica, dove? Se non l’insegnante di religione, chi?

 

Tutte queste, ed altre possibili questioni, sono sottese al contesto di problematicità, ma anche di progettualità formative reali che oggi la scuola e i suoi professionisti vivono, e talora subiscono. Nel caso dell’interazione liturgia-irc sono coinvolti i liturgisti e i docenti di religione, e con loro tutto quell’universo di ecclesialità e di cittadinanze civili che esigono una distinzione e complementarietà tra la confessionalità della liturgia nella catechesi e la laicità dello Stato nella scuola mediante i loro responsabili rappresentanti e professionisti.

Queste pagine intendono elevare ad urgenza educativa il problema dell’interazione liturgia-irc; e soprattutto evidenziare il bisogno di gestire questa presenza della liturgia nell’irc. I docenti sono consapevoli che l’urgenza formativa è veramente sentita e assunta solo quando si propongono soluzioni che si sperimentano. Altrimenti un’altra urgenza sarà sciupata e con essa sarà perduta un’ulteriore opportunità di responsabilizzare chi educa nella Chiesa e nella scuola.

E se contestualizziamo questo specifico ambito di relazione tra liturgia e irc in quello più ampio delle opportunità di cultura religiosa, è necessario riconoscere che da molti anni è solo l’idr con il suo irc che assicura un’alfabetizzazione alle future generazioni. Da qui ancora altri interrogativi:

 

  • Se non è l’idr, chi può oggi incontrare una media del 91% degli studenti italiani che si avvalgono, ogni settimana, anche se in piccola misura, dell’ora di religione?
  • Perché non si investe di più e meglio sulla professionalità degli idr, senza per questo diminuire l’impegno nei confronti degli operatori della pastorale e della catechesi?
  • La formazione degli educatori non dovrebbe essere un’urgenza prioritaria nell’educazione stessa?
  • Chi educherà, se l’educatore non è educato e non si lascia educare?

 

Forse anche per queste considerazioni, dal versante ecclesiastico cominciano a pervenire riconoscimenti all’irc e anche all’idr; tardivi, ma pur sempre gratificanti nelle parole sono almeno tre documenti ufficiali:

 

– Il Discorso pronunciato da Benedetto XVI durante l’incontro con i docenti di religione italiani (1 maggio 2009) dove, tra l’altro, si afferma:

 

«L’insegnamento della religione cattolica è parte integrante della storia della scuola in Italia, e l’insegnante di religione costituisce una figura molto importante nel collegio dei docenti. […]

Con la piena e riconosciuta dignità scolastica del vostro insegnamento, voi contribuite, da una parte, a dare un’anima alla scuola e, dall’altra, ad assicurare alla fede cristiana piena cittadinanza nei luoghi dell’educazione e della cultura in generale. Grazie all’insegnamento della religione cattolica, dunque, la scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di cultura e di umanità, nei quali, decifrando l’apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene e a crescere nella responsabilità, a ricercare il confronto e a raffinare il senso critico, ad attingere dai doni del passato per meglio comprendere il presente e proiettarsi consapevolmente verso il futuro. […]

Certamente uno degli aspetti principali del vostro insegnamento è la comunicazione della verità e della bellezza della Parola di Dio, e la conoscenza della Bibbia è un elemento essenziale del programma di insegnamento della religione cattolica. Esiste un nesso che lega l’insegnamento scolastico della religione e l’approfondimento esistenziale della fede, quale avviene nelle parrocchie e nelle diverse realtà ecclesiali. Tale legame è costituito dalla persona stessa dell’insegnante di religione cattolica: a voi, infatti, oltre al dovere della competenza umana, culturale e didattica propria di ogni docente, appartiene la vocazione a lasciar trasparire che quel Dio di cui parlate nelle aule scolastiche costituisce il riferimento essenziale della vostra vita. Lungi dal costituire un’interferenza o una limitazione della libertà, la vostra presenza è anzi un valido esempio di quello spirito positivo di laicità che permette di promuovere una convivenza civile costruttiva, fondata sul rispetto reciproco e sul dialogo leale, valori di cui un Paese ha sempre bisogno […]».

 

L’Esortazione apostolica Verbum Domini di Benedetto XVI, frutto della XII Assemblea generale del Sinodo su: La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (ottobre 2008), 30 settembre 2010:

 

«Non si deve trascurare, poi, l’insegnamento della religione, formando accuratamente i docenti. In molti casi esso rappresenta per gli studenti un’occasione unica di contatto con il messaggio della fede. È bene che in questo insegnamento sia promossa la conoscenza della sacra Scrittura, vincendo antichi e nuovi pregiudizi, e cercando di far conoscere la sua verità» (n. 11).

 

– Gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2011-2020, in Educare alla vita buona del Vangelo, 4 ottobre 2010:

 

«Al raggiungimento [degli] obiettivi può dare un qualificato contributo il docente di religione cattolica, che insegna una disciplina curriculare inserita a pieno titolo nelle finalità della scuola e promuove un proficuo dialogo con i colleghi, rappresentando […] una forma di servizio della comunità ecclesiale all’istituzione scolastica.

L’insegnamento della religione cattolica permette agli alunni di affrontare le questioni inerenti il senso della vita e il valore della persona, alla luce della Bibbia e della tradizione cristiana. Lo studio delle fonti e delle forme storiche del cattolicesimo è parte integrante della conoscenza del patrimonio storico, culturale e sociale del popolo italiano e delle radici cristiane della cultura europea. Infatti, “la dimensione religiosa… è intrinseca al fatto culturale, concorre alla formazione globale della persona e permette di trasformare la conoscenza in sapienza di vita”.

