In un decalogo i vantaggi della scuola multiculturale

Un decalogo che spiega i vantaggi della scuola multiculturale. A presentarlo è Vinicio Ongini, autore di saggi e libri per bambini, maestro per vent’anni e attualmente all’ufficio integrazione alunni stranieri del ministero dell’Istruzione. Si tratta di una specie di documento suddiviso in dieci parole, ognuna delle quali spiega perché la scuola multiculturale è più virtuosa.

1. La prima parola è ‘Qualità’: “La presenza di alunni stranieri nelle scuole – si spiega – migliora il livello di istruzione”. Per rafforzare questa tesi viene portato l’esempio di Torino: “Secondo l’indagine di Tuttoscuola sul sistema di istruzione nazionale, maggio 2011, un’indagine composta da 96 indicatori, Torino (dove la presenza di stranieri è molto alta) è la prima tra le grandi città per la qualità della scuola. E la sua posizione è migliorata, così come quella del Piemonte in generale, rispetto agli esiti dell’indagine sulla qualità della scuola di quattro anni fa“.

2. Al secondo punto ci sono ‘Le chiavi di casa’, slogan secondo il quale “le famiglie degli immigrati e i loro figli portano nelle nostre classi idee diverse di infanzia“. A tal proposito si citano le parole di alcune maestre delle scuole della Val Maira e della Valle Po, nel cuneese, riferite agli studenti stranieri: “Alcuni di questi ragazzini hanno più rispetto per la scuola. Sono i primi a lavare i banchi quando facciamo laboratorio e, se lo chiediamo, fanno pulizia senza tante storie… A volte li vediamo occuparsi dei fratelli più piccoli, o buttar via la spazzatura, in generale sono più autonomi. Alcuni hanno le chiavi di casa, come noi ai nostri tempi…”.

3. Terzo parola è ‘Matematica’, secondo cui “gli studenti asiatici delle nostre scuole eccellono in matematica e nelle materie scientifiche“.

4. Quarta parola ‘Impegno’, in cui sono riportate le parole di una professoressa di lettere delle medie, in provincia di Cremona: “Gli alunni stranieri ci tengono di più alla scuola, si impegnano di più, per loro è ancora importante la scuola… C’è il problema della lingua, soprattutto per chi è appena arrivato, ma alcuni ce la mettono propria tutta e recuperano“.

5. Quinto punto ‘Le lingue’, secondo cui gli studenti stranieri sono più predisposte a imparare le lingue. Dicono due maestre della scuola di Dronero, in Val Maira, nel cuneese: “I bambini della Costa D’Avorio, nelle nostre classi, parlano anche il francese, la loro lingua nazionale, e notano subito le somiglianze con l’occitano, la nostra lingua di minoranza. Sono più predisposti, sono abituati a muovesi tra più lingue. Quando entra la dirigente scolastica dicono: ‘Bonjour madame!’“.

6. Al sesto punto troviamo ‘Lo scambio’. “Scambiando si impara“, è lo slogan delle scuole toscane che fanno periodicamente, da dieci anni, visite e scambi di studenti, presidi, professori, con lo Zhejiang, la regione della Cina da cui viene la gran parte dei cinesi in Italia. Uno dei protagonisti di questa relazione diplomatico-didattica è un insegnante di italiano e storia dell’Istituto professionale di Prato, una scuola con molti allievi cinesi. Lui ha imparato la lingua cinese da autodidatta e ha degli amici cinesi, in fondo è anche lui un immigrato in Toscana, i genitori sono di Avellino. Racconta : “La nostra prospettiva è quella di dare e ricevere… per imparare a conoscersi ci vogliono sofferenze e scontri ma la scuola nel suo piccolo è un luogo privilegiato“.

7. ‘Internazionale’ è la parola del settimo punto e spiega che “nelle classifiche internazionali delle Università, per esempio quella del Times Higher Education, la percentuale degli studenti stranieri sul totale degli iscritti è uno degli indicatori della qualità e del prestigio dell’Istituto“.

8. ‘Il merito’ è l’ottavo punto e spiega che gli alunni stranieri, rispetto agli italiani, “ricorrono meno alle raccomandazioni, un vizio nazionale figlio di un familismo ancora persistente, ostacolo, questo sì, per la conquista di una piena cittadinanza“.

9. Il nono punto è ‘L’evidenziatore’: “gli studenti stranieri nelle nostre scuole sono un evidenziatore dei nostri modelli, delle nostre pratiche e dei nostri stili educativi. Essere visti e quindi valutati da stranieri è anche fonte di malintesi e di incomprensioni ma può essere un vantaggio. Possiamo capire di più che cosa noi stiamo facendo e ridare significato al nostro fare scuola. Possiamo guadagnare dallo sguardo degli altri“.

10. Decimo e ultimo punto è ‘L’occasione’, perché “i sindaci di due piccoli comuni hanno riaperto la scuola che stava per chiudere perché sono arrivati nuovi alunni indiani nelle campagne lombarde, lungo le sponde del fiume Oglio, e piccoli rifugiati del Kurdistan e dell’Afghanistan sull’Appennino calabrese“. Ecco perché “conviene guardare con più curiosità ed empatia quello che succede dentro questa nostra scuola. Nel suo piccolo è il laboratorio dell’Italia di domani“.


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tuttoscuola.com

La questione morale e il primato della fede


il Comunicato finale del Consiglio Permanente della CEI

 

La questione etica, con i suoi risvolti culturali, il progressivo impoverimento economico delle famiglie, le iniziative con cui la Chiesa sostiene il bene comune, l’impegno per i valori dell’umanizzazione – per cui l’etica della vita è fondamento dell’etica sociale – e la partecipazione attiva dei cattolici alla vita pubblica, la proposta dell’esperienza di fede. Così Mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, venerdì 30 settembre ha presentato ai giornalisti il Comunicato finale del Consiglio Permanente.

 

Comunicato finale.doc

 

 

Altri contributi

 

“Il segretario generale della Cei, Mariano Crociata, definisce il raggio d’azione della Chiesa: «Non fondiamo partiti. Non facciamo né disfiamo governi. Indichiamo l’esigenza di un iter politico nuovo»… In quest’alveo si colloca l’azione di «risveglio» promossa, a partire da quel «giacimento culturale e di valori del mondo cattolico, che è nel tessuto sociale e supera i confini di appartenenza e quelli religiosi». È qui, sottolinea la Cei, che bisogna investire. Ma il lavoro tocca ai laici… Bagnasco aprirà a Todi il convegno del 17 ottobre…”

L’ecumenismo secondo Benedetto XVI

Molte erano le aspettative dalla visita del papa in Germania sul capitolo dell’ecumenismo. In un luogo simbolico, il convento degli agostiniani di Erfurt, dove il giovane Martin Lutero fu monaco e
prete della Chiesa cattolica, e davanti alle autorità della potente chiesa evangelica tedesca, Benedetto XVI ha ridefinito a suo modo la posta in gioco del dialogo ecumenico.
Si possono leggere le grandi linee della sua posizione, che diverge in parte da quella del suopredecessore, nell’attacco inatteso contro altri cristiani.
Evocando «una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con immenso dinamismo missionario» – nel quale si possono riconoscere le correnti evangeliche pentecostali -, il papa opera una requisitoria feroce.
Questa corrente è tacciata di «cristianesimo di debole densità istituzionale, con poca consistenza razionale e ancor meno consistenza dogmatica e anche con poca stabilità». Ci metterebbe, afferma il papa, «nuovamente di fronte alla questione di sapere ciò che resta sempre valido, e ciò che può e deve essere cambiato».


Criteri


Dietro l’esigenza istituzionale esposta da Benedetto XVI appare l’imperativo di situarsi in una storia e, soprattutto, in una tradizione, cosa che di solito manca a comunità che spuntano come funghi attorno al carisma di un solo uomo e che rivendicano la loro indipendenza.
Non si può qui dimenticare il testo Dominus Jesus del 2001, nel quale il cardinal Ratzinger considerava la successione apostolica (la trasmissione ininterrotta da vescovi a vescovi) come una condizione necessaria per essere una vera chiesa.
Anche se i luterani rispondono solo in parte a questo esigente criterio, il papa, a Erfurt, ha preferito non tornare su quel testo, accolto molto male all’epoca in ambiente protestante.
La seconda critica – la debolezza della consistenza razionale – fa eco ad una affermazione abituale di Benedetto XVI che non cessa di martellare sul fatto che la fede cristiana deve essere edificata sulla ragione, la quale conduce naturalmente a Cristo e a Dio. La forte presenza dell’emozione nel rito, con pratiche nelle quali il corpo sembra prevalere sullo spirito, è in questa prospettiva molto sospetta al vescovo di Roma.
In terzo luogo i pentecostali mancherebbero di struttura dogmatica. È incontestabile, ma è anche la ragione del loro successo. Il rilievo si applica ugualmente a tutti coloro che vorrebbero  liberarsi da regole giudicate secondarie o troppo repressive nelle attuali società occidentali.
Vissute timidamente nel cattolicesimo o esibite apertamente presso i riformati più liberali, le velleità moderniste dei gruppi più attenti ai valori cristiani che non alle esigenze ecclesiali, sono qui prese di mira. Al di fuori di uno stretto inquadramento non c’è salvezza, dice il papa.


Instabilità


L’ultimo rilievo indirizzato alle correnti cristiane pentecostali riguarda la loro instabilità. Nella tradizione protestante, qualunque divergenza può essere pretesto per un’uscita e per la  reazione di una nuova chiesa.
Nel contesto cattolico, l’insistenza del papa su questo punto è un segnale di fronte ai progetti dichiarati di indipendenza, in Austria e altrove, e di fronte ai promotori di evoluzioni interne.
Ma il richiamo alla stabilità mette anche in discussione i percorsi di avvicinamento e di piccoli passi che hanno lungamente ritmato il cammino ecumenico. Così, Benedetto XVI qualifica il “dono ecumenico dell’ospite”, dietro il quale si può vedere l’ospitalità eucaristica (accoglienza alla comunione di fedeli luterano-riformati) come «cattiva comprensione politica della fede e dell’ecumenismo».
Di fronte «all’assenza di Dio nelle nostre società (che) si fa più pesante», il «compito ecumenico centrale» consisterebbe ormai nel ripensare la fede, non edulcorandola, ma vivendola «integralmente nel nostro oggi».
Ciò che seguirà a questo discorso fondatore ci dirà se i nuovi binari ecumenici, nei quali gli ortodossi si immetteranno senza difficoltà, incontreranno il favore di tutta la galassia dei fedeli.


in “www.temoignagechretien.fr” del 28 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

“Dove c’è Dio, là c’è futuro”

 

è questo il titolo che Benedetto XVI ha voluto dare alla sua terza visita in Germania, che comincia domani.

 


Che la “priorità” di questo pontificato sia riavvicinare gli uomini a Dio, papa Benedetto l’ha detto più volte. Ma il caso della Germania rende tale sua urgenza ancor più impellente.

L’ex Germania dell’Est, assieme all’Estonia e alla Repubblica Ceca, è il territorio europeo in cui gli atei sono più numerosi e in cui i non battezzati sono la maggioranza.

A Berlino e ad Erfurt, la città di Lutero, papa Joseph Ratzinger entrerà proprio in questo perimetro di massimo allontanamento dalla fede, in Europa.

Ma anche a Friburgo in Brisgovia, terza tappa del suo viaggio, l’affievolimento della fede cristiana è un fenomeno esteso.

È uscito di recente in Germania, pubblicato da GerthMedien, un libro che analizza il declino del cristianesimo in questo paese in termini molto crudi.

Già il titolo è eloquente: “Gesellschaft ohne Gott. Risiken und Nebenwirkungen der Entchristlichung Deutschlands [Società senza Dio. Rischi ed effetti collaterali della scristianizzazione della Germania]”.

L’autore è Andreas Püttman, 47 anni, ricercatore presso la fondazione Konrad Adenauer come sociologo dei processi culturali, già vincitore del Katholischen Journalistenpreis, il premio per il giornalismo promosso dai media cattolici tedeschi.

Non solo ad Est, ma nell’intera Germania meno della metà della popolazione, il 47 per cento, afferma di credere in Dio.

Dal 1950 ad oggi i protestanti sono crollati da 43 a 25 milioni. Mentre i cattolici erano nel 1950 25 milioni e altrettanti sono rimasti oggi, perdendone anch’essi molti per strada.

Se nel 1950 un cattolico su due andava a messa tutte le domeniche, oggi nell’Ovest del paese solo l’8 per cento ci va. Nell’ex Germania orientale, dove i cattolici sono una piccola minoranza, questa quota è del 17 per cento.

L’età media dei praticanti è ovunque di 60 anni. E solo il 15 per cento dei tedeschi sotto i 30 anni, ovvero i potenziali genitori della futura generazione, considera l’educazione religiosa importante per i figli.

Quanto ai contenuti della fede, solo il 58,7 per cento dei cattolici e il 47,7 per cento dei protestanti crede che Dio ha creato il cielo e la terra. E ancora meno sono coloro che credono nel concepimento verginale di Maria o nella resurrezione dei morti. Solo il 38 per cento dei tedeschi considerano il Natale una festa religiosa.

In questo avanzante deserto della fede come può entrare in opera la “nuova evangelizzazione”, altro grande obiettivo di questo pontificato?

Le forme possono essere molto varie. Una di queste è descritta nel reportage che segue, pubblicato lo scorso 20 luglio da “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale italiana.

Teatro del reportage è Chemnitz, già Karl-Marx-Stadt, una delle città più vuote di fede della già vastamente scristianizzata ex Germania orientale.

Protagoniste della rinnovata evangelizzazione sono alcune famiglie di cattolici neocatecumenali, lì giunte con questa finalità missionaria da altri paesi d’Europa.

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IN MISSIONE NEL PROFONDISSIMO EST

di Marina Corradi

Fuori il sole è ancora alto, d’estate, ma alle otto di sera le strade sono già semideserte. Siamo a Chemnitz, Theater Strasse 29, in un vecchio palazzo appena ristrutturato che sa ancora di calce fresca. Delle famiglie neocatecumenali ciò che più ti colpisce, quando le vedi insieme come questa sera, sono i figli: sei coppie, ciascuna con nove o dodici o anche quattordici ragazzi. In tutto sono una settantina, adolescenti o da poco sposati. E guardi le loro facce, i loro occhi lucenti, e pensi: che meraviglia, e che ricchezza abbiamo perso, noi europei del figlio unico, mentre da una stanza accanto arriva perentorio lo strillo di uno dei primi nipoti.

Commuove, la piccola folla di ragazzi cristiani stasera a Chemnitz, ex Karl-Marx-Stadt. Perché in quest’angolo di ex Repubblica Democratica Tedesca la civiltà nacque, nell’anno 1136, da un pugno di monaci benedettini, che fondarono un’abbazia; e si erano portati dietro delle famiglie cristiane che vivevano attorno al convento e disboscavano le foreste, per farne terra da coltivare; e anche quelle famiglie avevano una decina di figli ciascuna.

