Leone d’oro al Faust di Sokurov –
miglior film della 68. Mostra del Cinema
Leone d’oro al Faust di Sokurov –
Un percorso rivolto ai bambini, ma anche ai genitori, ai catechisti e agli insegnanti che li accompagnano; partendo dall’esigenza di interpretare le esperienze quotidiane (mangiare, stare insieme, ricordare, sacrificarsi, ringraziare) si arriva a scoprire il loro senso religioso collegato al valore dell’Eucaristia (mensa, comunione, memoriale, sacrificio, rendimento di grazie).
Il piccolo lettore viene accompagnato da alcuni simpatici personaggi di fantasia in un processo di esplorazione, riflessione e apprendimento.
Cristina Carnevale
L’autrice, esperta in Scienze dell’Educazione e Pedagogia religiosa, è docente di religione nella Scuola Primaria dell Diocesi di Roma. È membro dell’AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici) e SIREF (Società Italiana di Ricerca Educativa e FOrmativa) e scrive per riviste di pedagogia e didattica. Già autrice di altre pubblicazione rivolte a bambini, tra cui La stella della pace. Corso di religione cattolica per la scuola primaria, La Scuola, Brescia 2009 e La stella della pace. Corso di religione cattolica per la scuola primaria, La Scuola, Brescia 201
Di quale domanda Dio è la risposta? Se non si chiarisce la domanda, la risposta-Dio può diventare semplicemente uno dei tanti strumenti di potere escogitati dalla politica per tenere buoni e compatti i popoli, o uno dei tanti hobby coltivati dagli esseri umani per non annoiarsi nel tempo libero, o uno psicofarmaco della mente, magari un po’ antiquato ma ancora abbastanza in uso e non senza qualche piacevole effetto.
A sentirli suonare così – senza saper leggere né scrivere – “Dio” e “d’io” possono trarre in confusione: sono simili al punto da generare il sospetto che i due concetti abbiano una radice comune, e non solo per il suono o le lettere di cui sono composte le parole.
Qualunque riflessione a proposito di quel che trascende la nostra vita di tutti giorni, le cose che facciamo, il senso del nostro affannarci dietro a cose di poca o nessuna importanza, non può che scaturire da noi stessi, e condurci nel vivo di una riflessione antica forse quanto il genere umano.
Oggi il dibattito sulla religione, almeno in occidente, è spesso arroccato su posizioni che vedono da un lato l’adesione cattolica (o la mancata adesione) al dogma della Chiesa e dall’altro l’interpretazione della bibbia, che secondo i protestanti è la fonte di ogni verità.
Tutto questo è troppo poco, sostiene Mancuso, e non rispecchia la complessità dei tempi in cui viviamo.
I nostri sono tempi che richiedono a gran voce risposte nuove; risposte che sappiano andare oltre simili, piccine contrapposizioni e si facciano invece carico di quel che sappiamo e non ci è più dato ignorare.
Dando conto, insomma, del fatto che viviamo in una società secolarizzata e retta da un paradigma scientifico incompatibile con la visione del mondo espressa da una simile concezione religiosa, ormai definitivamente tramontata.
Ci vogliono risposte adeguate alla nostra perplessità.
È questa una parola chiave nel libro di Mancuso, che nell’introdurla ci spiega addirittura la sua etimologia: “perplesso” deriva dal verbo latino “plectere”, cioè “intessere”, e sta ad indicare appunto un incrocio confuso fra la trama e l’ordito.
Questa confusione, a dire del teologo, ben riassume il nostro attuale spaesamento.
Ma è uno spaesamento che faremmo bene a coltivare, o comunque a non sottovalutare e lasciare sullo sfondo, perché dalla risposta che saremo in grado di articolare dipende la nostra capacità di ricomporre la frattura – mai evidente come oggi – fra la vita che conduciamo tutti i giorni nel mondo e quella vita spirituale che è un bisogno irrinunciabile di ogni essere umano.
Accanto a queste considerazioni, di per sé ricchissime di conseguenze e implicazioni, Mancuso riporta una serie di dati che testimoniano come nel nostro mondo, in realtà, la religione stia occupando uno spazio crescente: i fedeli sono in aumento in tutte le principali religioni del mondo, e un gran numero di paesi ha addirittura governi che si ispirano nel loro operare ai precetti religiosi.
Ma la religione, nella maggior parte dei casi, non produce più una cultura, intesa come una visione del proprio stare al mondo che sappia declinarsi in tante forme – letteratura, arte, musica – e quindi resta lettera morta, sotto molti punti di vista: insieme di precetti oppure semplice sistema normativo che ci dice cosa fare e cosa non fare, senza darci gli strumenti per capire perché.
D’altra parte, una civiltà che rinunci a ogni forma di vita spirituale si consegna a sterilità certa, non solo nella produzione di forme artistiche ma anche – e soprattutto – nel cinismo e nell’egoismo che ne derivano, permeando ogni rapporto fra le persone.
Come uscire dall’impasse?
Riappropriandosi, o meglio: reinventandosi un rapporto con il sacro, con il legame insito nella radice stessa della parola “religione”: non insieme di vincoli ma relazione viva, presente, con una dimensione trascendente capace di non dimenticarsi mai della vita, che in sé è l’espressione biologica, spirituale e culturale più sacra che ci sia.
Soprattutto, Mancuso ci sprona a non delegare mai ad una chiesa, qualunque essa sia, la nostra personale ricerca di una verità: in quell’itinerario, complesso e fortunatamente inesauribile, il laico e il religioso in qualche modo procedono in parallelo, pur avvalendosi di strumenti diversi e giungendo (quando vi giungono) a conclusioni magari diametralmente opposte, ma ugualmente degne di rispetto perché scaturite da una ricerca personale.
Questo libro, che tutto ci dice volersi proporre come l’opus magnum di Mancuso, riesce ad attingere a una quantità sterminata di fonti e disporne organicamente le testimonianze assieme alle riflessioni dell’autore, per accompagnarci passo dopo passo in un cammino di grande fascino e di assoluta attualità.
Vito Mancuso – Io e Dio 496 pag., € 18.60 – Garzanti libri
Apertura del 25° Congresso Eucaristico Nazionale
– 4 settembre 2011
Altri contributi:
Eucaristia, matrice d’unità per il Paese
“Nell’anno in cui il nostro Paese fa memoria dei suoi 150 di unificazione nazionale, è importante esplicitare la forza rigenerante dell’Eucaristia, che ha contribuito a plasmare l’identità profonda del nostro popolo ben prima della sua stessa identità politica”.
