La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi

Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso.
La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine  spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione,   anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un’Italia in cui  l’appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni  religiose.
In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l’esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non  particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta  nell’avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella  propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell’idea di far parte di un mondo di  spiriti e di mistero che trascende l’esperienza terrena.
Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano  ercepiti e ricercati più all’esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei  santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle  pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un’eco attuale (o di un restyling) della religiosità  popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata.  Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile  ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione  ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un’immagine che contrasta l’idea che l’epoca  attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo – parafrasando Peter  Berger – non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta»  che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale.
L’immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal  cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l’80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in  cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l’appartenenza cattolica ha una  funzione rassicurante per la nazione?
Perché molti continuano a identificarsi – pur in modo ambivalente – con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei  cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di  salvezza?
L’idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero,  per confinarlo nell’oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi  dell’esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente  impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un’immagine del  cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come  muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota  di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come  criterio di vita, più per l’educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali.
Nella società dell’insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un  serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si  conciliano con la propria cultura e abitudini.
Parallelamente, l’adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un’identità
nostrana in un’Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul
territorio e enfatizzato dai mass media.
Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell’adesione di molti italiani alla fede della  tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi  ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o  anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell’epoca attuale. L’avvento del pluralismo culturale e religioso non  produce necessariamente l’abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l’espressione. Si può essere  convinti che non c’è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso  sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria  tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive  dell’esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa  di attribuire un’ anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall’altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.

in “La Stampa” del 1° novembre 2011

Con il nuovo Evangeliario la liturgia diventa arte

 

Nel congedarsi dalla diocesi di Milano, il cardinale Martini – vescovo della Parola in una stagione di immagini distorte –   ha voluto che l’ultima iniziativa del suo ministero pastorale fosse la «Casa della carità»: un luogo che rendesse  manifesto il chinarsi dei cristiani sulle sofferenze dei poveri. Il suo successore, il cardinale Tettamanzi – vescovo della  carità in una stagione di indifferenza verso il prossimo – ha voluto che l’ultimo dono alla diocesi fosse il libro del  Vangelo, la Parola posta al cuore della celebrazione liturgica, un libro che rendesse manifesto il piegarsi dell’orecchio  dei cristiani alla Parola proclamata. Così, nella scia di san Paolo, il cardinale Tettamanzi ha inteso «affidare alla Parola»  i cristiani della sua diocesi e lo ha fatto attraverso un «Evangeliario», concepito e realizzato come compendio della sua  sollecitudine di pastore e del suo amore di padre.
Ma cos’è un evangeliario? «Questo è il Libro della vita, / questa la fonte e l’origine dei libri.