Che la storia possa ricominciare, quando sembra finita? Te lo domandi in questa città silenziosa e spenta, dove un abitante su quattro è vecchio, e spesso solo, e soli sono i figli unici di famiglie disfatte. La gente di qui si volta a guardare, se una famiglia neocatecumenale esce con anche solo una metà dei suoi figli. E se un compagno di scuola capita a casa a pranzo, incredulo fotografa con il cellulare la folta tavolata.

La missione “ad gentes” di Chemnitz, composta di due comunità, ciascuna accompagnata da un sacerdote, è formata da due famiglie italiane, due spagnole, una tedesca e una austriaca. I padri, in patria, avevano un lavoro sicuro. Negli anni ’80 partirono per la prima missione. Li mandò il fondatore del Cammino neocatecumenale Kiko Arguello, accogliendo un desiderio di Giovanni Paolo II: cristiani che riportassero il Vangelo nelle periferie delle metropoli occidentali. Andrea Rebeggiani, professore di latino e greco, lasciò con la moglie e i primi cinque figli la sua casa a Spinaceto, periferia sud di Roma, e approdò nel marzo 1987 in una Hannover sommersa da una tempesta di neve. Anche Benito Herrero, ricco avvocato catalano, abbandonò tutto e venne qui, a studiare tedesco alle scuole serali assieme ai profughi curdi.

E già era una straordinaria avventura. Ma nel 2004 il Cammino neocatecumenale ideò un altro passo: famiglie accompagnate da un sacerdote si sarebbero trasferite nelle città più scristianizzate, semplicemente per stare tra la gente ed essere il segno di un’altra vita possibile. Una struttura, in sostanza, benedettina. Il vescovo di Dresda, Joachim Friedrich Reinelt, invitò i neocatecumenali a Chemnitz, della ex DDR forse la frontiera più dura. E di nuovo queste famiglie partirono. Non solo i genitori, ma anche i figli, liberamente, uno per uno. “Avevamo solo cinque o sei anni quando abbiamo lasciato il nostro paese”, spiega oggi Matteo, figlio di Andrea. Ora siamo grandi, questa volta è la nostra missione”.

Difficile la vita a Chemnitz, in questa provincia povera che sa ancora di DDR, per dei ragazzi cresciuti all’Ovest. Qualcuno soffre, se ne va. Poi, quasi sempre, ritorna. Dura la vita dei padri, di nuovo in cerca di lavoro a cinquant’anni. Se lo stipendio non basta, si vive degli assegni familiari del welfare tedesco e dell’aiuto delle comunità neocatecumenali di provenienza. Con le quali il legame è forte. In patria, per queste famiglie le comunità recitano costantemente il rosario. In estate mandano qui i ragazzi, a fare la missione cittadina: un’esplosione di allegria per le solitarie vie di Chemnitz, da quei gruppi di adolescenti romani o spagnoli.

Discussioni alla porte del cimitero: “Sapete che le ossa dei vostri morti risorgeranno, un giorno?”. I più, della gente di Chemnitz, alzano le spalle e se ne vanno: “Soprattutto i vecchi, sembrano non tollerare di sentire parlare di Dio”. Ma la vera missione, dice l’avvocato Herrero, “è essere qui”. Qui nella vita quotidiana, dietro ai banchi o al lavoro, tra gente che ti guarda e non capisce, che domanda e si stupisce; scontrosa, diffidente, impaurita. Essere qui: come Maria, 27 anni, maestra in un asilo dove tanti genitori sono già divisi, e testimoniare di una famiglia in cui ci si vuole bene per sempre.

Come uno dei ragazzi spagnoli, barista d’estate in una gelateria: ha incuriosito il proprietario, che una sera è venuto a sentire la catechesi, e poi è ritornato. Piccolissimi numeri: ma non c’è smania di proselitismo in questa gente. Già lieti d’essere qui: “La missione prima di tutto educa noi e i nostri figli all’umiltà. Non siamo dei superman, ma uomini come gli altri, fragili e paurosi”. Paurosi? Ci vuole un coraggio da leoni per lasciare tutto e con una nidiata di bambini partire per un paese sconosciuto.

Da dove viene il coraggio? “Dio – ti rispondono – chiede all’uomo ciò che ha di più caro, proprio come lo chiese ad Abramo, che offrì suo figlio Isacco. Ma se offri tutto a Dio, scopri che lui ti dona molto di più. Ed è fedele, e non ti abbandona”. Quante storie, fra questi cristiani che invecchiano lietamente in una corte di figli e nipoti. C’è il professore ex sessantottino che a trent’anni si sentiva finito e disilluso, e ora ha 9 figli e 7 nipoti, più 3 in arrivo. C’è l’informatico che da adolescente ha sofferto dell’abbandono del padre, e ha perso la fede; e sa cosa possono avere in testa questi ragazzi di Chemnitz, con i loro affetti divisi. Ragazzi che invidiano i suoi figli: “Che fortuna – ci dicono spesso – voi tornate da scuola e mangiate tutti assieme. Noi mangiamo soli, o con il gatto”. In un lampo di nostalgia di una famiglia vera.

“Ci sono segni capaci di toccare anche il cuore dei più lontani – dice Fritz Preis, da Vienna – e noi siamo qui per portarli a questa gente”. Ma quale motore spinge un così sbalorditivo lasciare ogni certezza? “Io ho fatto tutto questo per gratitudine”, risponde l’avvocato catalano. “Gratitudine per mia moglie, per i figli, per la vita, per tutto quello che Dio mi ha dato”.

Taci, perché un cristiano “normale”, già in affanno con i suoi pochi figli nel suo paese, resta muto davanti alla fede di queste famiglie; testimoni di un Dio che chiede tutto, ma dà molto più di quanto ha ricevuto. Taci, davanti alla serenità delle quattro sorelle laiche che assistono le famiglie nelle necessità quotidiane: “Io volevo semplicemente mettermi al servizio di Dio”, dice Silvia, romana, con un sorriso che trovi raramente nelle nostre città. Le vedranno, queste facce, questa singolare letizia, qui, dove non credono più in niente? Quando i neocatecumenali spiegano che sono venuti da Roma e Barcellona, per annunciare che Cristo è risorto, la gente di Chemnitz si ritrae turbata, come disturbata in un sonno pesante. Talvolta rispondono: “Vorremmo crederci, ma non ne siamo capaci”.

Due generazioni senza Dio sono tante, per la memoria degli uomini. Ma quando, un giorno, alcuni dei figli del professor Rebeggiani si sono messi a cantare dal balcone di casa – per la pura gioia di farlo – l’antico canto “Non nobis Domine sed nomini tuo da gloriam”, i vicini si sono affacciati, e sono rimasti ad ascoltare. E una vedova ha chiesto ai ragazzi di cantare lo stesso canto al cimitero, in memoria del marito morto. Così è stato, e fra i presenti uno è si è avvicinato, alla fine: “Da tanto tempo – ha detto – non sentivo qualcosa che mi desse una speranza”.

Chissà, ti chiedi, se anche per quel pugno di monaci benedettini e di laici arrivati qui nel 1136 non sia cominciata così: con lo stupore di uomini che intravedevano in loro una bellezza, e ne provavano una misteriosa nostalgia.

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Il quotidiano della conferenza episcopale italiana che ha pubblicato il reportage, nel quadro di un’inchiesta a puntate su “I semi della fede” in varie città di più continenti:

> Avvenire

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Ancora “Avvenire”, il 14 settembre, ha pubblicato la seguente sintesi del libro di Andreas Püttman:

> Scristianizzazione, la sfida della Germania

 

 

ALTRI ARTICOLI

 

un primo bilancio della visita in Germania di papa Benedetto XVI di Wir sind Kirche in Wir sind Kirche Deutschland del 25 settembre 2011 (http://www.wir-sind-kirche.de)

Primo bilancio da parte di Wir sind Kirche della visita del papa. “Dinanzi alle amare delusioni dell’incontro ecumenico del papa ad Erfurt, Wir sind Kirche esorta tutte le comunità cattoliche ed evangeliche a mettersi ecumenicamente insieme e «fare ciò che ci unisce».” Il valore autonomo della coscienza è legato senza riserve a norme oggettive già date: è il nucleo premoderno di un discorso strutturato modernamente. ” Per quanto sia giusto lamentare la crescente assenza di Dio nella coscienza dell’uomo, parlare di Dio non può diventare un diversivo per disinnescare le crisi e i problemi ecclesiali”

 

30.9.2011

“Noi siamo Chiesa”, firmato Ratzinger

Per la prima volta da quando è papa, Benedetto XVI ha citato e criticato in pubblico il movimento di opposizione ecclesiale più diffuso e attivo nei paesi di lingua tedesca. L’ha fatto in un discorso a braccio ai seminaristi di Friburgo. Ecco le sue parole


28.9.2011

Nella ricca Germania la Chiesa si faccia povera!

Mai prima del suo terzo viaggio in patria Benedetto XVI aveva dato così forte risalto all’ideale di una Chiesa povera di strutture, di ricchezze, di potere. Nello stesso tempo, però, ha insistito anche sul dovere di una vigorosa “presenza pubblica” di questa stessa Chiesa. Sono possibili le due cose insieme?


25.9.2011

“È nuovamente l’ora di togliere coraggiosamente ciò che vi è di mondano nella Chiesa”

Solo così lo scandalo vero del cristianesimo, quello della croce, può risplendere agli uomini, senza essere messo in ombra “dagli altri dolorosi scandali degli annunciatori della fede”. Il discorso del papa ai cattolici tedeschi impegnati nella Chiesa e nella società


23.9.2011

“La scottante domanda di Martin Lutero deve diventare di nuovo la nostra domanda”

Il papa alla Chiesa evangelica di Germania. L’ecumenismo vive e cade sulla questione di Dio e del male. La duplice sfida del protestantesimo “evangelical” e della secolarizzazione. Come ravvivare la fede senza annacquarla


22.9.2011

C’è un giudice a Berlino. E rivuole re Salomone

Dopo Rastisbona nel 2006 e dopo Parigi nel 2008, la terza grande lezione di questo pontificato. Papa Benedetto la tiene nella capitale tedesca e nel cuore del suo sistema politico. Cita sant’Agostino: “Togli il diritto, e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”

 

Madonne incoronate

 

In mostra a New Haven le immagini di Maria di cento santuari d’Europa e d’America

 

 

A pochi giorni dal suo terzo viaggio in Germania, Benedetto XVI ha fatto ai suoi compatrioti un grande regalo. Ha autorizzato l’invio a Dresda di un capolavoro di Raffaello mai uscito prima dai Musei Vaticani: la “Madonna di Foligno”.

Assieme all’ancor più celebre “Madonna Sistina”, conservata proprio a Dresda dalla metà del XVIII secolo, i due dipinti di Raffaello sono il cuore di una mostra allestita nella città tedesca col titolo: “Splendore celeste. Raffaello, Dürer e Grünewald dipingono la Madonna”.

La mostra è stata inaugurata due giorni fa e resterà aperta ai visitatori fino all’8 gennaio del 2012.

La “Madonna Sistina” è da due secoli la più celebrata icona della Madre di Dio nel mondo occidentale, anche oltre lo spazio cristiano. Ha ispirato musicisti e scrittori. È stata identificata con la visione salvifica che conclude il “Faust” di Goethe. Vasilij Grossman ha intitolato “La Madonna Sistina” un suo geniale racconto.

Ma entrambe quelle Madonne di Raffaello erano state dipinte non come oggetto di museo, ma come pale d’altare. E lo furono per tutto il loro primo periodo di vita: l’una sopra l’altare maggiore della basilica romana di Santa Maria in Aracoeli e poi della chiesa di Sant’Anna a Foligno, l’altra sopra l’altare maggiore della chiesa di San Sisto a Piacenza.

Oltre che soggetto di arte, la Madre di Gesù è stata ed è primariamente soggetto di culto. È incomprensibile al di fuori della storia religiosa cristiana. Con lei raffigurata sopra l’altare, la messa esprime in modo ancor più eloquente ciò che essa celebra e attualizza: il Verbo che si fa carne per la salvezza dell’uomo e del mondo.

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Ma non ci sono soltanto le vette artistiche di un Raffaello, nell’immensa iconografia mariana.

Ci sono anche le umili Madonne di innumerevoli chiese e santuari di tutto il mondo. Venerate secolo dopo secolo da infinite schiere di fedeli. Dispensatrici di grazie a persone e città. Come quella sopra riprodotta, venerata su un’isoletta di nome Barbana, nella laguna di Grado, non lontano da Venezia.

Anche a un centinaio di queste Madonne “popolari” è stata dedicata una mostra, parallela a quella di Dresda.

Essa ha per titolo: “Piene di Grazia: Madonne Coronate dalla Basilica Vaticana”. E ha luogo negli Stati Uniti, a New Haven, nel Connecticut, a pochi passi dalla prestigiosa Università di Yale, nel quartier generale dei Cavalieri di Colombo che sono anche i promotori dell’iniziativa.

L’hanno allestita, da Roma, Pietro Zander e Sara Magister. Il primo, archeologo, dirige in Vaticano la sezione necropoli e antichità classiche della Fabbrica di San Pietro. La seconda, storica dell’arte e principale autrice del catalogo della mostra, ha studiato a fondo, tra l’altro, l’attività in campo artistico di papa Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, proprio colui che commissionò a Raffaello la “Madonna Sistina”.

Hanno allestito la mostra da Roma perché è da qui, dalla basilica papale di San Pietro, che le Madonne messe in mostra, pur presenti in decine di paesi dell’Europa e delle Americhe, hanno ricevuto la “corona”.

Prima e unica nel suo genere, la mostra di New Haven resterà aperta al pubblico, come quella di Dresda, fino al prossimo 8 gennaio. Dopo di che si trasferirà a Washington e successivamente, forse, in Italia.

Ma per saperne di più, lasciamo la parola a un suo recente visitatore, padre Robert Imbelli, sacerdote della diocesi di New York e professore di teologia al Boston College, oltre che fine intenditore di arte cristiana.

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MADONNE INCORONATE

di Robert Imbelli

Il Concilio Vaticano II, come è noto, ha proposto la sua riflessione teologica sulla Madonna nel contesto della costituzione sulla Chiesa “Lumen gentium”. Maria vi è onorata come la prima dei discepoli di Cristo, lei che con il suo “fiat” è il modello e l’esempio del discepolato cristiano.

Sfortunatamente, nonostante le intenzioni del Concilio, i tardi anni Sessanta e gli anni Settanta hanno visto un calo della devozione mariana in molte aree dell’Europa e del Nordamerica. Ma felicemente, con il rinnovato apprezzamento della religiosità popolare e con la riscoperta di Maria da parte di numerosi giovani, una nuova fioritura della devozione alla Madre di Dio sembra essere un significativo segno dei tempi attuali. Forse questa rinnovata devozione è particolarmente visibile tra i giovani pellegrini che prendono parte alle Giornate Mondiali della Gioventù.

Giunge quindi tempestiva l’originale mostra di arte mariana che abbellisce in questo periodo il museo dei Cavalieri di Colombo a New Haven, Connecticut: “Piene di Grazia: Madonne Coronate dalla Basilica Vaticana”. La mostra rimarrà aperta a New Haven fino all’8 gennaio prossimo, prima di trasferirsi a Washington, D.C.