Per questo motivo la scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di cultura e di umanità, nei quali, decifrando l’apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene e a crescere nella responsabilità, a ricercare il confronto e a raffinare il senso critico, ad attingere dai doni del passato per meglio comprendere il presente e proiettarsi consapevolmente verso il futuro» (n. 47).

 

5. Il presente fascicolo

 

L’insieme della ricerca lascia intravedere prospettive programmatiche in merito ad un progetto culturale della Chiesa italiana per e nella scuola, da concretizzare valorizzando l’irc e i suoi professionisti, praticando e testimoniando nei fatti la laicità e la confessionalità dell’irc, esigendo una qualità professionale dagli idr e dalle istituzioni che cooperano, e infine non abbandonando all’iniziativa personale chi, come l’idr, non può che insegnare in cooperazione e in comunione.

Tema di attualità: ne siamo ben consapevoli noi e tutti coloro che hanno risposto all’invito di collaborare a questo progetto, come pure coloro che non hanno risposto sia pur con motivazioni diversificate. L’urgenza comunque della trattazione non ci ha distolti dal realizzare il progetto che ora affidiamo ai lettori; e siamo ben lieti di poter accogliere eventuali “reazioni” che possono contribuire al dibattito e alla soluzione di problematiche che chiamano in causa la formazione integrale delle persone. È in questa linea che va ricordato il significato dell’IRC come luogo di confronto per un dialogo fra culture e religioni, come ambito di nuovi percorsi per favorire una reciproca accoglienza, ma anche per offrire a chi viene da altri orizzonti culturali l’opportunità di conoscere gli elementi essenziali della cultura che li accoglie.

 

Studi. I primi sei contributi tracciano il quadro generale della problematica affrontando da prospettive diversificate la complessa questione e situazione dell’IRC in Italia.

Note. I quattro successivi approfondimenti danno completezza a ciò che è richiesto dai docenti nell’affrontare una simile missio nella scuola.

Dossier. Le tre risposte a domande specifiche costituiscono il contenuto racchiuso nel dossier che avrebbe potuto essere ben più ampio; le testimonianze possono comunque rimanere esemplificative di una situazione molto articolata.

 

Affidiamo queste pagine soprattutto a due categorie di colleghi. Ai professori di religione, perché si confrontino con le istanze proprie della liturgia: la loro riscoperta potrà continuare ad offrire elementi preziosi per una formazione professionale che integri la liturgia e la renda proponibile nel loro insegnamento. Ai liturgisti, perché nella loro missione di docenti tengano ben presente la formazione dei futuri docenti di religione: qui non si tratta di presentare la liturgia come si fa ad uno studente di teologia che si prepara ad essere presbitero; al contrario, si tratta di far conoscere una liturgia non solo nella sua integrità misterica ma anche in quelle sue dimensioni che ne favoriscono la comprensione sia nelle assemblee celebranti come in quelle mediazioni culturali e didattiche proprie dell’IRC.

 

«Rivista Liturgica»

 

www.rivistaliturgica.it

 

 

Sommario del numero

 

Rivista Liturgica 98/4 (2011)

la liturgia nell’insegnamento della religione cattolica

 

Sommario

Editoriale pp. 000-000

Studi

B. Bordignon                                                                                pp. 000-000

L’impianto delle Indicazioni nazionali per l’irc

 

L’impianto, cioè il principio ordinatore dell’articolazione delle Indicazioni nazionali, è approfondito sia con riferimento all’organizzazione della scuola italiana che alla teoria della conoscenza che sottostà ad esse, con un breve accenno allo sviluppo della dimensione logica della conoscenza umana. Il problema di fondo è rappresentato da un’assurda identità della scuola di Stato, che tende a livellare l’esperienza religiosa, per relegarla al di fuori dei processi di insegnamento e di apprendimento e delle scuole. Senza autentiche esperienze religiose, liberamente scelte e tolleranti, non si sviluppano i valori e viene soffocata la convivenza civile.

 

C. Cibien                                                                                         pp. 000-000

Presenza-assenza di riferimenti liturgici in alcuni Documenti della CEI relativi all’irc

 

Nel maggio 1991 la CEI emanò la Nota pastorale sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche: Insegnare religione cattolica oggi. Ogni anno, poi, i Vescovi della Commissione per l’Educazione cattolica, la Scuola, la Cultura e l’Università scrivono una Lettera nella quale si sollecitano gli studenti italiani di ogni ordine ad “avvalersi” dell’Insegnamento della religione cattolica. Tutto questo materiale viene letto, alla ricerca di indicazioni che in qualche modo si possano riferire alla liturgia.

 

V. Trapani                                                                                               pp. 000-000

La liturgia nei vari ordini e gradi scolastici. Una lettura critica degli obiettivi di apprendimento per l’irc correlati alla liturgia

 

L’articolo si prefigge di rilevare la presenza del dato liturgico nei Traguardi per lo Sviluppo delle Competenze e gli obiettivi di Apprendimento, al fine di valutare il ruolo dell’approccio didattico in prospettiva liturgica nell’irc. Di fronte ad una carenza metodologica e contenutistica in merito, si cerca di indagarne le cause, non mancando altresì di formulare proposte operative che possano recuperare, anche nell’attuale assetto didattico, delle piste percorribili al fine di rendere giustizia del ruolo fontale della liturgia nell’insegnamento della religione cattolica.