Qui scintillano i quattro fiumi dall’unica sorgente». Nei versi anonimi vergati sulle prime pagine di un manoscritto del  IX secolo cogliamo il significato e il valore che le chiese cristiane, sin dall’antichità, hanno attribuito all’evangeliario,  cioè a quel libro, destinato al culto liturgico, che contiene il testo dei quattro Vangeli, suddiviso secondo l’ordine delle  pericopi che vengono proclamate nel susseguirsi dei giorni, delle domeniche e delle feste dell’anno liturgico. Sì, i  cristiani hanno sempre riconosciuto uno statuto particolare a questo libro che custodisce l’«attestazione» delle parole del Signore Gesù, raccolte dagli apostoli e dalle prime comunità cristiane e trasmesse sino a noi.
Non si tratta semplicemente di un libro, ma del Libro per eccellenza, non riducibile a una mera suppellettile per il  culto: nella fede della Chiesa che si esprime nella liturgia, questo oggetto è riconosciuto come simbolo vivo, come  «sacramento» e «icona» del Cristo risorto, che si fa presente in mezzo alla sua comunità, che parla al suo cuore e  spezza il pane delle Scritture. Per questo, attraverso i secoli, il libro del Vangelo quadriforme è stato circondato da  eculiari segni di onore e venerazione nelle diverse tradizioni liturgiche: affidato alla ministerialità del diacono, portato solennemente in processione fra lumi, incensi e canti di acclamazione, intronizzato sul leggio più alto degli amboni,  salutato con il bacio da parte dei ministri e talora dei fedeli. Il libro, inserito nel dinamismo celebrativo all’interno del  «sito» liturgico della proclamazione, rende per così dire visibile ai nostri occhi e udibile alle nostre orecchie la  presenza del Figlio e Verbo di Dio, che ha assunto la visibilità della nostra carne e l’udibilità delle nostre parole umane  per narrare agli uomini la misericordia e la condiscendenza del Padre.
È proprio all’interno di questa secolare tradizione che si inscrive anche la progettazione e realizzazione del nuovo  Evangeliario Ambrosiano, promossa dal cardinale Dionigi Tettamanzi. Un evangeliario «nuovo» sotto diversi punti di  vista: contiene infatti la nuova traduzione liturgica della Scrittura approvata dalla Conferenza episcopale italiana;  inoltre segue la scelta delle letture evangeliche selezionate secondo la recente riforma del Lezionario ambrosiano  pubblicato nel 2008; ed è nuovo, infine, per la scelta audace della Chiesa di tornare a farsi interlocutrice e  committente nei confronti della tecnica e dell’arte contemporanee. Frutto di un lavoro di équipe, che con la consulenza di esperti, biblisti e liturgisti ha chiamato un architetto (Pierluigi Cerri) e sei artisti (Giovanni Chiaramonte,  Nicola De Maria, Mimmo Paladino, Nicola Samorì, Ettore Spalletti e Nicola Villa) a dare forma e volume, colore, figura  e visibilità segnica alle «parole di vita eterna» dei santi Vangeli, senza trascurare una certa omogeneità del progetto  decorativo. I testi evangelici – che si susseguono organizzandosi intorno ai grandi poli dei Misteri dell’Incarnazione,  della Pasqua e della Pentecoste – sono suddivisi in tre tomi, segno questo di un’attenzione pastorale concreta all’uso  liturgico dell’Evangeliario, che deve coniugare la «nobile bellezza» della forma con le esigenze di praticità e di  maneggevolezza richieste da un libro rituale.
Questo ambizioso progetto – illustrato ora dalla mostra «La bellezza nella Parola: il nuovo Evangeliario Ambrosiano e  capolavori antichi» (Milano, 5 novembre – 11 dicembre) manifesta dunque lo sforzo sinergico della Chiesa e del genio  contemporaneo, per dare vita a un’autentica ars liturgica , frutto di una sapiente «cospirazione» fra la ricerca di nuove  espressività, la preservazione della coerenza simbolica, l’alleanza culturale tra la fede cristiana, la creatività e l’abilità  tecnica dell’operare umano, e la fedeltà alla tradizione della Chiesa. Sì, la liturgia ha bisogno di questa diaconia della  bellezza: bellezza della materia, bellezza dell’arte umana, bellezza ordinata alla carità, bellezza che sa narrare la bellezza  ella presenza e dell’azione del Signore vivente. Si tratta indubbiamente di una bellezza che esige un cammino  di discernimento, un cammino ascetico mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni  bellezza, la quale sempre  rimanda a Dio, lui che è l’«autore della bellezza». Solo così la bellezza dei simboli e dell’arte nella liturgia potrà essere rivelativa di Dio, della sua azione, del suo amore fedele per questa creazione e per l’umanità  intera.
Davvero negli ultimi trent’anni di ministero pastorale a Milano sono state «scritte» pagine esemplari di primato della  parola di Dio e di carità operosa verso gli ultimi: ora sono simbolicamente raccolte e offerte a tutti attraverso un’opera  d’arte che non esiteremmo a definire l’«Evangeliario della carità».

in “La Stampa” del 3 novembre 2011

 

 

Altri contributi

 