La mostra allinea quasi un centinaio di dipinti che sono stati di recente splendidamente restaurati. Essi appartengono al Capitolo della Basilica di San Pietro a Roma, e in essi è custodito un affascinante tratto della storia religiosa popolare.

I dipinti sono a loro volta copie di opere d’arte, sparse in Europa e nell’America Latina. Sono stati fatti quando le comunità ecclesiali locali hanno sottoposto al Capitolo della Basilica di San Pietro la richiesta di “incoronare” le immagini che erano da tempo oggetto di devozione popolare, o mete di pellegrinaggio dei fedeli. Le condizioni fissate per tali incoronazioni includevano: 1) l’antichità dell’immagine; 2) la lunga durata della devozione popolare; e 3) la frequenza di atti di grazia miracolosi attribuiti a tale devozione. Per l’accettazione della richiesta di incoronazione dell’immagine, era stabilito che una copia fedele dell’opera fosse inviata alla Basilica di San Pietro.

Più che nel superiore valore artistico delle pitture in quanto tali, il grande interesse della mostra risiede nella loro preziosa e variegata testimonianza della devozione alla Madonna nell’insieme della cristianità cattolica.

Le opere d’arte originali, siano esse pitture, sculture, icone o mosaici, abbracciano molti luoghi e culture particolari; sono un vivido anticipo di quella “globalizzazione” che oggi è così decantata. Ma testimoniano anche le virtù perenni che devono accompagnare ogni vera riforma e rinnovamento spirituale nella Chiesa.

Qui ne vorrei mettere in luce quattro: fiducia, coraggio, compassione e speranza.

Non sorprende che una gran parte delle immagini ritraggano Maria che culla tra le sue braccia Gesù Bambino. Siano esse dell’Italia o della Polonia, della Francia o della Spagna, di Malta o della Turchia, le immagini dipingono la tenera fiducia del bambino Gesù, che riposa sicuro tra le braccia della sua mamma. Esse invitano i cristiani, progenie spirituale di Maria, a una pari fiducia nella sua cura materna.

Un altro tema ricorrente è quello della “Madonna della Pietà”, sia nella famosa scultura di Michelangelo sia nella rappresentazione della Madonna come “Maria Addolorata”, come Madonna dei Dolori. Qui Maria che tiene tra le braccia il suo figlio morto o ne condivide le sofferenze testimonia il coraggio richiesto dai discepoli nel seguire la via di Cristo, che è la via della croce.

La fiducia in Maria e il coraggio producono frutti di compassione. Le numerose immagini di lei come “Madonna della Misericordia” o “Madonna della Grazia” attestano le innumerevoli grazie e i favori concessi a coloro che hanno cercato la sua intercessione lungo i secoli. Coloro che hanno cercato la sua intercessione non sono rimasti senza aiuto.

Infine, le corone apposte a queste immagini dal Capitolo della Basilica di San Pietro sono un concreto, fisico richiamo dell’incoronazione spirituale di Maria come Regina del Cielo. Quindi esse rappresentano la speranza che i discepoli di Cristo otterranno anch’essi la corona di gloria promessa a coloro che fanno la volontà del loro Padre celeste.

Un eccellente catalogo (disponibile sia in italiano che in inglese) accompagna la mostra, messo a punto dal suo curatore, Pietro Zander. Ogni dipinto, splendidamente riprodotto, ha un articolo che dà conto delle ricerche sulla vicenda storica dell’immagine e fornisce dati e particolari della sua incoronazione. La maggior parte di questi articoli sono scritti dalla storica dell’arte Sara Magister, che ha svolto un ruolo chiave nell’allestire la mostra.

Visitare “Piene di Grazia: Madonne Coronate dalla Basilica Vaticana” e meditare sul bel catalogo può guidare nel modo giusto alla preghiera. Fa tornare in mente l’amorevole preghiera di papa Benedetto alla Madonna a conclusione della sua prima enciclica “Deus caritas est”:

“Mostraci Gesù. Guidaci a lui. Insegnaci a conoscerlo e ad amarlo, perché possiamo anche noi diventare capaci di vero amore ed essere sorgenti di acqua viva in mezzo a un mondo assetato”.

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La locandina della mostra in corso a New Haven, nel sito web dei Cavalieri di Colombo:

> Full of Grace: Crowned Madonnas from the Vatican Basilica

Un’intervista al suo curatore Pietro Zander:

> How Mary Gained Her Crown

E una presentazione della mostra sul “National Catholic Register”:

> Mary in All Her Glory

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La mostra di Dresda con le due Madonne di Raffaello:

> Heavenly Splendour: Raphael, Dürer and Grünewald paint the Madonna

E la sua presentazione su “L’Osservatore Romano” fatta dal professor Arnold Nesselrath, delegato scientifico dei reparti e laboratori dei Musei Vaticani:

> La “Madonna di Foligno” incontra la “Madonna Sistina”

 

 


 

 

Problematiche Etiche nell’Insegnamento della Religione

Incontro Italo-Tedesco di Pedagogia Religiosa: 18-22 Settembre 2011

 

 

Programm

 

Sonntag, 18. September/Domenica, 18. Settembre

18.00

Erstes Meeting mit Bekanntmachen der Teilnehmerinnen, Orientierung über die Tagung, Einführung in die Thematik; offene Kommunikation.

18.00

Prima Riunione: Presentazione dei partecipanti, informazioni sull’Incontro, Introduzione alla tematica; comunicazioni ufficiali.

20.00

Abendessen

 

Cena

21.00

Beisammensein

 

Momento conviviale

 

Montag, 19. September/Lunedì, 19. Settembre

8.00

Frühstück

 

Colazione

9.30

Forschergruppe Zelindo Trenti: Zum Stand der Debatte in Italien. Die moralische Dimension in den aktuellen Dokumenten zur Religiösen Erziehung

 

Zelindo Trenti ed Équipe: Informazioni-aggornamento in campo italiano: la dimensione morale nei testi recenti di Istruzione Religiosa: Metodologie in atto (Zelindo Trenti). Ricerche e studi (Roberto Romio).

10.45

Coffee Break

11.15

Texte und Erfahrungen (Forschergruppe Trenti)

 

Testi ed esperienze (equipe Astuto Roberto – Carnevale Cristina  – Cursio Giuseppe)

13.00

Pranzo

 

15.30

Lothar Kuld: Das Compassion-Projekt – Idee, Konzept Wirkungen

 

Lothar Kuld: Il progetto “compassion”: idea – concetto – effetti

17.00

Coffee Break

17.30

Gruppenarbeit

 

Lavoro di gruppo

18.30

Berichte aus den Gruppen

 

Assemblea

20.00

Cena

21.00

Beisammensein

 

Momento conviviale

 

Dienstag, 20. September/Martedì, 20. Settembre

9.30

Paolo Carlotti: Erziehung zur Tugend

 

Paolo Carlotti:  Educare alla virtù

10.45

Coffee Break

11.15

Gruppenarbeit

 

Lavoro di gruppo

12.15

Berichte aus den Gruppen

 

Assemblea

13.00

Pranzo

 

15.30

Ulrich Kropac: Ethik im Religionsunterricht? Der Beitrag der christlichen Religion zu ethischer Erziehung und Bildung

 

Ulrich Kropac: Problematiche Ethiche nell’ Insegnamento della Religione? Il Contributo Christiano alla Educazione Ethica

17.30

Coffee Break

18.00

Konstantin Lindner: Ethisches Lernen in der aktuellen religionspädagogischen Forschung

 

Konstantin Lindner: Ricerche recenti di pedagogia religiosa sulle problematiche etiche

19.00

Angela Kaupp: Konzepte ethischen Lernens in der Gemeindekatechese

 

Angela Kaupp: L’insegnamento morale nella catechesi tedesca

20.00

Cena

21.00

Beisammensein

 

Momento conviviale

 

Mittwoch, 21. September/Mercoledì, 21. Settembre

9.30

Carlo Nanni: Erziehung zu Werten

 

Carlo Nanni: Educare ai valori

10.30

Coffee Break

11.00

Abschlussplenum

 

Assemblea finale

12.00

Eucharistiefeier

 

Eucaristia

13.00

Pranzo

14.30

Wissenschaftliche Exkursion

 

Escursione a Tivoli (Villa D’Este e Villa Adriana)

20.00

Abendessen

 

Cena a Tivoli

 

Donnerstag, 22. September/Giovedì, 22. Settembre

 

Abreise

 

Partenze

 

 

Participanti Tedeschi

Nome                          Universitá                                                        Titolo

Bernhard Grümme     PH Ludwigsburg                                  Prof. Dr.

Rene Brugger             Universität Eichstätt                          —-

Ulrich Kropac             Universität Eichstätt                       Prof

Angela Kaupp                        Universität Freiburg              Dr.

Joachim Theis             Universität Trier                                Prof

Ulrich Riegel              Universität Siegen                             Prof

Rudolf Englert           Universität Duisburg-Essen          Prof.

Katrin Bederna           PH Ludwigsburg                                    JunProf.

Lothar Kuld               PH Weinheim                                              Prof.

Fritz Weidmann         —-                                                                   Prof. em.

Brieden Norbert         Ruhruniversität Bochum                   Dr.

George Reilly             —-                                                                        Dr.

Brembeck Stefan        —-                                                                       Dr.

Konstantin Lindner    Universität Bamberg                           Dr.

Andrea Kabus                        Universität Bamberg                    Dr.

Michaela Neumann    Uni Augsburg                                           Dr.

Ralph Sauer                —-                                                                        Prof. em

Steffi Schöber: Traduttrice

 

Partecipanti Italiani

1. Bissoli Cesare (UPS, Roma)

2. Carlotti Paolo (UPS, Roma)

3. Cozzi G. (Paoline, Roma)

4. Di Giovanni Gabriele (Fratelli Scuole Cristiane, Roma)

6. Filipovic Ana Thea (Croazia)

7. Grzadziel Dariusz (UPS, Roma)

8. Marin Danilo (Chioggia – Venezia)

9. Mazzarello Maria Luisa (Auxilium, Roma)

10. Montisci Ubaldo (UPS, Roma)

11. Moral José Luis (UPS, Roma)

12. Nanni Carlo (UPS, Roma)

13. Pajer Flavio (Fratelli Scuole Cristiane, Roma)

14. Pastore Corrado (UPS, Roma)

15. Rezzaghi Roberto (Mantova)

16. Romano Tonino (UPS, Roma)

17. Romio Roberto (Roma)

18. Trenti Zelindo (UPS, Roma)

19. Usai Giampaolo (UPS, Roma)

20. Vallabaraj Jerome (UPS, Roma )

21. Viviani Maurizio (Conferenza Episcopale Italiana, Roma)

22. Wierzbicki Mirosław Stanisław   (UPS, Roma)

Collaboratori del Prof. Zelindo Trenti.

– Astuto Roberto

– Carnevale Cristina

– Cursio Giuseppe

 

CASA LA SALLE
Via Aurelia, 472 00165 Roma, Italia – Tel. +39 06 66.69.81 – Fax +39 06 66.00.03.84 – booking@casalasalle.com

“Casa La Salle” è situata a pochi passi dalla stazione della metropolitana “Cornelia” (Linea A) ed in prossimità di diverse fermate di autobus.

La collocazione all’inizio di Via Aurelia, consente un facile e rapido accesso a gran parte della città: in 15 minuti si raggiunge il Vaticano, in 25 minuti la Stazione Termini.

Di seguito le indicazioni per raggiungere Casa La Salle :

Aeroporto “Leonardo da Vinci” (Fiumicino)

Treno no-stop “Leonardo Express” (Aeroporto-Stazione Termini)

Metropolitana (Linea A, direzione Battistini) fino alla stazione “Cornelia”

Aeroporto “G.B. Pastine” (Ciampino)

Terravision Shuttle Bus (Aeroporto-Stazione Termini)

Metropolitana (Linea A, direzione Battistini) fino alla stazione “Cornelia”

Stazione Termini

Metropolitana (Linea A, direzione Battistini) fino alla stazione “Cornelia”

Per chi arriva in automobile o in pullman :

uscita n°1 del Grande Raccordo Anulare (G.R.A.)

proseguire sulla Via Aurelia fino a Piazza San Giovanni Battista de La Salle da dove sarà possibile effettuare l’inversione di marcia e accedere all’entrata di “Casa La Salle” (per i pullman l’accesso è consentito da Via Aurelia 476)

 


GPS

N 41º53’0090″”
E 012º25’4600″

Per gli ospiti è disponibile un parcheggio interno non custodito. Per i pullman il costo di parcheggio è di € 10,00 al giorno.

Minori e internet: rapporto europeo 2011

 

in Europa  il 77% di coloro che utilizzano i social network ha tra i 13 e i 16 anni, il 38% tra i 9 e i 12.

 

È stato presentato dalla Commissione Europea un primo documento, che raccoglie e commenta le azioni messe in atto dai Paesi membri dell’Unione europea relative alla protezione dei minori che utilizzano internet.

Dall’analisi dei dati emerge chiaramente l’impegno delle diverse nazioni a dotarsi di strumenti di contrasto e prevenzione rispetto ai rischi che corrono i minori. Tuttavia, si nota che tali misure appaiono diversificate fra loro e non si riferiscono ancora ad una linea di azione comune.

La Commissione europea, che ha già emanato delle raccomandazioni specifiche nel 1998 e nel 2006, sottolinea quanto sia importante prestare la massima attenzione anche ai contenuti dei videogiochi dedicati ai minori, in particolare quelli acquistabili direttamente on line.

Neelie Kroes, responsabile dell’Agenda Digitale per conto della Commissione europea, ha annunciato, nella conferenza stampa di presentazione del rapporto, una importante iniziativa prevista per la fine dell’anno attraverso la quale facilitare la segnalazione di contenuti dannosi o illeciti e rendere maggiormente consapevoli insegnanti e famiglie circa i rischi  connessi con l’uso delle nuove tecnologie.

Attualmente, in Europa, tra tutti gli utenti Internet che utilizzano i social network il 77% ha tra i 13 e i 16 anni, il 38% tra i 9 e i 12.




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XXV Domenica del Tempo Ordinario

XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Isaia 55,6-9

 

Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

v Siamo nell’ultimo capitolo del secondo Isaia (40-55), un profeta anonimo del tempo dell’esilio babilonese (VI sec. a. C.) i cui oracoli di consolazione sono stati aggiunti al libro di Isaia (VIII sec. a.C.). Il cap. 55 si conclude con una esortazione a cercare e invocare il Signore, la rinnovata promessa dell’alleanza e l’efficacia della parola di Dio.

Nei versetti precedenti il nostro brano il profeta annuncia la nuova alleanza e la realizzazione delle promesse fatte a Davide, in un orizzonte universalistico che coinvolge i popoli e le nazioni: anche chi non conosce Israele accorrerà a rendergli onore a causa del Signore.

L’oracolo si apre con il v. 6 che esorta gli esiliati a cercare il Signore, mentre è vicino e si fa trovare.