 

P. Troía                                                                                          pp. 000-000

La liturgia e i suoi linguaggi di comunicazione in alcuni recenti libri di testo per l’irc

 

Le recenti Indicazioni per l’irc nel primo ciclo hanno indotto la CEI ad esigere nuovi testi scolastici per l’imminente anno scolastico 2011-2012. Nelle Indicazioni sono riscontrabili elementi che richiamano la liturgia cristiana. In alcuni recenti libri di testo, ritenuti adottabili e conformi alle Indicazioni, sono state rilevate puntualmente alcune tipologie del ‘liturgico’ e in particolare la definizione della liturgia. Mediamente emerge una conoscenza ‘solitaria’ e ‘vecchia’ della liturgia da parte degli Autori e di chi ha concesso l’adozione. Rispetto ad una precedente e simile ricerca pubblicata nel 1998 in Rivista Liturgica (pp. 605-626), i testi attuali sono migliorati, ma non più di quanto sarebbe necessario.

 

G. Usai                                                                                           pp. 000-000

Ars celebrandi e ars educandi: una lettura dialogica dalla prospettiva dell’irc

L’articolo intende sviluppare un confronto dialogico tra liturgia ed educazione nella mediazione dell’insegnamento della religione cattolica. Tale contestualizzazione conferisce alla riflessione un preciso indirizzo di tipo scolastico, vincolato a finalità, obiettivi e metodi specifici. La consonanza tra liturgia ed educazione è evidenziata da un’argomentazione centrata su aspetti di indole culturale, antropologica e religiosa, coagulati attorno al tema della celebrazione, delle competenze simboliche e della mediazione significativa. L’approccio si muove in una traiettoria pratico-teorica, in cui l’uso della categoria di “arte” meglio evidenzia la natura prassica tanto dell’educazione quanto della liturgia.

 

V. Annicchiarico                                                                          pp. 000-000

La liturgia nella catechesi e nell’irc: complementarietà e differenza

L’Autore, dopo aver delineato che cosa si intenda per liturgia, illustra la natura della catechesi e traccia il profilo dell’IRC oggi in Italia, al fine di farne cogliere le differenti finalità e allo stesso tempo la complementarità che ne consegue proprio per il fatto che l’una e l’altro si svolgano nell’orizzonte culturale italiano in Europa, segnato dalla presenza del cristianesimo-cattolico. Giunge in questo modo a far notare come, sia la catechesi che l’IRC attingano alla “liturgia” la linfa per le loro trattazioni e argomentazioni educative e formative, e sia la catechesi che l’IRC, nella originalità dei loro metodi, in qualche modo “celebrino” quell’incontro tra l’umano e il divino che la liturgia, mirabile sintesi, esprime nel culto pubblico e nel rito.

 

note

 

N. Galantino                                                                                pp. 000-000

La preparazione degli insegnanti alla luce delle ratio studiorum degli ISSR

Nel rispetto dello statuto epistemologico della Teologia liturgica, l’insegnamento impartito negli ISSR non può ignorare il proprium derivante dalle finalità della istituzione all’interno della quale questo insegnamento viene offerto. Per questo, il compito di offrire indicazioni precise perché l’insegnamento della Teologia liturgica contribuisca a “qualificare i docenti di religione” spetta ai singoli ISSR e, prima ancora, al docente di questa disciplina. Solo la pigrizia mentale o una ingessata interpretazione dello statuto epistemologico di una disciplina di insegnamento può impedire a un docente di rendersi conto della differente destinazione del suo servizio. Solo chi accetta la sfida proveniente dalla diversità dei destinatari del proprio insegnamento riesce a trasformarlo in veicolo di “formazione qualificata” e riesce ad armonizzare metodi e contenuti e finalità.

 

A. Toniolo                                                                                              pp. 000-000

Quali aspetti liturgici sono da valorizzare nei testi per l’irc?

Dopo aver tratteggiato le motivazioni che caratterizzano le modalità della presenza dell’irc nella scuola italiana, l’A., soffermandosi sull’esperienza dell’uso del libro di testo da parte dell’insegnante della disciplina scolastica dell’irc riflette sulla opportunità di introdurre elementi di Liturgia nell’IRC. Individua quattro settori di compartecipazione scientifica: linguistico, fenomenologico, storico e pedagogico. La conclusione ritorna sugli elementi espressi nella premessa, perché l’aspetto normativo giuridico dell’IRC ne condiziona le caratteristiche fondamentali, vincolando ogni forma di rapporto, dalla valutazione ai contenuti.

P. Troía                                                                                          pp. 000-000

Feste e tradizioni ebraiche in alcuni recenti libri di testo per l’irc

La parentela familiare tra ebraismo e cristianesimo esigerebbe una particolare e specifica compresenza dell’ebraismo nell’irc e nei suoi media di comunicazione scolastica. In questa ricerca sono documentate alcune costatazione relative alle feste e alle tradizioni ebraiche in recenti libri di testo per l’irc. Gli Autori non evidenziano competenze di eccellenza in merito all’ebraismo, la loro documentazione è alquanto generica. In questi testi per l’irc non emerge la specificità della preghiera liturgica e delle feste ebraiche e l’ebraismo non è mediamente valorizzato come una risorsa per l’irc. Purtroppo è veramente un’occasione mancata per contribuire al dialogo ebraico-cristiano, soprattutto mediante i testi per l’irc e per l’irc stesso.