“Il cardinale Tettamanzi ha voluto offrire alla sua Chiesa un singolare dono di bellezza: un evangeliario artistico… Tutt’altro che accidentale è il rapporto fra fede e bellezza… Non a caso né per incidente di percorso il “logos” della fede si apre all'”hymnos”, la riflessione alla preghiera, l’esperienza di Dio nell’invocazione e nella carità alle forme dell’arte, in cui risplende l’umile bellezza dell’Altissimo”
“«L’arte presenta [rende presente] la bellezza, lo splendore, la gloria, la maestà, il plus che è nelle cose e che si ritira quando dite che la luna è solo terra e le nuvole sono solo acqua». Queste parole di padre Bernard Lonergan identificano con chiarezza l’esperienza dell’incontro con l’opera d’arte.” Promosso dal predecessore Tettamanzi, il libro sposa il Vangelo alle immagini di Mimmo Paladino, Nicola De Maria, Ettore Spalletti, Giovanni Chiaramonte, Nicola
Villa e Nicola Samorì.
“Il dono di un nuovo Evangeliario alla Diocesi di Milano è il gesto con il quale intendo lasciare un segno preciso e forte: la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa e dei cristiani… Desiderandolo come segno importante per la cultura e la spiritualità del nostro tempo, ho voluto che si esprimesse nella lingua delle donne e degli uomini di oggi… l’Evangeliario è stato per me un percorrere i sentieri della bellezza, attraverso la ricerca degli autori tradotta in forme e colori”
Tra “fede e arte, è necessario ora andare oltre i sospetti e ritornare a incontrarsi. La chiesa milanese presenta in questi giorni un nuovo Evangeliario Ambrosiano: “arte e fede “apparentemente non servono a nulla, tranne che a insegnare il senso della vita””

Il Cantico dei cantici letto dalle tre grandi fedi

Cantico dei cantici, un convegno a Venezia
di Viviana Kasam

Del Cantico dei Cantici si parlerà per tre giorni a Venezia, dal 3 al 6 novembre, in un convegno organizzato  dall’Università Ebraica di Gerusalemme che metterà a confronto studiosi delle religioni, filosofi, scrittori per esaminare il Cantico in tutti i suoi aspetti: quello letterario/poetico, quello mistico, quello filosofico, e il rapporto con altre tradizioni in cui il sesso può essere una strada per raggiungere l’estasi spirituale (per esempio il buddismo tantrico).
Ai seminari in inglese in francese (non è prevista la traduzione in italiano) parteciperanno Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di Kabbalah , la scrittrice francese Eliette Abécassis, i filosofi Ami Bouganim e Monique Canto- Sperber (che insegna all’Ecole Normale Supérieure di Parigi), Yair Zakovitch, uno dei più quotati esperti biblici, Marco  Ceresa docente di letteratura cinese e studi culturali dell’Asia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Guy Stroumsa,  professore di religioni comparate dell’Università Ebraica di Gerusalemme, il presidente della stessa Università Menachem Ben Sasson, specialista di ermeneutica biblica, Clemence Boulouque, scrittrice specializzata in Kabbalah e  misticismo e Haim Baharier, noto per le sue vertiginose lezioni di ermeneutica biblica. E il giornalista Gad Lerner, che  parteciperà a un dibattito di grande attualità, domenica mattina, su sesso e potere.

 

 

Intervista a Moshe Idel, Haim Baharier e Enzo Bianchi

a cura di Viviana Kasam

Il Cantico dei Cantici: il poema d’amore più conosciuto, più commentato, più tradotto nella Storia, e anche il più  misterioso. Che cosa significa il titolo? Perché un poema così fortemente erotico è stato assunto sin dall’antichità  (Concilio di Yavnè, 90 d.C.), nel canone dell’Antico Testamento? E come mai nelle tradizioni religiose dell’occidente,  quella ebraica, quella cattolica, quella cristiana, la letteralità del testo, che descrive senza mezzi termini un amplesso, è  tata “freudianamente” rimossa in favore di una interpretazione mistica spesso tirata per i capelli, così forzata nel  diniego dell’evidenza da apparire quasi assurda ad un occhio laico e smaliziato?
Giriamo i quesiti a Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di mistica ebraica, che insegna alla cattedra che fu  di Gershom Scholem, Haim Baharier, famoso per le sue lezioni di ermeneutica biblica diventate cult, e Padre Enzo  Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, scrittore, editore di Qiqajon, profondo conoscitore e interprete delle Scritture.