È un tema caratteristico della profezia esilica quello della vicinanza del Signore, proprio in terra straniera, dove gli esuli temevano di averlo perduto. Gli ebrei avevano legato infatti la presenza del Signore al possesso della Terra, alla città santa e al Tempio: con la distruzione di quest’ultimo e la deportazione tutto sembrava compromesso, l’alleanza in-

franta e la salvezza irraggiungibile. Invece, proprio la condizione di smarrimento dell’esilio, assimilata dai profeti al deserto, è una condizione favorevole alla conversione e al ravvedimento.

Il v. 7 invita ad abbandonare le vie e i pensieri iniqui e a ritornare al Signore: il verbo shûv indica la conversione, la metanoia. Il Signore avrà misericordia: la radice rhm indica le viscere materne del Signore che prova compassione per il popolo, senza che esso lo abbia in alcun modo meritato.

Le «vie» e i «pensieri» ritornano al v. 8 per riaffermare con maggior forza la necessità della conversione: le vie e i pensieri degli uomini infatti (l’iniquo e l’empio del v. 7, ma anche tutto il popolo che si illude di essere nel giusto) non corrispondono alle vie e ai pensieri di Dio.

La differenza sostanziale e la superiorità assoluta del progetto di Dio rispetto ai progetti umani sono pari alla distanza infinita tra terra e cielo (v. 9): non è semplicemente l’idea filosofica della trascendenza di Dio, ma la grandezza e la profondità del suo amore, della sua misericordia e del suo perdono, che l’uomo non riesce nemmeno a immaginare.

L’efficacia della parola del Signore, che porta a compimento ciò che promette, viene riaffermata nei versetti seguenti.

 

 

Seconda lettura: Filippesi 1,20-24.27

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.  Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.  Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

 

v La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo (cf. l,14ss.).

Paolo sviluppa in questi versetti un’audace e paradossale contabilità della sua missione apostolica.

I vv. 20c-22 pongono il problema.

La «partita doppia» tra sofferenze e pericoli della persecuzione e glorificazione di Cristo si chiude in pari, anzi in attivo: Cristo sarà glorificato, sia che l’apostolo venga liberato e viva, sia che subisca la condanna e muoia.

La morte, infatti, rappresenta per Paolo un guadagno perché significa essere ricongiunti a Cristo, che è la vita vera. Il discorso sembrerebbe qui chiuso con l’aspirazione al martirio: ma Paolo vi oppone un argomento altruistico. Per sé, egli sceglierebbe il martirio; ma la vita al servizio dei fratelli e del vangelo può dare frutti alla Chiesa, allora ecco che la scelta si fa più difficile.

I vv. 23-24, centrali nella pericope, propongono con chiarezza l’alternativa: morire in Cristo (espresso con il verbo analysai, come una liberazione) sarebbe il meglio, ed è il desiderio di Paolo; ma vivere è più necessario per i fratelli.

Gli ultimi tre versetti (25-27) risolvono la questione indicando la scelta di Paolo: «continuerò a rimanere in mezzo a voi». Ne segue, logica conseguenza, l’esortazione ai Filippesi perché si rendano degni del vangelo di Cristo: questo è il solo «vanto» (kauchema) riconosciuto valido dall’apostolo.

L’opposizione vita/morte si compone in Cristo, che sarà comunque glorificato dall’apostolo, sia con una morte testimoniale sia con una vita dedicata alla predicazione.

 

 

Vangelo: Matteo 20,1-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzo giorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.  Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

 

Vangelo in immagini

XXV DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

 

Esegesi

Siamo nella sezione del vangelo di Matteo dedicata al cammino verso la Passione (capp. 16-20).

La sezione si apre con la confessione di fede di Pietro — tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente (16,15) — e prosegue con i tre annunci della Passione (16,21; 16,22-23; 20,18-19). Poco prima dell’ultimo annuncio l’evangelista inserisce la parabola degli operai dell’ultima ora, incorniciata da due detti quasi identici sugli ultimi che saranno primi e i primi che saranno ultimi (19,30; 20,16). Il tutto è a sua volta incastonato fra due brani che riguardano il discepolato e pongono il problema della ricompensa (cf. il salario della parabola) e della gerarchia (cf. l’ordine di priorità fra gli operai della prima e dell’ultima ora). Il brano che precede è la domanda di Pietro sulla ricompensa che spetta a chi ha «lasciato tutto» per seguire Gesù, e la risposta di Gesù (19,27-29); segue immediatamente il terzo annuncio della Passione, e la richiesta della madre dei figli di Zebedeo sui posti da assegnare nel regno.

Nella parabola si possono distinguere tre parti.

1) la prima (vv. 1-7) racconta ciò che succede durante il giorno. Si tratta della giornata lavorativa tipica nella società agricola palestinese del tempo, che durava «dai primi raggi del sole fino al sorgere delle stesse» (cf. Sl 103/104,22-23). La suddivisione in 12 ore quindi, nella stagione estiva, comporta una durata dell’ora lavorativa ben superiore ai 60 minuti. Si susseguono quattro brani sul padrone di casa che esce cinque volte a cercare operai per la sua vigna. Nei primi tre abbiamo una contrattazione in cui si pattuisce un salario («Si accordò con loro per un denaro», la paga giornaliera normale, cf. Tob 5,15; «quello che è giusto ve lo darò»; «fece altrettanto»). Nell’ultimo brano si riferisce nei particolari il dialogo, ma non si parla di salario.

Si crea così una sospensione e un’attesa: anche il lettore si aspetta che gli altri ricevano di meno. Ciò anche perché rimane inespresso il motivo per cui a sera sono ancora disoccupati: non c’era lavoro a sufficienza o erano pigri? dov’erano, quando il padrone era uscito all’alba, alla terza, alla sesta e alla nona ora?

2) Al centro, il v. 8 crea il collegamento tra la parabola e ciò che precede e che segue: abbiamo il rovesciamento tra gli ultimi e i primi (che anticipa la risposta ai figli di Zebedeo), l’ordine inverso nella paga (la ricompensa rivendicata da Pietro). Il tutto a opera del «Signore della vigna» (il «padrone di casa» dei vv. 1 e 11), chiara metafora del regno dei cieli.

La tensione, già creata con il v. 7, viene qui accentuata. È insolito, anche se non impossibile, che si assumano operai al termine della giornata; ancor più insolito che si inizi da costoro il pagamento, costringendo chi ha faticato fin dall’alba ad attendere e rinviare così il momento del riposo. Tanto più che la Legge prescriveva di pagare senza indugio i lavoratori a giornata, che non avevano altro mezzo per provvedere al cibo per sé e per la famiglia: «gli darai il salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole» (Deut 24,15).

A questo punto ci aspettiamo che possa seguire qualcosa di ancora più strano. Era necessario del resto quest’ordine inverso, perché così i primi assistono al pagamento degli ultimi e possono attendersi di ricevere di più (v. 10).

3) Nell’ultima parte vengono messi in parallelo gli ultimi e i primi (vv. 9-10): «e venuti quelli dell’undicesima ora…», «e venuti i primi…». In seguito si riferisce il dialogo: la domanda dei primi operai (vv. 11-12) e la risposta del padrone (vv. 13-15).

Il padrone rivendica a sé la sovrana libertà di disporre del proprio come vuole. Un denaro non era solo la paga consueta, era anche il necessario per vivere: ebbene, la volontà del padrone della vigna è che ciascuno abbia il necessario per vivere (il pane quotidiano), indipendentemente dai propri meriti. Il problema nasce quando si fanno dei confronti, e ci si erge a giudici pretendendo che la giustizia del Signore segua i nostri criteri.

Alcuni elementi colpiscono particolarmente, e portano a comprendere che non di equità sociale o di diritti sindacali vuol parlare l’evangelista.

Il padrone della vigna sottolinea l’opposizione giusto/ingiusto: «quello che è giusto ve lo darò» (v. 4); «non sono ingiusto con te» (v. 13). Si tratta evidentemente di una strana giustizia: «la si perde se l’uomo la reclama per sé con leggerezza, come un suo diritto ovvio, confrontando il proprio curriculum con quello degli altri e non concentra così lo sguardo sulla bontà del Signore davanti alla quale tutto quello che egli ha fatto e meritato svanisce. Così proprio l’incomprensibile bontà di Dio diventa uno scandalo per colui che non vuole liberarsi dei suoi concetti umani di merito e giustizia» – (EDUARD SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia 2001, p. 367).

Il padrone, che nella prima parte della parabola appare tanto premuroso e generoso da uscire ben cinque volte alla ricerca di disoccupati cui offrire lavoro, si rivela subito dopo, se non ingiusto (è pur vero che rispetta i patti), quanto meno capriccioso e brusco («prendi il tuo e vattene», v. 14a). Il contrasto viene sciolto dall’ultima domanda che il padrone rivolge non a tutti gli operai, ma a uno, chiamandolo «amico»: rivolta perciò al lettore del vangelo, a ciascuno di noi personalmente, suona alla lettera: «o il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?». La cattiveria sta nell’occhio dei primi, come Caino verso Abele, i fratelli verso Giuseppe: «Gli operai della prima ora non vogliono riconoscere che è stato un dono essere stati assunti: certo, hanno lavorato dodici ore, ma solo grazie all’invito del padrone di casa. Come la vita è un dono, regalata dal Padre, senza alcun merito da parte di chi la riceve» (ROLAND MEYNET, Una nuova introduzione ai vangeli sinottici, EDB 2001, p. 249).

 

 

Meditazione

La dichiarazione divina trasmessa dal profeta «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8) trova una esposizione narrativa nella parabola evangelica secondo la quale gli operai che hanno lavorato un’ora sola nella vigna del padrone ricevono una paga identica a quella di coloro che hanno lavorato tutto il giorno. Nello scandalo patito dagli operai della prima ora vi è tutta la distanza tra il pensare e l’agire di Dio e il pensare e l’agire degli uomini.

Questa distanza non dice il capriccio di Dio o il suo arbitrio, ma la sua misericordia. Ciò che gli operai della prima ora contestano al padrone è infatti di aver dato la stessa ricompensa agli ultimi arrivati come a loro che avevano patito il peso dell’intero giorno di lavoro. Letteralmente essi dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo» (Mt 20,12). Il fare agli ultimi come ai primi abbatte le discriminazioni e i privilegi. Il Dio biblico, infatti, è il Dio della grazia. Esprime bene questo primato della misericordia e della grazia sulle logiche giuridiche un brano della Catechesi sulla santa Pasqua dello Pseudo-Giovanni Crisostomo: «Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario; chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti: non subirà alcun danno; chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato dalla prima. Fa misericordia all’ultimo come al primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato fin dalla prima».

Il testo ci interpella su ciò che è al cuore della nostra vita con Dio: la relazione o la prestazione? Concepire il proprio servizio a Dio come prestazione conduce a misurarlo e a confrontarlo con il servizio degli altri entrando in un rapporto di competizione. Se invece c’è la relazione con il Signore allora anche il peso della giornata di lavoro è «giogo soave e leggero» e la bontà del Signore verso tutti è motivo di ringraziamento, non di contestazione.

La distanza tra pensieri di Dio e pensieri umani è importante da salvaguardare perché impedisce l’operazione perversa di identificare i propri pensieri umani con quelli di Dio. Questa affermazione contesta la presunzione religiosa che proietta in Dio le proprie azioni e i propri pensieri e identifica le proprie parole su Dio con Dio e la propria volontà con quella di Dio. L’istanza espressa dal profeta è un invito all’umiltà del pensiero, in particolare del pensiero teologico, del pensiero che osa «pensare Dio».

Gli operai della prima ora sono smascherati come invidiosi. E l’invidia è definita come avere «l’occhio cattivo» (Mt 20,15). L’etimologia è illuminante: in-videre, significa «non vedere», «vedere contro», ed esprime lo sguardo torvo di chi si chiede: «perché lui sì e io no?»; «perché a lui come a me che meritavo di più?». L’invidia ci acceca. Se essa è l’insofferenza verso i propri limiti che ci impediscono di raggiungere quello status che vediamo realizzato in altri da noi, essa chiede di essere corretta imparando a desiderare il possibile.

Nell’invidia non solo non si vede più il Dio misericordioso, ma non si vedono neppure più i fratelli: si entra in un rapporto giuridico padrone-servi, e si esce dalla solidarietà con gli altri operai, gli altri uomini.

Male della vita comunitaria ed ecclesiale è la mormorazione (Mt 20,11). Mormorando, gli operai della prima ora affermano che il padrone non aveva il diritto di comportarsi come si è comportato. La mormorazione non è una parola personale chiara che esprime un dissenso leale, ma movimento sotterraneo che aggrega diverse persone che si fanno forza vicendevolmente con il loro malumore per poi esprimersi in accuse e lamentele. La sua logica è la complicità, non la responsabilità.

 

 

 

Preghiere e racconti

 

 

Rattristati dalla felicità degli altri

È indiscutibile: noi siamo spesso rattristati dalla felicità degli altri. È uno degli aspetti del mistero del peccato, della ferita presente in ciascuno di noi, Vi sono persone che si rattristano quando vedono che gli altri si amano. Vi sono degli sventurati che non perdonano agli altri la loro giovinezza, la loro bellezza, la loro intelligenza. Vi sono nella Chiesa dei cristiani imbronciati e laboriosi che non perdonano a certi convertiti di essere stati soggiogati dalla grazia di Dio, apparentemente senza alcun sforzo e merito da parte loro… L’inizio della santità sarebbe riconoscere che, nonostante la disuguaglianza delle nostre vite, non ci manca nulla se Dio è con noi; e allora potremmo gioire della bontà di Dio che sembra amare maggiormente i nuovi arrivati nel suo amore.

(Cl. Geffré, Uno spazio per Dio)

 

 

Il tuo occhio è malvagio, perché io sono buono?

La vigna sono i precetti e i comandi di Dio, il tempo della fatica, la vita presente; gli operai quelli che in modo diverso sono chiamati a compiere i precetti; quelli venuti al mattino, all’ora terza, alla sesta, alla nona e all’undicesima ora sono quelli che sono giunti [alla fede] in età diverse e si sono fatti onore. Ma ciò che è da indagare è se i primi, che si sono splendidamente distinti e sono stati graditi a Dio e che per tutto il giorno hanno brillato per le loro fatiche, si lasciano dominare da quel male estremo della malvagità che è dato dall’invidia e dalla gelosia.

Vedendo infatti che quelli avevano usufruito della stessa ricompensa, dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e del caldo» (Mt 20,12). E sebbene non ricevessero alcun danno e il loro compenso non fosse diminuito, si dispiacevano e si irritavano per i beni altrui, cosa che è propria dell’invidia e della gelosia. E il fatto più importante è che il padrone, che aveva preso le difese di quelli e si era giustificato dinanzi a chi aveva parlato in questi termini, lo condanna per la sua malvagità e la sua estrema invidia, dicendo: «Non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene! Io voglio dare anche a quest’ultimo come a te. Forse il tuo occhio è malvagio perché io sono buono?» (Mt 20,13-15). Che cosa si ricava da queste parole? Quella stessa cosa che possiamo vedere anche in altre parabole. Infatti il figlio stimato per la sua buona condotta viene presentato con gli stessi sentimenti quando vede che il fratello dissoluto riceve molti più onori di lui (cfr. Lc 15,28). Come quelli godettero di un bene maggiore ricevendo la ricompensa per primi, così anche quello veniva onorato di più per l’abbondanza dei doni e lo testimonia il figlio dalla buona condotta.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 64,3, PG 58,612-613).