L. Paolini                                                                                       pp. 000-000

Universi liturgici nel web

Il web è una fonte inesauribile di materiali, che hanno a che fare anche con la/le liturgia/e; specialmente con l’avvento del web 2.0, con il web sociale, le fonti di informazioni si sono moltiplicate e diversificate proprio perché create dagli utenti stessi. È questa una opportunità unica per insegnanti ed educatori di reperire strumenti e informazioni che possano aiutare il loro lavoro a scuola o in parrocchia. L’articolo prende in esame le principali risorse presenti al momento sul web suggerendo metodi e strategie di applicazione pratica.

 

DOSSIER pp. 000-000

 

Corsi di aggiornamento professionale per l’idr: quale rilevanza per la liturgia? (M. Maretti – F. Morlacchi – B. Tarantino)

Libertà religiosa: indagine mondiale del Pew Forum

 

L’indagine mondiale del Pew Forum registra l’aumento di restrizioni e violenze. Il primato negativo a Egitto, Pakistan e India. Tra i paesi musulmani l’unico in controtendenza è la Turchia. I più maltrattati: i cristiani

 

 

L’indagine del Pew Forum ha preceduto le rivolte che sconvolgono il Nordafrica e il Medio Oriente. Ma non promette nulla di buono sui loro sviluppi futuri.

Già prima dello scoppio delle rivolte, infatti, gli indicatori segnavano quasi ovunque un peggioramento.

L’indagine ha riguardato le restrizioni alla libertà religiosa in 198 paesi del mondo: sia le restrizioni imposte dai governi, sia quelle prodotte da violenze di persone e di gruppi.

Rispetto a un’analoga indagine del Pew Forum di tre anni prima, il confronto segna un diffuso aumento di tali restrizioni.

E il paese che più di tutti è cambiato in peggio è proprio uno di quelli della cosiddetta “primavera araba”: l’Egitto.

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Limitando lo sguardo ai paesi con più di 50 milioni di abitanti – come nel grafico sopra riprodotto – si può notare, rispetto alla precedente indagine, il netto peggioramento della situazione anche in Pakistan e in Nigeria.

I due colossi, l’India e la Cina, cambiano di poco rispetto a tre anni prima.

L’India rimane il paese record per le ostilità tra i gruppi religiosi, che si aggiungono alle già pesanti restrizioni di legge. A dispetto della fama pacifista che questo paese reca con sé.

Mentre la Cina mantiene il record – conteso solo da Iran ed Egitto – delle restrizioni di tipo politico. Con un aumento sensibile, però, anche delle ostilità interreligiose nella popolazione, in precedenza più contenute.

Va notato che tra i paesi con gli indicatori peggiori vi sono quelli con la più numerosa popolazione musulmana del globo: Indonesia, Pakistan, Egitto, Iran, Bangladesh…

Tra i grandi paesi musulmani solo la Turchia ha attenuato il proprio grado di restrizione alla libertà religiosa, rispetto a tre anni prima.

Proprio in questi giorni il primo ministro turco Tayip Erdogan ha deciso la restituzione alle fondazioni religiose non musulmane di più di mille proprietà confiscate dal regime dopo il 1936:

> Storica decisione: Erdogan restituisce le proprietà sequestrate alle minoranze religiose

Tra i paesi europei quello con gli indicatori peggiori, sia politici che sociali, è la Russia. Ma anche il Regno Unito e la Francia hanno irrigidito le restrizioni legali alla libertà religiosa.

Una curiosità. Tra le cinque nuove potenze emergenti le due maggiori, la Cina e l’India, hanno pessimi standard per quanto riguarda la libertà religiosa.

Il Brasile e il Sudafrica, invece, sono all’estremo opposto, con ampi spazi di libertà.

Mentre la Russia era tre anni fa in una posizione intermedia, ma ha fatto rapidi passi di avvicinamento alla zona critica.

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In sintesi, uno su quattro dei paesi che già nel 2006 registravano forti restrizioni alla libertà religiosa hanno ulteriormente peggiorato i loro standard negli anni successivi.

Ma se si guarda non ai singoli stati ma al numero degli abitanti, i risultati dell’indagine sono ancor più impressionanti: ben il 59 per cento della popolazione mondiale vive oggi con restrizioni alla libertà religiosa “alte” o “altissime”.

La religione che più soffre tale situazione è il cristianesimo. Ma anche i musulmani ne sono vittima. In Nigeria lo scontro sociale è con i cristiani, ma altrove i musulmani sono soggetti a restrizioni legali e a violenze soprattutto ad opera di loro correligionari. In Iraq, ad esempio, sono molto più numerose le vittime di attentati islamisti alle moschee che alle chiese.

Ricchissima di dati, la doppia indagine del Pew Forum – l’autorevole centro ricerche sulla religione e la vita pubblica con sede a Washington – è tutta da leggere.