 

Perché il titolo?
Baharier: Se abbracciamo ciò che dice Rashi al riguardo si tratterebbe di una valutazione qualitativa: un canto sopra ogni canto. Oppure un canto per tutti i canti. Seguendo invece il commento di Rabbi Israel Salanter, il Cantico dei  Cantici è un testo paradigmatico della pluralità dei significati e nello stesso tempo dell’univocità: ossia una voce  profonda, separata, sempre identificabile.
Bianchi: Questo titolo – che coincide con la prima riga del testo: “Cantico dei Cantici, che è di Salomone” – è un  superlativo, dunque indica “il canto per eccellenza”, il più sublime tra tutti i canti cantati in Israele. I rabbini dicevano  che c’è una corrispondenza tra questa espressione e il Santo dei Santi, ovvero il luogo più interno del Tempio, sede  della presenza di Dio. E’ un modo simbolico per affermare che la parola di Dio è presente più che mai in questo piccolo  gioiello letterario.


Dunque l’autore fu davvero il re Salomone?

Baharier: Dal punto di vista storico saremmo legittimati ad avere dei dubbi. Se però immaginiamo una sorta di casting  dobbiamo ammettere che il ruolo di autore del Cantico ben si addice a Re Salomone.
Idel: Ritengo di no, il testo è probabilmente più tardo di qualche secolo rispetto al regno di Salomone, ma questa  attribuzione è stata fondamentale per far adottare il Cantico nel canone biblico.
Bianchi: Non è realistico attribuirlo al Re Salomone. Però c’è un senso logico in questa attribuzione, legato al fatto che  nel testo viene citato alcune volte (per l’esattezza sei) proprio il Re Salomone. Approfondendo questo dato, potremmo  chiederci: per una innamorata il suo amato non è forse sempre un re? In quest’ottica è bello pensare che i due  ersonaggi siano in qualche modo un re e una regina, anche se nella realtà materiale del testo sono più probabilmente  un pastorello e una pastorella. L’amore descritto è quello di due ragazzi, è l’amore di tutti i ragazzi innamorati. L’autore, hiunque egli sia, è certamente un poeta raffinato, capace di descrivere l’amore con grande maestria.

 

Ma di quale amore stiamo parlando: amore sacro, amore profano, o entrambi?
Idel: Secondo il suo significato originario, è un canto erotico secolare, che solo più tardi è stato allegorizzato sia nella  tradizione ebraica che in quella cristiana, per adattarsi a nuovi valori religiosi emersi più tardi, a partire dal primo  secolo dopo Cristo.
Bianchi: Direi che il Cantico celebra l’amore umano in tutte le sue infinite sfaccettature, alle quali si può alludere solo in  chiave poetica: la lontananza, il cercarsi, il rincorrersi, il ritrovarsi, l’amplesso… E’ significativo che il nome di Dio  compaia solo alla fine, quando si dice che l’amore è una fiammata, è un fuoco divino. In questo senso, nella tradizione  ebraica il Cantico è diventato ben presto simbolico dell’amore di Dio per il suo popolo; nella tradizione cristiana è  normalmente simbolico dell’amore tra Cristo e la Chiesa o, in ambienti monastici, tra Dio, tra Cristo e il singolo credente. In questo cammino il senso letterale del Cantico fu totalmente oscurato. Quando però si trattò di inserire  questo poema nel canone dell’Antico Testamento molti si opposero, proprio per gli espliciti riferimenti al sesso  contenuti in queste pagine. Fu Rabbi Akiva a farcelo entrare, durante il Concilio di Javne (fine del I secolo d.C.), insistendo sull’interpretazione simbolica di cui si diceva.
Celebri sono le parole da lui usate per giustificare tale inserimento: “Il mondo intero non è degno del giorno in cui il  Cantico dei Cantici è stato donato a Israele: tutte le Scritture infatti sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi!”

