Autore: editore
Il villaggio di cartone
l’ultimo film di Ermanno Olmi
La Trama
Il film narrerà dell’incontro tra due culture e varie etnie, quella africana e quella europea, quando un gruppo di clandestini prende possesso di una vecchia chiesa per safamarsi. La storia viene osservata attraverso gli occhi di un vecchio prete.
Piccola curiosità: l’anziano sacerdote è interpretato da Joe R. Landsale, sceneggiatore ma soprattutto apprezzato scrittore.
- Regia: Ermanno Olmi
- Con: Michael Lonsdale, Rutger Hauer, Massimo De Francovich, Alessandro Haber, Ibrahima Faye El Hadji, Irma Pino Viney, Fatima Alì, Samuels Leon Delroy, Fernando Chronda
- Distributori: 01 Distribution
- Genere: Documentario
- Durata: 87′
- Data di uscita: 07-10-2011
Il villaggio di cartone
Titolo originale: Il villaggio di cartone
Italia: 2011. Regia di: Ermanno Olmi Genere: Drammatico Durata: 87′
Interpreti: Michael Lonsdale, Rutger Hauer, Alessandro Haber, Massimo De Francovich, El Hadji Ibrahima Faye, Irma Pino Viney, Fatima Alì, Samuels Leon Delroy, Fernando Chironda, Souleymane Sow, Linda Keny, Blaise Aurelien Ngoungou Essoua, Heven Tewelde, Rashidi Osaro Wamah, Prosper Elijah Keny
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 07/10/2011
Recensione di: Francesca Caruso
L’aggettivo ideale: Simbolico
Il pluripremiato regista e sceneggiatore Ermanno Olmi torna dietro la macchina da presa realizzando un film che fotografa “ una realtà simbolo” – come ha spiegato lui stesso.
Vi si racconta il viaggio emotivo di un vecchio prete, che vede la sua chiesa smantellata pezzo dopo pezzo. Assiste impotente all’azione degli operai che staccano dalle pareti i quadri e il grande Crocifisso. Durante la notte, però, la chiesa si anima di nuova vita: vi trovano rifugio un gruppo di emigranti di passaggio, i quali chiedono al vecchio un po’ di carità cristiana.
Il maestro Olmi ha scritto il film come fosse un apologo secondo una visione teatrale.
“Nell’apologo la sublimazione è fatta dell’immagine simbolo e dalla parola simbolo, i personaggi parlano come un libro stampato” – spiega il regista – “ ed è stato volutamente realizzato così”. Il cineasta si è particolarmente soffermato sull’idea di carità, di fratellanza e di amore verso il prossimo. Si dice ama il prossimo tuo come te stesso, ebbene il vecchio prete trova dentro sé quel coraggio che lo porta a mettere in pratica quelle che, fino a quel momento, sono state parole dette durante un’omelia ai suoi fedeli.
L’individuo per trovare rassicurazioni e protezione ha da sempre costruito un’infinità di chiese: la chiesa religiosa è solo una delle tante possibilità, ma c’è anche quella in cui risiede il potere economico, nella quale molti si rifugiano. L’immagine della chiesa vuota dà l’idea di ciò che Olmi ha voluto sottolineare, ovvero quella di un essere umano che liberato dalle sue sovrastrutture sociali lascia emergere la parte migliore di sé. Il villaggio di cartone del titolo è formato da un gruppo di individui, con nulla addosso se non i loro vestiti, che mettono su una mini baracca fatta di pannelli e tendoni, sotto i quali dormire e attendere di riprendere il cammino.
Per ciò che riguarda l’ambientazione, tutti i personaggi si muovono in un unico ambiente, che possiede una forte espressione teatrale. Lo spessore teatrale si palesa anche nel modo in cui parlano i personaggi, nei loro intervalli e nelle inquadrature. Quando per la prima volta viene aperto il portone della chiesa si nota immediatamente che aldilà non c’è nulla, se non il vuoto di un proscenio. Il cast artistico vede la presenza di un bravissimo Michael Lonsdale (il vecchio prete), affiancato da Rutger Hauer (il sagrestano) e Alessandro Haber (il graduato), che rendono merito tanto quanto gli interpreti secondari a un film che pone lo spettatore in una posizione riflessiva, senza essere pedante.
Nella sua lunga carriera, il regista si è interessato di diverse tematiche sociali, che gli stavano a cuore e di cui ha reso partecipe lo spettatore. Ha parlato del mondo del lavoro, della vita dei contadini bergamaschi (L’albero degli zoccoli, 1979 – Palma d’Oro al Festival di Cannes), del mondo religioso e di molto altro. In questo film vuole far arrivare un concetto che supera qualsiasi argomento religioso: “il bene vale più della fede” – fare del bene non riguarda solo chi crede, ma riguarda il cuore di ogni essere umano, sia esso laico o credente.
“Il villaggio di cartone” non vuole imporre una lezione, ma far riflettere sui comportamenti che ognuno ha nei confronti del prossimo, qualunque esso sia. Olmi, ancora una volta, crea un linguaggio che va dritto al punto, mostrando ciò che c’è dentro l’involucro di “cartone”.
Olmi: «Così leggo la carità»
di Ermanno Olmi
in “Avvenire” del 19 ottobre 2011
Caro direttore, ricevo “Avvenire” fin da quando, molti anni fa, con cari amici ormai lontani, vedemmo uscire dalle rotative il primo numero del giornale.
L’affezione e l’ammirazione sono sempre stati per me saldi riferimenti quotidiani per il rigore e la libertà d’opinione dei suoi collaboratori e quindi per il rispetto del lettore. Tanto che ho molto apprezzato gli interventi apparsi in “Agorà” dopo l’uscita del mio ultimo film Il villaggio di cartone. E di questa attenzione nei miei riguardi, caro direttore, la ringrazio e, se lo riterrà utile per i suoi lettori, mi farà piacere se pubblicherà queste mie note sul dibattito che ne è seguito.
Giovanni Bazoli, prima sul “Corriere della Sera” e poi su “Avvenire”, pone l’attenzione su due contrapposti valori invocati dal vecchio prete, protagonista dell’apologo cinematografico.
Che dice: «Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede». Subito, un intervento di Marina Corradi su “Avvenire”, mi rimprovera: «di coltivare così tanti dubbi di fede che la storia (del film) rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani». Ma come sarebbe «la carità dei cristiani»? Dunque ci sarebbero più carità? E quella dei cristiani è forse tanto speciale e diversa da quella di altre fedi religiose? Mi piacerebbe conoscere l’elenco delle diverse carità. Bazoli chiarisce: «Il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio e della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo; vale come monito a intensificare l’impegno religioso e umano». Ugualmente, Marina Corradi insiste: «In realtà il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete “per fare del bene” ma per portare Cristo agli uomini, che è assai di più». La fede è in sé un valore, ma non è determinante per fare del bene.
Né il fare del bene ha mai ostacolato la fede di alcuno. La fede è innanzitutto un sentimento che ciascuno coltiva nel profondo di sé, in solitudine. E con tale stato d’animo parteciperà la sua fede con quella dell’altro, in comunione con Dio.
Un’altra voce che ha partecipato a questi interrogativi sul primato tra fede e carità è quella di Piero Coda, teologo e presidente dell’Istituto universitario Sophia: «Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse nel capitolo 13 della Lettera ai Corinzi. L’ agape è la via che tutte le altre sopravanza. Non avere l’agape significa essere nulla». E prosegue: «L’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano». Come vede, caro direttore, mi appello a autorevoli testimoni della cristianità. Ed ecco che ancora Piero Coda mi suggerisce sant’Agostino: «La carità spinse Cristo a incarnarsi». È di pochi giorni fa, in Egitto, il divampare di conflitti fra appartenenze religiose mettendo l’una contro l’altra. E soltanto ieri, a Roma, la dissennata violenza di giovani praticata con la rabbia della distruzione. E mi domando se è del tutto azzardato pensare che anche questi giovani allo sbando non provino un loro delirante atto di fede in una “religiosità” criminale.
Ancora una volta la Storia ci avverte che il vincolo tra fede e “Chiese delle diversità” può avere esiti di immani tragedie. E sappiamo anche che, nel corso dei secoli, le religioni hanno avuto necessità di cambiamenti imposti dai radicali mutamenti delle realtà che inarrestabilmente sopravvenivano. E quindi, concili, riforme e controriforme, sempre per adeguarsi con significati nuovi alle esigenze del cammino della Storia. Dunque: anche le religioni cambiano e cambiano i nostri comportamenti.
Solo il bene non cambia. Ma il bene non è esclusività di istituzioni. La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella Sua e nella nostra incarnazione.
e il primato della carità
il «Corriere della sera» ha pubblicato in forma di articolo venerdì scorso una mia presentazione e interpretazione dell’ultimo film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, quella che avevo anticipato nel dibattito svoltosi il 2 ottobre al Piccolo Teatro Strehler di Milano, in occasione della presentazione in anteprima del film. Solo successivamente – per mia negligenza – sono venuto a conoscenza di due servizi che erano nel frattempo comparsi su «Avvenire».
La lettura di tali articoli e in particolare delle profonde e convincenti riflessioni di Marina Corradi mi stimola a inviarle questa lettera, perché mi offre l’opportunità di completare il discorso svolto in quell’articolo con alcune puntualizzazioni che nell’articolo sono soltanto accennate alla fine. Il racconto-apologo del film di Olmi – focalizzato sulla chiesa dismessa in cui trova rifugio e accoglienza e assistenza da parte del vecchio parroco un gruppo di immigrati – ha un significato simbolico che appare a tutti molto chiaro: l’edificio sacro ha perso la sua originaria destinazione a luogo di culto divino e di preghiera (il che evoca la crescente secolarizzazione del mondo attuale); ma ritrova una vocazione nobile e sacra di accoglienza e di servizio di carità nei confronti di poveri uomini diseredati.
È proprio il significato di questa rappresentazione che può essere interpretato in modo diverso per quanto riguarda il rapporto tra fede e carità. Tale rappresentazione vuole significare che l’esercizio della carità si pone in una linea religiosa di continuità con la fede e la pratica del culto divino ovvero che è destinato a sostituirlo? Nel primo caso, il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo: un richiamo che nei confronti della comunità dei credenti, anche come rimedio alla secolarizzazione e all’allontanamento distacco del mondo contemporaneo dalla fede e dalla pratica religiosa, vale come monito a intensificare il loro impegno religioso e umano in tale direzione.
Nel secondo caso, invece, il significato sarebbe completamente diverso e si collocherebbe – concordo con quanto dice Marina Corradi – al di fuori della visione e dell’esperienza religiosa e cristiana, che trova il suo cuore nel rapporto diretto e personale del credente con la figura divina di Cristo e che proprio da questo rapporto trae anche l’ispirazione per l’esercizio della carità. A me non pare che il film debba essere interpretato in questo senso. È vero che l’inquietudine e gli interrogativi che assillano il vecchio prete lo inducono anche a dubitare del legame tra fede e carità («Per fare il bene non occorre la fede»).
Ma è pur vero che, sin dalla sequenza iniziale del film, l’anziano e tormentato parroco si rivolge di continuo al Cristo Crocifisso. Questo è l’interlocutore cui egli confida – si può dire nelle cui braccia ripone – i dubbi che insidiano la sua fede e che sono aggravati dalla solitudine (perché il vuoto della chiesa sembra riflettersi nel suo cuore). Nel mio commento ho ritenuto corretto – oltre che appropriato alla sede di presentazione del film – non sostituirmi all’autore dando delle risposte.
Mi sono limitato a ricordare, alla fine, che la condivisione delle fatiche e delle sofferenze degli uomini «non è una funzione vicaria ma di integrazione dell’amore di Dio e della preghiera». La religiosità cristiana si nutre inscindibilmente della carità (definita proprio ieri dal Papa «l’abito nuziale» dei cristiani) e dell’amore di Dio.
Quello che qui posso aggiungere è che tutto ciò trova conferma nella realtà incontestabile che l’impegno maggiore a favore di coloro che nella società sono i più deboli e indifesi – oggi, in particolare, gli immigrati – è sostenuto nel nostro Paese principalmente da organizzazioni della Chiesa e del volontariato cattolico. E non dubito che lo stesso Olmi riconosca l’immenso valore delle opere di carità che in tutte le epoche della storia sono state ispirate dalla fede.
Vangelo fede e politica: don Enzo Mazzi
La storia gira le sue pagine inesorabile e lenta. Ieri la storia di Firenze e della Chiesa italiana ne ha girata un’altra: s’è chiusa la vita terrena di don Enzo Mazzi. Uno spirito indomito e contestatario che lo portò a più riprese ad entrare in antagonismo con i suoi arcivescovi. Un nome che fa tutt’uno con «l’Isolotto», in una vicenda che il semplicismo ideologico – subito o prodotto – chiamerà «dissenso».