Sia quella pubblicata il 17 dicembre 2009:

> Global Restrictions on Religion

Sia quella messa in rete il 9 agosto di quest’anno, con le variazioni intercorse in ciascun paese:

> Rising Restrictions on Religion

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Alla precedente indagine del Pew Forum www.chiesa aveva dedicato il seguente servizio:

> Libertà di religione? Per 5 miliardi di uomini è un sogno proibito (8.1.2010)

Eucarestia e logos, un legame propizio per la Chiesa

 

Descrizione evento:

EUCARISTIA E LOGOS.
Un legame propizio per la Teologia e la Chiesa
Alpignano (TO)  29 agosto – 2 settembre 2011

Le ragioni del Congresso

Il XXII Congresso nazionale dell’ATI si pone in ideale continuità con il precedente: Teologia dalla Scrittura. Se là il tema messo a fuoco era il modus del riferimento costitutivo della teologia alla Scrittura, si tratta ora di mettere a tema la qualità che il lógos cristiano è per sé chiamato a esibire a partire dal segno e dal luogo istitutivo dell’identità e della missione della comunità dei discepoli di Gesù: l’Eucaristia.

Il percorso muove dall’attestazione biblica del proporsi del gesto eucaristico nella sua singolare originalità che è insieme aperta a una pluralità di declinazioni; intreccia poi, di qui, un profilo più generale, inteso a tratteggiare lo “stile” e il “linguaggio” che dal gesto eucaristico per sé sprigionano, con due profili più specifici: il primo, volto a rinvenire l’effettiva incidenza storica dell’Eucaristica sulla forma della teologia e del pensare cristiano, ma anche dell’arte, della mistica e del rapporto coniugale nella sua paradigmatica esemplarità; il secondo, volto a profilare l’indole che l’annuncio di Gesù Cristo ha da assumere, da un lato, in conformità alla sua intrinseca natura eucaristica, e, dall’altro, in sintonia con i segni dei tempi in un contesto, come quello contemporaneo, dilatato a misura globale.

I laboratori previsti, con metodologia seminariale, offriranno l’opportunità, tenendo fermo l’oggetto formale che regge il percorso, di fare il punto su alcune questioni necessariamente implicate dal gesto eucaristico in ordine alla figura della fede, dell’assemblea eucaristica e della missione.

L’intuizione e l’auspicio è che si possano così verificare, almeno in modo principiale, la pertinenza oggettiva e la rilevanza pratica di un legame – quello tra Eucaristia e logos – oggi a ben vedere più che mai propizio per la teologia e per la Chiesa.

Programma
Lunedì 29 agosto

16.00: Apertura dei lavori – Saluti della autorità

Eucaristia e logos (Piero Coda)

Sintesi sui pre-congressi (Francesco Scanziani)

Dalla Scrittura: un unico gesto per un pensiero plurale (Maurizio Marcheselli)

19.30: Celebrazione del Vespro

Martedì 30 agosto

7.30: Celebrazione eucaristica presieduta dal Card. Severino Poletto, Arcivescovo emerito di Torino

9.00: Eucaristia e stile cristiano (Pierangelo Sequeri)

11.00: Eucaristia e linguaggio della fede cristiana (Paul Gilbert)

16.00: Gruppi di studio (coordinamento a cura di Paolo Gamberini – sarà possibile partecipare a uno dei gruppi proposti):

Inculturazione e eucaristia; linguaggi inculturati (Andrea Bozzolo)
La struttura dialogica dell’assemblea eucaristica (Andrea Grillo)
Eucaristia e presenza di Cristo (Cesare Giraudo)
Fare teologia a partire dalla liturgia: Odo Casel e Karl Rahner (Pierpaolo Caspani)
Identità eucaristica: a partire dagli altri (Paolo Gamberini)

19.30: Celebrazione del Vespro

Mercoledì 31 agosto

7.30: Celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Piero Coda

9.00 – 10.00:  Eucaristia e teologia in P.A. Florenskij (Natalino Valentini)
Eucaristia e teologia in E. Jüngel (Fulvio Ferrario)

11.00 – 12.00:  Eucaristia e teologia nel concilio di Trento (Angelo Maffeis)
Eucaristia e teologia nel concilio Vaticano II (Ghislain Lafont)

16.00: Assemblee di zona

18.00: Assemblea generale elettiva

19.30: Celebrazione del Vespro

Giovedì 1 settembre

7.30: Celebrazione delle Lodi

9.00: Eucaristia e soggetto del pensare cristiano (Serena Noceti)

11.00: La carne del logos:

Eucaristia e linguaggio dell’arte (Guido Bertagna)
Eucaristia e linguaggio della mistica (Francesco Asti)
Rapporto coniugale e logos eucaristico (Xavier Lacroix)

15.30: Visita alla Reggia della Venaria Reale e al centro di Torino

19.00: Celebrazione eucaristica presso il Santuario della Consolata di Torino, presieduta da Mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino

Venerdì 2 settembre

7.30: Celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì

9.00: Eucaristia e logos annunciato. Una chiave interpretativa (Roberto Repole)

Contesti:  Asia (Paolo Gamberini)
Europa (Giovanni Ferretti)
America Latina (Ermis Segatti)

12.30: Conclusione

 