in “www.ilsole24ore.com” del 30 ottobre 2011

 

 

Altri contributi

 

“Dopo tanta caccia al vuoto di Dio, sembra Ceronetti aggrapparsi alla preda di quelle consonanti materiche dei dossi e delle pietraie semitiche, quasi per scongiurare l’aveu della conclusione: «Forse perché sei la sera, la morte velata – Cantico, sacro Cantico – di te ho paura”. Il suo non dar tregua al testo…, il suo annerire di contrasti violenti i fondali… non fa che aumentare il fascino della tradizione del Cantico”
“La mia verità attuale sul ‘Cantico’ è questa: il ‘Cantico’ non è un testo mistico. Ha un doppio senso, ne è farcito, ma non un doppio fondo. Canta l’amore bucolico in modi che in nulla corrispondono ai nostri, di vivere e di concepire l’amore… Il Dio biblico integrale cercàtelo altrove: nei Profeti, nel libro dei Salmi, nell’Esodo, se vi può consolare…”

 

 

I difensori cristiani della laicità

Per chi guardi indietro non è insensato sperare che qualche idea per un’Italia migliore possa nascere dentro il cattolicesimo, inteso non come machina mobilitante o agenzia di senso, ma come stile, di compagnia della fede e degli  uomini. È già accaduto. Lo ha richiamato il messaggio di Benedetto XVI al presidente Napolitano per il 150°  anniversario dell’Unità d’Italia, con toni seri e troppo frettolosamente liquidati fra le parole di circostanza.
Cent’anni fa la stampa cattolica deplorava le «esplosioni di gioia settaria» in quella Roma che un non negoziabile  «disegno divino» aveva dato al Papa. Solo mezzo secolo fa, Papa Giovanni XXIII potè dire, come scrive nei suoi diari.  «finalmente la prima parola buona, dopo un secolo» al Paese.
E quando Giovanni Battista Montini osò definire «provvidenziale» la fine del potere temporale, in difesa del quale  erano state emarginate le migliori intelligenze della Chiesa cattolica, alla beatificazione di Antonio Rosmini sono  passati 45 anni.
Se oggi il vescovo di Roma e primate d’Italia saluta i festeggiamenti del 150° con un’apertura che ha irritato gli  integristi, è certo per il significato storiografico che Giorgio Napolitano e Giuliano Amato hanno saputo iscrivere in queste celebrazioni, ma non solo. Quando il Papa sottolinea come il conflitto che riguardò lo Stato e la Chiesa deflagrò  nei vertici, ma non riverberò «nella società», smussa la ruvidità dei fatti —la soppressione degli enti ecclesiastici, le  ultime esibizioni della ghigliottina pontificia, le scomuniche dei votanti, l’aggressività delle propagande, il disprezzo e  la censura ecclesiastica per chi riteneva superabile la questione romana e via dicendo. Ma di un fatto prende atto. E  cioè che se la Chiesa ha dato all’Italia una sponda nelle sue grandi crisi (Caporetto, 1’8 settembre, la morte di Aldo  Moro), l’Italia ha insegnato alla Chiesa cattolica che cosa è lo Stato.
Lo ha fatto «all’italiana», naturalmente: ondeggiando fra arroganze antireligiose e blandizie clericofasciste, fra illusioni  concordatarie e scosse del costume, con laicità pediatriche e recriminazioni plurime. Ma lo ha fatto: segnando un  punta di non ritorno nella Costituente e nella Costituzione. È lì che diverse generazioni di cattolici —vuoi quelli che  avevano sofferto del fascismo storico, come Alcide De Gasperi, vuoi quelli che temevano il revival di un fascismo mite,  come Giuseppe Dossetti — hanno potuto chiedersi come far scaturire una lezione dal timbro di vergogna che la tragedia del ventennio lasciava su tutte le culture politiche (le forze risorgimentali destinate a diventare partitini  nell’Italia repubblicana, i partiti del movimento operaio e il popolarismo stesso, votati a diventare organizzazioni di  massa) dimostratesi incapaci di fermare un Mussolini che si definiva «cattolico e anticristiano».