Il Card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha voluto ricordarlo ad Ancona sabato 3 settembre, aprendo il XXV Congresso Eucaristico Nazionale, nella suggestiva cornice del Teatro delle Muse, alla presenza delle autorità religiose e civili.
“L’Eucaristia, essendo il centro vitale della Chiesa, ha avuto sempre, nella vita dei centri grandi e piccoli disseminati nella nostra Penisola, una indubbia centralità”, ha aggiunto il cardinale sottolineando che di ciò “oggi si avverte ancor più il bisogno di ribadire il primato di Dio e per ritrovare insieme la strada di un bene condiviso”.
Del resto, “attorno al memoriale di Cristo è cresciuta la stessa memoria condivisa che ha reso uno il nostro Paese; e, ne siamo convinti, passa ancora da lì ogni speranza di prospettiva futura”, ha osservato mons. Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona-Osimo, che nel suo saluto ha ribadito il legame tra Eucaristia e vita sociale.
“Dal riconoscere la nostra appartenenza al Signore, dal nutrirci di Lui fino a rimanere in Lui – ha osservato ancora l’Arcivescovo – nascerà la fiducia che ci consentirà di uscire da ogni meschino cabotaggio e di tornare a prendere il largo sul mare della storia”.
Soprattutto, ha rilevato da parte sua Gian Mario Spacca, presidente della regione Marche, “in un tempo in cui le coordinate di riferimento per la comunità nazionale sembrano offuscate, in cui famiglie e lavoratori vivono quotidiane sofferenze, in cui i giovani faticano ad intravvedere l’orizzonte del proprio futuro”.
“Che questo Congresso, grande festa della fede cristiana, sia sorgente di ispirazione e di energie per un impegno di tutti nella costruzione di una società più giusta, più solidale e più fraterna”, è stato l’augurio del Legato Pontificio, card. Giovanni Battista Re.
Una sintesi della relazione principale, “Eucarestia e storia di una nazione”, affidata ad Andrea Riccardi, è disponibile sul sito www.congressoeucaristico.it insieme alla possibilità di scaricare i testi integrali.
Una storia narrata con letizia e coraggio
“Oggi, ad Ancona, si apre il XXV Congresso Eucaristico Nazionale, con la Santa Messa presieduta dal mio Legato, il Cardinale Giovanni Battista Re. Domenica prossima, a Dio piacendo, avrò la gioia di recarmi ad Ancora per la giornata culminante del Congresso. Fin da ora rivolgo il mio saluto cordiale e la mia benedizione a quanti parteciperanno a questo evento di grazia, che nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia adora e loda Cristo, sorgente di vita e di speranza per ogni uomo e per il mondo intero”.
Con queste parole il Papa, domenica 4 settembre, al termine dell’Angelus si è collegato alla celebrazione di Ancona, presieduta dal Card. Re, e concelebrata fra gli altri dal Card. Bagnasco e dall’Arcivescovo Menichelli.
Quest’ultimo, nell’introdurre la celebrazione, trasmessa da RaiUno con la regia di don Antonio Ammirati, ha invitato a leggere il Congresso come l’occasione di grazia con cui “rinnovare la fede nell’Eucaristia, rimotivare la missione della Chiesa italiana, raccontare con letizia e coraggio l’amore per Cristo Signore, percorrere la via della santità che nell’Eucaristia trae alimento e ragione, leggere l’Eucaristia come un convivere sociale dove la giustizia e la fraterna solidarietà hanno cittadinanza senza paura alcuna”.
Testo integrale dell’omelia (sezione “Relazioni e interventi”), foto e approfondimenti sul sito www.congressoeucaristico.it
Da lunedì 5, ogni giorno dalle 9.30, sempre sul sito ufficiale del Cen, la diretta dalle città della Metropolia di Ancona, dove – dopo la preghiera e la lectio, qualificati relatori affrontano le tematiche del Congresso: gli ambiti della vita quotidiana alla luce dell’Eucaristia.
Eucaristia, sinfonia di vita
Il Vangelo nel cuore della vita
Per una vita buona, per una vita riuscita
“I cristiani hanno una parola per la città”
|
» Omelia del S.Em. Card. Angelo Bagnasco [.doc] [.mp3]
“È possibile vivere il Vangelo?”.
Chi come me ha una certa età, avendo ormai attraversato le varie stagioni della vita ed essendo approdato all’ultima, riconosce che questa domanda ha ricevuto e continua a ricevere risposte diverse.
C’è stata una stagione, che per la mia generazione è coincisa con la giovinezza, in cui le attese, le speranze, le forti convinzioni tipiche del tempo in cui i giovani si affacciano alla vita e vi entrano, erano convergenti con le speranze della chiesa e del mondo. Erano gli anni del disgelo tra l’occidente e l’oriente comunista, gli anni in cui si riprendeva un dialogo interrotto da tempo, e la primavera sembrava essere la metafora più appropriata per definire quell’epoca in cui molte realtà sembravano germogliare e alcune sbocciare. Questo avveniva anche nella chiesa: un papa che appariva innanzitutto come un cristiano; un concilio da lui voluto in cui ci si ascoltava, ci si confrontava anche aspramente ma con la passione della fedeltà al Signore; un dibattito tra singoli cristiani e tra comunità cristiane che avvertivano nel loro quotidiano il bisogno di mutamento, di rinnovamento, potremmo anche dire di conversione. Si respirava nell’aria una novità che non era l’arrivo di una “moda”, ma era un ritorno al Vangelo, alla forma vitae della chiesa primitiva.
Per questo si parlava, con molto timore, anche di aggiornamento, qualcuno ardiva persino parlare di riforma della vita della chiesa. Per i cristiani con una certa consapevolezza era il Vangelo che
diventava una presenza dinamica, un riferimento, un principio che veniva invocato come un’urgenza, una realtà da viversi concretamente e, oserei dire, visibilmente: questo non per “un’ostensione davanti agli uomini” ma per verificare che il Vangelo ispirava veramente la vita di molti cristiani ed era assunto dalla chiesa come presenza egemone. In questo cammino si coniavano parole ed espressioni nuove: ritorno alle fonti, riscoperta della chiesa dei padri, ispirazione alla comunità apostolica, autorevolezza della chiesa indivisa…
Qualcuno oggi, analizzando quella stagione, conclude che nella chiesa si era instaurato un mito – il mito di un’età dell’oro, il mito delle origini – e che questo era dovuto soprattutto a Erasmo da Rotterdam, il quale agli inizi del XVI secolo plasmò un certo vocabolario e una certa filosofia della riforma ecclesiale. In verità chi conosce più in profondità la storia della chiesa sa che nella vicenda stessa del cristianesimo è insita questa nostalgia degli inizi. Anzi, potremmo dire che già nell’Antico Testamento i profeti, a partire da Osea, ricordavano al popolo del Signore il bisogno di ritornare ai tempi del fidanzamento, ai tempi del deserto, contrassegnati dalla fedeltà e dall’amore (cf. Os 2,16- 25): quell’amore che sa cantare la convinzione forte e la grande speranza in cui sembra non apparire la stanchezza e non esserci posto per la frustrazione, la delusione, il misurare la propria debolezza.