Quello che accade attorno a un parroco (nominato nel 1954, a 27 anni) e alla sua parrocchia prima del 1968 è qualcosa di ben più complesso ed emblematico. L’Isolotto diventa il mito di un cattolicesimo ribelle perché lì è cresciuta prima una esperienza di comunione, un segno di fraternità popolare che testimonia della fecondità del Vangelo nel tempo. Era questo che La Pira, inascoltato mediatore nel momento topico del conflitto voleva forse salvare, senza riuscire, in mesi — quelli fra il ’68 e il ’69 — nei quali la prepotente vitalità della primissima ricezione del Valicano II in Italia vira. Perché anche in Italia, come in tutto il mondo, il post-Concilio rafforza l’idea che si possa e si debba anticipare il tempo che verrà: e che dunque sia necessario trascinare nell’oggi, con la distruzione dei sistemi di potere, un domani quasi escatologico. Ma, a differenza di altri Paesi, in Italia il post- Concilio naufraga sulla politicizzazione della fede (politicizzata da sinistra, anziché dal collateralismo), come se solo l’organizzazione di un contropotere potesse «inverare» la fraternità attesa.
Di questo percorso don Enzo Mazzi è un protagonista che trova nella rigidità del cardinale Florit più d’una occasione di scontro. Dapprima insieme ad altri preti nella solidarietà con i ragazzi della Cattolica sgombrati dalla polizia dalla cattedrale di Parma, che avevano occupato per protesta contro i doni della banca locale per le nuove chiese. Poi nel momento in cui Florit – lo aveva già fatto per le elezioni del 1966 – lancia quell’ultimatum all’Isolotto che fa assurgere il caso alla ribalta nazionale.
Infine, subita la condanna della rimozione comminata nel dicembre 1968 e perfino un processo penale, nel superamento della forma parrocchiale e nella nascita della comunità di base.
Una comunità che alla fin fine — al netto di un linguaggio autocelebrativo e di un lessico politico patinato dal tempo – ha fatto della polemica con l’autorità la propria cifra. Con don Mazzi se ne va un pezzo di quella Firenze di cui egli interpretava un’anima più protestataria e che era stata per quindici anni il chiostro, per usare una espressione russa, dei «folli Dio»: una Firenze che aveva saputo dare al Paese il senso che ad alcuni, governati col solo sguardo dall’austero prestigio di Dalla Costa, premeva solo la fede. Cosette: di cui forse ci sarebbe bisogno anche oggi, se Firenze volesse averle.
di Alberto Melloni
in “Corriere Fiorentino” del 23 ottobre 2011
ALTRI ARTICOLI
- Il radicalismo cristiano di don Enzo Mazzi di Giovanni Gennari in Vatican Insider del 24 ottobre 2011
- Un prete scomodo che spaventò la Chiesa di Giovanni Gozzini in l’Unità del 24 ottobre 2011
- Quel suo progetto di “chiesa di popolo” di Maria Cristina Carratù in la Repubblica Firenze del 24 ottobre 2011
- L’ultima scelta di don Mazzi: “Voglio essere cremato” di Massimo Vanni in la Repubblica Firenze del 24 ottobre 2011
- Sempre radicale. Ma ha limitato i rischi della nostalgia intervista a Severino Saccardi a cura di A. Gag. in Corriere Fiorentino del 23 ottobre 2011
- Don Mazzi, addio al suo Isolotto di Marzio Fatucchi in Corriere Fiorentino del 23 ottobre 2011
- Un testimone profondo del nostro tempo di redazione in il manifesto del 23 ottobre 2011
- Le parole di un cristianesimo ribelle di Riccardo Chiari in il manifesto del 23 ottobre 2011
Una ‘Settimana contro la violenza’
Una ‘Settimana contro la violenza’ per sensibilizzare gli studenti, ma anche gli insegnanti e i genitori, sul tema della prevenzione e del contrasto ad ogni forma di discriminazione e violenza. A presentare l’iniziativa (che si è tenuta dal 10 al 15 ottobre e continuerà per tutto l’anno scolastico), giunta alla terza edizione, i ministri delle Pari opportunità Mara Carfagna e dell’Istruzione Maria Stella Gelmini.
Durante la conferenza stampa, presso il dicastero guidato da Carfagna, i promotori hanno tracciato le linee guida dell’iniziativa, che mira ad aprire un confronto sui temi del rispetto e del contrasto alla violenza. “Spezzare i pregiudizi”, questo l’obiettivo indicato dal ministro delle Pari opportunità.
In particolare, ha spiegato Carfagna, occorre “sensibilizzare contro le discriminazioni e la violenza, indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla religione“. D’accordo Gelmini, che ha rilevato: “Bisogna educare al rispetto dell’altro e delle regole, contro ogni forma di violenza“. L’iniziativa è giunta alla terza edizione e, ha concluso Carfagna, “spero possa continuare nei prossimi anni“.
Apprezzamenti per l’iniziativa si sono avuti anche dall’opposizione, che però ha anche invitato a fare di più contro il bullismo e l’omofobia. Anna Paola Concia, deputata del Partito Democratico ha dichiarato: “Se vogliamo davvero costruire una società che rifiuta la violenza e le discriminazioni dobbiamo partire proprio dalla scuola. Anche perché gli studi di settore ci dicono che gli adolescenti gay esposti a fenomeni di bullismo, raggiungono alti livelli di dispersione scolastica. La settimana contro la violenza istituita dai ministri Carfagna e Gelmini è quindi un’ottima iniziativa, ma non basta“.
Concia ha anche annunciato la presentazione a breve di “una proposta di legge che istituisca all’interno del MIUR un’osservatorio permanente contro la violenza e le discriminazioni, che si occupi anche di bullismo omofobo e transfobico. Spero che i ministri competenti siano disposti a collaborare per rendere la scuola un luogo sicuro e inclusivo per tutti gli alunni“.
–>
tuttoscuola.com
una grammatica ‘esistenziale’ per imparare le lingue
una proposta del prof. Bertagna:
Secondo recenti ricerche l’85 per cento dei ragazzi italiani tra i 17 e i 23 anni sostiene di sapere l’inglese. E’ una percentuale alta, simile a quella dichiarata dai coetanei tedeschi e polacchi, e più elevata di quella dei giovani spagnoli e francesi.
E’ ben noto tuttavia che alla conoscenza cosiddetta ‘scolastica’ dell’inglese non corrisponde affatto una effettiva padronanza della lingua, e se ne hanno continue riprove in varie circostanze e a vari livelli. Non per nulla le scuole private di lingua inglese sono assai frequentate, e molto diffusi sono anche i corsi in autoistruzione, Cd, video cassette e lezioni online.
Ma perché la scuola italiana, a differenza di quella di altri Paesi, si attesta su livelli di apprendimento – o meglio di padronanza – così modesti?
Secondo Giuseppe Bertagna, che affronta il problema in una intervista a ilsussidiario.net, la ragione di fondo dell’inconsistenza dell’inglese ‘scolastico’ deriva dal fatto che in Italia si è attuata una “politica delle lingue basata più sull’utilità che sulla formatività delle lingue”, mentre “le persone non vivono solo di utilità, ma innanzitutto di verità”, nel senso che “se l’apprendimento della lingua straniera, come qualsiasi altro contributo di insegnamento, non trova un senso proprio nelle motivazioni e nell’interesse di chi apprende, ha vita breve”. Perciò, se si vuole risolvere il problema, “la lingua straniera deve diventare una verità esistenziale, una modalità di rapporto col mondo”.
Ma la scuola non ce la può fare da sola, come l’esperienza insegna. Perciò occorrerebbe varare un piano per incrementare e stimolare, d’intesa con le famiglie, tutte le occasioni di apprendimento esterne alla scuola, dai viaggi agli stage alla Tv e agli altri media. In questo modo “la scuola ricaverebbe spunti per la sua analisi critico-riflessiva, facendo grammatica non solo formale ma esistenziale”.
A ben riflettere la strategia suggerita da Bertagna per l’inglese – una sorta di curricolo integrato tra scuola ed extrascuola – trova punti di analogia e motivazioni non diverse anche per quanto riguarda l’apprendimento delle e attraverso le tecnologie dell’informazione e comunicazione. I ragazzi imparano a usarle, e con quale facilità e rapidità!, perché così soddisfano un loro bisogno esistenziale prima ancora che subire una ‘materia’ scolastica…
–>
tuttoscuola.com
Osare l’umanesimo.
l’intervento di Julia Kristeva all’inaugurazione di Parigi del «Cortile dei gentili»
È possibile «osare l’umanesimo» nel dialogo tra credenti e umanisti. Questa la tesi sviluppata nell’intervento che la semiologa e psicoanalista francese Julia Kristeva ha tenuto alla Sorbona durante l’evento inaugurale del Cortile dei gentili a Parigi (24-25.3.2011; cf. riquadro alle pp. 316- 317). Il panorama spirituale con tempo raneo offrirebbe, nella sua lettura, le condizioni per rifondare una tradizione – definita «umanesimo secolarizzato» – che nasce con Erasmo distinguendosi dall’umanesimo classico ed ebraico-cristiano, attraversa l’Illuminismo e ci raggiunge con Freud e la psicoanalisi. Un pensiero che si è separato dalla religione senza divenirle ostile o indifferente, che ha accettato il rischio della libertà, dell’individualità, delle passioni liberate. Un umanesimo che fa oggi i conti con le sue «debolezze» e deve ripensarsi nel confronto coi «nuovi attori» che hanno fatto irruzione sulla scena culturale e politica: la questione femminile e il discorso sulla maternità; un’adolescenza «malata di idealità»; una tecnica sempre più pervasiva e minacciosa per «lo spazio interiore» e l’incontro delle culture, in particolare quello con la tradizione cinese.
Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf
Da cristiani, per dare valori alla politica
La comunità cristiana, invece, è chiamata a formare in Cristo uomini nuovi, capaci di fare nuova anche la politica; uomini e donne dal cuore nuovo, capaci di fare nuovo il cuore delle istituzioni politiche. La “legge dell’amore” vale anche per la politica e incombe sulla nostra coscienza di laici cristiani; ci spinge a ridire con nuovo amore la nostra fede nei contesti sociali in cui Cristo manca, è trascurato o è offeso. Del resto il Papa è esplicito: «Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo» (Deus caritas est, 28). Dunque, la costruzione della civiltà dell’amore ci interpella. Spetta a noi discernere come fare, cosa fare perché il messaggio sociale della Chiesa, la sua Dottrina sociale, non vengano sviliti o ignorati, in primis nella formazione di tanti cristiani. Noi abbiamo nella Dottrina sociale della Chiesa un punto di riferimento unitario di giudizio sulla realtà sociale, un pensiero che coniuga fede e ragione in forza della verità in essa contenuta. E io vedo due grandi sfide di fondo per l’impegno dei cattolici in politica.
La prima sfida è impedire che sia marginalizzata la nostra fede cristiana nella vita pubblica delle nazioni. Come ha ricordato Benedetto XVI, «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire» (Caritas in veritate, 7). «Comunità ecclesiale» e «Comunità politica» sono realtà distinte, con rappresentanze distinte, ma devono tornare a dialogare. Noi possiamo far sì che questo dialogo si ristabilisca e sia fecondo, credibile, che riponga al centro l’uomo, in una società a misura d’uomo, per uno sviluppo umano integrale. Non possiamo permettere che la nostra laicità cristiana sia messa a tacere, che venga relegata nella sfera privata.
La seconda sfida della nuova evangelizzazione della politica è data dall’aspetto economico e mercantile della globalizzazione. Si sta ponendo al centro l’aspetto materiale dell’uomo, pregiudicando così l’apertura dell’uomo stesso alla trascendenza, a Dio. Si vorrebbe un «cristianesimo utilitario», utile a risolvere i problemi materiali dell’uomo, riducendo la portata salvifica della nostra fede a un puro umanesimo, a un’atea filantropia. Dio confinato nell’al di là e l’uomo sconfinato nell’insignificanza. L’attuale scenario della storia, ben lo sappiamo, è di profonda crisi economica e politica, una crisi planetaria che è prima di ogni cosa «crisi spirituale». Anche per molti credenti. Ecco perché abbiamo il dovere di pensare a una nuova evangelizzazione degli stili di vita e delle istituzioni che sovrintendono al destino degli uomini e dei popoli.
Ormai da tre anni, il Papa Benedetto XVI invoca nuova generazione di cattolici impegnati nella politica. E sono “cinque”, nel giudizio del Pontefice, le virtù, le attitudini indispensabili da riscontrare o da favorire in coloro che vogliono dedicarsi alla realizzazione del «bene comune» mediante l’impegno politico: 1) «coerenti con la fede professata», non con quelle conformi all’opinione pubblica prevalente; 2)«rigore morale», perché non si può più minimizzare la gravità della «questione morale», anche tra i cattolici; 3) «capacità di giudizio culturale», cioè di discernimento, frutto di studio, di meditazione, di capacità di distinguere un bene individuale dal bene comune; 4) «competenza professionale», perché la politica è un’arte, una vocazione e non ci si improvvisa; 5) «passione di servizio», non per l’onore personale o per la gratificazione di pochi.