I teologi riflettono sul culto del corpo

Sesso e “culto” del corpo, ma anche arte e globalizzazione. Sono alcuni dei temi che terranno impegnati da lunedì a venerdì prossimo i teologi che, in occasione del 150˚dell’Unità d’Italia, hanno scelto Torino per il loro appuntamento nazionale, giunto all’edizione numero 22. Sarà l’hotel Parlapà di Alpignano ad ospitare il congresso organizzato ogni due anni dall’Associazione teologica italiana, la più rappresentativa del settore, con i suoi 320 membri, tra preti e laici, che di mestiere studiano «la scienza di Dio». L’associazione è nata nel ‘67, dopo il Concilio Vaticano II, nel tentativo di «svecchiare» la teologia, facendola dialogare con la modernità.
Alla faccia di chi pensa che la teologia abbia la testa «tra le nuvole», i convegnisti si confronteranno su body building, palestra, alimentazione e più in generale cura del corpo, ma anche arte,  religioni «fai da te», eros e sessualità. «Questo non solo per smentire la fama sessuofobica della Chiesa cattolica – puntualizzano gli organizzatori – ma per dare un contributo a chiarificare che cosa  dice il corpo di quel che l’uomo è, nelle sue pulsioni e nella sua forza, così come nei suoi limiti e nella sua debolezza».
Tema portante del congresso, nel corso del quale verrà anche rinnovato il cda dell’associazione, è «Eucarestia e logos, un legame propizio per la Chiesa». Un anticipo del Congresso eucaristico nazionale, che si svolge ad Ancona a partire da sabato prossimo. «Cercheremo di capire in che misura l’Eucarestia incide sul pensiero dei cristiani e, di conseguenza, nel dibattito pubblico».
Ancora: «In un contesto di pluralismo e di crisi, ci chiederemo cosa abbia ancora da dire oggi il pensiero cristiano, misurandoci su temi che non passano mai di moda, come l’amore di coppia».
Al convegno partecipano l’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, che giovedì alle 19 celebra la messa alla Consolata – dopo la visita dei teologi alla Reggia di Venaria e al centro di Torino – e il suo predecessore, il cardinale Severino Poletto, oltre a mons. Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì. Si alterneranno alcuni tra i nomi più importanti del panorama attuale della teologia, con relazioni su temi quali la mistica, la liturgia e l’inculturazione, ossia lo sforzo di «tradurre» la fede cristiana nelle culture a lei più lontane. Tra i relatori, il teologo e musicista don Pierangelo Sequeri parlerà dello «stile» cristiano, mons. Piero Coda, presidente uscente dell’associazione, del rapporto tra Eucarestia e «logos», il monaco benedettino francese Ghislain Lafont del Vaticano II, la teologa Serena Noceti del pensiero cristiano, il filosofo Xavier Lacroix del matrimonio. Infine, venerdì il convegno si chiude allargando lo sguardo alle terre di missione. Don Ermis Segatti, responsabile della Pastorale diocesana della Cultura, parlerà della situazione in America Latina, il padre gesuita Paolo Gamberini di quella in Asia, mentre a don Giovanni Ferretti toccherà la vecchia Europa.

di Fabrizio Assandri
in “La Stampa” del 26 agosto 2011

 

 

Quale giustizia senza perdono?

Perché il perdono è un tema così decisivo nella nostra vita umana e cristiana?