Quando, di fronte alla chiesa costantiniana sorta nel IV secolo, avvenne la protesta del monachesimo e la sua fuga nel deserto, i padri monastici chiesero di tornare alla koinonía, alla comunità descritta da Luca nei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli (cf. At 2,42-47; 4,32- 35). Ritorno alle fonti, quindi. In seguito ogni tradizione attingerà sempre a quella forma della chiesa primitiva: questo avverrà per i vari tentativi di riforma, da quello di Cluny a quello di Bernardo di Clairvaux, ai movimenti mendicanti e anche a quelli ereticali, tutti tesi a riprendere la prassi di chi “nudo segue il Cristo nudo”.
Mito della riforma? O non piuttosto capacità del Vangelo di essere un fuoco che continua a covare sotto la cenere, che resta brace incandescente la quale può sempre dare origine a un roveto ardente?
“Il Vangelo è dýnamis, potenza di Dio” (Rm 1,16), dice l’apostolo Paolo! Può essere smentito, fatto tacere, reso inefficace, può essere addirittura contraddetto e pervertito, e allora sembra restare inerte sotto la cenere. Ma poi riprende ad ardere, perché è un fuoco che subito rinasce non appena un cristiano getta sulla cenere qualche sterpo del suo vivere, alla ricerca della luce e della presenza divina. Non si può far tacere per sempre il Vangelo: per qualche tempo sì, e la storia della chiesa lo testimonia; ma poi basta che un uomo o una donna, alla ricerca di luce vera e di fuoco che consumi, abbia il coraggio di scostare un po’ di cenere e di gettarvi sopra una bracciata di legna secca, che subito il fuoco e la luce si fanno nuovamente vedere.
Ormai vecchio, vicino alla morte, un grande spirituale italiano confidò a me e a un mio fratello: “Me ne vado dopo aver combattuto per riformare la chiesa, ma ora sono convinto che la chiesa sia irriformabile”. Quelle parole mi stupirono, mi fecero male, ma non nego che ora a volte sono tentato di condividerle. Siamo capaci di dare alla chiesa un volto nuovo, più fedele e conforme al volto di Cristo, oppure questa è solo una speranza, e la sposa di Cristo sarà tale solo quando verrà lo Sposo? Mi ostino a credere che alla brace del Vangelo basti il soffio dello Spirito per riprendere adardere, riscaldando i nostri cuori e illuminando l’umanità intera. Sì, il Vangelo si può ancora vivere in ogni stagione.
in “Jesus” n. 9 del settembre 2011
intervista a Alfred Grosser, a cura di Jérôme Anciberro
Politologo, specialista delle relazioni internazionali e commentatore dell’attualità politica francese e tedesca, Alfred Grosser è stato una delle colonne del riavvicinamento franco-tedesco fin dagli anni cinquanta. Questo osservatore è anche conosciuto negli ambienti cristiani per il suo sguardo insieme critico e amichevole di ateo sul mondo della fede.
Lei non è né tedesco né cattolico, eppure spesso capita che la prendano per l’uno o per l’altro. Come vive questo paradosso?
È un paradosso reale. Ma anche se non faccio parte né della comunità tedesca, né di quella cattolica, mi sento partecipe della vita, delle speranze e delle delusioni degli uni e degli altri. Se parlo con un uomo politico tedesco appartenente ad una generazione un po’ anziana, lui dimentica in capo a cinque minuti che non sono tedesco. Abbiamo gli stessi punti di riferimento. Succede la stessa cosa quando discuto con un prete cattolico. Parlo la lingua della “tribù”, sono al corrente di quello che succede nella Chiesa. Insomma, ho tutti i segni esteriori di un buon parrocchiano. Mi è del resto capitato di dover far rettificare degli articoli che mi definivano tale.
Si può capire che la prendano per un tedesco, perché è nato tedesco e, come formazione, è germanista. Ma come mai succede così per il cattolicesimo?
La mia famiglia è ebrea e io personalmente sono ateo: ateo e non agnostico. Quest’ultima parola mi sembra che abbia a che fare con la civetteria o con il politicamente corretto. Un po’ come si diceva “israelita” per non dire “ebreo”. Ma io non credo in Dio, credo in moltissime cose… La mia conoscenza del cattolicesimo si è costruita attraverso delle letture, la mia attività di “compagno di strada” dell’Azione cattolica delle gioventù francese (ACJF), la mia collaborazione a La Croix dal 1955, le mie amicizie, ad esempio con il padre gesuita François Varillon. E quando mia moglie, cattolica per nascita, ha veramente iniziato una vita di fede negli anni settanta, anch’io ho seguito gli insegnamenti da lei ricevuti al Centre Sèvres, la facoltà dei gesuiti di Parigi. Si potrebbe dire che sono stato “ingesuitato”…
Ma che cosa le dà la frequentazione dei cattolici?
Mi permette di parlare con delle persone che hanno una linea di vita, dei principi con i quali tentano di essere coerenti, anche se questo talvolta lascia a desiderare e anche se non sempre sono d’accordo. Ma, soprattutto, i cristiani pensano, riflettono e questo fa sempre bene. Del resto, anche se il cattolicesimo francese vive oggi una crisi istituzionale profonda, in particolare per il crollo del numero di praticanti e di vocazioni, rimane un luogo di grande vitalità intellettuale.
Certi critici affermano al contrario che questa vitalità intellettuale del cattolicesimo francese sia in declino da qualche decennio.
Penso sinceramente che questo giudizio sia sbagliato, ma forse ho cattive frequentazioni… Siamo seri: ci sono degli ambiti oggi in cui certi intellettuali cattolici non possono non essere presi in considerazione. Si può forse parlare seriamente di bioetica ignorando gli studi di Olivier de Dinechin? Capire i fondamenti teologici dell’opera di Bach senza gli studi del gesuita Philippe Charnu e di Christophe Theobold? L’intelligenza cattolica è lì! Quello che si potrebbe forse rimproverare al cattolicesimo francese e che contribuisce alla sua relativa scomparsa dal dibattito pubblico, è una tendenza esagerata alla sottomissione. All’esterno, la Chiesa – più dei laici – è spesso discreta, quando fa riferimento alla laicità che le dà il diritto di intervenire sulla scena pubblica. All’interno, si assiste ad episodi sorprendenti. L’atteggiamento di sottomissione di Mons. Ricard nel 2009 quando Roma gli ha imposto, nella sua diocesi, la costituzione dell’Istituto tradizionalista del Buon Pastore ne è una illustrazione evidente. Ma si tratta di un esempio in più della tendenza cattolica ad accettare tutto, quando si tratta di cose che vengono dalla parte identitaria e conservatrice.