In conclusione, ritengo che mai tempo sia stato più favorevole di questo per la nuova evangelizzazione, dopo il vuoto determinatosi con il crollo delle grandi ideologie. «Il nostro è un mondo che deve essere creato a nuovo con fiducia nel pensiero cristiano», affermava l’esule, grande sacerdote e statista, Luigi Sturzo. (The preservation of the faith, Londra, 1938). Siamo la prima generazione del primo secolo del terzo millennio. È nostra responsabilità di fede che questo mondo caotico sia ordinato dallo Spirito di Dio e disponibile agli autentici bisogni dell’uomo.
Erano ovunque, i cattolici: ben radicati nei territori e impegnati a fare, intraprendere, progettare, educare, produrre cultura, costruire e mantenere reti di solidarietà, alimentare speranza. Espressioni diverse di una stessa forza serena e vera, di uno stile di servizio e di un disinteressato interesse al bene di tutti e soprattutto di chi è più fragile e in maggiore precarietà.
E perciò, in una fase complessa e tesa come l’attuale, erano anche a Todi. Uomini e donne presenti – in modo senza precedenti nella vicenda del laicato cattolico – a dare volto e voce alla quasi totalità delle esperienze ecclesiali di associazione, di movimento, di cammino, delle istituzioni bancarie e culturali, del mondo della comunicazione. Tutti riuniti nella cittadina umbra per iniziativa del “Forum delle persone e delle associazioni d’ispirazione cattolica nel mondo del lavoro”. Cioè di organizzazioni vaste e generose dei lavoratori, della piccola impresa agricola e artigiana, della cooperazione.
Una «singolarissima assemblea», di gente provocata dall’idea di contribuire a una «buona politica» concretamente orientata al «bene comune». Un’occasione per dimostrare, in un tempo segnato da potenti processi di disgregazione e incalzato dalla sfiducia, che forze buone e capaci di aggregare persone e suscitare fiducia sono disposte a unirsi, a valorizzare visioni e parole comuni, a dare ritmo a un processo di rinnovamento della presenza pubblica dei cattolici. Una risposta – in via di articolazione – ai ripetuti appelli in tal senso di Papa Benedetto e dei vescovi italiani.
Una mano tesa alle altre forze vive e presenti nella nostra società e una proposta oggettivamente incalzante e profondamente onesta a un mondo politico che ha evidente necessità di riorganizzarsi e di sgombrare – anche, ma non solo, con lo strumento di una legge elettorale che consenta di giudicare chiare proposte di governo e renda agli elettori il potere di scegliere gli eletti – i canali di comunicazione con la realtà del Paese. Uno sforzo indispensabile per fronteggiare con lucidità quella che Lorenzo Ornaghi chiama l’onda montante della «contropolitica», concetto che evoca con grande efficacia non solo un antagonismo aggressivo e polemico, ma un’insidia che grava sulla qualità stessa della nostra democrazia e che evoca la premeditazione di luoghi di governo rischiosamente «altri dalla politica» .
Certo, chi si aspettava – da Todi, e a Todi – «fuochi d’artificio» e corali «discese in campo» sarà rimasto deluso. Chi aveva “deciso” la nascita sic et simpliciter di un «partito cattolico» dirà che è mancato qualcosa di decisivo. Altri, comunque, non vedranno e non capiranno ciò che s’è messo in moto. Non è la prima volta, non sarà l’ultima. Ma i laici cattolici in campo già ci sono in tanti modi, e il “di più” che sentono di dovere e potere dare nel tempo presente è l’obiettivo – e il senso – di un processo in pieno svolgimento.
C’è una strada da compiere, con libertà responsabile, di buon passo e con sguardo attento e aperto. Senza farsi tentare dalle scorciatoie e senza farsi sviare dalla paura di deludere qualche pressante attesa.
Su questa strada i cattolici portano con sé, nella bisaccia e come bussola, una capacità di visione affinata grazie alla Dottrina sociale della Chiesa e princìpi che – come dice il presidente della Cei – sono il «fondamento stabile, orientativo e garante» del bene comune. Si tratta di quei «valori non negoziabili» che «difficilmente sopportano mediazioni per quanto volenterose». Non tutti apprezzano la tenacia nel tener cara questa consapevolezza e la concezione di unità profonda tra cattolici e tra cattolici e laici che ne può discendere (e che s’è già sperimentata persino negli anni del bipolarismo furioso).
Ma questa unità è ben possibile, e Papa Benedetto l’ha indicata come compito per l’uomo del XXI secolo consegnandola in modo memorabile alla riflessione di tutti nel suo recente discorso al Parlamento tedesco. C’è purtroppo chi vorrebbe trasformare quei valori in una bandiera che divide i campi e scatena guerre, magari per suggerire di ammainare il vessillo o per sbatterlo in faccia al “nemico”. È una pretesa sbagliata: lo era ieri, lo è oggi e lo sarà di più domani.
«La buona politica per il bene comune»
è il tema dell’incontro di Todi delle associazioni cattolicche italiane sull’impegno politico oggi
In questo articolo vorremnmo dare rilievo al dibattito che si è aperto, in queste ultime settimane Italia, sulla presenza dei cattolici nella vita politica italiana.
La rete di associazioni che coinvolge milioni di persone, ma che costituisce ancora un’entità pre-politica si incontrerà il prossimo lunedì a Todi sul tema «La buona politica per il bene comune». E’ il primo passo di quella «la straordinaria sfida» lanciata dal cardinal Bagnasco, «Non possumus nunc silere», «non possiamo ora tacere».
«Per l’Italia una rotta, non un salvagente»
intervista ad Andrea Riccardi a cura di Giovanni Grasso
in “Avvenire” del 13 ottobre 2011
«Vorrei subito invitare tutti alla calma: l’appuntamento di Todi non è l’atto fondativo di nuova formazione politica. Per essere espliciti: niente cose bianche, balene, pesciolini e men che meno ambizioni leaderistiche da parte di nessuno». Lo storico Andrea Riccardi , fondatore della Comunità di Sant’Egidio (che tiene a precisare di essere tra gli «invitati e non tra gli organizzatori» del convegno tuderte) spiega: «I cattolici (o, come leggo sui giornali, il Vaticano, la Cei…) non stanno lanciando un’Opa sulla politica italiana. Questa è pura fantasia. Stanno invece cominciando a riflettere in modo approfondito su qual è la domanda che oggi rivolge il Paese e quali possono essere le risposte agli italiani».
E, dunque, qual è l’interpretazione autentica del convegno di Todi?
Non è un convegno ecclesiale né un congresso di partito. Ma un momento di concertazione e di concentrazione di intelligenze e volontà che intendono riflettere sulla crisi del Paese. Un gruppo di laici cattolici, tra l’altro provenienti da diverse esperienze, che intendono cominciare a ragionare su quale possa essere il loro contributo per la rinascita del Paese.
Eppure si continua a sospettare e a straparlare di un nascente partito della Chiesa o di Bagnasco…
L’iniziativa è stata promossa autonomamente da un gruppo di laici, che da sempre dialogano con la gerarchia, ma che sono consapevoli della loro autonoma e specifica responsabilità rispetto all’impegno politico e civile.
Le chiedo: perché muoversi proprio oggi?
Un ciclo politico si è chiuso, quello della mai nata II Repubblica. Una fase, l’età di Berlusconi, in cui il Paese ha pensato di affidare le proprie sorti a partiti o fronti capeggiati dall’uno o l’altro leader. Ora c’è da riscoprire il valore dell’impegno e della partecipazione, perché si è creato un profondo distacco tra Palazzo e Paese. Le istituzioni comunitarie del nostro Paese sono in difficoltà e tra queste la famiglia sta sopportando un peso tremendo. Ma per promuovere la partecipazione e rilanciare l’Italia bisogna ridare idee, pensieri, sentimenti.
E quale può essere oggi il contributo dei cattolici all’Italia?
Credo che oggi l’Italia domandi ai cattolici, ma ovviamente non solo a loro, un contributo di responsabilità e pensiero. Responsabilità, di fronte alla crisi economica internazionale, nella quale si colloca il nostro Paese con gravi difficoltà. Pensiero, rispetto ai grandi cambiamenti avvenuti nella nostra società, che deve interrogarsi sul modello antropologico dell’uomo e della donna come si è andato configurando in quella che io chiamo la ‘ triste époque’ degli ultimi dieci anni; che deve fare i conti con un futuro che non è di crescita, ma caratterizzato da tante difficoltà. E allora le sfide che ci attendono sono quelle della difesa della vita, della riscoperta del lavoro e del sacrificio, della solidarietà tra le generazioni, con particolare attenzione ai giovani e alla terza età, vere questioni del presente e del futuro.
I tempi, però, stringono… Il Paese ha bisogno di un rilancio immediato.
Rilanciare il Paese significa innanzitutto rilanciarlo in Europa, il che implica un pensiero europeo, che oggi difetta. Come confrontarci con l’Asia, con gli emergenti, con i Brics, se non nel quadro europeo? Altrimenti saremmo una fragile barchetta. Inoltre dovremo affrontare una stagione di sacrifici, dopo un periodo caratterizzato dallo sperpero. E tutto questo implica un pensiero. L’Italia non ha solo bisogno di salvagenti, ma soprattutto di una rotta.
E quale può essere questa rotta?
Ci troviamo in un momento delicato: all’emergenza internazionale ed economica si somma l’emergenza politica nazionale. Vedo che si parla di elezioni nel 2012. La politica ha bisogno di pensieri lunghi, di ricreare innanzitutto cultura politica. Il grande divario è avvenuto tra politica e cultura: le culture politiche si sono spente. Una vera cultura di destra, nel nostro Paese, forse non c’è nemmeno mai stata. Mentre quella di sinistra è in crisi da tempo. Non così la cultura dei cattolici, che in questi anni è stata alimentata e promossa.
Si parla molto oggi della necessità di una svolta. La chiedono le opposizioni, ma anche molti sponenti della stessa maggioranza. Si parla di transizione, decantazione, unità nazionale. Lei che ne dice?
La storia recente del nostro Paese è caratterizzata da una serie di cicli che si sono interrotti drammaticamente: pensiamo alla crisi dello Stato liberale, con l’avvento del fascismo, alla fine del regime con la guerra, alla caduta nell’ignominia della Prima Repubblica. Dobbiamo dare una svolta, ma anche assicurare una transizione pensata e responsabile. Si è già rotto il ciclo dell’età del bengodi, non possiamo permetterci altri traumi.
Tra le forze politiche è polemica permanente su federalismo e su sistema elettorale. Lei che ne pensa?
L’Italia a mio parere è più municipalista che federalista. Non è tanto il Paese delle venti Regioni, quanto quello delle cento città e dei villaggi di campagna. Da qui dovremo ripartire. Quanto al sistema elettorale, credo che occorra ristabilire un rapporto autentico tra elettore e cittadino, restituendo a quest’ultimo il diritto di scelta. Per il resto non ho mai creduto al potere messianico dell’ingegneria costituzionale. Oggi il primato è ricostruire un tessuto responsabile nella vita di una società atomizzata.
C’è un’attenzione spasmodica da parte dei media e della classe politica sull’appuntamento di Todi, ci si chiede in modo quasi maniacale dove sfocerà…
Io dico questo: le reti della società sono distrutte o molto danneggiate. Nelle periferie urbane non ci sono più le sezioni di partito, rappresentanze un tempo forti si sono rattrappite, i legami familiari e di amicizia si sono allentati. C’è molta solitudine. Restano solo le parrocchie, con le associazioni e le comunità che accolgono e promuovono. Di fronte a questo spettacolo desolato, il mondo dei laici cattolici può rilanciare delle idee forti: famiglia, vita, solidarietà, lavoro, mondo. Mi sembrano cose importanti, più di sapere se ci sarà o meno un nuovo partito, se sarà di centro, di destra o di sinistra. Lasciamo correre la forza disarmata e disarmante delle idee, in un mondo troppo povero di idee e di speranza.
“C’è un grave problema etico dobbiamo ridare la speranza”
intervista a Franco Miano, presidente dell’Azione Cattolica, a cura di Annalisa Cuzzocrea
in “la Repubblica” del 13 ottobre 2011
Passare dalla rassegnazione alla speranza, coniugare coscienza personale e coscienza collettiva, recuperare un terreno comune di valori, saper coniugare politica e morale. E’ il messaggio che l’Azione cattolica porta all’incontro di Todi. «E’ urgente – dice il presidente Franco Miano – bisogna insegnare ai giovani il coraggio e la responsabilità. Per ora stiamo dando solo il cattivo esempio».
Perché è importante in questo momento un confronto tra le più diverse componenti del mondo cattolico?
«Il Paese ha bisogno di esercizi di dialogo e di impegno comune. Serve un nuovo patto educativo per rilanciare il Paese, bisogna ristabilire una base condivisa di valori per poi passare all’azione, e mettere al centro concetti come lavoro, famiglia, giustizia sociale, legalità, sviluppo del mezzogiorno».
C’è un decadimento di valori, un impoverimento dell’etica?