 

Il ricco e il povero

C’era una volta due fratelli; uno molto ricco, l’altro molto povero. Un giorno il povero faceva la guardia ai covoni di grano ammucchiati nel campo del fratello ricco e mentre se ne stava lì seduto sul covone scorse una donna in bianco che raccoglieva le spighe rimaste nei campi mietuti e le aggiungeva ai covoni. Quando la donna giunse fino a lui, la prese per mano, se la tirò vicino e le chiese che cosa facesse lì. “Sono la Felicità di tuo fratello e raccolgo le spighe rimaste, perché il suo grano sia ancora più abbondante.” “Dimmi, allora, e la mia felicità, dov’è?” replicò il poveretto. “verso Oriente” rispose la donna, e scomparve.

Fu così che il povero si mise in testa di andare per il mondo in cerca della propria Felicità. E quando un giorno di buonora stava per mettersi in viaggio, dal suo camino saltò fuori la Miseria e piangeva e pregava che la prendesse con sé. “Mia cara, – disse il povero  sei troppo debole per affrontare un viaggio così lungo, non ce la faresti mai; ma qui c’è una boccetta vuota, fatti piccina, infilatici dentro e ti porterò con me”.  La Miseria s’infilò nella boccetta e lui senza perdere tempo la tappò con un turacciolo e l’avvolse bene in modo che non si rompesse.

Quando si trovò per via, appena arrivò a un pantano tirò fuori la boccetta e la gettò via, liberandosi così dalla Miseria.

Dopo qualche tempo giunse a una grande città e un certo signore lo prese al suo servizio con l’incarico di scavargli uno scantinato. “Non riceverai del denaro, – gli disse  ma tutto ciò che trovi scavando è tuo”.

Dopo un po’ che scavava trovò un lingotto d’oro, secondo gli accordi gli sarebbe spettato, ma lui ne diede una metà al signore e riprese il lavoro. Arrivò finalmente a una porta di ferro, l’aperse e vi trovò un sotterraneo pieno di ogni ricchezza. Ed ecco che da una cassa lì sotto s’udì una voce: “Mio signore, aprimi! Aprimi!”. Egli spostò il coperchio e da dentro saltò fuori una bella fanciulla tutta in bianco che s’inchinò davanti a lui e gli disse: “Sono la tua Felicità, quella che hai cercato così a lungo; d’ora innanzi sarò vicina a te e alla tua famiglia”. Dopo di che scomparve. Egli rimase poi a guardarsi intorno e a rimirare quella ricchezza  con il suo signore di una volta e da quel momento fu immensamente ricco e la sua fama cresceva di giorno in giorno. Eppure non dimenticò mai l’indigenza di un tempo e si prodigò in tutti i modi per aiutare i poveri del luogo.

Un giorno, mentre passeggiava per la città, incontrò il fratello che si trovava da quelle parti per affari. L’invitò a casa e gli raccontò con tutti i particolari le sue avventure e che aveva visto la Felicità spigolare nel campo di grano e come s’era liberato della propria Miseria e altro ancora. L’ospitò per qualche giorno e quando il fratello stava per partire gli diede molto denaro per il viaggio, fece molti doni alla moglie e ai figli e si separò da lui fraternamente.

Ma suo fratello era un uomo sleale e invidiava la Felicità dell’altro. Da quando aveva lasciato la sua casa non faceva che pensare come far tornare il fratello nella Miseria. Non appena giunse alla palude dove il fratello aveva ficcato la boccetta, si mise a cercarla e non si dette pace finché non la trovò. L’aperse subito. La Miseria  saltò fuori immediatamente, cominciò a crescere davanti ai suoi occhi, saltargli intorno, l’abbracciò, lo baciò e lo ringraziò di averla liberata da quella prigionia.  “Sarò sempre grata a te e alla tua famiglia e non vi abbandonerò fino alla morte”.

Inutilmente il fratello invidioso cercò di dissuaderla, invano la mandava dal suo padrone di una volta; non riuscì in nessun modo a togliersi la Miseria di dosso, né a venderla né a regalarla né a sotterrarla né ad annegarla, gli stette sempre alle calcagna. I briganti lo derubarono della merce che stava portando a casa; riuscì a ritornare chiedendo l’elemosina; al posto del suo palazzo trovò un mucchio di cenere e tutto il suo raccolto era stato portato via da una inondazione. Fu così che al fratello invidioso non rimase null’altro che… la Miseria.

(da: Fiabe di Praga magica,  Arcana ed., 1993).

 

Quando sei chiamato, va’

Tu, quando sei chiamato, va’.

Sei chiamato a mezzogiorno? Va’ a quell’ora.

È vero che il padrone ti ha promesso un denaro anche se vai nella vigna all’ultima ora, ma nessuno ti ha promesso se vivrai fino alla prima ora del pomeriggio. Non dico fino all’ultima ora del giorno, ma fino alla prima ora dopo mezzogiorno.

Perché dunque ritardi a seguire chi ti chiama? Sei sicuro del compenso, è vero, ma non sai come andrà la giornata.

Vedi di non perdere, a causa del tuo differire, ciò che egli ti darà in base alla sua promessa.

(Agostino D’Ippona, Discorso 87, 6.8).

 

Non desiderare le cose altrui

“Se stai cercando di darti delle arie con chi sta in alto, scordatelo. Ti guarderanno dall’alto in basso comunque. E se stai cercando di darti delle arie con la gente che sta in basso, scordatelo lo stesso. Ti invidieranno e basta. Gli status-symbol non ti porteranno da nessuna parte. Solo un cuore sincero ti permetterà di stare alla pari con tutti.” […] “Fa’ il genere di cose che ti vengono dal cuore. Quando le farai, non ne resterai insoddisfatto, non sarai invidioso; non desidererai le cose altrui. Al contrario, sarai sommerso da quel che ti verrà in cambio.”

(Mitch ALBOM, I miei martedì col professore, Milano, Rizzoli, 2006, 132-133).

 

Non andare via, Signore

Quando trovi chiusa la porta del mio cuore,

abbattila ed entra: non andare via, Signore.

Quando le corde della mia chitarra dimenticano il tuo nome,

ti prego, aspetta: non andare via, Signore.

Quando il tuo richiamo non rompe il mio torpore,

folgorami con il tuo dolore: non andare via, Signore.

Quando faccio sedere altri sul tuo trono,

o re della mia vita: non andare via, Signore.

(Rabindranath Tagore)

 

 

Il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!

Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!

Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.

Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.

Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.

Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.

Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.

Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.

Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.

Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.

Al primo dà, all’ultimo regala.

Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.

Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;

primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;

ricchi e poveri, danzate insieme;

sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,

siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!

Il banchetto è pronto, godetene tutti!

Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.

Gustate tutti il banchetto della fede.

Gustate tutti la larghezza della bontà.

Nessuno pianga la sua miseria:

il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.

Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.

Il Cristo è risorto e regna la vita!

A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

Progetto di «prassi cristiana con i giovani»

 

 

Ripensare la pastorale giovanile

José Luis Moral

 

 

La società e le comunità cristiane, nel loro rapporto con i giovani, più che «in–segnare» (mettere cioè in segni, più o meno fissi, quello che sanno), «si–educano», ossia, maturano e crescono ricreando i simboli della vita e della fede. Purtroppo, la relazione della società e della Chiesa con i ragazzi, troppo spesso si è concentrata più sull’insegnare che sull’educare: all’insegnamento corrisponde l’istruzione – decifrare, catalogare e rinnovare segni già saputi –; all’educazione, invece, corrisponde l’iniziazione, ovvero, l’avvicinarsi ai simboli per scoprire i fili dell’esistenza, i vincoli e le relazioni antiche e nuove che ci fanno essere persone.

Intendo parlare in quest’articolo di un «progetto di prassi cristiana con i giovani» sviluppato attraverso tre libri[1], che giustamente inseguono le sorgenti simboliche e, a mio avviso, consentono di ripensare la pastorale giovanile, evitando la trappola di trasformare i simboli della vita in segni posseduti di cui impadronirci. Infatti, il primo volume – Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione – cerca di interpretare lo stato attuale delle risorse simboliche che tanto la cultura come la fede cristiana devono trasferire ai giovani; nel secondo – Giovani, fede e comunicazione. Raccontare ai giovani l’incredibile fede di Dio nell’uomo – provo a far emergere la vera e propria fonte di tutti i simboli, narrando storie sull’amore incondizionato e gratuito di Dio; il terzo – Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani –, infine, si sofferma su come concretizzare una nuova relazione tra i giovani e la Chiesa, attraverso la proposta di una prassi cristiana alternativa.

Ecco di seguito una breve sintesi di ciascun libro. Interpretare, raccontare e attuare sono rispettivamente le prospettive delle tre opere che, nel ripensare la prassi cristiana con i giovani, cercano un’alleanza effettiva con loro: interpretare (1), per definire l’orizzonte antropologico-culturale; raccontare o fare «teo-logica» (2), per cercare di sintonizzare tale orizzonte con quello teologico; infine (3) attuare, con il disegno di uno «schema-modello» a partire dal quale si possa progettare la prassi nella propria situazione concreta e particolare.

 

 

§ Libro 1: Giovani senza fede?

 

L’opera analizza la situazione contemporanea e il suo orizzonte antropologico-culturale in tre direzioni. Inizia con la constatazione che la modernità ha portato con sé un cambiamento radicale del prototipo culturale, dal quale deriva un nuovo stato di coscienza dell’essere umano, mentre, da parte sua, il cristianesimo continua ad incontrare grosse difficoltà nel rivivere la propria esperienza in consonanza con tale contesto. I ragazzi, figli di questo nuovo modo di essere e vivere, incrociano troppe interferenze nel sintonizzarsi con la religione.

Per questo motivo – ed è un ulteriore passaggio –, diventa obbligato l’impegno per una «nuova alleanza con le giovani generazioni» che ricostruisca con esse quello che da sempre – e specialmente nella vita, morte e risurrezione di Gesù, il Cristo – Dio vuole comunicarci. Non solo perché, nel bene o nel male, il futuro del cattolicesimo passa per i giovani, ma anche perché essi – più che rifiutare – sono forse arrivati al punto di capire poco o nulla del senso e valore dell’esperienza cristiana.

Infine, i ragazzi oltre che rappresentare una metafora eloquente, costituiscono una vera profezia, un’opportunità incomparabile per disimparare teologia ed esercitare la «teo–logica»: vale a dire, per entrare con decisione nella logica di Dio, per «praticare Dio», per vivere «con spirito» ed «educar–ci» con i giovani, ricreando quella genuina comunità reale di comunicazione che è la Chiesa, sulla spinta della comunità ideale di comunicazione costituita  dal Regno.

 

 

§ Libro 2: Giovani, fede e comunicazione

 

Scritto in dialogo con i giovani, questo libro tenta di ridisegnare l’orizzonte teologico. Ci troviamo di fronte un Dio che, per primo, crede nell’uomo e la cui fede in noi precede la nostra in Lui; tale consapevolezza, tra le altre cose, consente di ricostruire l’esperienza cristiana in sintonia con l’esperienza umana odierna. È questa la tematica della prima parte del volume, dove i ragazzi manifestano il bisogno di scoprire un Dio che dimostri e dia prova di noi.

Ammirando Dio come quella meravigliosa maniera infinita di essere uomo, si narra poi la «teo-logica» della creazione attraverso l’amore e la salvezza. Davanti a tutto ciò, i giovani s’interrogano sul come fare per capire questo nostro essere stati «creati creatori», quale rapporto esista tra natura e «grazia» o tra naturale e soprannaturale, che cosa significhi «fare esperienza di Dio» e, infine, come mettere in relazione teologia, comunicazione, fede, religione e Chiesa.

Dopo aver compreso l’uomo quale maniera finita di essere Dio, nonostante il peccato lo faccia cadere in «dis-Grazia», si racconta di come questa argilla frantumata venga ri-creata con un «eccesso» che gli permette di «vivere in stato di grazia». La fantasia giovanile, di fronte a un tale scenario, si scatena in mille domande sul peccato originale, il demonio e l’inferno; e, non contenta, avanza quesiti sulla comunicazione nella liturgia, sui documenti del magistero e sulla relazione tra Chiesa e mezzi di comunicazione.

 

 

§ Libro 3: Giovani e Chiesa

 

L’inizio del testo (Imparare a conoscere: Ricostruire la comunicazione), presenta il pluralismo come la «cifra» e la chiave interpretativa della situazione attuale. Ci vuole, dunque, una «prassi ermeneutica» in grado di ascoltare Dio nella realizzazione dell’uomo e, nel contempo, di ricostruire la comunicazione fra i giovani e la Chiesa.

La seconda parte (Imparare ad essere e a vivere insieme: Ripensare l’identità e l’orientamento), collocandosi sui binari della ricerca di senso, aspira a presentare un’identità umano-cristiana con cui vivere e proporre la fede senza dover fare a meno dello stato di coscienza delle donne e degli uomini, dei ragazzi contemporanei. La strada è questa perché la fede va educata dentro i dinamismi storici della crescita umana: il tutto poggia, da un lato, sulla «qualità-senso» della vita e, dall’altro, sulla «liberazione–salvezza» che Dio ci dona in Gesù Cristo.

Già nella terza parte (Imparare a fare: Ripristinare l’azione, progettare la prassi), una volta afferrato che Dio provoca la nostra libertà con un progetto di amore radicato nell’intimo di ogni esistenza umana – per cui il «sì alla vita», al senso più profondo della propria umanità è un «sì a Dio» –, arriva il momento dell’azione propriamente detta: il momento cioè della progettazione e programmazione della prassi cristiana con i giovani, entrambe finalizzate alla costruzione di veri cittadini e cristiani giovani, che affrontino la vita con lo Spirito di Gesù e accolgano la salvezza di Dio non soltanto nella ricerca del senso, ma anche – e soprattutto – nella lotta per la giustizia.

 

 

  1. 1. Prassi cristiana con i giovani

 

Si tratta, quindi, di ripensare la pastorale giovanile; il sottotitolo di queste riflessioni ne indica l’esito: disegnare una prassi in grado di far sì che i giovani diventino «cittadini nella Chiesa» e «cristiani nel mondo». Prima di entrare nel tema, però, si rende necessaria una precisazione circa lo stesso cambiamento terminologico. Infatti, opto per l’espressione «teologia della prassi cristiana» al posto della tradizionale teologia pastorale o pratica e, conseguentemente, rinomino «prassi cristiana con i giovani» quanto è abitualmente identificato con pastorale giovanile.