Qui le rimprovereranno di occuparsi di cose che non la riguardano, dato che lei non fa veramente parte della famiglia.
Non vedo perché questo mi impedirebbe di analizzare i fatti. Ma è vero che se facilmente reagisco sul cattolicesimo, è perché mi sento coinvolto. Forse perché sono anch’io ferito quando vedo come le persone vicine a me, i miei amici cattolici vengono trattati. Indipendentemente dal fatto che la cosa venga dall’esterno o dall’interno. Sono il primo ad essere impressionato dagli attacchi, in particolare mediatici, che subisce la Chiesa, attacchi che sono nella maggior parte dei casi di una stupidità incredibile. Ma prendiamo un altro esempio, interno questa volta, quello dei preti- operai, alcuni dei quali erano miei amici. Quelle persone sono andate da altre persone, a cui hanno detto che il loro impegno nella vita operaia era definitivo, che non erano andati lì solo a fare una visitina.
E tutt’a un tratto, la gerarchia chiede loro di interrompere tutto. Ci si può immaginare facilmente la sensazione di confusione e la perdita di credibilità. È un po’ quello che è successo in Algeria con gli ufficiali francesi che avevano promesso a certe popolazioni che le avrebbero protette qualunque cosa fosse successa e a cui è stato improvvisamente chiesto di lasciar perdere.
Il confronto è per lo meno originale…
Forse, ma è proprio osando fare confronti che si capiscono meglio le cose. All’inizio può irritare, ma è estremamente stimolante. Ho scioccato molti intitolando un capitolo di uno dei miei libri “Auschwitz par comparaison” (1). Contrariamente a ciò che pretendono certe persone, il confronto non porta all’assimilazione di ciò che si mette a confronto, al relativismo o all’indifferenza, permette semplicemente di avanzare nella comprensione, di cogliere meglio certi punti di vista, anche, certamente, arrivando a mantenere alla fine il proprio. Prendiamo un altro esempio, quello del terrorismo in Medio Oriente. È sempre interessante ricordare a degli israeliani che anche loro sono ricorsi al terrorismo in una certa epoca. Questo non giustifica nulla, e soprattutto non il terrorismo di certi gruppi armati palestinesi, ma se mi si risponde che questo “non ha niente a che vedere”, allora non chiedo altro che di poter discutere per essere convinto. Ma a discutere davvero, con argomenti, spiegazioni, discorsi razionali.
Che cosa pensa dei dibattiti mediatici sull’identità francese che hanno fatto molto discutere?
Se faccio astrazione dai calcoli politici del momento, faccio molta fatica a capire questi dibattiti.
Abbiamo tutti molteplici appartenenze, nazionali o meno. Io sono un francese ben integrato, il che non impedisce affatto il mantenimento e anzi lo sviluppo della mia cultura tedesca. Non vedo perché non dovrebbe essere così per altra gente proveniente da altri paesi e che possiede altre culture. Certo, io ho avuto un trattamento privilegiato. Quando sono arrivato in Francia all’età di nove anni senza sapere una parola di francese, eravamo solo due stranieri nella mia classe. Le maestre si sono occupate di me in maniera particolare e un anno dopo ho avuto il primo premio in francese. L’essenziale è mantenere una distanza critica rispetto a tutte le nostre appartenenze. È perché sono francese che mi sono opposto agli orrori della guerra d’Algeria, è perché la mia famiglia era ebrea che critico Israele più di ogni altro paese. Trovo del resto che certi cristiani ci guadagnerebbero molto adottando questa distanza critica, non tanto verso la loro fede, quanto verso le credenze che essa sembra implicare.
Quali sono i punti di dottrina cristiana o cattolica che le appaiono più estranei, a lei come ateo?
Ce ne sono moltissimi… Il problema della salvezza, ad esempio. Ho l’impressione che il cristiano abbia bisogno di essere salvato almeno quattro volte: c’è stata la prima alleanza con Abramo, la seconda con Gesù, poi il battesimo, e ancora non è finita. Faccio molta fatica anche a comprendere certe forme di devozione mariana. Un esempio: perché, nelle sue “apparizioni” Maria appare come una ragazza giovane e mai come una vecchia ebrea? Più seriamente, se posso dire: ci raccontano anche – sarebbe il famoso terzo segreto di Fatima – che la Vergine avrebbe modificato il percorso della pallottola che doveva colpire Giovanni Paolo II nell’attentato di cui quest’ultimo è stato vittima. Benissimo. Ma perché non ha fatto niente per i sei milioni di ebrei morti durante la Shoah?
E in materia di morale, lei che rivendica volentieri il ruolo di moralista?
Qui sono combattuto. Sono contento di vedere che, in generale, le mie convinzioni morali e quelle della Chiesa sono vicine, in particolare per quanto riguarda l’etica sociale. E non sono io ad essere cambiato! Il Dio che punisce, che vedica, che uccide il nemico, anche cristiano, ha lasciato posto al Dio che si è fatto uomo sofferente. Molti valori evangelici, cristiani, sono stati reinventati contro le Chiese nei secoli XVI, XVIII e XIX.
Ci sono comunque dei punti che restano secondo lei problematici nel discorso morale tenuto dalla Chiesa?
Penso ad esempio alla pena di morte. Certo, ci sono dichiarazioni che vanno nel senso della condanna, ma il discorso ufficiale a questo riguardo resta troppo astruso e, stranamente, molto meno vigoroso della condanna dell’aborto… Per quanto riguarda ciò che attiene alla morale sessuale e familiare, non riesco proprio a capire che dei preti che, per definizione, non hanno mai avuto figli e non hanno mai vissuto in coppia, diano lezioni di vita familiare. Soprattutto se sono cardinali di curia e non hanno mai veramente esercitato come semplici preti di parrocchia.