La Santa Sede, sul piano dottrinale, non facilitava il compito. Padre Giovanni Sale ha pubblicato i tre modelli di  costituzione che in Vaticano avevano immaginato per ‘Italia: una costituzione semifranchista, nella quale i valori  cattolici fossero imposti per legge; in subordine una costituzione confessionale fatta di privilegi clericali; alla peggio  una costituzione democratica, nella quale però tre punti (i Patti del 1929, la sanzione del matrimonio indissolubile, la  possibilità di creare scuole private) venissero sanciti.
Sul piano squisitamente politico le dialettiche interne al mondo vaticano aggiungevano poi altre criticità pratiche.  Alcuni esponenti della Curia romana infatti vedevano bene il moltiplicarsi dei partiti cattolici, così da rendere più  efficace il potere di guida e ricatto del mondo che parla sempre a nome del Papa. Altri — sarà il disegno di sempre del  cardinale Giuseppe Siri — pensavano a una organizzazione nella quale laici ossequienti, e se possibile potenti, si  organizzavano per rendere operativi i desiderata dell’autorità ecclesiastica. Altri, come monsignor Montini o  monsignor Dell’Acqua, il cui stretto rapporto con i «professorini» di Dossetti è documentato dal diario di Amintore  Fanfani, credevano invece che un grande partito di italiani cattolici e democratici avrebbe potuto far meglio la  Costituzione: evitare cioè fratture irreversibili ed evitare di riproporre condizioni irricevibili come ai tempi del non  expedit — pena la nascita di uno Stato destinato a rifluire verso un anticomunismo vuoto, dunque, nella sostanza,  fascista.
Capaci di decifrare questa dialettica, i costituenti cattolici riuscirono a far sì che la Santa Sede accettasse una  Repubblica nella quale il cattolicesimo non sarebbe contato perché capace di federare le organizzazioni (come nella  effimera vita dell’Opera dei Congressi, sciolta dal Papa nel 1904); o di esercitare una pressione sui partiti (come  sarebbe stato nei decenni compresi fra i Comitati civici e il Family Day), ma solo se e quando uomini e donne dalla  coscienza adulta (come diceva Pio XII) e dalle mani pulite fossero stati capaci di pensare politicamente le mediazioni  che fanno crescere la società come comunanza di «persone», nella cui tensione — e qui si sentiva l’effetto degli studi  patristici di Lazzati — si realizza la pedagogia stessa del Signore della storia.
Ironia della sorte, la maggior parte di quegli uomini veniva dalla Cattolica, la scuderia dalla quale padre Gemelli  contava di far uscire una classe dirigente clerico-fascista perfetta. E che invece polemizzano perfino con quei popolari  che avevano pagato un prezzo altissimo per i loro errori, come De Gasperi, incarcerato dai fascisti, o Sturzo, mandato  in esilio dalla Chiesa. Eppure sarebbero stati proprio i «professorini» gli architetti della Costituzione che risolveva in  radice il problema della «responsabilità» dei cattolici in politica — che per chi ce l’ha è il più inestirpabile dei valori di  fede e in chi non ce l’ha il più temibile dei vizi. Una generazione capace, nelle sue differenze, di usare il dialogo con  culture politiche non meno inesperte di democrazia, non come una concessione né come una astuzia, ma come un  modo di agire in una società pluralista di cui essere il sale, senza pretendere di farne una saliera.

 

in “Corriere della Sera” del 30 ottobre 2011

Halloween, la notte dei relativisti «Un rito che non ci appartiene»

 

L’anatema di due cardinali: snatura le feste della Chiesa.