 

1.1. Teologia della prassi e prassi cristiana con i giovani

 

Non vorrei entrare in una inutile guerra di parole. Alla base delle modifiche linguistiche esiste un intento fermo di ricostruire la teologia pastorale o pratica in termini di «teologia della prassi cristiana», intesa quale riflessione e confronto critico dell’esperienza cristiana della comunità ecclesiale (e la sua costituzione come comunità di comunicazione nella vita interna e nell’annuncio esterno della salvezza) con l’esperienza umana attuale, alla ricerca di una realtà sociale più giusta ed umanizzante; l’obiettivo di questa specifica correlazione critica è quello di portare alla verifica della propria identità religiosa (in quanto cristiani) e dell’inserimento e collaborazione negli impegni comuni (in quanto cittadini) per dare senso alla vita e alla storia dell’umanità.

Supera le possibilità di queste righe entrare nei dettagli che, ad ogni modo, ho cercato di giustificare in un altro lavoro più tecnico[2]. Comunque, mi sembra ormai condiviso che la breve e travagliata storia della teologia pastorale continua a collocarci in un presente incerto e ci pone davanti un futuro ambiguo. Intendo reagire con un duplice spostamento: il primo, attraverso una specie di scossa simbolica legata alla modificazione dell’appellativo; il secondo, con una (corrispondente) nuova definizione dell’identità.

Il cambio nominale, da una parte, permette eliminare tanto il significato esclusivamente interno della parola «pastorale», come il tono generico e vago del termine «pratica»; dall’altra, da il via ad una nuova carica simbolica che, pur ruotando attorno a un’espressione usata in tutte le lingue (prassi), conserva i tratti originali della sua peculiarità[3].

Tuttavia il quid risiede nella definizione con cui aprivo questo punto. L’identità classica della teologia pastorale – per così dire e semplificando – gira attorno alla Chiesa, il che comporta il rischio di non mettere sufficientemente a fuoco il vero centro di tutto, cioè, il Regno di Dio. La mia proposta cerca di andare incontro vuoi a questo pericolo vuoi ad altri derivati da possibili dualismi (esperienza umana ed esperienza cristiana, comunità sociale e comunità ecclesiale, ecc), con una teologia della prassi cristiana in grado di intrecciare profondamente la costruzione del cittadino e del cristiano, della Chiesa e della società nell’orizzonte convergente del Regno, della salvezza e del senso.

Da ciò deriva la correlativa trasformazione della pastorale giovanile in «prassi cristiana con i giovani». Nonostante le concretizzazioni specifiche, servono anche le ragioni precedenti per giustificare questa seconda scelta. A ciò, si aggiunge la carica inedita dell’articolazione della parola prassi nelle due accezioni con cui si usa: nella prima – teologia della prassi – il soggetto o il sostantivo principale è la teologia; nella seconda – prassi cristiana con i giovani – è la prassi ad essere sostantivo e soggetto centrale, allargato in un rapporto di specificità («con») ineludibile. Questi aspetti sono sostanziali: nel caso della teologia della prassi, indichiamo che la chiave della sua identità ricade nelle esigenze della teologia, mentre, quando trattiamo della prassi cristiana con i giovani, il perno si sposta sulla prassi concreta dei giovani fatta o vissuta con loro[4].

 

1.2. Epistemologia, criteriologia e prospettiva educativa della prassi

 

Ovviamente non è possibile raccogliere in alcune poche pagine quanto ho scritto in più di settecento. Quindi cercherò di sottolineare gli elementi che meglio chiariscono la variazione della rotta nella direzione sopra indicata (con tutte le riserve dovute alle necessarie semplificazioni che comporta un lavoro di questo genere).

Il progetto, anzitutto, poggia su una duplice base strutturante: 1/ L’assunzione dell’epistemologia ermeneutica quale paradigma o matrice disciplinare della teologia pratica e, in genere, della prassi cristiana con i giovani; 2/ La collocazione specifica di quest’ultima in una prospettiva educativa. Ermeneutica ed educazione, inoltre, consentono di ridare una profondità coerente all’orizzonte antropologico-culturale e teologico entro il quale viene posizionata la proposta.

Ciò detto, nella situazione attuale tutto preme verso l’impegno di ripensare con i giovani – e dalla parte loro! – la religione e la fede. Insieme a questa fedeltà ai ragazzi, tre sono i criteri fondamentali che, dal punto di vista cristiano, devono guidarci: il principio Incarnazione, la ripresa dell’idea di creazione e il collegamento intrinseco fra salvezza e liberazione (liberazione, presente della salvezza; salvezza, futuro della liberazione). Recupero così l’intera sequenza «creazione–incarnazione–redenzione», riportandola da vicino alla realtà della vita contemporanea.

Al centro rimane il «principio incarnazione», insieme all’annuncio del vangelo della salvezza. Il recupero dell’importanza del concetto di creazione o, meglio, di «creazione dall’amore» permette di capire, da un lato, che ciò che a Dio interessa siamo noi nella nostra interezza – corpo e spirito, individuo e società, cosmo e storia –; dall’altro, che Dio ci ha «creati creatori» (a sua immagine), ossia, la creazione non rimanda a persone e oggetti passivi, bensì ad una realtà infinitamente partecipativa. Le conseguenze di questa centralità sono importanti, perché da questa visione nasce un modo aperto e positivo di situarsi nel mondo in sintonia con lo stato di coscienza dell’uomo contemporaneo (fiero, a ragione, della sua autonomia creativa). Si comprende allora perché, nel pensare l’azione divina e l’azione umana, “il Creatore non deve «venire» nel mondo, perché è già sempre dentro di esso, nella sua più profonda e originaria radice; e non deve ricorrere a interventi puntuali, perché la sua azione, lunghi dall’essere intermittente e sporadica, da sempre e senza tregua sostiene, dinamizza e promuove tutto: il Padre «opera da sempre» (Gv 5,17) nella sua creazione” (A. Torres Queiruga).

Quanto fin qui detto, fa capire subito che la pastorale giovanile odierna deve andare oltre la pur necessaria «mentalità di progetto», verso cioè una mentalità strategica in grado di affrontare il presente e di pensarlo in prospettiva di futuro, mediante l’indicazione di chiavi, priorità e sequenze che si inseriscano nelle dinamiche vitali delle nuove generazioni. In ogni caso, la mia posizione strategica è incentrata sulla ricostruzione dell’esperienza cristiana: tale processo va legato al recupero dell’umanità della fede e della religione, affinché sia possibile «educar–ci» insieme ai giovani accettando il pluralismo e integrando creativamente la secolarizzazione, con la conseguente ricollocazione del cattolicesimo nelle società democratiche occidentali.

La «mentalità ermeneutica» e lo «sguardo educativo», in questo contesto, portano ad una definizione rinnovata dell’obiettivo della prassi cristiana con i giovani – formulato abitualmente in termini di «sintesi tra fede e vita» (con il rischio di dare per scontato quello che si doveva definire, ossia, quale vita e quale fede volevamo unire) – attorno all’umanizzazione, ritenuta la via più adeguata perché fede e vita si armonizzino nel cammino del divenire cittadini e cristiani giovani.

Il linguaggio presenta sempre dei pericoli: consegnare l’obiettivo all’umanizzazione può apparire più dinamico, ma rischia di essere riduttivo; collocarlo nell’ambito della divinizzazione è più completo, ma può risultare astratto e persino vuoto. Nonostante umanizzazione e divinizzazione costituiscano un’unica realtà[5], lo stesso paesaggio visto da sponde diverse, se sottolineiamo eccessivamente l’umanizzazione rischiamo di nascondere l’orizzonte della divinizzazione; mentre, mettendo l’accento su questa, corriamo il pericolo di oscurare la realtà concreta dell’umanizzazione alla quale la stessa divinizzazione deve ancorarsi.

Ma non è soltanto una questione di parole: parlare di umanizzazione – vincolata alla creazione, Incarnazione e salvezza dell’uomo – risulta oggi più significativo e permette di comprendere meglio che Dio è dalla nostra parte, che è così coinvolto nei progetti umani di liberazione da trasformarli – già adesso! – in segni di salvezza che anticipano nella storia la loro realizzazione escatologica.

 

 

  1. 2. Situazione e direzione ermeneutica del progetto

 

Non basta semplicemente guardare la situazione per interpretarla e cercare di comprenderla. Il presente che viviamo è in se stesso una «situazione ermeneutica», il comprendere dipende soprattutto da un processo inserito nella storia degli effetti (o delle determinazioni) che provengono dal passato e costituiscono un «presente spiegato» (situazione ermeneutica) il quale, per essere capito e rendere possibile un futuro autenticamente umano, deve essere reinterpretato. Per questo motivo H.-G. Gadamer afferma che “chi non ha un orizzonte è un uomo che non vede abbastanza lontano e per questo motivo sopravvaluta ciò che gli sta più vicino. […] Il compito della comprensione storica porta con sé l’esigenza di appropriarsi, in ogni singolo caso, dell’orizzonte storico in base a cui ciò che si deve comprendere si presenta nelle sue vere dimensioni. Chi non si preoccupa di collocarsi nell’orizzonte storico a cui il dato appartiene e dal quale ci parla non può capire il significato di tale dato”[6].

 

2.1. Un «cambio epocale»

 

Indubbiamente, il nostro è un «tempo di crisi» e di «cambio epocale». La rivoluzione sociale e culturale viene da lontano. Di conseguenza (questi sono gli effetti fondamentali di cui servirci per l’interpretazione), ci troviamo con un nuovo modello esplicativo generale: la modernità introduce un processo irreversibile le cui ancore sono fissate nell’autonomia della realtà mondana, nella radicalità storica dell’essere umano e in una razionalità antropocentrica che si distende liberamente e creativamente (con non poche sconfitte e problemi, ma anche con tante soluzioni e conquiste!). Infatti, l’evoluzione storica dell’umanità – in particolare negli ultimi tre secoli – e le profonde trasformazioni introdotte tanto dalle scienze empiriche come dalle moderne scienze dell’uomo, non solo prospettano un universo simbolico diverso da quello che servì per formulare la fede e giustificare l’esperienza cristiana, ma soprattutto introducono un inedito paradigma o prototipo interpretativo per comprendere la vita umana, un’autentica rivoluzione dei modi di sentire, pensare, valorizzare e agire.

Qui risiede il punto: ci troviamo con il radicale mutamento della vita e del pensiero umano che una volta servirono per esprimere il contenuto dell’identità e del messaggio cristiani: l’esperienza di fondo continua ad essere la stessa; la cultura però è cambiata sostanzialmente.

Da un parte, quindi, la fede cattolica continua a narrarsi con strutture, forme, linguaggi e simboli antichi, non raramente incomprensibili; dall’altra, la sensibilità e le esperienze umane dei nostri giorni fanno sempre più fatica ad entrare in sintonia con il cristianesimo e la religione in generale. Il risultato è che oggi, in Occidente e dopo numerose vicissitudini, non sono pochi quelli che finiscono per non credere più alla storia raccontata dalla Chiesa, e non sono molti quelli che continuano a fare l’esperienza che sta alla base della fede. Non di rado, gli stessi cristiani si rassegnano ad una specie di doppia vita (la secolare e la religiosa)[7]: l’esperienza umana contemporanea, con tutti i suoi limiti, ci ha trasformati in cittadini coscienti dell’uguaglianza, dell’autonomia, della libertà, generando atteggiamenti critici e democratici; mentre l’esperienza religiosa, a causa dello sfasamento dovuto a interpretazioni premoderne, produce cristiani – mi si consenta la scarna e polarizzata descrizione – in attitudine di (religiosa?) sottomissione.

Ecco dove situo il progetto di prassi cristiana con i giovani: dall’Illuminismo in poi, tutto è stato rimosso, discusso, analizzato e sottomesso al tribunale dell’essere umano. La fede e la religione cristiane non si trovano a loro agio in questo contesto. L’obiettivo dell’ultimo Concilio di offrire un volto vivo e attuale dell’esperienza cristiana è ancora lontano, mentre incalza l’urgenza di ripensarla e ricostruirla con categorie e pratiche che ricreino la vita e vivifichino la speranza degli uomini e delle donne del nostro tempo.

È vero che l’esperienza cristiana sta ancorata alla fede; tuttavia non è meno vero che per credere in Dio c’è bisogno che sia e risulti credibile. La messa in questione dello stampo originario con cui si coniava quell’esperienza, ha rivelato una cultura religiosa preoccupata di custodire una tradizione carica di forme sempre più incomprensibili e ostacolata dal peso di una istituzione in buona parte ancora sacralizzata. Fatalmente, in tale panorama, Dio stesso rischia il discredito.

 

2.2. Quale Chiesa, quali comunità e nuove generazioni di cristiani vogliamo?

 

Bisogna dirla tutta: parecchi ingredienti del complesso percorso che delimitiamo come «modernità» sono stati oggetto di numerose critiche e debbono ancora essere sottoposti, come ogni prodotto umano, a una costante revisione. Segnalo, di seguito, alcuni degli aspetti più negativi che hanno condotto la civiltà occidentale a scontrarsi con due ostacoli pericolosissimi: la frattura culturale (e religiosa) dell’identità-orientamento della vita e la simulazione come gioco vincente nella comunicazione-azione dell’uomo.

L’identità personale e l’orientamento generale e sociale, in primo luogo, sono colpiti dai diversi guai che insediano l’umanità dal XVIII secolo in poi: da una parte, la crescente soggettivazione apre l’abisso dell’individualismo più egoista e chiuso; dall’altra, l’ideale illuminista di una «nuova società» finisce alla mercé della ragione scientifico-tecnica e dell’economia liberal-capitalista come centro produttore di significato sempre più preponderante. Una «società a rischio», dunque, dove aumentano le ingiustizie e le minacce alla stessa sopravvivenza dell’uomo: le disumane condizioni di vita nel «terzo mondo»; le esclusioni in aumento nel primo e nel secondo; la perdita collettiva di senso e direzione nell’esistenza; l’insensata distribuzione della ricchezza e l’assurda carriera consumistica; la manipolazione genetica; l’onnipresente terrorismo e la pretesa di istituzionalizzare la «guerra preventiva» contro di esso; il degrado ecologico e il pericolo delle arme biologiche e chimiche; la disuguaglianza e l’emarginazione fra culture e persone.

Altrettanto succede con la comunicazione e l’azione umane: la pretesa della modernità si può riassumere, con M. Weber, catalogandola come «processo di razionalizzazione». Processo che non solo attraversa tutte le realizzazioni intellettuali, artistiche e istituzionali dell’Occidente, ma che si pone anche alla base della conformazione mentale, delle motivazioni e dei comportamenti umani. Lo «spirito moderno» si dispiega come razionalità analitica e critica, formalismo sistematizzatore o procedurale, predisposizione per il calcolo di risultati e la verifica empirica. Inoltre, l’idea di ragione propizia una teoria della conoscenza che demarcherà i territori della scienza, delle credenze e delle superstizioni. Questo tragitto, in sé positivo, finisce però per spaccare la comunicazione e l’azione a causa di tre errori ancora presenti: la frammentazione della ragione, il predominio della razionalità strumentale e l’unidirezionalità empirica della conoscenza. Palesi sono le conseguenze di questi sbagli enormi che, alla fine, sfociano nella sostituzione della realtà con una sua immagine, il «crimine perfetto» secondo J. Baudrillard.