(1) Dans le crime et la mémoire, Flammarion, 1989.
in “Témoignage chrétien” n° 3456 del 1° settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Mostra per il decennale del Museo dei Cappuccini di Milano
Per i suoi dieci anni di attività, il Museo dei Cappuccini di Milano, racconta l’arte dal punto di vista dei frati. E lo farà nella mostra La fede nell’arte: luoghi e pittori dei frati cappuccini che sarà inaugurata il prossimo 16 ottobre e si protrarrà fino al 19 febbraio. Con la direzione artistica della direttrice del Museo, Rosa Giorgi, saranno esposte le opere di diversi artisti appartenuti all’Ordine o molto vicini ad esso, tra cui Bernardo Strozzi, Fra Semplice da Verona, Paolo Piazza, Fra Stefano da Carpi, Fra Giovanni Francesco Gamberoni, Fra Camillo Kaiser. Per l’occasione saranno coinvolti i Musei dei Beni Culturali dell’Ordine di Genova e di Reggio Emilia, la Quadreria di Trento, la Quadreria di Voltaggio, il Museo francescano dell’Istituto Storico di Roma e la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Alla mostra sarà esposta anche la statua raffigurante san Francesco, opera in marmo bianco di Candoglia risalente al quindicesimo secolo e proveniente da un pilone votivo del Duomo di Milano. Insomma frati cappuccini e pittori, un connubio che non è noto a molti, ma che in realtà cela una magnifica tradizione che vede protagonisti uomini con un grande spirito di fede e una profonda passione e talento artistico. A corredare la mostra saranno organizzati numerosi eventi collaterali, cicli di conferenze, attività didattiche per grandi e piccini. L’ingresso è libero.
XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO |
Lectio – Anno A
Prima lettura: Siracide 27,30-28,7
Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore? Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati? Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati? Ricordati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.
|
v È un brano di un sapiente che vuole trasmettere il suo ideale tradizionale di vita religiosa ad una comunità ebraica, che, sempre più affascinata dalla cultura greca, incominciava a secolarizzarsi.
Qui il sapiente insegna una legge fondamentale perché la famiglia e la comunità continui a rimanere in piedi: il perdono: «Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?» (v. 4). E tutto il testo è un alternarsi di presentazione del rancore e della vendetta, del perdono e della misericordia. Sono disapprovati il rancore e la vendetta, e lodati il perdono e la misericordia.
Il Signore tiene sempre presenti i peccati di colui che si vendica. Il motivo finale per aprirsi al perdono e alla misericordia è un evento divino: la sua alleanza. Il perdono gratuito ricevuto porta ad osservare i precetti del Signore, in particolare quello della riconciliazione con il fratello (vv. 8-9).
Seconda lettura: Romani 14,7-9
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
|
v Nella comunità dei credenti sono presenti due categorie di persone: i deboli e i forti. I deboli sono quelli rimasti attaccati alle antiche osservanze e tradizioni religiose giudaiche nelle quali erano stati educati, i forti invece sono coloro che giudicano male costoro, basandosi sulla libertà data dal vangelo. Ora Paolo dà le ragioni per cui egli — paladino della libertà evangelica — non vuole che questa diventi fonte di superiorità sugli altri. La ragione profonda dell’esistenza non si trova nell’uomo, ma nel Signore Gesù Cristo, per il quale viviamo, moriamo e agiamo.
Tutto deve quindi essere orientato verso Dio. La nostra vita e la nostra morte non hanno valore in sé, ma in quanto indirizzate a un fine più alto. Soprattutto dopo la morte e risurrezione di Cristo. Il cristiano appartiene a lui, non solo perché è stato in lui creato, ma anche perché è stato da lui conquistato e riscattato mediante la croce.
Perciò colui che vive non dovrà più vivere per se stesso, ma per colui che è morto e risorto per lui (cf. 2Cor 5.14-15).
Vangelo: Matteo 18,21-35
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». |
Immagini sul Vangelo
Esegesi
La lettura parla del perdono reciproco, come elemento necessario per appartenere al regno di Dio. Innanzitutto vi troviamo l’interrogazione di Pietro: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (v. 21). Gesù aveva parlato poco prima di riguadagnare il fratello (v. 15). Questo avviene non solo quando la comunità offesa perdona al fratello, ma anche quando colui che è stato personalmente offeso perdona.
Pietro aveva capito che la volontà di Dio e quella di Gesù è un messaggio di perdono. Ma quali sono i limiti? I maestri del tempo giungevano fino a tre volte. Gesù è più misericordioso, e giunge a «settanta volte sette». Questo è contrario al tipico desiderio di vendetta di cui l’antico Lamech fu protagonista: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settanta volte». La misericordia di Dio supera infinitamente ogni desiderio di vendetta.
Per imprimere nel cuore degli ascoltatori questa volontà di perdono Gesù racconta una parabola in tre atti. Il primo atto vede un ministro, che ha un debito sproporzionato con il suo padrone o re: un talento valeva 35 chili d’oro, e il servitore ne doveva diecimila al suo padrone! Questi, però, gli perdona tutto, mosso da compassione. Dio infatti è «ricco di grazia e di misericordia… lento all’ira e grande nel perdono». Dio perdona sempre.
Il secondo atto mostra invece che il perdonato non sa perdonare un piccolo debito e non s’accorge nemmeno di essere stato supplicato con gli stessi suoi gesti. Il terzo atto: di fronte al cuore indurito, il re (Dio) si accende d’ira e fa giustizia. Si noti che non è il nostro perdonare che ci merita il perdono, ma la misericordia ricevuta ci apre il cuore a donare il perdono.
Meditazione
La richiesta di perdono a Dio è credibile se accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno: questa l’unità tra prima lettura e vangelo. Unità che possiamo ribadire con le parole del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). E ancora: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Anche la liturgia giudaica afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello” (Mishnà, Yomà 8,9).
Pietro interroga Gesù sulla misura del perdono nei confronti dell’offesa personale (“se mio fratello pecca contro di me”: Mt 78,27), un’offesa a cui non segue il pentimento né la richiesta di perdono da parte dell’offensore. Nel testo parallelo di Luca si dice invece: “Se tuo fratello peccherà sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà da te dicendo: “Mi pento”, tu gli perdonerai” (Lc17,4). In Matteo il perdono è incondizionato, non preparato da alcuna dichiarazione di pentimento. Questo perdono è possibile quando chi è chiamato a perdonare si ricorda del perdono immenso, incommensurabile che ha già ricevuto lui stesso in Cristo. In altre parole: ciascun cristiano si trova, nei confronti del proprio fratello, nella stessa situazione del servo a cui è stato condonato il debito inestinguibile.
Che venga condonato il debito immenso (cfr. Mt 18,27) significa che il perdono non può limitarsi a perdonare ciò che è scusabile, “i peccati veniali”, ma che esso è tale quando perdona ciò che potrebbe sembrare imperdonabile. Perdonare l’imperdonabile: anche questo sta all’interno della misura del perdono cristiano.