 

Halloween nemica delle feste cattoliche di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti? Il dilemma si ripresenta da anni ad ogni fine ottobre.
Ma nel 2011 una differenza c’è. Riguarda la durezza con cui l’Arcidiocesi di Bologna del cardinale Carlo Caffarra ha  parlato di «brutta resa al relativismo dilagante», con tanto di nota sull’edizione bolognese di Avvenire, per la  manifestazione organizzata in piazza Re Enzo a base di zucche da intarsiare per Halloween dalla Coldiretti, associazione  di area cattolica. La curia invita a usare le zucche «per la vellutata o il ripieno dei tortelli». A Torino l’arcivescovo  Cesare Nosiglia rincara la dose: «La prossima festa dei Santi e la commemorazione dei fedeli defunti, tanto care alla tradizione anche familiare del popolo cristiano, da anni sono contaminate da Halloween. Tale festa non ha nulla a che  vedere con la visione cristiana della vita e della morte e il fatto che si tenga in prossimità delle feste dei santi e del  suffragio ai defunti rischia sul piano educativo di snaturarne il messaggio spirituale, religioso, umano e sociale che  questi momenti forti della fede cristiana portano con sé. Halloween fa dello spiritismo e del senso del macabro il suo  centro ispiratore».
Vincenzo Pace, docente di Sociologia della religione all’università di Padova, replica con una riflessione ottimista ma  che consegna un dubbio alla Chiesa: «Halloween non ha affatto soppiantato quella di Tutti i Santi. Il culto che la base  cattolica riserva proprio ai Santi è tuttora solidissimo. Io vivo a Padova e vedo cosa avviene ogni giorno alla Basilica di  ant’Antonio. La tradizione del pellegrinaggio perdura così come, ripeto, non conosce crisi il culto dei Santi. Direi  che resiste più della figura dello stesso Papa…». Affermazione interessante, visto che viene da un sociologo della religione. Pace respinge anche il nodo del relativismo: «Ricordo che le stesse figure dei santi sono relative, ciascuno ha il proprio “ambito” in cui esercita, secondo i credenti, una influenza».
Pippo Corigliano, scrittore (il suo «Preferisco il Paradiso» edito da Mondadori ha superato le 20 mila copie), per  uarant’anni responsabile delle relazioni esterne dell’Opus Dei, si schiera con i vescovi: «Hanno ragione, Halloween è  una moda importata dall’America che, come tutte le mode, inducono alla superficialità. La bonomia buongustaia  bolognese fa capolino anche in questo caso perché la nota della Curia invita a usare le zucche per i tortellini o per la  “vellutata”…». Detto questo, aggiunge Corigliano, «le feste di Tutti i Santi e della Commemorazione dei defunti sono comunque momenti sanamente inquietanti perché inducono a riflettere sull’aldilà. È bene ricordare che Gesù è stato  chiaro: esiste la vita eterna e l’immagine che usa più di frequente per illustrarla è quella del banchetto, cioè una  riunione di famiglia e di amici in cui si mangia e si sta bene assieme». Dunque una festa… «Un modo per far capire che  in Dio staremo bene e non ci mancherà nulla. Sarà come mangiare dei tortellini di zucca e anche meglio. In tutta Italia  si confezionano i dolci dei morti sotto forme molto svariate. L’importante è imitare Gesù nel suo amare tutti, altrimenti  ci sarebbe anche l’inferno col suo “pianto e stridore di denti”. Ma speriamo che l’argomento non ci riguardi».
Più problematico Brunetto Salvarani, teologo e critico letterario, impegnato nel dialogo interreligioso, direttore della  collana Emi «Parole delle fedi»: «Ritengo che il problema sia più ampio della questione legata ad Halloween e a una  possibile accusa di relativismo. C’è una questione di omologazione del tempo. Fino agli anni immediatamente  successivi alla Seconda guerra mondiale, in Italia gran parte dei credenti erano anche praticanti e, attorno alle  parrocchie, scandivano il tempo della propria vita con le festività». E ora, professor Salvarani? «Tutto diverso.
La pratica nelle chiese è quella che vediamo. Assistiamo a una sorta di nomadismo culturale, religioso e spirituale che  denota una trasformazione complessiva. Occorre porsi il problema se talune festività cattoliche abbiano perso la forza  di “parlare” ai fedeli».
Cosa dovrebbe fare il mondo cattolico? «Ci viene offerta un’occasione per stare dentro questa trasformazione, per  intercettarne i dati eventualmente positivi. La mutazione non dovrebbe vedere la Chiesa cattolica come semplice  spettatrice, se non addirittura come parte ostile. In una contingenza simile, non si può stare l’un contro l’altro armati».