«C’è un grande problema etico. Come ha detto il cardinale Bagnasco nella sua prolusione, come lo stesso Papa ha ricordato a Lamezia Terme, è necessario che ciascuno – anche come credente – sappia assumersi le proprie responsabilità. Serve una cultura della serietà e del sacrificio per imparare a assumere responsabilmente la vita».
Il mondo cattolico cerca unità per pesare di più?
«Se pesare vuol dire essere una lobby, imporre un potere, prendere interessi di parte, no, non ci interessa. Ma se significa pesare per il bene comune, incidere nella realtà per renderla migliore, allora ben venga».
Ben venga l’unità dei cattolici in politica?
«Non è ancora chiaro l’obiettivo verso cui andiamo, non vedo ancora passi tali da far pensare a uno scopo simile. Vado a partecipare al seminario, e si vedrà. Quel che penso sia fondamentale, è dare speranza alle giovani generazioni».
Stiamo dando il cattivo esempio?
«Non c’è dubbio, è così. E invece bisogna insegnare il coraggio, non quello della pacca sulla spalla, ma quello che viene dalla responsabilità che come generazione di adulti siamo in grado di esercitare fino in fondo».
“È un Paese pieno di macerie ma non rifonderemo la Dc”
intervista a Gennaro Iorio, rappresentante dei Focolari, a cura di Marco Ansaldo
in “la Repubblica” del 13 ottobre 2011
«I vescovi, ma anche noi come associazioni cattoliche, ci rendiamo tutti conto che è il momento di una riflessione comune. Ci sono risposte da dare di fronte a un Paese alle prese con macerie da un punto di vista etico, culturale e di prospettiva politica. Todi sarà una tappa importante, ma noi è già da tempo che parliamo di questi argomenti anche in altri centri». Gennaro Iorio è il rappresentante del movimento dei Focolari.
È dunque da tempo che state affrontando questo argomento?
«È un cammino che la Chiesa e i cattolici fanno da anni. C’è una ricchezza di movimenti e di associazioni che avevano l’esigenza di confrontarsi sui valori».
Ma ora il contesto è cambiato.
«Sì, questo incontro assume una rilevanza diversa. Anche a causa della crisi economica. Ma ci è ben chiaro in ogni caso che possiamo salvare l’Italia solo stando in Europa. E a partire dalla prolusione che farà il cardinale Bagnasco vogliamo essere l’humus culturale che poi potrà essere raccolto da progetti nuovi o da partiti politici. Di quest’ultimo aspetto tutti parlano, la cosa però non è all’ordine del giorno della riunione».
Il direttore dell’Avvenire, Tarquinio, ha scritto che in passato i cattolici si sono trovati ad essere più marginali stando nel centro-sinistra. Si possono già stabilire ora delle appartenenze nello schieramento politico?
«Dopo la fine della Dc la presenza dei cattolici in politica si è un po’ diluita. E mi pare che sia nel centro destra che nel centro sinistra non ci siano stati protagonisti cattolici. Certamente l’esperienza di Romano Prodi è stata importante. E credo che di fronte alla crisi sia necessario interrogarsi come rispondere. C’è ancora tanta strada da fare, e non tutti i cattolici ritengono che l’unica da percorrere sia quella di un partito. Tuttavia, di fronte al berlusconismo che ha monopolizzato il Paese da vent’anni, si aprono degli spazi».
L’obiettivo può essere una rinascita della Dc?
«Io sono nato dopo il 1970. Ho pianto per la caduta del Muro di Berlino. Sono domande che forse si fanno altre persone. Ma vedo il mio Paese che affonda, e questo non mi piace».
“Gli ultimi 10 anni una triste époque serve un nuovo progetto per i cattolici a Todi le basi per un confronto”
intervista ad Andrea Riccardi a cura di Marco Ansaldo
in “la Repubblica” del 14 ottobre 2011
«Ci interrogheremo sul futuro dell´Italia, non sul fare un partito o no. C´è da fare un investimento sul tessuto della società, un investimento culturale. In questa fase sono importanti le idee».
Rifugge dal ruolo di “deus ex machina” dell´iniziativa. «Macchè “deus”. Intanto, manca la “machina”», risponde con spirito sottraendosi alla domanda. Ma il professor Andrea Riccardi, storico cattolico e fondatore della Comunità di Sant´Egidio, è l´uomo su cui stanno convogliando molte delle attenzioni riguardanti il Forum delle associazioni cattoliche. Lunedì, a Todi, il convegno potrebbe fare da grembo alla nascita di un nuovo soggetto politico.
Siamo alla vigilia di una riunione che potrebbe segnare un momento importante per la politica italiana. Ma non ci sono forse troppe attese?
«È vero, si è caricato questo convegno di tante attese. Non perché non sia importante, ma perché c´è una grande domanda fra la gente e nel Paese. Domanda di idee, di prospettive e di visioni. Si tratterà però di un momento significativo, come approdo al lavoro svolto dagli attori del Forum, in particolare da Raffaele Bonanni. C´è poi il lavoro quotidiano di tanti movimenti ecclesiali accanto alla gente. Se Todi si è caricato di attesa probabilmente è perché c´è bisogno di luoghi di speranza».
Sotto il profilo concreto di che cosa si discuterà?
«Insisto sull´aspetto delle idee. Idee con i piedi per terra, maturate nella realtà, nel mondo del lavoro, nel radicamento sociale, in una Chiesa ben inserita nel tessuto del Paese e che “vede” la crisi».
Però non c´è il rischio di trovarsi in conflitto con un´altra iniziativa che punta alla nascita di un nuovo soggetto politico, quella in embrione di Luca di Montezemolo?
«Montezemolo ha avuto il merito di porre il problema del dopo. Si tratta di cose diverse. Nel processo che porta al convegno di Todi, e che andrà oltre, c´è un pensare prossimo alla politica, ma distinto. Più che la matrice di un partito, c´è un grembo di idee, di visioni e di speranze. Un percorso che nel variegato tessuto cattolico è in atto da tempo. È un´amicizia pensante fra cattolici, ma dialogante con i laici. Un´amicizia responsabile».
Non sono formule vacue?
«Queste non sono parole, né un fumo che nasconde qualcosa. La nostra società ha bisogno di pensieri lunghi e di sguardi in avanti. Perché la nostra politica si è impoverita di cultura, con un dibattito urlato che interessa la gente sempre meno».
Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, terrà la prolusione dei lavori. C´è chi ha scritto che questo sarà il suo partito. Non ci metterà il cappello sopra?
«Guardiamo alla prolusione di Bagnasco ai vescovi: è il suo messaggio all´Italia. Lui ha partecipato a vari convegni di riflessione. La sua presenza a Todi non mi meraviglia. Non so cosa dirà, ma non credo che su questa iniziativa voglia mettere il cappello nè la corona. Fra i suoi messaggi è rimasto ignorato quello che sottolinea la responsabilità dei laici cattolici nella vita politica. Un passaggio da guardare con attenzione. Bagnasco non prenderà la testa delle legioni cattoliche verso la politica. Piuttosto, darà un contributo autorevole a un dialogo polifonico».
Dunque prima il progetto e poi la ricerca di un leader?
«Sì, condivido l´impostazione. Penso che in Italia si conoscano poco tante personalità in grado di emergere. E in un momento in cui siamo tutti dominati dalla fretta trovo estremamente positivo il fatto di prenderci il tempo per un progetto da proporre. È anche questa la novità e lo spirito di diversità che contraddistingue Todi: dialogare con i politici, ma non farsi travolgere dal botta e risposta. Poi, per la mia formazione di studioso, è l´approccio giusto».
Avete dei nomi, dei punti di riferimento negli attuali schieramenti?
«Parlarne sarebbe sviante. Come detto, ci troviamo all´inizio di un discorso pre-politico».
Todi può essere l´inizio di una risposta al dopo Berlusconi?
«Vedo che si parla di elezioni nel 2012. Gli italiani hanno bisogno di risposte alle loro tante domande. Siamo in un periodo grave, con un tessuto sociale lacerato e a rischio di tensioni conflittuali. Ci vuole una transizione verso un nuovo ciclo politico: responsabile, paziente e pensata.
Ci siamo trovati negli ultimi dieci anni in quella che chiamo la “triste epoque”. Forse in Italia una vera cultura di destra non c´è mai stata. Quella di sinistra si trova in crisi. Non è così, però, per la cultura dei cattolici. Che in questi anni, come si vede, è sempre stata alimentata e promossa».
«Il Pd raccolga la sfida di una nuova politica»
intervista a Beppe Fioroni, a cura di Maria Zegarelli
in “l’Unità” del 14 ottobre 2011
Un’entità pre-politica, per ora. Una rete di associazioni che coinvolge milioni di persone.
L’appuntamento dei cattolici a Todi, in programma lunedì prossimo, «La buona politica per il bene comune», è infondo la conseguenza diretta di quel monito lanciato durante l’ultima prolusione dal cardinal Bagnasco, «Non possumus nunc silere», «non possiamo ora tacere». Per Beppe Fioroni è «un treno partito, che non si fermerà». Il punto è chi nell’attuale quadro politico sarà in grado di coglierne «la straordinaria sfida».
Fioroni, lei da cattolico impegnato politicamente come guarda all’appuntamento di Todi?
«Credo che nel panorama dell’Italia di oggi Todi rappresenti un elemento di novità molto importante. In un Paese dove paure e insicurezze portano tutti a chiudersi nel proprio egoismo, con una politica che dà l’idea di essere lo strumento con il quale i furbi realizzano i propri interessi a discapito degli altri, trovare una mobilitazione all’insegna della responsabilità penso sia il segnale di una rivoluzione del bene. Da lì si parte non per ricostruire un partito nuovo ma per lavorare, come sale e lievito, affinché si torni al futuro con una politica nuova».
Ma è o no la premessa per dare vita alla cosiddetta Cosa bianca?
«Da Todi parte un messaggio che diventerà un messaggio di popolo, si calerà nei territori per chiedere una vera offerta politica diversa da quello che c’è oggi. E si lancia una sfida ai soggetti politici esistenti: chi vuole interloquire deve dimostrare di essere all’altezza».
E il Pd secondo lei è all’altezza, può essere l’interlocutore di questo soggetto culturale e sociale, come si definisce?
«Se i cattolici fanno questa iniziativa è perché avvertono la necessità di una politica diversa e il Pd deve rendersi conto che se ritiene quel mondo un interlocutore fondamentale, senza il quale non si governa l’Italia, deve saper rispondere a una richiesta di proposte e iniziative politiche concrete. E i primi ad avere interesse ad avviare questo percorso devono essere i cattolici impegnati n politica».
Cioè, in buona sostanza, secondo lei il Pd così come è oggi non è all’altezza?
«Il Pd e il Pdl fanno entrambi un errore sostanziale. Non hanno capito che per incrociare quel mondo bisogna essere rispettosi e la prima cosa da fare è smettere di pensare che siano un “franchising”. Il Pd non può pensare di rispondere su tre o quattro cose e dire di tacere su tutto il resto. Quello è un mondo che nella seconda Repubblica ha guardato a destra e se oggi avvia una iniziativa di interlocuzione è perché vuole un cambiamento ».
Il Pdl li ha delusi, il Pd non li convince. Dipende dal fatto che non è sufficiente parlare di giustizia sociale e povertà, ma bisogna dare segnali concreti anche sui temi ticamente sensibili. È questo che pensa?
«Dico che il Pd deve cambiare approccio perché etica della vita e etica sociale hanno il medesimo fondamento. La testimonianza e l’impegno di un cattolico in politica in questo senso non deve essere considerata dal Pd come pesante libertà di coscienza, ma come una straordinaria opportunità per rappresentare la società e dire a quel mondo che può stare in questo partito. Nel campo dei diritti non può esserci la “valorialità fai da te”: sarebbe la codificazione del relativismo».
Che succede se il Pd non assume questo approccio? Lei se ne andrà e contribuirà a trasformare questo soggetto sociale e culturale in soggetto politico?
Se il Pd non saprà raccogliere la sfida vuol dire che decide di rivolgere la testa indietro e rinunciare a essere quello che voleva per tornare a essere ciò che è già stato. Sarebbe un grande peccato».
Ma lei non risponde alla domanda. È tentato di lasciare il Pd davanti a questi nuovi scenari in evoluzione?
«Io voglio che il mio partito rappresenti quel mondo, che mi dia la possibilità anche attraverso la mia azione di far sentire quel mondo rappresentato. Questo voglio».
Lei sostiene che il Pd rischia di tornare ad essere quello che era. E i cattolici non sono tentati di tornare ad essere quello che erano, tutti uniti nella Balena bianca eppur del nuovo Millennio?
«Quello che può diventare questo movimento è funzione di quello che i cattolici impegnati in politica sapranno fare. Se non saranno all’altezza quel treno è comunque partito e non si fermerà».
Il direttore di Avvenire, Tarquinio, sostiene che i cattolici hanno avuto un ruolo marginale in politica.