Nella parabola evangelica (cfr. Mt 18,23-35) il servo spietato unisce nel suo comportamento cattiveria e stupidità. Che forse è la trascrizione in termini quotidiani della distinzione teologica tra peccati deliberati e peccati per ignoranza. Non è forse anche stupido il servo che, dopo essersi visto condonare un debito immenso, si mostra senza pietà nei confronti dell’uomo che gli doveva una cifra infinitamente inferiore? Spesso il peccato è il frutto della congiunzione di cattiveria e stupidità, di malvagità e ignoranza. O anche: spesso il peccatore, tanto è pericoloso, tanto è ridicolo.
La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nell’unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con l’offensore con un atto di totale gratuità e accetta di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdano nel Cristo crocifisso: “Il Giusto, del quale a Pasqua si celebra la resurrezione, è colui che, asimmetricamente, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a chi non lo domanda” (Francis Jacques).
Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi misconosce il perdono. È vittoria del bene sul male, è perdono del rifiuto del perdono, è evento pasquale.
Un aspetto non secondario della parabola matteana è la tristezza, il dolore dei compagni di servitù di fronte all’agire malvagio del servo che non ha pietà di colui che gli deve cento denari (v. 31). Lì non c’è spazio per il linguaggio del perdono, ma solo per lo sdegno e l’indignazione, per la ribellione di fronte all’ingiustizia che diviene coraggio della denuncia.
Vi è una giustizia del perdono che interviene quando il rapporto da bilaterale si apre a un terzo, come nel caso della parabola. Che il perdonato non perdoni a sua volta è un’ingiustizia che suscita la collera (v. 34), non la misericordia (v. 27). Se posso perdonare infinite volte il peccato contro di me, non ho l’autorità di perdonare il male che un altro fa a un terzo.
Preghiere e racconti
Voi direte: E l’offesa, l’offesa che richiede il perdono? Certo esiste, ma il perdono è una cosa troppo grande per tirarlo indebitamente in ballo nel caso di tensioni legittime e tutto sommato benefiche.
Esiste quando appare quella realtà spaventosa e molto diffusa che è l’intolleranza, la quale genera la collera, il rancore e, anzitutto, il disprezzo degli altri. Esiste quando, invece di procedere insieme verso la verità delle nostre relazioni umane, anche a costo di rivedere continuamente le nostre idee, approfittando avidamente della luce proposta da altri, noi pretendiamo – a volte contro l’evidenza – di avere sempre ragione… Come perdonare allora? O come farsi perdonare? La risposta non è sempre facile. Ma una cosa è certa: che si offenda o si sia offesi, bisogna porsi, anzitutto, davanti a Dio. Che abbiamo fatto realmente del male a un’altra persona o che sia essa ad averci fatto del male…, spinti da quest’amore che ci libera dal male, sapremo preparare almeno le parole e i gesti che riconciliano.
(A.M. Carré, Per amore del tuo amore, Dio e gli altri)
Quando la Roccia (Pietro) Ti ha chiesto
quante volte doveva perdonare al suo fratello,
Tu non hai detto: “Sette volte”,
ma “quattrocentonovanta volte”!
In questo numero sono contenuti gli anni della nostra vita terrena,
dei sette periodi della nostra vita effimera:
per tutto il tempo che siamo in questo corpo
bisogna perdonare a chi si pente.
E, pur essendo stato l’ultimo
a non perdonare al debitore,
a causa della natura inferma della mia anima,
e ad essere imperfetto nel bene,
si realizzi in me, grazie a Te,
la parola del tuo comandamento, che mi è stato imposto;
voglia Tu perdonare le mie colpe, debiti verso di Te,
che sono più numerose della sabbia del mare.
La legge delle Settanta volte,
non sia solo a mia misura, a misura di me povero,
ma ancor più si rafforzi la tua legge,
secondo la tua misericordia che non si conta.
(Narsete Shnorhali, Gesù, Figlio unigenito del Padre)
Abele e Caino si incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero il fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra, e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: «Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più. Stiamo qui insieme come prima». «Ora so che mi hai perdonato davvero, disse Caino, perché dimenticare è perdonare». Abele disse lentamente: «È così, finché dura il rimorso dura la colpa».
(Jorge L. Borges)
A volte si giunge a dei testi come il seguente tratto dalla Catechesi 18 di Simeone il Nuovo Teologo:
«Se vivi in comunità in mezzo ai fratelli, non opporti mai al padre che ti ha dato la tonsura, anche se lo vedi abbandonarsi alla lussuria o all’ubriachezza e se ti sembra che sovrintenda malamente al monastero, se sei percosso o disprezzato da lui e sei sottoposto a molte afflizioni. Non unirti a coloro che lo insultano, non andare con quelli che tramano contro di lui.
Sopportalo fino alla fine, senza impicciarti nelle sue malefatte. Conserva nel tuo cuore tutto il bene che gli vedi fare e sforzati di ricordare solo questo; tutte le cose sconvenienti e cattive che gli vedi fare e dire, imputale a te stesso, considerale come tuoi peccati e pentiti fra le lacrime; ritieni quello un santo e chiedigli di pregare per te».
(SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi 18, 132-145, in SYMÉON LE NOUVEAU THÉOLOGIEN, Catéchèses II, intr. e testo critico a cura di Basil Krivochéine, trad. it. di Joseph Paramelle, SC 104, Editions du Cerf, Paris 1964, p. 277).
Un monaco si era seduto a meditare sulla riva di un ruscello. Quando aprì gli occhi, vide uno scorpione che era caduto nell’acqua e lottava disperatamente per stare a galla e sopravvivere. Pieno di compassione, il monaco immerse la mano nell’acqua, afferrò lo scorpione e lo posò in salvo sulla riva. L’insetto per ricompensa si rivoltò di scatto e lo punse provocandogli un forte dolore. Il monaco tornò a meditare, ma quando riaprì gli occhi, vide che lo scorpione era di nuovo caduto in acqua e si dibatteva con tutte le sue forze. Per la seconda volta lo salvò e anche questa volta lo scorpione punse il suo salvatore fino a farlo urlare per il dolore. La stessa cosa accadde una terza volta. E il monaco aveva le lacrime agli occhi per il tormento provocato dalle crudeli punture alla mano. Un contadino che aveva assistito alla scena esclamò: «Perché ti ostini ad aiutare quella miserabile creatura che invece di ringraziarti ti fa solo male?». «Perché seguiamo entrambi la nostra natura» rispose il monaco. «Lo scorpione è fatto per pungere e io sono fatto per essere misericordioso».
Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto. In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.
Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato. Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina. Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare. Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro. Si rammaricò. Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.