Perché la nostra vita conosce il male, questa contraddizione, questa negazione del bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha a che fare con il male, che noi facciamo a noi stessi e agli altri, che gli altri ci fanno. Il male – nelle sue varie forme del cattivo pensare, del malvagio agire, dell’offensivo  parlare – è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Il male – dice Gesù – è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cf. Mc  7,20-23; Mt 15,18-20) . Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, confessa l’Apostolo Paolo (cf. Rm 7,18-19) . Non a caso le domande che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro sono: “Non abbandonarci alla tentazione” e “Liberaci dal male” (Mt 6,13); e queste richieste sono precedute da quella del perdono di Dio, invocato perché ci renda capaci di perdonare i nostri fratelli: “Rimetti  a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12).
Il male come azione malvagia ci accompagna per tutta la vita. Nel quotidiano il più delle volte non ha conseguenze vistose; in alcune circostanze invece esplode e ci spaventa, provocando in noi indignazione. In ogni caso, il male è sempre banale… L’uomo si abitua al male, e soprattutto, la violenza può nutrire il male, farlo crescere fino alla negazione dell’altro, degli altri. Siamo sinceri con noi stessi: non arriviamo alla tentazione di voler vedere scomparire chi ci è nemico, di voler vedere escluso dal nostro orizzonte un altro che ci ha fatto del male? Non siamo tentati di ripagare con lo stesso male chi ci ha fatto del male? Non giungiamo perlomeno a sperare il male per chi ci ha fatto soffrire?
Questo è l’istinto di conservazione: vogliamo vivere a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri. Siamo tutti malati di philautía, l’egoistico amore di noi stessi, e quando siamo offesi ci difendiamo attaccando, come gli animali. Siamo tentati di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alimentando così una spirale di odio e vendetta che finisce per mostrare la sua qualità mortifera. Noi sappiamo che per intraprendere il cammino di umanizzazione in vista di una vita piena di senso, dobbiamo impedire la vittoria del male su di noi e la spirale di violenza che ne consegue: è qui che si colloca il perdono, che è innanzitutto interruzione del male, dire no a una logica di morte.
Gesù con la sua vita ha cercato di narrarci il volto di Dio fino a vivere lui stesso il perdono fino all’estremo. Perdono donato anche ai suoi carnefici, ai suoi aguzzini, a chi lo ha condannato a morte e angariato durante la sua esecuzione: “Padre, perdona loro perché non sanno né quello che dicono né quello che fanno” (cf. Lc 23,34). Proprio per aver ricevuto la testimonianza e l’insegnamento di Gesù, Paolo nella Lettera ai Romani ci ha rivelato Dio quale fonte di ogni perdono. Ecco lo straordinario annuncio dell’Apostolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,8-10) .
È una scandalosa simultaneità: mentre noi odiamo Dio, Dio ci ama e ci perdona; mentre noi siamo peccatori, Dio ci riconcilia con sé. Questo è il cristianesimo, a tal punto che Hannah Arendt,  filosofa ebrea e non credente, ha scritto: “A scoprire il ruolo del perdono nell’ambito delle relazioni umane fu Gesù di Nazaret” ( Vita activa. La condizione umana ). Questo è lo scandalo della croce  di Cristo , e solo nella folle logica della croce si può comprendere il perdono di Dio verso di noi, e quindi il nostro perdono verso noi stessi e gli altri.
Ma nel nostro cuore, di fronte a questo perdono così radicale ed esteso, sorge una domanda: e la giustizia? Misericordia, perdono sì, ma la giustizia? Certo, è anch’essa un attributo del Nome di Dio (“… non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”: Es 34,7 ). Ma guai a noi se misurassimo la giustizia di Dio con i nostri criteri umani, se proiettassimo in Dio la nostra giustizia. La giustizia degli uomini è necessaria, capace di sanzionare il male, di arginarlo; ma solo la misericordia sa rendere all’uomo la sua dignità, sa fare del colpevole una creatura nuova, perché l’uomo ha bisogno di giustizia, ma anche di amore e gratuità del perdono. Solo la misericordia permette di fare giustizia senza vendicarsi, senza umiliare il colpevole, e di perdonare senza svuotare la legge, il diritto. Noi cristiani dobbiamo fare un altro passo avanti nella comprensione della giustizia e nel cammino di umanizzazione. È stato il beato Giovanni Paolo II ad aprirci il cammino alla comprensione di come sia possibile coniugare perdono e giustizia. Nel suo Messaggio per la giornata mondiale della pace del 2002 egli ha  confessato che, confrontandosi con la Parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, era giunto a comprendere che il Vangelo esige che il principio “perdono” sia immanente a quello di “giustizia”.
Così ha potuto coniare un’affermazione che dà il titolo al suo testo: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Questo il messaggio che chiede a tutti una prassi di perdono affinché sia possibile edificare insieme una polis, segnata da giustizia, pace, solidarietà comune. Ma Giovanni Paolo II ha anche chiesto che il perdono sia anche una virtù proposta alla comunità civile. Così scriveva: “Solo nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una ’politica del perdono’, espressa in atteggiamenti sociali e istituti  giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano”.
Questa la risposta alle patologie della società, ai conflitti che dividono gli uomini contrapponendoli tra loro. L’ordine sociale e la costruzione della polis non possono avvenire senza coniugare  giustizia e perdono. Bisogna quindi situare il perdono anche in ambito giuridico: occorre arginare e disarmare il colpevole, occorre la detenzione per impedirgli di reiterare i delitti; ma nello  stesso tempo occorre pensare a una rieducazione, a un cammino di umanizzazione e di reinserimento nella società, mostrando anche la possibilità di un perdono, di un condono. Già ad Atene,  nell’antichità, si conosceva l’amnistia, con lo scopo della riconciliazione nella polis. Nel contesto economico, il perdono può essere esercitato con la remissione del debito dei Paesi poveri, dando  loro la possibilità di un’economia che conosca uno sviluppo. Sì, il perdono, come ha detto Giovanni Paolo II (“Le famiglie, i gruppi, gli stati, la stessa comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale”): a livello giuridico, politico ed economico internazionale non è solo un atto che vuole dimenticare un  passato che altrimenti potrebbe alimentare il conflitto, ma apre a un nuovo futuro. Perdonare è prendere coscienza che è necessario rinnovare la comunicazione, la relazione con l’altro, per non negarlo, per non lasciarlo nella condizione di nemico. Si pensi al perdono reciproco che si è attuato tra neri e bianchi in Sudafrica o a quello tra ebrei e palestinesi al fine di giungere a una pace vera e duratura. Il cammino del perdono è il cammino dell’umanizzazione, è il cammino di Dio per noi uomini.

 

in “Avvenire” del 27 agosto 2011

Chiesa di fede e di governo

Chiesa e Stato (o società): quante analisi e discussioni si sono avviluppate e ingarbugliate attorno a questo binomio. E i colori dei discorsi il più delle volte si sono fatti accesi e le tonalità squillanti.

Tanto per esemplificare gli estremi cromatici: «La Chiesa è lo spietato cuore dello Stato», scriveva Pasolini in un poemetto della Religione del mio tempo (1961), mentre Martin Luther King, nella Forza di amare (1968), ribatteva: «La Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, bensì la sua coscienza». C’è, poi, un altro equivoco da schiodare nell’opinione comune, ossia l’equazione d’identità Chiesa-Clero, con esiti spesso fieramente polemici, come già accadeva a Machiavelli che, intingendo la penna nel curaro, scriveva queste righe nei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: «Abbiamo con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo: di essere diventati senza religione e cattivi»!