«Vorrei ricordare al direttore che se la legge 40 è stata approvata, lo si deve ai popolari che l’hanno votata e sostenuta. Se le scuole paritarie e cattoliche oggi hanno molti meno fondi di quelli che ha garantito Prodi quando era al governo è perché i cattolici di centrosinistra non sono stati affatto irrilevanti».
Lei è uno degli interlocutori di quel mondo. Ci aiuta a capire in che cosa consiste questa richiesta di nuova politica?
«L’iniziativa di Todi parte da alcune riflessioni su quanto la politica ha fatto durante la seconda Repubblica. Sono tre i fondamenti su cui si è retto questo impianto che oggi quel mondo ci dice di modificare profondamente. Intanto la politica ha pensato che fosse nuovo e moderno rimuovere il concetto dell’agire fondato sui valori e quindi ha scardinato identità e appartenenze. In secondo luogo ha proposto una scissione tra il desiderio e il valore, ancora a scapito di quest’ultimo. Infine ha barattato la partecipazione con l’esaltazione della comunicazione, facendo saltare il rapporto tra l’eletto e l’elettore».
Come si dovrebbe ricostruire su queste macerie?
«Tornando all’idea che l’impegno in politica sia finalizzato al bene comune e non personale. Per questo il cardinale Bagnasco ha lanciato un monito ai cattolici, perché c’è bisogno di una nuova partecipazione per “pulire l’aria”, per rimettere al centro valori, etica della vita e etica sociale».
Campanini: cattolici spaventati dalla politica
Alberto Bobbio
Su Famiglia Cristiana 20 01 2011
«Il cattolicesimo italiano sta diventando intimistico», dice il professore, «e soffre ormai della stessa malattia che affligge la nostra società: ciascuno si fa gli affari propri».
Premette e avvisa: «La fede non può in alcun modo sostituire la conoscenza puntuale dei problemi, che è una condizione necessaria perché le decisioni assunte dalla politica siano efficaci e producano buoni risultati». Giorgio Campanini, per lunghi anni professore di Storia delle dottrine politiche all’Università di Parma e poi di Etica sociale a Lugano e di Teologia del laicato alla Pontificia Università Lateranense a Roma, ha appena compiuto 80 anni e ragiona di politica e di fede, di religioni e di Stato e del rapporto non sempre facile tra cristianesimo e potere. E riflette sull’Italia e sulla Chiesa, i suoi vescovi e i suoi laici impegnati e disimpegnati, in un travagliato momento politico per il Paese. Voce di riferimento per la comunità ecclesiale durante la stagione postconciliare, senza sconti per nessuno.
Professore, perché la conciliazione tra il cristiano e la politica è difficile?
«Per un cristiano la politica è “servizio”, ma poi deve stare attento e non fare pasticci tra l’etica del successo e l’etica della testimonianza ».
Ma lei da cosa parte?
«Dal Vangelo, perché lì dentro ci sono gli strumenti per l’analisi. Prenda la questione della competenza. Rilegga Luca, quando il Signore spiega che chi ascolta le sue parole è come un uomo che ha costruito la casa sulla roccia e quando viene la tempesta e il fiume rompe gli argini la casa sta in piedi perché era costruita bene. Insomma, per operare bene in politica non basta la buona volontà, la buona fede, come si dice, e nemmeno una personale vita di pietà».
E lo spirito di servizio, altra formula spesso abusata?
«C’è un’ipocrisia con la quale spesso il potere usa quella formula, mentre essenzialmente persegue fini di successo e di affermazione personale o di gruppo. È il tema delle distorsioni: clientelismo, favoritismi vari, uso improprio della capacità di persuasione del politico fino ad arrivare alla corruzione. Ma c’è un’altra questione da analizzare, e cioè la zona grigia che sta tra la vera e propria corruzione, cioè un reato, e l’esercizio del potere discrezionale, che non è reato ma non vuol dire che sia ammesso, se esso diventa improprio. Per un cristiano che fa politica non basta astenersi dalla corruzione, occorre anche dare un’esemplare testimonianza, per esempio stando lontani da chi – parenti, amici, finanziatori, sostenitori – sollecita un uso disinvolto del potere, aiuti, posti e via di seguito. Si chiama “rigore morale” e oggi è una sorta di chimera».
Come giudica l’attuale momento politico?
«È uno dei più tristi della storia della Repubblica, ma non è tutta colpa della politica. Una notevole responsabilità l’ha l’opinione pubblica, che ha preferito l’intrattenimento televisivo, che non chiede informazione corretta, che ha deciso di non partecipare alla vita civile. E quando sono i cattolici ad aver perso passione per la città, cioè l’amore per le cose comuni, per dirla con Giorgio La Pira, il guaio è grande. Negli ultimi trent’anni i cattolici se ne sono andati dalla politica, hanno messo nel cassetto le proprie “virtù sociali”, hanno deciso di non andare a votare».
Peccato di omissione?
«Non faccio il confessore. Osservo solo che la disinformazione va bene, che si è accettata la delega passiva, che in giro c’è una riluttanza forte a informarsi sui programmi dei partiti e le personalità dei candidati, che “tutto va bene” e chi dissente è guardato con sospetto. Domando: davvero è senza importanza che l’etica pubblica sia sparita dall’orizzonte?».
Secondo lei da quando è accaduto?
«Da Craxi in poi è iniziata una fase involutiva della politica».
Che i cattolici non sono stati in grado di contrastare…
«Esattamente. Da una parte ci si era illusi che occupando ancora il potere con la Dc si poteva salvare qualche cosa. Dall’altra, l’episcopato italiano ha creduto, venuta meno la Dc, di poter gestire direttamente il rapporto tra la Chiesa e la politica. Ma ha demotivato i laici cattolici. Se l’episcopato parla sempre, perché dovrebbero poi intervenire i laici? L’esempio più recente è la Settimana sociale di Reggio Calabria: attenzione al messaggio del Papa e alla relazione del cardinale Bagnasco e silenzio sul lavoro delle commissioni dove parlavano i laici. Qualche difetto c’è».
Senza il cardinale Ruini in questi anni sarebbe stato peggio?
«Da molti anni la Cei gestisce in prima persona il rapporto con la politica. Io credo che, invece, i vescovi dovrebbero intervenire solo in casi eccezionali. La Gaudium et spes sottolinea la responsabilità dei laici. C’è qualcosa che non va nell’applicazione del Concilio».
Cosa bisogna cambiare?
«Bisogna scovare qualche organismo ecclesiale che dia voce ai laici ed esprima l’opinione dei cattolici e non solo dei vescovi. Può essere il Comitato permanente delle Settimane sociali, ma deve essere guidato da un laico e non da un vescovo. Oppure il Forum del progetto culturale, ma vescovi e cardinali devono fare un passo indietro».
Per dire che cosa?
«Per parlare, innanzitutto. Le faccio un esempio: sui 150 anni dell’unità d’Italia non c’è alcun documento su cosa i cattolici si attendono, su cosa vogliono che sia realizzato. Hanno parlato solo vescovi e cardinali. Sulla crisi politica non è stato elaborato nulla e non basta assolutamente per essere contenti mettere in fila le prolusioni del cardinale Bagnasco alle Assemblee e ai Consigli permanenti della Cei. I laici cattolici parlano e scrivono in ordine sparso e non c’è nessuno che si preoccupi di dare loro voce unitaria».
È soltanto questione di forma o anche di contenuto?
«La passione civile latita anche dai pulpiti, dalla catechesi, dalla prassi quotidiana: è paura della politica. Il cattolicesimo italiano sta diventando intimistico e soffre della stessa malattia della società: ciascuno si fa gli affari propri».
E sui “valori non negoziabili”?
«Sull’argomento ho delle riserve. L’esistenza di Dio è un valore non negoziabile. Ma quando si dilata troppo questa categoria si cade in più di un equivoco e si impedisce alla politica di avere cittadinanza. La politica è l’arte della mediazione. Prenda la vita, pacificamente valore non negoziabile. Ma non basta l’affermazione, perché poi si tratta di capire come la si difende in un particolare momento storico, cioè come si negozia sulle scelte. Qui i cattolici possono anche dividersi tra loro, arrivando a scelte politiche diverse, senza che ciò debba creare scandalo».
L’attuale Governo su questo piano secondo lei va promosso?
«Si può dire che ha impedito qualche deriva radicale sulla questione dell’eutanasia. Ma sulle politiche a favore della famiglia il mio giudizio è pesantemente negativo. E poi ci sono problemi come la questione dell’etica privata distinta da quella pubblica, la sindrome da presidenzialismo, la subordinazione dei valori agli interessi, l’uso strumentale, a volte, dell’etica evangelica, l’apparenza a scapito della sostanza».
Molti tendono a dare la colpa a Silvio Berlusconi. Lei che ne pensa?
«Magari fosse così! Auguro a Berlusconi lunga vita da pensionato. Ma non è lui il problema. È la cultura che in questi anni è stata imposta: arrivista, erotizzata, basata sulla visibilità. Piace agli italiani, ma non dovrebbe piacere ai cattolici».
IL DIBATTITO SULLA STAMPA
- La doppia sfida di Franco Garelli in Il Messaggero del 18 ottobre 2011
- Le cinque sfide della rinascita Per il «bene comune» dell’Italia di Marco Garzonio in Corriere della Sera del 18 ottobre 2011
- E il “partito non partito” reclama libertà nei rapporti con i vescovi di Andrea Tornielli in La Stampa del 18 ottobre 2011
- Partito cattolico cercasi di Luca Kocci in il manifesto del 16 ottobre 2011
- Il malessere del cristianesimo di Filippo Gentiloni in il manifesto del 16 ottobre 2011
- I cattolici, una risorsa per un’Italia più giusta Il Pd sappia ascoltare di Luigi Bobba in l’Unità del 15 ottobre 2011
- Come rifondare la politica dopo la Seconda Repubblica di Natale Forlani in Corriere della Sera del 15 ottobre 2011
- Gli intellettuali e la fede: non tutto può risolversi nel sociale di Paolo Conti in Corriere della Sera del 15 ottobre 2011
- Moderati o riformisti le due vie per domani di Luca Diotallevi in Corriere della Sera del 15 ottobre 2011
- Giovagnoli: dopo la Dc c’è un grande vuoto da colmare di Roberto Zuccolini in Corriere della Sera del 15 ottobre 2011
- Todi e i rischi di una Cosa bianca di Aldo Maria Valli in Europa del 15 ottobre 2011
- Todi, la carovana cattolica di Marco Politi in il Fatto Quotidiano del 15 ottobre 2011
- L’unità culturale dei cattolici non produrrà una «nuova DC» di Roberto Monteforte in l’Unità del 14 ottobre 2011
- Verso Todi con troppe ansie di Angelo Bertani in Europa del 14 ottobre 2011
- “Politici come francescani” a Todi l’offensiva dei cattolici punta tutto sui nuovi moderati di Goffredo De Marchis in la Repubblica del 13 ottobre 2011
- Il vero ruolo dei cattolici nel processo unitario di Dino Messina in Corriere della Sera del 11 ottobre 2011
- Un forum più che un partito di Mimmo Lucà in Europa del 11 ottobre 2011
- Il Pd tra vescovi e parrocchie di Marco Politi in il Fatto Quotidiano del 11 ottobre 2011
- «Politici, nuova generazione cattolica» di Gian Guido Vecchi in Corriere della Sera del 10 ottobre 2011
- Il Papa rilancia l’impegno dei cattolici: «In politica senza interessi di parte» di Roberto Monteforte in l’Unità del 10 ottobre 2011
- Dove ancora abita la balena bianca di Giovanni Santambrogio in Il Sole 24 Ore del 9 ottobre 2011
- La mappa dei cattolici di Piero Ignazi in Il Sole 24 Ore del 9 ottobre 2011
- Non serve un nuovo partito cattolico Il PD può vincere la sfida di Enzo De Luca in l’Unità del 8 ottobre 2011
- Dieci De Gasperi per l’Italia di Angelo Bertani in Europa del 8 ottobre 2011
- Cattolici in ricerca con la bussola di Vittorio Cristelli in vita trentina del 9 ottobre 2011
XXX Domenica del tempo Ordinario (Anno A)
XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO |
Lectio – Anno A
Prima lettura: Esodo 22,20-26
Così dice il Signore: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani. Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».
|
v Il brano è preso da quello che gli esegeti (in base a Es 24,7) chiamano “Codice dell’Alleanza” (Es 20,22-23,19), inserito fra la teofonia del Sinai, col dono del decalogo (Es 19,1-20,21), e il rito della stipulazione (Es 24). Offre un chiaro esempio di alcuni precetti sociali profondamente motivati dalla opzione fondamentale dell’amore di Dio e del prossimo. Introducono bene al Vangelo.
Per forma e contenuto si possono dividere in due gruppi.
Il primo gruppo (vv. 20-23) si occupa dei comportamenti verso le persone emarginate di allora; il forestiero, la vedova e l’orfano, un trinomio spesso ricorrente nei profeti. La forma è apodittica: esprime un comando, accompagnato da una motivazione.