Raccontando le tre parabole della misericordia, Gesù intende mostrare che la sua accoglienza dei peccatori non è soltanto conforme alla volontà di Dio, ma è la rivelazione del volto di Dio. Il comportamento di Gesù è rivelazione, non solo obbedienza. Con la sua accoglienza Gesù rivela chi è Dio: ama i peccatori, li attende, li cerca e gioisce del loro ritorno. Di più. L’accoglienza dei peccatori da parte di Gesù non soltanto è la trasparenza del perdono di Dio, ma è la trasparenza della gioia del perdono di Dio. Dio gioisce nel perdono. Il tratto sottolineato in tutte e tre le parabole è proprio la gioia di Dio.
E vero che si parla anche di conversione del peccatore, ma l’attenzione si concentra sulla gioia di Dio per la conversione del peccatore. Nulla o quasi sulle azioni del peccatore che si converte. Si racconta ciò che prova Dio, non ciò che il peccatore deve fare. La conversione del peccatore è vista dalla parte di Dio. Si racconta ciò che Dio fa (cerca e gioisce), non anzitutto le modalità della conversione dell’uomo. La domanda teologica (come si comporta Dio?) viene prima della domanda morale (che cosa deve fare l’uomo per ritornare a Dio?). La gratuità del perdono non poteva essere illustrata meglio. La simpatia di Dio e il suo amore per il peccatore, precedono la conversione del peccatore. Dio ama il peccatore già prima, non solo dopo che si è convertito. E proprio questo amore previo, del tutto gratuito, che tocca il cuore del peccatore e lo converte. Ci si converte perché amati. Ci si converte perché perdonati.
Il pastore va in cerca della pecore smarrita – l’iniziativa della ricerca è soltanto sua – perché questa pecora continua ad essere preziosa ai suoi occhi. E il padre non cessa di amare il figlio che si è allontanato e continua ad attenderlo. Quando lo vede da lontano, gli corre incontro e lo abbraccia. Il figlio non ha ancora detto le parole che ha pensato da dire al padre, che immagina irato. E anche quando il figlio dice le parole che chiedono perdono, è come se al padre queste parole non importassero. La sua fretta è di accogliere, gioire, far festa. Le parole del figlio sembrano completamente sullo sfondo, quasi inutili.
E questo il vero volto di Dio, il volto di un padre e basta, che Gesù ha inteso rivelare con la sua incondizionata accoglienza dei peccatori.
Ma non possiamo fermarci qui. Lo stesso vangelo ci dice che il perdono ricevuto da Dio deve diventare un perdono che si prolunga ai fratelli: un perdono gratuito come quello di Dio, gioioso come quello di Dio. Il come è importante e difatti nella gioia di perdonare i fratelli l’uomo sperimenta la gioia del perdono ricevuto da Dio.
Certamente il perdono ai fratelli non è la ragione, la condizione e la misura del perdono di Dio. Tuttavia il legame è stretto e decisivo: il perdono ai fratelli è infatti il segno che si è davvero capito il perdono di Dio e lo si è veramente accolto.
Nella parabola di Matteo 18,21-35 questo è affermato con chiarezza. Il servo, così generosamente perdonato dal suo padrone, incontra un collega che gli deve pochi denari. Questi lo supplica, gli chiede un rinvio, ma il servo prima perdonato non vuole sentire ragioni, non si muove a compassione, esige il pagamento subito fino all’ultimo. Come è possibile, dopo aver ricevuto un tale condono, non essere capaci, a propria volta, di un piccolo condono? È inconcepibile! Evidentemente il servo perdonato non ha compreso la fortuna che gli è capitata. Il perdono ricevuto non lo ha rigenerato, ne l’incontro con la gratuità di Dio gli ha allargato lo spirito. Non ha capito che accettare di essere perdonati significa entrare in un modo nuovo di rapportarsi, nel quale i criteri dello stretto dovuto non sono più sufficienti.
Ma anche qui c’è una novità da non perdere: persino il perdono di Dio – e in generale il suo giudizio – è anche nelle nostre mani. Dio prende molto sul serio la nostra libertà. La gratuità del suo amore non è mai – ne potrebbe essere – senza la risposta della nostra libertà. La sorprendente novità evangelica è che la risposta al perdono di Dio sia il nostro perdono ai fratelli, non anzitutto qualcosa per Lui!
Ci si permetta di insistere. Matteo (5,44) e Luca (6,27-35) collocano l’imperativo del perdono ai nemici in un discorso in cui intendono sottolineare la differenza (la vera differenza) fra il cristiano e il mondo. L’amore al nemico, infatti, evidenzia – come non accade in nessuna altra forma di amore – le due note profonde di ogni autentico amore evangelico. Anzitutto la tensione all’universalità: nell’amore al nemico la figura del «vicino» si dilata sino a rinchiudere anche il «più lontano»: chi è più lontano del nostro nemico? E poi la nota della gratuità, che è l’anima di ogni vero amore.
Siamo convinti di dire cose sorprendentemente paradossali. Ma si tratta del Vangelo. E poi, se si guardano le cose più attentamente, si può anche intuire che il perdono è paradossale, ma anche necessario per la convivenza, a ogni livello: nelle relazioni familiari, nelle relazioni amicali, nella società. Addirittura nelle relazioni fra i popoli.
Senza un minimo di riconciliazione il mondo non sta in piedi. Un vecchio rabbino soleva dire che quando Dio creò il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi. Poi creò il perdono, e il mondo stette in piedi.
Editoriale, in «Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 2, 83-85.
San Francesco d’Assisi, in una commovente lettera ad un ministro/ superiore, dava le seguenti istruzioni circa eventuali debolezze personali dei suoi frati: «E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di tali fratelli»
(Francesco d’Assisi, Lettera a un Ministro, 7-10).
Perdonami, Signore Gesù: ancora oggi ho avuto paura del rifiuto e dello scherno. Non
ce l’ho fatta a seguirti nella tua strada e sono sceso a patti con i criteri che, in questo mondo, fanno stare dalla parte dei vincenti.
Tu hai scelto l’amore e sei stato deriso, non creduto, infine ucciso. Mai hai smesso di amare e di dimostrare amore: quello che dicevi, lo mettevi in pratica. Sei stato uno sconfitto per le cronache mandane; ma nel silenzio di un’aurora di primavera, sei risorto da morte. L’amore, ci hai detto, è l’unica salvezza, e credere in te sconfigge ogni sopruso, ogni tirannico egoismo.
Perdonami, Signore Gesù, quando solo a parole dico la mia fede, quando mi rifugio nel nascondiglio del ‘così fan tutti’ invece di gustare gli spazi aperti delle tue vie, lungo le quali si sperimenta la gioia di dare la vita per i fratelli.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5, 42 pp.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
È la fine di una grande storia?