La nascita di un mondo in cui la tecnica s’intronizza come regina assoluta suppone dunque una rottura, non solo con le concezioni tradizionali della scienza (mai riducibile ad un semplice strumento), ma anche con le finalità della vita umana. Approdiamo così ad una sorta di sradicamento del senso per incentrare tutto sul trionfo, sul risultato come unico oggetto di culto, e rimpiazzare la «logica del senso» con la «logica della competenza». Allo stesso modo siamo ormai sopraffatti dalla sensazione che i processi storici riguardanti la nostra vita quotidiana, meccanicamente indotti, si sviluppano ad una velocità sfrenata e, soprattutto, al margine di ogni finalità visibile. Vivere, sopravvivere o realizzarsi sono intercambiabili e, quando non avviene l’insuccesso o il fallimento, sempre ci aspetta la minaccia della banalità, dell’insignificanza e del tedio. È la logica infinita e sprovvista di finalità del mondo della tecnica (e del consumo), e quando meno te lo aspetti, ti butta nelle braccia della noia.

Ma la cortesia non toglie la gagliardia. Di fronte alla razionalità autonoma, alla storicità, alla libertà e secolarizzazione, alla democrazia, ecc, non basta una pur necessaria depurazione critica, e neanche riconoscere semplicemente la loro ineluttabilità: il processo che hanno avviato è ormai irreversibile, in quanto la coscienza umana li ha introiettati nella sua configurazione centrale e d’ora in poi costituiranno il fondamento delle «credenze» che articolano il substrato culturale umano.

Ciò riconosciuto, ecco la questione: quale cristianesimo, quale Chiesa, quali comunità e nuove generazione di cristiani vogliamo? Tutto conduce qui; anzi, tutto dipende da questo interrogativo al quale non riusciamo a dare una risposta adeguata. E, se la teologia in genere si preoccupa della correlazione fra l’identità-esperienza cristiana e quella umana, lo specifico della pastorale – rispetto al resto delle discipline – consiste nel fare della prassi il punto di partenza: nel nostro caso, l’esistenza concreta dei giovani e della comunità cristiana è il «luogo teologico» per eccellenza in cui ascoltare e comprendere tanto la parola immediata di Dio come la risposta ecclesiale più adeguata alla medesima.

Risulta palese che dobbiamo pensare il cristianesimo non solo con e per le nuove generazione, ma anche dal loro punto di vista: in fin dei conti, un’essenziale pietra d’inciampo per misurare il futuro della religione cattolica risiede nella capacità di ripensarla a partire dai giovani, ai quali ovviamente va diretta, come destinatari in grado di confermare o smentire quel futuro. Inoltre, è proprio in questo contesto che si inserisce la mancanza di sintonia: c’è qualcosa che precede l’eventuale disaccordo o rigetto della fede, ed è la comprensione o meno da parte dei ragazzi di quello che diciamo e dell’esperienza che proponiamo. Tante volte il problema risiede a questo livello, per cui neanche si arriva a formulare un vero e proprio rifiuto: semplicemente si abbandona ciò che non si capisce.

Finalmente, una «società a rischio» come la nostra rappresenta sicuramente un «pericolo di vita» per i giovani, anzi, la loro esistenza è regolarmente in situazione di emergenza. C’è bisogno di una prassi cristiana, dunque, in grado di affrontare questa minaccia fondamentale che concerne la vita e la felicità, il senso e la speranza delle nuove generazioni. Una prassi che sia strutturata attorno ai nuclei problematici dell’«identità-orientamento» e della «comunicazione-azione»: nel primo si concentra la sfida del futuro, quella tra umanità o disumanità, tra giustizia o ingiustizia; mentre il secondo nucleo indica la strada del dialogo educativo e degli accordi per rendere possibile un mondo più giusto.

 

 

  1. 3. Orizzonte antropologico-culturale e teologico

 

Vengo, quindi, a sottolineare l’importanza capitale della prospettiva antropologica in questo nostro tempo di mutamento profondo dell’immagine umana; tempo che ci obbliga ugualmente a ripensare numerosi aspetti dell’orizzonte teologico, per tanti versi incapace di sintonizzarsi ed accogliere il nuovo stato di coscienza dell’essere umano odierno. Qualsiasi educazione alla fede che non assuma, con tutte le sue conseguenze, le trasformazioni ormai consolidate nel modo umano di essere e vivere, non solo metterà in grosse difficoltà la crescita e la maturazione dei giovani, ma comporterà anche l’impossibilità di unire la fede cristiana e la vita delle donne e degli uomini contemporanei.

Come accennavo al principio, i due primi volumi del progetto si dedicano maggiormente a precisare l’orizzonte antropologico-culturale (1° ) e l’orizzonte teologico (2°) della prassi cristiana con i giovani.

 

3.1. Oltre la secolarizzazione: la verità nell’orizzonte del pluralismo

 

Se, infatti, la teologia in genere si preoccupa della correlazione fra l’esperienza cristiana – quella originaria, in primis, e la sua manifestazione odierna – e l’esperienza delle donne e degli uomini contemporanei, lo specifico della pastorale consiste nel fare della prassi il punto di partenza: nel nostro caso, la vita delle comunità cristiane e il loro rapporto con i giovani è il «luogo teologico» per eccellenza.

Non entro nel merito di un tema ormai acquisito, ovvero, della prassi della comunità cristiana come luogo teologico centrale per la teologia pastorale. Nel caso della pastorale giovanile, poi, questo è ancora più vero, infatti qui non si tratta inizialmente di pensare alla luce della Scrittura e della Tradizione o di organizzare e indicare dottrine da trasmettere; anzi, e senza voler contrapporre, si potrebbe dire quasi il contrario: è dal contatto diretto con i ragazzi, con il bagaglio delle loro speranze e frustrazioni, dei loro aneliti e contraddizioni… che la comunità deve ripensare la stessa Scrittura e Tradizione, insieme al modo corrispondente di annunciare loro la salvezza, il «vangelo» e le buone notizie che vengono da Dio[8].

In tale prospettiva, senza dubbio, le nuove generazioni più che un problema per le comunità ecclesiali, sono una sfida e un’opportunità: un’eccellente occasione per ripensare l’esperienza cristiana originale e collegarla creativamente con quella umana attuale – adeguandola ai dinamismi antropologici moderni – oltre che una inestimabile occasione per ricostruire la «pratica religiosa».

Lo vogliamo o meno, la modernità e il suo prolungamento critico – lo si chiami postmodernità o postilluminismo – configurano l’habitat delle persone e dei gruppi religiosi, in quanto rappresentano una parte fondamentale del luogo teologico di ogni prassi cristiana. Qui si scorge il profilo dell’orizzonte antropologico-culturale che contiene alcune delle realtà già esposte, come il cambio del paradigma esplicativo generale e la modificazione radicale dell’esperienza umana. Riassumo il resto, semplificando forse un po’ pedestremente ed esageratamente, con una battuta heideggeriana e qualche riflessione attorno al pluralismo.

Heidegger annunciava l’evoluzione dell’antropologia col simbolo del passaggio «dall’essere come struttura all’essere come evento». Infatti, è successo proprio questo (benché da ciò non si debba dedurre la sparizione dell’essere). Ce lo manifestano chiaramente i giovani, anticipando il nuovo modo di essere e vivere che emerge dai cambiamenti sostanziali ancora in corso. Forse l’enunciato di questa anticipazione – dolorosa come qualunque nascita – risulta più chiaro se semplificato con la nota immagine della bussola e del radar. L’uomo-bussola di ieri – in accordo con il quale sono stati educati la maggior parte degli adulti – orienta la sua vita seguendo un nord (più o meno) fisso, sempre lo stesso e (più o meno) uguale per tutti; un nord che esiste a prescindere dal resto e che indica la meta suprema del cammino umano. Al contrario, l’uomo-radar – al quale tutti apparteniamo inevitabilmente, e che già configura la struttura delle giovani generazioni – si orienta attraverso uno schermo personale dal cui centro parte un raggio luminoso e vibrante che ruota a trecentosessanta gradi e reagisce con risposte sempre nuove e cangianti a seconda di quanto incontra sulla sua traiettoria.

L’insicurezza che comportano i mutamenti antropologici e culturali, alle volte, ci spinge a negare l’evidenza del cambio a causa di alcune delle sue conseguenze negative, come il relativismo e il secolarismo che ideologicamente, poi, trasformiamo in categorie essenziali per giudicare la cultura e la società contemporanea. Tutti sappiamo che tale meccanismo si utilizza frequentemente per nascondere due delle certezze acritiche distrutte dal nuovo orizzonte antropologico e culturale: la pretesa di «possedere la verità» e, per ciò stesso, la consapevolezza di avere un ruolo sociale preponderante. Invece, ancora fatichiamo tanto ad ammettere sia la relatività di ogni affermazione umana che la secolarizzazione delle strutture sociopolitiche.

Infine, la migliore carta d’identità per delimitare l’orizzonte antropologico-culturale (un fatto così ovvio che non vale la pena documentare) è il pluralismo. Tale realtà, in effetti, si presenta come l’autentico perno interpretativo in grado di decifrare il nostro momento storico, costituisce cioè il supporto in cui convivono e persino gareggiano fra di loro, con naturalezza, diverse visioni del mondo. Tale disposizione è il risultato normale che deriva dall’universo simbolico moderno: il pluralismo poggia su una visione antropologica che ritiene l’uomo capace di autodeterminarsi a partire dalla sua ragione e, oltre a rappresentare una questione centrale dello spirito umano, appare come un’esigenza radicata nella natura e nella storia.

Il pluralismo non è tanto frutto dei capricci della modernità quanto il risultato della convergenza e divergenza di numerosi fattori particolari. Manifesta, insomma, la ricchezza universale e, seppure renda più complicato l’orientamento vitale delle persone per il moltiplicarsi delle offerte e delle possibilità, non può essere interpretato riduttivamente come un segnale di confusione o debolezza. Più che difficoltà, il pluralismo è possibilità. Tuttavia, possibilità non è uguale a garanzia, e occorre riconoscere che l’attuale complessità sociale trasforma il pluralismo non solo in un argomento teorico ma anche in un grave problema pratico, che può tradursi in esperienze di disorientamento e persino di caos.

 

3.2. La rivelazione di Dio nella realizzazione dell’essere umano

 

L’orizzonte teologico della prassi cristiana si allaccia strettamente alla consapevolezza che deriva da ciò che riguarda l’orizzonte antropologico-culturale. Sintetizzo, ricorrendo ad una nuova semplificazione: l’esperienza cristiana, la sua narrazione o le formule della fede nascono all’interno di un orizzonte culturale statico. Una concezione astratta (ed essenzialista) della realtà dove tutto era fissato fin dall’inizio, dove pure il movimento era già determinato e non ammetteva deviazioni. Sotto questo aspetto, la creazione e la storia umana erano pensate perfette e complete; in quanto il male e le imperfezioni si ritenevano conseguenze negative successive (il peccato!) o causate da interventi di agenti perversi (il demonio!). Per una cultura così, ogni novità desta sospetti: la perfezione dell’uomo sta al principio (il paradiso!) e ciò che conta è il ritorno a quelle origini o la restaurazione del passato (la redenzione!).

La modernità, all’opposto, ci ha introdotti in una visione dinamica: la perfezione non sta più negli inizi, ma alla fine del cammino evolutivo, e per conoscerla non bisogna tanto volgere lo sguardo indietro quanto guardare in avanti, proiettarsi verso il futuro. Per una visione di questo tipo, il tempo e la storia acquisiscono una valenza straordinaria: più che il luogo dove accadono le cose, configurano la struttura profonda di quanto accade, l’intima realtà dello stesso essere umano. Sicuramente questo punto di vista non nega le verità che conteneva il precedente, tuttavia ci obbliga a ripensarle e a riformularle tutte in questa nuova prospettiva.

La scoperta del carattere storico ed interpretativo dell’esistenza umana o, con altre parole, il transito da una visione statica ad un’altra dinamica, ha anche condotto la teologia a trasformarsi: da scienza occupata a conoscere gli intrecci di un sapere accumulato lungo i secoli (il «deposito della fede» cristiana), a scienza che cerca di comprendere il significato di un’esperienza ancora viva. In poche parole, la teologia è passata dal sapere all’interpretazione[9]. Indubbiamente, il concilio Vaticano II sta alla base di tale conclusione, in quanto ci orientò a capire che la rivelazione di Dio avviene nella realizzazione dell’uomo[10].

Su questo scenario, l’orizzonte teologico proposto nel progetto si distende in una duplice direzione: 1/ Sistemazione dei contenuti della fede cristiana; 2/ Riformulazione dei nuclei tematici dell’antropologia teologica.

Il primo aspetto si avvia sulla meravigliosa piattaforma dell’amore (universale, gratuito, incondizionato e asimmetrico) di Dio, manifestato (Dio nessuno lo ha mai vist0) in un uomo, fatto cioè comprensibile e sperimentabile in Gesù. A partire da tale evento, sappiamo che arrivare a Dio non comporta uscire dall’uomo, ma entrare più intimamente nella propria umanità; che raggiungere Dio non significa perdere noi stessi, ma trovare la nostra più profonda e piena realizzazione. Dopodiché i nuclei teologici si concentrano nella cristologia, pneumatologia ed ecclesiologia.

Gesù, il Cristo, costituisce il modello supremo di ogni esistenza ed esperienza cristiana: in questa prospettiva, possiamo affermare che «Dio Abbà» e il Regno rappresentano le assi portanti di ogni vita e prassi cristiane.

Gesù di Nazaret, poi, non solo svela il volto amoroso di Dio, ci manifesta anche lo Spirito e il dinamismo che questi inserisce nell’essere umano: vivere «con spirito» porta ad affrontare la realtà per restituire vita e dignità, soprattutto a coloro che ne sono stati spogliati e trattati ingiustamente dai propri fratelli (cf. Lc 4,18-21).

D’altra parte, mettendo insieme il problema comunicativo con la sacramentalità e la comunione, con cui definisce il Vaticano II l’ecclesiologia, la prassi cristiana con i giovani dovrà sforzarsi per fare una lettura della Chiesa in termini di «comunità reale di comunicazione», nella quale si presuppone il Regno come «comunità ideale di comunicazione».

Finalmente, il progetto dedica tutto un libro – il secondo – alla riformulazione dell’antropologia teologica. Elenco semplicemente alcuni dei temi analizzati: una creazione fatta per amore e per la salvezza; un’immagine divina di creta o la «dis-Grazia» del peccato; l’«umiltà di Dio» per la grandezza dell’uomo; la giustificazione come umanizzazione per la fede; la filiazione divina e la fraternità umana che culminano nell’eccesso di «cieli e terra nuovi». Dietro questi enunciati stanno le cose concrete, ripensate seguendo il filo rosso delle domane dei ragazzi: Cosa vogliono dirci i racconti della Genesi? La creazione è compatibile con l’evoluzionismo? Che cosa s’intende per salvezza e per peccato? Esistono gli angeli, il demonio, il cielo e l’inferno? Per diventare persone sono necessarie la religione, la fede e la Chiesa? Cosa significa incontrare Dio, incontrare Gesù Cristo?