in “Corriere della Sera” del 31 ottobre 2011

“Occupare Wall Street”

Il Vaticano sulle barricate

Alla vigilia del G-20 la Santa Sede invoca un’autorità politica universale che governi l’economia. Per cominciare, chiede che sia introdotta una tassa sulle transazioni finanziarie

 

A sentire padre Thomas J. Reese, professore alla Georgetown University di Washington e già direttore del settimanale dei gesuiti di New York, “America”, il documento rilasciato oggi dalla Santa Sede “è non solo più a sinistra di Obama: è più a sinistra anche dei democratici liberal ed è più vicino alle vedute del movimento ‘Occupare Wall Street’ che di qualsiasi membro del congresso americano”.

In effetti, il documento diffuso lunedì 24 ottobre dal pontificio consiglio della giustizia e della pace invoca niente meno che l’avvento di un “mondo nuovo” che dovrebbe avere il suo cardine in una autorità politica universale.

L’idea non è inedita. Era già stata evocata nell’enciclica “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, del 1963, ed è stata rilanciata da Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate” del 2009, al paragrafo 67.

La “Caritas in veritate”, però, diceva molto altro e molto di più e l’auspicio di un governo mondiale della politica e dell’economia non ne era sicuramente il centro.

Qui invece, l’intero documento ruota attorno a questa idea, richiamata fin dal titolo:

> “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”

Quanto di utopico e quanto di realistico ci sia, nell’invocazione di tale governo supremo del mondo, è fatto intravedere dal generale disordine che le cronache dell’attuale crisi economica e finanziaria ci descrivono ogni giorno.

All’ambito del realistico e del praticabile appartiene però uno specifico elemento di innovazione auspicato dal documento: la tassazione delle transazioni finanziarie, altrimenti detta “Tobin tax”.

Il documento dedica ad essa poche righe. E si sa che la proposta è contrastata da forti e argomentate obiezioni. Come pure si sa che la sostengono economisti famosi, quali Joseph Stiglitz e Jeffrey Sachs.

Ma nel presentare il documento alla stampa, la Santa Sede ha deciso di schierarsi con grande risolutezza a favore della “Tobin tax”. Non solo chiedendo di “riflettervi”, come si legge nel documento, ma rispondendo punto per punto alle obiezioni e mostrandone la praticabilità e l’utilità già nell’immediato.

Questa apologia della “Tobin tax” è stata affidata all’economista Leonardo Becchetti, professore all’Università di Roma “Tor Vergata”. Ed egli ha svolto il suo compito con precisione e con ricchezza di dati:

> “L’aspetto positivo delle crisi…”

Sul tavolo dei capi di governo del G-20, che si riuniranno a Cannes, in Francia, il 3 e 4 novembre prossimi, ci sarà dunque questa netta presa di posizione della Santa Sede a favore dell’introduzione della “Tobin tax”, il cui gettito “potrebbe contribuire alla costituzione di una riserva mondiale per sostenere le economie del paesi colpiti dalle crisi”.

__________

POST SCRIPTUM – Per una critica del documento da parte di un grande economista, vedi in “Settimo cielo”:

> Il professor Forte boccia il temino targato Bertone

__________