Ottimi affari, negli ultimi anni ma ancor più nei prossimi, per gli agenti immobiliari romani che trattano «grandi edifici di pregio». Dopo il Concordato — e poi, con ritmo accelerato, nel secondo dopoguerra — congregazioni e istituti cattolici del mondo intero hanno costruito a Roma le loro Case generalizie. Alcuni hanno eretto qui anche i loro noviziati e seminari. Spesso non si è badato a spese, soprattutto nell’ampiezza dell’area acquistata, sistemata a parco per proteggere tranquillità e privacy dei religiosi. I progettisti erano in gran parte del Paese d’origine dell’Istituto, così che Roma ha finito per ospitare una collezione di architettura mondiale (nel meglio e nel peggio), anche se quasi sempre invisibile dietro cancelli, mura, alberi. Ebbene, non solo la secolarizzazione, ma anche le prospettive dopo il Vaticano II, stanno realizzando silenziosamente quanto fecero con la violenza i francesi del giovane Bonaparte, allorché occuparono Roma e deportarono il Papa; e poi i Piemontesi, quando lo costrinsero a imprigionarsi non a Parigi ma nel recinto vaticano. In entrambi i casi, tra le prime mosse degli invasori ci fu lo sfratto violento di frati, monaci e monache la messa sul mercato del loro grande patrimonio immobiliare. Patrimonio che, poi, fu ricostituito, anzi moltiplicato sino a quando, raggiunto il vertice alla metà degli anni Sessanta, ha cominciato un imprevisto declino.
Molto si è parlato e si parla del rarefarsi delle vocazioni alla vita sacerdotale, pensando però, soprattutto, al clero secolare, quello delle diocesi, delle parrocchie. Ma forse meno si è detto, almeno nel mondo laico, dell’inarrestabile declino numerico delle innumerevoli congregazioni di religiosi e, in modo ancor più accentuato, di religiose. Tra Ottocento e primo Novecento sono sorte centinaia di famiglie di suore di «vita attiva», che hanno svolto preziosi compiti sociali, spesso con un impegno ammirevole e talvolta eroico. Ma ora quei compiti sono gestiti (spesso a costi ben maggiori e con efficacia ben minore: ma questo è un altro discorso…) da enti pubblici, oppure quei bisogni sono stati eliminati dai tempi mutati. La giovane che abbia oggi — ad esempio — la vocazione al servizio dei malati come infermiera, o dei bambini come maestra, pensa a un contratto ospedaliero o statale e non, come un tempo, a un noviziato di Sorelle. Anche le Congregazioni maschili hanno sentito duramente la sparizione dei compiti per i quali erano stati fondati. Ma sia tra gli uomini che tra le donne ha agito anche lo spirito conciliare, con la riscoperta del «sacerdozio universale» con la conseguente rivalutazione del laicato, dunque con la consapevolezza che per essere cristiani sino in fondo la vita religiosa non è la via obbligata.
Di fronte al declino, i Superiori hanno spesso reagito nel modo contrario a quanto suggerivano esperienza e sensus fidei: nelle molte crisi della sua storia, sempre la Chiesa ha affrontato la sfida scegliendo il rigore, non l’allentamento delle briglie. Non avvenne così quando la Riforma protestante svuotò metà dei conventi d’Europa o nel XIX secolo, dopo la bufera rivoluzionaria? Nel dopo Vaticano II, invece, la riscrittura di Regole e Statuti per addolcire ascesi e disciplina, l’imborghesimento di vite che erano state austere, non ha attratto novizi, desiderosi di Assoluto, come tutti i giovani, e non di compromessi con lo spirito del tempo. Non a caso, chi ha retto meglio sono i monasteri di clausura che hanno continuato a proporre una Regola esigente, come da Tradizione. Dopo l’esodo impressionante del decennio ’68-78, i vuoti non sono stati riempiti e (seppur in modo più o meno accentuato, a seconda degli Istituti) il declino continua e l’età media s’innalza.
Verranno generosi e abbondanti rincalzi, allora, da Asia e Africa? I Superiori generali che interrogai, quando feci una lunga inchiesta tra le Congregazioni, mi confessarono che questa è stata, almeno in parte, una grande illusione. Motivi spesso dubbi sull’origine della «vocazione» (un modo, come da noi un tempo, di sottrarsi alla miseria, di studiare, di diventare un notabile), culture, temperamenti, storie troppo diverse per identificare la vita intera al carisma di un Fondatore europeo spesso di secoli fa.
Insomma, le statistiche sono impietose e la realtà, troppo spesso, presenta case di formazione trasformate in case di riposo, che assorbono per l’assistenza molte delle energie superstiti. Non passa mese in cui qualche scuola non si chiuda; qualche convento, anche storico e illustre, non venga abbandonato; qualche chiesa non sia passata alle diocesi, esse pure in grandi difficoltà di personale. Intanto, qualche Casa generalizia di Roma è messa sul mercato, per ritirarsi in luoghi meno vasti e più economici.
Realtà rattristante, per un credente? Certamente è doloroso assistere al declino di istituzioni che furono benemerite e madri di tanti santi e constatare il dolore di cristiani che hanno dato la vita a Famiglie che amavano e che, ora, vedono estinguersi. Ma, nella prospettiva di fede, nulla può esserci di davvero inquietante. La Provvidenza che guida la storia (e tanto più la Chiesa, corpo stesso di Cristo) sa quel che fa: «Tutto è Grazia», per dirla con le ultime parole del curato di campagna di Bernanos. La Chiesa non è un fossile, ma un albero vivo dove, sempre, alcuni rami inaridiscono mentre altri spuntano e vigoreggiano. Chi conosce la sua storia sa che in essa, sull’esempio del Fondatore, la morte è seguita dalla risurrezione, spesso in forme umanamente impreviste. Non si dimentichi che nel primo millennio cristiano c’erano soltanto preti secolari e monaci: tutte le famiglie religiose sono apparse solo a partire dal secondo millennio. Frati e suore non ci furono per molti secoli, dunque, pur lasciando un ricordo glorioso e nostalgico, potrebbero non esserci in futuro (è una ipotesi estrema) o, almeno, avere sempre meno peso e influenza. Ciò che è certo è che, a ogni generazione, in molti cristiani continuerà ad accendersi il bisogno di vivere il Vangelo sine glossa, nella sua radicalità. Quale volto nuovo assumerà la vita consacrata per intero al perfezionamento personale e al servizio del prossimo? Beh, la conoscenza del futuro ci è preclusa, è monopolio di Colui che, attraverso poveri uomini, guida una Chiesa che non è nostra ma sua.
in “Corriere della Sera” del 31 agosto 2011