Prima proibisce le molestie e le oppressioni verso il forestiero (gher), cioè colui che ha lasciato il proprio ambiente di origine, per motivi economici o politici o di altro genere, e si è inserito nel popolo di Israele. Di solito era persona povera e indifesa, facilmente vittima di soprusi e sfruttamenti.
Motivo della proibizione: anche Israele è stato forestiero in Egitto. Un modo concreto di dire: ama il tuo prossimo come te stesso! A monte c’è pure il motivo teologico, che domanda ancora più amore. A Israele, infatti, Dio dice anche: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lv 25,23). Col cristianesimo questo motivo diventa universale e perenne. I discepoli di Gesù sono «nel mondo» ma non «del mondo» e impegnati a redimerlo (cf. Gv 17,11-19). Per san Paolo «la nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20) e «finché abitiamo nel corpo siamo in esilio»: qui e là occorre essere graditi a Dio (cf. 2Cor 5,6-9; e pure 1Pt 2,11; Eb 13,14). La lettera A Diogneto infine delinea mirabilmente i cristiani nel contempo cittadini e stranieri e benefattori del mondo.
Il brano liturgico proibisce poi i maltrattamenti alla vedova e all’orfano, le persone prive di sostegno per la morte del marito e del padre, quindi esposte a tanti abusi e sopraffazioni. Il motivo qui è subito teologico: Dio stesso si farà loro vindice e punirà i trasgressori con la pena del contrappasso; le loro mogli diventeranno vedove e i loro figli orfani.
Il secondo gruppo (vv. 24-26) ha due precetti su cose necessarie al prossimo indigente. La forma è casuistica: pone un caso e detta la norma, aggiungendo però anche qui delle motivazioni.
Il primo caso riguarda il prestito di denaro e proibisce l’usura, in modo assoluto, verso il povero. Il Deuteronomio riserva questa norma verso ogni fratello israelita e consente di riscuotere interessi dallo straniero (cf. Dt 23,20-21). In pratica i comportamenti devono essere stati piuttosto vari. Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso parla di depositi in banca e di interessi (cf. Mt 25,27 e Lc 19,23). Le norme bibliche comunque sono sempre a tutela dei poveri e deboli e opposte ai profittatori.
Il secondo caso riguarda il pegno preso a garanzia della restituzione di un prestito. Se si tratta del mantello, al tramonto bisogna renderlo al proprietario, perché gli serve anche da coperta. Il motivo è altamente umanitario: il pegno non deve mai compromettere la vita o la salute del debitore. Per questo il Deuteronomio vieta assolutamente di prendere la macina, che serve a fare il pane (Dt 24,6), e stabilisce che non si entri in casa a prendersi il pegno, ma si aspetti che il proprietario lo porti fuori. Al motivo umanitario il Codice dell’alleanza aggiunge ancora quello teologico di Dio che ascolta il lamento dell’oppresso, perché è misericordioso, come ha già fatto con Israele in Egitto.
Da notare come questa legislazione ancora primitiva è assai rispettosa nei dettagli pratici e molto ricca nelle motivazioni umane e teologiche.
Seconda lettura: 1 Tessalonicesi 1,5-10
Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia. Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acàia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne. Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.
|
v A causa della persecuzione, Paolo era dovuto fuggire da Tessalonica, poche settimane dopo la fondazione di quella chiesa, ed era rimasto in ansia per i riflessi negativi che il fatto poteva avere. Ma Timoteo, inviato a supplirlo (1Tess 3,2,6), gli ha portato ottime notizie. Allora scrive questa lettera, che storicamente è il primo documento del Nuovo Testamento. La liturgia ne propone l’esordio, del quale riporta i passaggi finali, dopo solo un cenno di quelli iniziali, sul soggiorno dell’apostolo fra i Tessalonicesi, tutto proteso al bene (v. 5).
Esprime una serie di complimenti ai destinatari, perché nella vita pratica si sono fatti imitatori dell’apostolo e di Cristo, anche nella tribolazione (v. 6), perché sono diventati modelli a tutti i credenti della Grecia, nella quale contribuiscono con la testimonianza alla diffusione della parola del Signore (vv. 7-8), e perché la loro conversione dagli idoli morti al Dio vivente li ha posti nell’attesa fattiva del Cristo risorto, che libera il mondo dall’ira divina (vv. 9-10). Nei versetti sulla conversione, gli esegeti vedono un sunto della catechesi orale di Paolo: lo suggerisce la successione di frasi brevi e simmetriche che riecheggiano la sua predicazione ai pagani, in particolare quella agli Ateniesi di poco anteriore alla lettera (cf At 17,22-31).
Presa in tutto il suo contesto, anche questa seconda lettura ha legami col tema dell’amore di Dio e del prossimo ispiratore di tutti i comportamenti pratici, che è proprio delle altre due. Perché Paolo scrive i suoi pensieri in ginocchio, per così dire, dato che li esprime nel ringraziamento a Dio e li attinge dalla preghiera continua per i Tessalonicesi, come dice all’inizio dell’esordio (1Tess 1,2-5). E si compiace per la loro fede impegnata, per la carità operosa e per la speranza perseverante nel Signore Gesù Cristo. Colloca quindi se stesso e i suoi cristiani in rapporto profondo con la fonte delle loro esperienze e comportamenti. Inoltre pensiero dominante è il ricordo della conversione (vv. 9-10), che ha implicato una opzione fondamentale, in risposta all’iniziativa di Dio che li ha eletti (v. 4): essa che va continuamente rinnovata e coltivata nella preghiera. Richiamato questo, a Paolo non è necessario impartire tanti precetti.
Vangelo: Matteo 22,34-40
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
|
Il vangelo in immagini:
Esegesi
Siamo alla quarta delle cinque controversie affrontate da Gesù a Gerusalemme prima della passione, riferite dai Sinottici. Sommi sacerdoti, sadducei, farisei ed erodiani, ormai determinati a ucciderlo, si alternano nel contestargli le prese di posizione e gli insegnamenti. In questo episodio, Matteo abbrevia il corrispondente testo di Marco, dove la controversia si conclude con un complimento reciproco tra Gesù e un dottore della legge, che sembra staccarsi dal coro degli avversari.
«Qual è il grande comandamento della legge?»
L’interlocutore si riferisce al libro della legge o Torâh, contenuta nel Pentateuco e sancita con l’Alleanza tra Dio e Israele, domanda quale sia l’impegno basilare di tale Alleanza, dal quale deriva ogni altro. La stipulazione di essa infatti, con opportuni adattamenti, ricalcava lo schema dei patti di vassallaggio tra i popoli dell’area mesopotamica e hittita. Prima avevano un prologo, con la presentazione dei contraenti e dei rapporti già intervenuti fra loro. Poi invitavano all’adesione reciproca totale e perenne che in termini attuali possiamo dire anche una opzione fondamentale: questo è il comandamento «grande» al quale derivano tutti gli altri. Esso è molto chiaro in Dt 6,4-5 nella preghiera «Ascolta, Israele», tuttora recitata quotidianamente, da dove è presa la risposta di Gesù, ed è racco-mandato particolarmente nelle omelie dei capitoli di Dt 5-11.
I patti di vassallaggio elencavano poi le clausole particolari derivate. Quindi era previsto il rito sacro per la stipulazione dell’Alleanza. Infine erano enumerate le maledizioni o penalità per le infrazioni e le benedizioni o vantaggi della fedeltà reciproca.
In questa prospettiva, il dottore della legge non ha proposto a Gesù una sottigliezza rabbinica, ma lo ha sfidato sull’impianto fondamentale della sua fede. Ed ha avuto una risposta adeguata, con l’aggiunta anzi che il secondo comandamento, dell’amore al prossimo, è «simile» al primo, del quale è come l’altra faccia: insieme costituiscono la opzione
fondamentale della fede biblica. Per questo Gesù può dire che da ambedue dipendono tutte le sacre scritture, legge e profeti.
Con questa impostazione diventa chiaro pure per noi che i comandamenti dell’amore non sono propriamente comandati (che amore sarebbe?), ma conseguenti all’impegno dell’alleanza con Dio, nella fede.
Similmente gli altri comandamenti, sviluppati sulla base di essi, non sono soltanto legge naturale resa positiva con la promulgazione del decalogo, ma impegni presi tuttora in una adesione a Dio nella fede e nell’amore.
Una eloquente conferma, per contrasto in negativo, viene da certi comportamenti oggi diffusi: dove sono carenti le opzioni fondamentali di amore a Dio e al prossimo, sono trascurati e calpestati anche tutti fili altri valori morali.
Meditazione
La prima lettura presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torâh (il codice dell’alleanza); nel vangelo Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torâh, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi, come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18; Mt 22,39). La Torâh, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è vangelo.
Le leggi e i precetti presenti nell’Antico Testamento, spesso ignorati o conosciuti male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come «perenne» è il valore dell’Antico Testamento per i cristiani: Dei Verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero «al tramonto del sole» il mantello preso in pegno è motivata con una affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?» (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo mette dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui.
La legge che proibisce di opprimere l’immigrato e di sfruttarlo è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: «perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subite dai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese.
La pagina evangelica pone in stretto rapporto la Scrittura e l’amore. La Scrittura che chiede di amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi si compie nell’amore fattivo e concreto: la prassi dell’amore è compimento della Scrittura, è esegesi esistenziale. Si narra che abba Serapione, incontrato un giorno un povero intirizzito dal freddo, si sia denudato per coprirlo con il proprio abito e che, incontrato un uomo che veniva condotto in prigione per debiti, abbia venduto il suo vangelo per pagare il suo debito e sottrarlo alla prigione. Tornato nella sua cella nudo e senza vangelo, a chi gli chiese: «Dov’è il tuo vangelo?», rispose: «Ho venduto colui che mi diceva: “Vendi quello che possiedi o dallo ai poveri”». Il comando diviene grazia, la pagina diviene vita, lo sta-scritto diviene relazione umana.
Il comando di amare il prossimo come se stessi significa anche che, amando il prossimo, io amo veramente me stesso. L’amore per l’altro concreto, con un nome, un volto, un corpo, una storia, mi converte alla realtà e mi conduce a uscire da me, a essere veramente me stesso proprio nell’uscire da me per incontrare l’altro. La nostra verità è personale e relazionale.
Amore degli altri e amore di sé sono spesso contrapporti come ciò che è virtuoso a ciò che è peccaminoso. In realtà, amare gli altri come se stessi implica la capacità di sviluppare e nutrire un sano amore di sé. «Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente» (Erich Fromm). Vi è il rischio di un altruismo nevrotico che porta a voler amare gli altri disprezzando se stessi e ritenendo indegno del cristiano l’amore di sé: ma agli occhi di Dio anch’io sono «un altro», sono un essere umano amato personalmente da Dio, e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama.
La somiglianza (Mt 22,39) dei comandi di amare Dio e di amare il prossimo è anche la somiglianza dell’amore per Dio e per il prossimo. Noi abbiamo un solo modo di amare. E l’amore del prossimo è criterio di autentificazione del nostro amore di Dio: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Preghiere e racconti
Il cantus firmus
Ogni grande amore comporta il rischio di farci perdere di vista quella che amerei definire la polifonia della vita. Mi spiego. Dio e la sua eternità vogliono essere amati da noi pienamente. Ma quest’amore non deve ne nuocere a un amore terreno ne indebolirlo; deve essere in qualche modo il cantus fìrmus attorno al quale cantano le altre voci della vita. L’amore terreno è uno di quei temi in contrappunto che, pur avendo la loro piena indipendenza, si ricollegano comunque al cantus fìrmus. Là dove il cantus fìrmus è chiaro e distinto, il contrappunto può esprimersi con la maggior potenza possibile. I due sono inseparabili e tuttavia distinti, per usare il linguaggio del concilio di Calcedonia, come la natura umana e la natura divina del Cristo. La polifonia musicale è così vicina a noi e così importante per noi forse proprio per il fatto di essere l’immagine musicale di questo dato cristologico, e quindi anche della nostra vita cristiana?
(D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere)
Chi non ha l’amore
Chi non ha l’amore guarda gli alberi
e non vede mai bruciare le loro foglie.
Non vede l’uccello, non vede l’ape
né il giorno che ritorna dalle Cicladi.
Chi non ha l’amore non sente gli alberi
la musica dei muschi sui loro tronchi.
L’autunno si fa uggioso, gli uomini
Dicono – È finita la bella stagione! –
Essi non sanno – mai sapranno –
che basta un uccello a farci svernare.
L’ape, l’uccello, gli alberi, l’azzurro…
Chi non ha l’amore non ne è cosi certo!
(Ch. le Quintrec)
Aprire il cuore all’amore di Dio
E così, più impari ad amare Dio, più impari a conoscere e a voler bene a te stesso. La conoscenza e l’amore di noi stessi sono frutti della conoscenza che abbiamo di Dio e dell’amore che nutriamo per lui. Ora puoi comprendere meglio il significato del grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,37-38). Se apriremo totalmente il cuore all’amore di Dio, avremo per noi stessi un amore che ci darà la forza di amare il prossimo con tutto il cuore. E nel segreto del nostro cuore che impareremo a conoscere la presenza nascosta di Dio; e con questa conoscenza spirituale potremo vivere una vita d’amore. Ma tutto questo esige disciplina. La vita spirituale richiede una disciplina del cuore. La disciplina è il distintivo del discepolo di Gesù. Il che però non mira a crearti difficoltà, ma a mettere a tua disposizione uno spazio interiore dove Dio possa toccarti con un amore che ti trasforma completamente.