Ma che cos’è effettivamente la Chiesa, questa realtà così celebrata e contestata, considerata anche il nodo più aggrovigliato che l’ecumenismo tenta vanamente di dipanare? Se dovessimo cercare la risposta nella bibliografia anche solo post-conciliare, ci troveremmo immersi subito in una foresta dai mille sentieri, nella quale si muovono a fatica già i teologi e dalla quale fedeli e “laici” uscirebbero ben presto spossati. Certo, si potrebbe consegnare loro quella sorta di mappa chiara e ben definita che è il documento del Concilio Vaticano II sulla Chiesa, denominato dalle prime parole Lumen gentium, ma forse anche in quel caso sarebbe necessaria un’esegesi di quel testo così denso e intenso, a causa della sua funzione “ufficiale”. Si potrebbe rimandare a quel Dizionario di Ecclesiologia, edito lo scorso anno da Città Nuova e da noi presentato proprio in queste pagine, ma si cadrebbe nel rischio della dispersione. Non sono neppure più agevoli i percorsi suggeriti dai manuali o trattati teologici, grossi tomi la cui lettura estenua già gli specialisti.

Vorremmo indicare una via un po’ più pianeggiante e breve. L’ha abbozzata in un volume ridotto ma succoso uno dei nostri migliori teologi contemporanei, Severino Dianich, docente emerito della facoltà di Teologia di Firenze, che ha sulle spalle una personale panoplia bibliografica poderosa, ma che qui ama indossare un’attrezzatura leggera quasi da viaggiatore. Sì, perché quello che egli propone è un viaggio, anzi, un’«esperienza» dal momento che presentare un tema della fede «non è mai un’operazione asettica, da svolgersi come si fosse col camice bianco in laboratorio». Alla radice della Chiesa c’è un dato originario. È «l’atto della comunicazione della fede da un credente a un’altra persona che l’accoglie e la fa sua», creando così una profonda comunione interpersonale; questo evento è «frutto di un disegno divino e della grazia di Dio che opera nella storia per attuarlo». In pratica, la Chiesa si rivela come il punto di incrocio fra l’orizzontalità dell’incontro tra  persone nella fede e la verticalità del rivelarsi di Dio nella grazia.
Si comprende, quindi, che la definizione della Chiesa come società è imperfetta: essa, certo, proprio perché comunità di uomini e donne inserite nelle coordinate spazio-temporali, insiste ed esiste nella storia e ha una dimensione “carnale”; ma al tempo stesso nel suo cuore intimo custodisce una realtà trascendente fatta appunto di grazia e di fede, senza la quale si sterilizzerebbe in una mera istituzione. La mappa ecclesiale che Dianich delinea è, perciò, ritmata costantemente su questi due livelli. Da un lato, c’è l’evento germinale che è dono divino e annuncio di fede. Esso vede in  azione la gratuità e l’efficacia superiore del sacramento, che genera continuità, indefettibilità, verità. D’altro lato, questo evento si attua nel mondo, ha per attori non solo Dio, ma anche persone,  apostoli, ministri, testimoni. La Chiesa, perciò, è dotata di una sua visibilità che si esprime nelle strutture e si espande nell’universalità (la «cattolicità»).

È su questo secondo versante che si colloca appunto il nesso Chiesa-politica da cui siamo partiti. La stessa «incarnazione», anzi, il cuore del messaggio evangelico e del Regno di Dio, fondato sulla giustizia, sulla libertà, sulla dignità umana, sulla salvezza, non possono non avere ridondanze sociali. Se Dio e il suo Cristo sono il principio dell’umanità nella sua nobiltà nativa, «nessun uomo, nessuna forza nazionale o economica – scrive Dianich –, nessun partito e nessuna ideologia possono pretendere di dominare l’uomo nella sua totalità, rifiutando di essere giudicati dalla coscienza  di ciascuno». Questa sorgente primordiale della dignità umana nella sua libertà, nella vita, nella moralità, nell’amore, nel bene comune (è il «Date a Dio quel che è di Dio», del celebre asserto di Gesù) non esclude, tuttavia, che esista uno spazio di autonomia proprio della politica e dell’economia nella gestione storica dell’umanità: è appunto il «Date a Cesare quel che è di Cesare» che Cristo  imboleggia nella moneta con l’«immagine» di Cesare, laddove però non si deve dimenticare che «immagine» di Dio è l’uomo nella sua profonda identità trascendente, come proclama la Scrittura (Genesi 1, 27).
È, però, altrettanto ovvio che questa evidenza di principio si fa più complessa, si appesantisce e si offusca quando deve mettersi concretamente in azione nel groviglio delle vicende storiche. E qui  si apre un altro più delicato capitolo, al quale abbiamo già fatto riferimento in passato, quello della dottrina sociale della Chiesa, e a livello più generale, la corretta declinazione della categoria «laicità», indispensabile nella visione cristiana che non è teocratica, ma neppure totalmente secolaristica per i principi sopra enunciati. Fermiamoci qui, rimandando al testo di Dianich e alla bibliografia ragionata che egli propone in finale. A chi non è digiuno di studi teologici e volesse ulteriormente procedere nell’orizzonte specifico dell’ecclesiologia, suggeriamo la recente  raccolta di scritti del cardinale Walter Kasper, un importante teologo che è stato a lungo a capo del dicastero vaticano per il dialogo ecumenico, dopo essere stato vescovo della rilevante diocesi di  Stoccarda.

Anche nelle sue pagine, che sono di approfondimento, si vedrà emergere la categoria ecclesiale fondante della comunione e del dialogo.

Severino Dianich, La Chiesa mistero di comunione, Marietti 1820, Genova – Milano, pagg. 246, € 24,00
Si vedano anche:
Walter Kasper, La Chiesa di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia, pagg. 488, € 43,00
Thomas Söding, Gesù e la Chiesa, Queriniana, Brescia, pagg. 362, € 31,00

 

 

 

 

 

in “Il Sole 24 Ore” del 28 agosto 2011