 

 

  1. 4. Progettare la prassi cristiana con i giovani

 

Dio provoca la nostra libertà con un progetto di amore radicato nell’intimo di ogni esistenza umana; il «sì alla vita», al senso più profondo della propria umanità è un «sì a Dio», è già risposta a Lui e fede dell’uomo in Dio. Benché la prassi cristiana con i giovani non debba fermarsi lì, in quanto indubbiamente aspira alla mèta dell’incontro con Cristo, non potrà mai saltare questo dato di base. In definitiva, dunque, il mistero dell’essere umano “trova vera luce nel mistero del Verbo incarnato. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo, [il quale] svela pienamente l’uomo a se stesso” (GS 22).

Tuttavia, nel cercare di condurre i giovani a Cristo, la prassi cristiana non può avere altro programma che quello di accostarsi alla vita dei ragazzi, all’attualità del mondo, alle gioie, alle tristezze e alle speranze delle nuove generazioni. In questa direzione deve situarsi la mutua implicazione di educazione e fede: maturare e crescere come persone, ossia, in un profondo e umano rapporto con la natura, con gli altri e con l’«Altro», che contiene la possibilità stessa della fede. Così le scienze dell’educazione e la saggezza della fede si fecondano vicendevolmente in un rapporto dialogico permanente. La prassi cristiana con i giovani sa che queste sono pietre miliari del cammino per ricercare la qualità e il senso della vita; la meta però sta più in là, e occorrerà preparare il «salto» da questa base antropologica all’esperienza cristiana della salvezza, attraverso l’incontro con Gesù Cristo e l’adesione alla comunità ecclesiale

 

4.1. Progettare l’azione educativa

 

Una volta scoperte alcune delle chiavi e la prospettiva strategica della proposta, basterà un semplice schema per capire il progetto in questione che, anzitutto si struttura, da un lato, attorno ai «pilastri dell’educazione», secondo la definizione del cosiddetto «rapporto Delors» (imparare a conoscere, imparare ad essere e vivere insieme, imparare a fare); e, dall’altro, ai nuclei problematici del nostro tempo (identità-orientamento della vita, comunicazione-azione umana). Ciò sta a manifestare che si tratta di un «progetto educativo» il quale, inoltre, prende atto del rinnovamento pedagogico in corso[11]: in poche parole, di fronte al classico «oggetto educativo» inteso, per così dire, come sapere istituito ed amministrato, la novità consiste nel costituirsi di un gruppo (animatori e giovani) che studia ed affronta le sfide della situazione: in questo modo si educano, ossia, crescono e costruiscono… insieme.

Il progetto, quindi, intreccia intimamente teologia, educazione ed umanizzazione, che si fondono senza confondersi. E dove «educar-ci» è vivere, esistere, uscire da sé; è conoscere e amare quelle relazioni con la natura, con gli altri e con Dio nelle quali maturiamo. Non è il caso di scendere nei dettagli dell’argomento epistemologico e metodologico che comportano queste affermazioni che, ad ogni modo, vogliono esprimere una chiara posizione interdisciplinare di matrice ermeneutico–prassica.

L’interpretazione, comunque, deve essere guidata dai tre criteri essenziali già segnalati: il dinamismo della creazione, il «principio incarnazione» e uno stretto rapporto fra salvezza e liberazione.

Ciò riconosciuto, subentrano le ultime due chiavi del progetto: 1/ La specificazione degli obiettivi particolari, a partire da quello generale; 2/ Il modello di educazione o, meglio, la direzione e struttura dei processi educativi.

Ho già affermato che la miglior esplicitazione dell’obiettivo della prassi cristiana con i giovani si trova nell’umanizzazione. Tale criterio deve poter essere letto quale «criterio etico» – per indicare la linea di comportamento che rifiuta in radice quanto possa contraddire l’umanità – e, alla pari, quale «criterio mistico» – in quanto integra l’autenticità umana con l’apertura alla trascendenza –. Poi, l’ulteriore concretizzazione degli obiettivi specifici deve avvenire, senz’altro, in un processo di «soluzioni dei problemi», all’interno del quale si fissano i correlativi obiettivi educativi. D’altronde, così come gli obiettivi particolari hanno come punto di riferimento basilare quello generale, si potrebbe dire che l’insieme dei problemi o sfide è anche radicato nel duplice nodo intimidatorio che minaccia il senso della vita dei ragazzi, vale a dire l’identità-orientamento e la comunicazione-azione. L’individuazione degli obiettivi a partire dalle sfide, infine, ha come scopo ultimo la maturazione umana e cristiana dei giovani.

Forse il tutto si chiarisce meglio se mi concentro nella spiegazione del modello educativo che propone il progetto. Esso, anzitutto, si compone a partire dalla tradizione educativa salesiana, da quella di don Milani e dalla pedagogia concrea di P. Freire.

Do per scontato che tutti cerchiamo di fuggire dall’idea che educare sia sinonimo di modellare le nuove generazioni. Così come stanno le cose, perciò, dobbiamo rivedere a fondo i concetti di educazione e di istruzione, distinguerli e persino separarli con cura. Affermando, ovviamente, la loro complementarietà ma cercando tuttavia di smascherare la perniciosa confusione di racchiudere l’educazione nella stessa prospettiva dell’istruzione.

Mentre nell’istruzione o nell’insegnamento sempre c’è un qualcosa che si trasferisce da uno che sa ad un altro che ignora, da uno che ha ad un altro che ne manca, da chi da a chi riceve; nell’educazione, no. Allora, possiamo chiederci, con quali verbi educhiamo? Con gli intransitivi!: vivere, crescere, uscire, sorgere, fiorire, fruttificare… Con questi, l’azione educativa cambia completamente e si capisce meglio che ci educhiamo insieme e, oltre tutto, che «nessuno educa nessuno» perché nessuno cresce nessuno, neppure lo fiorisce, né lo fruttifica[12].

Nessuno educa nessuno, affermava P. Freire, così come neanche nessuno educa se stesso: gli uomini si educano in comunione, un’educazione sempre mediata dal mondo in cui abitano. Ci educhiamo insieme, «nel mezzo e per mezzo del mondo», della vita: la realtà reclama il nostro rapporto con essa ed è lì che tutti ci giochiamo la crescita e lo sviluppo personale. È la realtà vissuta l’unica che, a dire il vero, può essere la nostra educatrice. In definitiva, quindi, ci educhiamo insieme affrontando le sfide della vita collettiva; in questo modo, ciascuno va costruendo, va crescendo come persona nello scoprire, confermare o rielaborare le relazioni che popolano e arricchiscono l’esistenza[13].

Don Bosco compendiava così la finalità del suo «sistema educativo preventivo»: “Fare quel po’ di bene che posso ai giovanetti abbandonati adoperandomi con tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, onesti cittadini in mezzo alla civile società”[14]. Aveva piena ragione: non è sufficiente che la prassi cristiana si concentri nella crescita di cristiani responsabili, è anche necessario nel contempo fortificare la loro cittadinanza con simile esigenza di responsabilità. Il sistema preventivo, inoltre, può essere ripensato nella direzione sopra indicata, vale a dire: ci educhiamo insieme nell’affrontare le sfide della vita attraverso le relazioni quotidiane.

 

4.2. Cittadini nella Chiesa, cristiani nel mondo

 

La finalità espressa da don Bosco, da tempo, viene vincolata alla proposta e assunzione di valori. Per tanti ragioni – non è il caso di esplicitarle –, oggi appare necessario trovare un nuovo perno educativo che, in questo preciso momento storico, sembra trovarsi nella nozione di cittadinanza. Educar-ci per diventare ciò che siamo si può riassumere nell’esercizio dei valori della cittadinanza: essere un buon cittadino o cittadina esprime fedelmente ciò che ci fa umani. Emerge così la consapevolezza che, inizialmente, rispondere al Dio di Gesù, il Cristo, non è tanto questione di scoperta ed affermazione della divinità (a Lui, poi, interessa di più che gli esseri umani portino avanti il suo progetto che il semplice riconoscimento del suo autore), quanto risposta alla realtà umana primordiale. Sicuramente, non possiamo fermarci qui: i processi della prassi cristiana con i giovani aspirano alla meta dell’incontro con Cristo; ma nemmeno possiamo saltare le tappe previste sia dalla maturazione umana che dall’esperienza cristiana.

La bozza di progettazione e programmazione che si offre nel terzo volume poggia sull’intrinseca connessione fra evangelizzazione ed educazione, ricerca di senso e dono della salvezza. Orbene, questa ricerca di senso si allaccia alla costruzione di una cittadinanza cosmopolita e responsabile, oltre che legata alla propria identità. Proprio per tale strada la ricerca di senso diventa impegno per la giustizia e insieme configurano il camino più indicato per cogliere e accogliere il dono di Dio.

La mèta primaria e comune degli itinerari educativi, per così dire, non può essere altra che la cittadinanza cosmopolita e attiva, radicata nella giustizia; la mèta definitiva, invece, si trova nel rendere possibile il salto da questo senso della vita all’esperienza cristiana della salvezza, ossia, all’incontro con Gesù Cristo e all’inserimento attivo nella comunità ecclesiale.

In questa prospettiva, il progetto delinea una prassi cristiana con i giovani che sia in grado di portare le nuove generazioni a trovare la loro identità nella ricerca della giustizia, come espressione prima della ricerca di senso e, soprattutto, come terreno fertile per incontrare Gesù Cristo e affrontare la vita «con Spirito»… per essere, con tutte le conseguenze, cittadini nella Chiesa e cristiani nel mondo.

 

 


[1] Cf. J.L. Moral, Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione, ElleDiCi, Leumann (To) 2007; Id., Giovani, fede e comunicazione. Raccontare ai giovani l’incredibile fede di Dio nell’uomo, ElleDiCi, Leumann (To) 2008; Id., Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani, ElleDiCi, Leumann (To) 2010.

[2] cf. J.L. Moral, Ciudadanos y cristianos. Reconstrucción de la Teología Pastoral como Teología de la Praxis Cristiana, Ed. San Pablo, Madrid 2007.

[3] Inoltre, tanto l’apporto simbolico che la particolarità del vocabolo «prassi» hanno il pregio di rimuovere tutto ciò che il tradizionale nome sottintendeva (teologia pastorale o pratica) come, per esempio, la contrapposizione tra teoria e pratica letta quale distinzione gerarchica fra dogmatica e pastorale. In fin dei conti, la prassi ci ricorda che ogni pratica contiene teorie, allo stesso modo in cui ciascuna teoria implica una o più pratiche, e che – soprattutto – la riflessione e l’attività teoretica sono in se stesse anche una prassi, per cui devono essere confrontate con l’azione che cercano o di fatto stanno promuovendo. La prassi è e segnala, principalmente, atti e attività quotidiane che diventano modelli spontanei attraverso i quali le persone e le comunità cristiane si relazionano e organizzano le loro azioni dentro e fuori lo spazio religioso. Qui risiede la ragione più profonda del cambio terminologico: gli atti che compiamo nella nostra prassi quotidiana danno vita ad una realtà che ci s’impone di maniera immediata alla stregua del linguaggio stesso e, con questo, costituiscono una sorta di presupposto ineludibile nel momento della riflessione teologica.

[4] A ragione, quindi, la prassi cristiana con i giovani non può essere semplicisticamente identificata come «educazione alla fede» (o quale generica catechesi giovanile), perché tante volte – secondo il tipo di problemi – sarà piuttosto «educazione alla carità» oppure «educazione alla speranza». Ad ogni modo (in Occidente), la problematica di base ci insegna che, di fronte a chi tutto assoggetta a Dio (questo qui è niente!) o chi afferma che esiste soltanto quanto si può vedere e toccare (questo qui è tutto!), la prassi cristiana con i giovani deve scegliere la via educativa che cerca di perforare la realtà per scoprire i simboli che si nascondono sotto le cose della vita (questo qui è sacramento… dell’Altro!).

[5] Umanizzazione e divinizzazione costituiscono infatti un’unica realtà. Quando Paolo ci dice che l’essere umano deve svestirsi dell’uomo vecchio per rivestirsi dell’uomo nuovo che è Gesù Cristo (cf. 1Cor 15,49; Rm 13,14), riconosce nell’immagine di Dio la piena umanizzazione. A sua volta, Giovanni più che rimandare all’abito del nuovo Adamo, parte dall’esperienza della pienezza in Cristo (cf. 1Gv 1,1ss.) sostenendo così il linguaggio della divinizzazione.

[6] H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Fabri Ed., Milano 1972, 353.

[7] Quale cristiano non sperimenta quella «frattura dualista» della sua coscienza quando sente parlare di un Dio scarsamente credibile, i cui dettati risultano incomprensibili e del tutto imprevedibili – come se si trattasse di enunciati la cui dimostrazione rimane occulta o mandati le cui ragioni Egli tiene solo per sé –; un Dio che, molte volte, rimanda ad una verità astratta – incapace di entrare in rapporto con i processi storici e creativi dell’essere umano – e in permanente competizione con le verità dell’uomo? Chi non ha percepito dolorosamente come, quando si ha a che fare con «esigenze di religione», rimangono frequentemente compromessi alcuni dei tratti più importanti dello stato di coscienza dell’uomo contemporaneo, cioè l’autonomia, la percezione storica, la capacità critica o la libertà? Quanti non hanno avuto l’impressione, in qualche circostanza, che la Chiesa stia invecchiando e stia perdendo i riflessi, fino ad apparire un’istanza da superare, quando non una realtà già superata?

[8] Ed è per lo stesso motivo che la comunità cristiana, prima d’interrogarsi su «quello che deve trasmettere ai giovani», si deve domandare «quale annuncio è rivolto ad essa oggi» (cf. A. Fossion, Ri-cominciare a credere, Edb, Bologna 2004).

[9] Cf. C. Geffré, Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, Queriniana, Brescia 2002.

[10] Cf. A. Torres Queiruga, La rivelazione di Dio nella realizzazione dell’uomo, Borla, Roma 1991.

[11] Se, da una parte, risulta palpabile l’urgenza di nuove formulazioni della fede e della pratica religiosa; dall’altra, non è meno evidente e necessario un profondo rinnovamento pedagogico che possiamo riassumere così: 1/ La novità pedagogica centrale si identifica con la sostituzione dell’oggetto stesso dell’educazione, vale a dire, col passaggio dalla trasmissione di contenuti all’elaborazione di risposte alle sfide della vita quotidiana; 2/ Poi, educare è un compito collettivo dove tutti crescono insieme, per cui l’educazione non può essere ridotta ai semplici ruoli di «educatori» ed «educandi», benché debba mantenersi la logica asimmetria di ogni rapporto educativo.

[12] Cf. J.L. Corzo, Educar es otra cosa, Ed. Popular, Madrid 2007, 53-69.

[13] Cf. P. Freire, Pedagogía del oprimido, Siglo XXI, Madrid 1992, 90ss.

[14] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1885, Las, Roma 1991, 199s.