(Cf. H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 2008).
A causa dell’amore per lui, dimostreremo amore per gli altri
Cerchiamo, vi prego, di amare Cristo. Egli da te non desidera nient’altro se non che tu lo ami con tutto il cuore e compia i suoi comandamenti. Chi lo ama come si deve, evidentemente si sforza anche di adempiere i suoi comandamenti. Quando infatti si comporta con sincerità nei confronti del prossimo, cerca di fare di tutto per attirare a sé l’amato. Anche noi, dunque, se amiamo con sincerità il Signore, possiamo adempiere i suoi comandamenti e non far nulla di ciò che può irritare l’amato.
Questo è il regno dei cieli, questo il godimento dei beni, questo ottiene i mille beni: l’amare sinceramente e nel modo dovuto. Lo ameremo sinceramente se, a causa dell’amore per lui, dimostreremo grande amore per gli altri, servi al pari di noi. Sta scritto: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i profeti» (Mt 22,40), cioè dall’amare il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come e stesso (cfr. Mc 12,30-31). Questo è il culmine di tutte le virtù, questo è il fondamento. All’amore verso Dio si aggiunge anche l’amore verso il prossimo. Colui che ama Dio, infatti, non deve disprezzare suo fratello, e non deve stimare il denaro più di un membro del suo corpo, e deve mostrare una grande benevolenza nei suoi confronti, ricordando ciò che Cristo ha detto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). E considerando che il Signore dell’universo ritiene come reso a se stesso il servizio prestato a un compagno, farà tutto con grande sollecitudine e nell’elemosina mostrerà una grande generosità; non rifiuterà la miseria apparente del povero, ma guarderà alla grandezza di Colui che ha promesso di accogliere come compiuta per sé stesso qualunque cosa operata a favore di un povero. Non tralasciamo, dunque, il profitto delle nostre anime, la medicina delle nostre ferite. E questo, infatti, è questo che ci offre una medicina tanto efficace da far scomparire le ferite delle nostre anime in modo da non lasciare nessuna traccia, nessuna cicatrice, cosa che non è possibile per le ferite del corpo.
(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla Genesi, om. 55,3, PG 54,482-483).
L’amore incomincia in casa propria
«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre”. La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri».
(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).
Amare l’altro con umiltà, discrezione e rispetto
«La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. “Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. “Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui».
(Thomas Merton, un monaco trappista).
Voglio Te solo, Signore
Ti ho cercato, o Signore della vita,
e tu mi hai fatto il dono di trovarti:
te io voglio amare, mio Dio.
Perde la vita, chi non ama te:
chi non vive per Te, Signore,
è niente e vive per il nulla.
Accresci in me, ti prego,
il desiderio di conoscerti
e di amarti, Dio mio:
dammi, Signore, ciò che ti domando;
anche se tu mi dessi il mondo intero,
ma non mi donassi te stesso,
non saprei cosa farmene, Signore.
Dammi te stesso, Dio mio!
Ecco, ti amo, Signore:
aiutami ad amarti di più.
(Sant’Anselmo di Aosta)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5, 42 pp.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
I cinquantanni del Concilio Vaticano II
La controversia sull’interpretazione del Concilio Vaticano II e sui cambiamenti nel magistero della Chiesa ha registrato in queste settimane nuovi sviluppi, anche ad alto livello.
Il primo è il “Preambolo dottrinale” che la congregazione per la dottrina della fede ha consegnato lo scorso 14 settembre ai lefebvriani della scismatica Fraternità Sacerdotale San Pio X, come base per una rappacificazione.
Il testo del “Preambolo” è segreto. Ma è stato descritto così nel comunicato ufficiale che ha accompagnato la sua consegna:
“Tale Preambolo enuncia alcuni principi dottrinali e criteri di interpretazione della dottrina cattolica, necessari per garantire la fedeltà al magistero della Chiesa e il ‘sentire cum Ecclesia’, lasciando nel medesimo tempo alla legittima discussione lo studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e del magistero successivo”.
*
Un secondo sviluppo è l’intervento del cardinale Georges Cottier (nella foto) nella discussione in corso da alcuni mesi su www.chiesa e su “Settimo cielo”.
Cottier, 89 anni, svizzero, appartenente all’ordine dei domenicani, è teologo emerito della casa pontificia. Ha pubblicato il suo intervento sull’ultimo numero della rivista internazionale “30 Giorni”.
In esso, egli replica alla tesi sostenuta in www.chiesa dallo storico Enrico Morini, secondo cui con il Concilio Vaticano II la Chiesa ha voluto riallacciarsi alla tradizione del primo millennio.
Il cardinale Cottier mette in guardia dal pensare che il secondo millennio sia stato per la Chiesa un periodo di decadenza e di allontanamento dal Vangelo.
Nello stesso tempo, però, riconosce che il Vaticano II ha fatto bene a ridare forza alla visione di Chiesa che fu particolarmente viva nel primo millennio: non come soggetto a sé stante, ma come riflesso della luce di Cristo. E tratteggia le conseguenze concrete che derivano da tale corretta visione.
Il testo del cardinale Cottier è riprodotto integralmente in questa pagina, più sotto.
*
Un terzo sviluppo della discussione riguarda una tesi del Vaticano II particolarmente contestata dai tradizionalisti: quella della libertà religiosa.
In effetti, c’è un’indubbia rottura tra le affermazioni in proposito del Vaticano II e le precedenti condanne del liberalismo fatte dai papi dell’Ottocento.
Ma “dietro quelle condanne c’era in realtà uno specifico liberalismo, quello statalista continentale, con le sue pretese di sovranità monista e assoluta che veniva avvertito come limitativo dell’indipendenza necessaria alla missione della Chiesa”.
Mentre invece “la riconciliazione pratica, portata a compimento dal Vaticano II, avviene attraverso il pluralismo di un altro modello liberale, quello anglosassone, che relativizza radicalmente le pretese dello Stato fino a farne non il monopolista del bene comune, ma una limitata realtà di pubblici uffici al servizio della comunità. Allo scontro tra due esclusivismi seguiva l’incontro nel segno del pluralismo”.
Le citazioni ora riportate sono tratte da un saggio che il professor Stefano Ceccanti, docente di diritto pubblico all’Università di Roma “La Sapienza” e senatore del Partito democratico, si appresta a pubblicare sulla rivista “Quaderni Costituzionali”:
> Benedetto XVI a Westminster Hall e al Bundestag: l’elogio del costituzionalismo
Nel saggio, Ceccanti analizza i due importanti discorsi pronunciati da Benedetto XVI lo scorso 22 settembre al Bundestag di Berlino e il 17 settembre del 2010 a Westminster Hall, per mostrare come entrambi i discorsi “sono in stretta continuità con quella riconciliazione operata dal Concilio”.
*
Un quarto sviluppo è l’uscita in Italia di questo libro:
Pietro Cantoni, “Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e l’anticonciliarismo”, Sugarco Edizioni, Milano, 2011.
Il libro passa in rassegna i testi più controversi del Concilio Vaticano II, per mostrare che anche in essi tutto è leggibile e spiegabile alla luce della tradizione e della grande teologia della Chiesa, san Tommaso incluso.
L’autore, il sacerdote Pietro Cantoni – dopo aver passato alcuni anni giovanili in Svizzera nella comunità lefebvriana di Ecône ed esserne uscito – si formò a Roma alla scuola di uno dei maggiori maestri della teologia tomista, monsignor Brunero Gherardini.
Ma proprio contro il suo maestro si appuntano le critiche di questo suo libro. È Gherardini uno degli “anticonciliari” più presi di mira.
In effetti, monsignor Gherardini, nei suoi ultimi volumi, ha avanzato serie riserve sulla fedeltà alla Tradizione di alcune affermazioni del Concilio Vaticano II: nella costituzione dogmatica “Dei Verbum” circa le fonti della fede, nel decreto “Unitatis redintegratio” circa l’ecumenismo, nella dichiarazione “Dignitatis humanae” circa la libertà religiosa.
“La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo della segreteria di Stato vaticana, nel recensire in settembre un suo libro ha riconosciuto all’anziano e autorevole teologo un “sincero attaccamento alla Chiesa”.
Ma questo non impedisce a Gherardini di appuntare le sue critiche graffianti sullo stesso Benedetto XVI, colpevole, a suo dire, di una esaltazione del Concilio che “tarpa le ali dell’analisi critica” e “impedisce di guardare al Vaticano II con occhio più penetrante e meno abbacinato”.
Da due anni Gherardini aspetta invano dal papa ciò che gli ha chiesto in una “supplica” pubblica: sottoporre a riesame i documenti del Concilio e chiarire in forma definitoria e definitiva “se, in che senso e fino a che punto” il Vaticano II fosse o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.
Nel marzo del 2012 ha annunciato l’uscita di un suo nuovo libro sul Concilio Vaticano II, che si prevede ancor più critico dei precedenti.
Quanto al libro di Pietro Cantoni, un suo commento ad opera di Francesco Arzillo è più sotto in questa pagina, dopo l’articolo del cardinale Cottier.
*
Un’altra novità è il premio Acqui Storia che sarà assegnato il prossimo 22 ottobre a Roberto de Mattei per il volume “Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”, edito da Lindau e di cui www.chiesa ha riferito a suo tempo.
Il premio Acqui è uno dei più prestigiosi, nel campo degli studi storici. La giuria che ha deciso di conferirlo a de Mattei è composta da studiosi di vario orientamento, cattolici e non cattolici.
Il loro presidente, però, il professor Guido Pescosolido dell’Università di Roma “La Sapienza”, si è dimesso dalla carica proprio per dissociarsi da questa decisione.
A giudizio del professor Pescosolido, il libro di de Mattei sarebbe viziato da uno spirito militante anticonciliare, incompatibile con i canoni della storiografia scientifica.
A sostegno del professor Pescosolido si è schierata con un comunicato la SISSCO, Società per lo Studio della Storia Contemporanea, presieduta dal professor Agostino Giovagnoli, esponente di spicco della comunità di Sant’Egidio, e con nel direttivo un altro esponente della stessa comunità, il professor Adriano Roccucci.
E sul “Corriere della Sera” il professor Alberto Melloni – coautore di un’altra famosa storia del Vaticano II anch’essa sicuramente “militante” ma su sponda progressista, quella prodotta dalla “scuola di Bologna” di don Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo e tradotta in più lingue – ha addirittura svilanneggiato de Mattei. Pur riconoscendogli di aver arricchito la ricostruzione della storia del Concilio con documenti inediti, ha equiparato il suo libro a “tanto opuscolame anticonciliare” immeritevole di considerazione.
Al confronto, la pacatezza con cui il professor de Mattei ha sopportato simili affronti è stata per tutti una lezione di stile.
*
Infine, sempre nella linea interpretativa di monsignor Gherardini e del professor de Mattei, è uscito il 7 ottobre in Italia un altro libro che individua già nel Concilio Vaticano II i guasti venuti alla luce nel dopoconcilio:
Alessandro Gnocchi, Mario Palmaro, “La Bella addormentata. Perché col Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà”, Vallecchi, Firenze, 2011.
I due autori non sono né storici né teologi, ma sostengono la loro tesi con competenza e con efficacia comunicativa, per una platea di lettori più vasta di quella raggiunta dagli specialisti.
Su sponda opposta rispetto a quella tradizionalista, anche il teologo Carlo Molari ha ampliato l’attenzione alla disputa, in una serie di articoli sulla rivista “La Rocca” della Pro Civitate Christiana di Assisi, nei quali ha ripreso e discusso gli interventi apparsi su www.chiesa e su “Settimo cielo”.
Anche grazie a loro, è quindi prevedibile che la controversia sul Vaticano II si allarghi a un maggior pubblico. Proprio alla vigilia dei cinquant’anni dall’apertura della grande assise, nel 2012.
Per l’occasione, dal 3 al 6 ottobre dell’anno prossimo il Pontificio Comitato di Scienze Storiche ha in cantiere un convegno di studio su come i vescovi che parteciparono al Concilio lo descrissero nel loro diari e archivi personali.
E l’11 ottobre 2012, giorno anniversario dell’apertura del Concilio ma anche ventesimo compleanno del Catechismo della Chiesa cattolica, inizierà uno speciale “anno della fede”, che terminerà il 24 novembre dell’anno successivo, solennità di Cristo Re dell’Universo. Benedetto XVI ne ha dato l’annuncio il 16 ottobre, nell’omelia della messa da lui celebrata nella basilica di San Pietro con migliaia di annunciatori pronti ad operare per la “nuova evangelizzazione”, e l’ha indetto con questo motu proprio:
__________
QUELLA PERCEZIONE DELLA CHIESA COME “LUCE RIFLESSA” CHE UNISCE I PADRI DEL PRIMO MILLENNIO E IL CONCILIO VATICANO II
di Georges Cottier
Nell’ormai prossimo 2012 cadranno i cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. A mezzo secolo di distanza, quello che è stato un avvenimento maggiore della vita della Chiesa continua a suscitare dibattiti – che probabilmente si intensificheranno nei prossimi mesi – su quale sia l’interpretazione più adeguata di quella assemblea conciliare.
Le dispute di carattere ermeneutico, certo importanti, rischiano però di diventare controversie per addetti ai lavori. Mentre può interessare a tutti, soprattutto nel momento presente, riscoprire quale sia stata la sorgente ispiratrice che ha animato il Concilio Vaticano II.
La risposta più comune riconosce che quell’evento era mosso dal desiderio di rinnovare la vita interiore della Chiesa e adattare anche la sua disciplina alle nuove esigenze per riproporre con nuovo vigore la sua missione nel mondo attuale, attenta nella fede ai “segni dei tempi”. Ma per andare più alla radice, occorre cogliere quale era il volto più intimo della Chiesa che il Concilio si proponeva di riconoscere e ripresentare al mondo, nel suo intento di aggiornamento.
Il titolo e le prime righe della costituzione dogmatica conciliare “Lumen gentium”, dedicata alla Chiesa, sono in questo senso illuminanti nella loro chiarezza e semplicità: “Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che risplende sul volto della Chiesa”. Nell’incipit del suo documento più importante, l’ultimo Concilio riconosce che il punto sorgivo della Chiesa non è la Chiesa stessa, ma la presenza viva di Cristo che edifica personalmente la Chiesa. La luce che è Cristo si riflette come in uno specchio nella Chiesa.
La coscienza di questo dato elementare (la Chiesa è il riflesso nel mondo della presenza e dell’agire di Cristo) illumina tutto ciò che l’ultimo Concilio ha detto sulla Chiesa. Il teologo belga Gérard Philips, che della costituzione “Lumen gentium” fu il principale redattore, mise in evidenza proprio questo dato all’inizio del suo monumentale commento al testo conciliare.
Secondo lui, “la costituzione sulla Chiesa adotta sin dall’inizio la prospettiva cristocentrica, prospettiva che si affermerà istantaneamente nel corso di tutta l’esposizione. La Chiesa ne è profondamente convinta: la luce delle genti si irradia non da essa, ma dal suo divino Fondatore: pure, la Chiesa sa bene che, riflettendosi sul suo volto, questo irradiamento raggiunge l’umanità intera”. Una prospettiva di sguardo ripresa fin nelle ultime righe dello stesso commento, nelle quali Philips ripeteva che “non sta a noi profetare sul futuro della Chiesa, sui suoi insuccessi e sviluppi. Il futuro di questa Chiesa, di cui Dio ha voluto fare il riflesso di Cristo, Luce dei Popoli, sta nelle Sue mani”.
La percezione della Chiesa come riflesso della luce di Cristo accomuna il Concilio Vaticano II ai Padri della Chiesa, che fin dai primi secoli ricorrevano all’immagine del “mysterium lunae”, il mistero della luna, per suggerire quale fosse la natura della Chiesa e l’agire che le conviene. Come la luna, “la Chiesa splende non di luce propria, ma di quella di Cristo” (“fulget Ecclesia non suo sed Christi lumine”), dice sant’Ambrogio. Mentre per Cirillo d’Alessandria “la Chiesa è circonfusa dalla luce divina di Cristo, che è l’unica luce nel regno delle anime. C’è dunque una sola luce: in quest’unica luce splende tuttavia anche la Chiesa, che non è però Cristo stesso”.
In questo senso, merita attenzione la valutazione offerta di recente dallo storico Enrico Morini in un intervento ospitato sul sito www.chiesa.espressonline.it curato da Sandro Magister.
Secondo Morini – che è professore di storia del cristianesimo e delle Chiese presso l’Università di Bologna – il Concilio Vaticano II si è posto “nella prospettiva della più assoluta continuità con la tradizione del primo millennio, secondo una periodizzazione non puramente matematica ma essenziale, essendo il primo millennio di storia della Chiesa quello della Chiesa dei sette Concili, ancora indivisa […]. Promuovendo il rinnovamento della Chiesa il Concilio non ha inteso introdurre qualcosa di nuovo – come rispettivamente desiderano e temono progressisti e conservatori – ma ritornare a ciò che si era perduto”.
L’osservazione può creare equivoci, se viene confusa con il mito storiografico che vede la vicenda storica della Chiesa come una progressiva decadenza e un allontanamento crescente da Cristo e dal Vangelo. Né si possono accreditare contrapposizioni artificiose per le quali lo sviluppo dogmatico del secondo millennio non sarebbe conforme alla Tradizione condivisa durante il primo millennio dalla Chiesa indivisa. Come ha evidenziato il cardinale Charles Journet, rifacendosi anche al beato John Henry Newman e al suo saggio sullo sviluppo del dogma, il “depositum” che abbiamo ricevuto non è un deposito morto, ma un deposito vivente. E tutto ciò che è vivente si mantiene in vita sviluppandosi.
Allo stesso tempo, va colta come un dato oggettivo la corrispondenza tra la percezione della Chiesa espressa nella “Lumen gentium” e quella già condivisa nei primi secoli del cristianesimo. La Chiesa non viene cioè presupposta come un soggetto a sé stante, prestabilito. La Chiesa rimane al dato che la sua presenza nel mondo fiorisce e permane come riconoscimento della presenza e dell’azione di Cristo.
A volte, anche nella nostra più recente attualità ecclesiale, questa percezione del punto sorgivo della Chiesa sembra per molti cristiani offuscarsi, e sembra avvenire una sorta di rovesciamento: da riflesso della presenza di Cristo (che con il dono del Suo Spirito edifica la Chiesa) si passa a percepire la Chiesa come una realtà materialmente e idealmente impegnata ad attestare e realizzare da sé la propria presenza nella storia.
Da questo secondo modello di percezione della natura della Chiesa, che non è conforme alla fede, discendono conseguenze concrete.
Se, come si deve, la Chiesa si percepisce nel mondo come riflesso della presenza di Cristo, l’annuncio del Vangelo non può che avvenire nel dialogo e nella libertà, rinunciando a ogni mezzo di coercizione sia materiale che spirituale. È la strada indicata da Paolo VI nella sua prima enciclica “Ecclesiam suam”, pubblicata nel 1964, che esprime perfettamente lo sguardo sulla Chiesa proprio del Concilio.
Anche lo sguardo che il Concilio ha rivolto sulle divisioni tra i cristiani e poi sui credenti delle altre religioni, rifletteva la stessa percezione della Chiesa. Così anche la richiesta di perdono per le colpe dei cristiani, che ha stupito e fatto discutere in seno al corpo ecclesiale quando fu presentata da Giovanni Paolo II, è perfettamente consonante con la coscienza di Chiesa fin qui descritta. La Chiesa chiede perdono non per seguire logiche di onorabilità mondana, ma perché riconosce che i peccati dei suoi figli offuscano la luce di Cristo che essa è chiamata a lasciar riflettere sul suo volto. Tutti i suoi figli sono peccatori chiamati per l’azione della grazia alla santità. Una santificazione che è sempre dono della misericordia di Dio, il quale desidera che nessun peccatore – per quanto orribile sia il suo peccato – venga ghermito dal maligno nella via della perdizione. Così si comprende la formula del cardinal Journet: la Chiesa è senza peccato, ma non senza peccatori.
Il riferimento alla vera natura della Chiesa come riflesso della luce di Cristo ha anche immediate implicazioni pastorali. Purtroppo, nell’attuale contesto, si registra la tendenza di vescovi a esercitare il proprio magistero attraverso pronunciamenti per via mediatica, in cui spesso si forniscono prescrizioni, istruzioni e indicazioni su cosa devono o non devono fare i cristiani. Come se la presenza dei cristiani nel mondo fosse il prodotto di strategie e prescrizioni e non sorgesse dalla fede, cioè dal riconoscimento della presenza di Cristo e del suo messaggio.
Forse, nel mondo attuale, sarebbe più semplice e confortante per tutti poter ascoltare pastori che parlano a tutti senza dare per presupposta la fede. Come ha riconosciuto Benedetto XVI durante la sua omelia a Lisbona il 12 maggio 2010: “Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, e ciò, purtroppo, è sempre meno realista”.
__________
UN BUON LIBRO E DUE CATECHISMI DA CONFRONTARE
di Francesco Arzillo
L’uscita del libro di Pietro Cantoni “Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e l’anticonciliarismo” è un evento che merita di essere segnalato con favore. Si tratta, infatti, di un esempio di rigoroso esercizio di un’ermeneutica continuistica: ottima medicina per la malattia rappresentata dalla polarizzazione in atto nell’opinione pubblica ecclesiale, quale risulta soprattutto dai dibattiti mediatici alimentati da minoranze “impegnate” ma assai poco presenti nella vita dei cattolici parrocchiali medi, ossia della larga maggioranza dei fedeli.
Il lettore non teologo viene guidato da Cantoni nella lettura di alcuni dei più celebri tra i passi controversi dei testi del Concilio, per scoprire infine che in essi non vi è nulla che non sia leggibile e spiegabile alla luce della Tradizione e della grande teologia della Chiesa, san Tommaso incluso.
Dispiace rilevare che questo atteggiamento possa essere interpretato – da alcuni – come una sorta di aprioristica difesa del Vaticano II, la quale pregiudicherebbe il giusto impegno contro le esasperazioni e i guasti di una parte della teologia e delle prassi postconciliari.
Ma poi, come potrebbe un cattolico non difendere un Concilio ecumenico? Su quale fonte teologica o magisteriale potrebbe appoggiarsi un simile atteggiamento? Potrebbe un cattolico selezionare gli insegnamenti dei pastori scegliendo fior da fiore in ragione della propria sensibilità e delle proprie tendenze culturali o religiose?
La grande portata del Concilio Vaticano II attende ancora di essere esplorata a fondo nella sua ricchezza pluriforme, che pone certo dei problemi interpretativi, ma suscita anche speranze e stimoli verso una sempre migliore comprensione del mistero della fede cristiana.
Ma qual è il ruolo del semplice fedele in tutto questo? Certamente non si può pretendere che egli si iscriva a uno dei partiti teologico-liturgico-ecclesiali presenti sulla piazza, condividendone le idiosincrasie e i presupposti spesso unilaterali e aprioristici.
Né si può ragionevolmente auspicare che il semplice fedele sia condotto, ad esempio, a sottostimare la Messa di Paolo VI rispetto alla Messa di san Pio V o viceversa; o a sottostimare santa Edith Stein rispetto a santa Teresa d’Avila o viceversa. Ciò significherebbe privare la Chiesa della dimensione distesa nei secoli della cattolicità e assecondare la concezione cripto-apocalittica della “rottura” che si sarebbe verificata nell’età moderna (quali che siano la datazione e la lettura, positiva o negativa, che si vogliano dare di tale rottura).
Soprattutto il mondo tradizionalista pare non rendersi conto del fatto che l’adesione – anche se nella forma del contrasto – alla concezione della modernità come rottura rappresenta una evidente forma di subordinazione ideologica all’avversario, del quale si finisce con l’accettare il presupposto di partenza.
Viene voglia di suggerire, in proposito, un esercizio anche più semplice di quello riservato ai teologi. Suggeriamo di leggere, ad esempio, almeno qualche parte del Catechismo di san Pio X in parallelo con il “Compendio” di Benedetto XVI.
Una simile lettura porta a scoperte entusiasmanti. Fa veder bene non solo come tra i due catechismi non c’è contraddizione alcuna, ma come i rispettivi dati si illuminino a vicenda in un arricchimento circolare ma non autoreferenziale, perché orientato al referente ultimo, che è il Mistero Santo nella sua oggettiva e trascendente realtà.
Questo non significa, ovviamente, non vedere i problemi – anche gravi – del tempo presente, tra i quali anche il problema delle carenze epistemologiche e contenutistiche delle teologie più diffuse (argomento, questo, che sarà oggetto di un’approfondita indagine in un libro del filosofo don Antonio Livi, di prossima pubblicazione).
Significa però vedere tali problemi nella giusta luce, ossia, in ultima analisi, vederli nello Spirito che anima la Chiesa madre e maestra e che non ha smesso di sostenerla anche nell’epoca contemporanea: lo Spirito di Gesù Cristo, il quale è con noi “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).
__________
La rivista che ha pubblicato l’intervento del cardinale Cottier:
__________
Un commento di Brunero Gherardini alle critiche di Pietro Cantoni:
> Risposta a don Cantoni: fra teologia e amarezza
__________
Un’intervista a Gnocchi e Palmaro sul loro nuovo libro:
> Concilio Vaticano II: il mito di un “superdogma” da cui uscire
__________
Il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 che ha acceso la discussione sull’ermeneutica del Concilio: