Dire Dio. Dal rifiuto all’invocazione

 

TRENTI Zelindo, Dire Dio. Dal rifiuto all’invocazione, Roma, Armando, 2011

 

“Dire Dio”, oggi, riguarda fortemente il credente, sia quello dotto e specializzato, sia quello di ordinaria cultura, ma desideroso di rendersi ragione di ciò che afferma con la sua fede.

Come il credente “colto” può dire Dio nel mondo culturale contemporaneo?

E’ una domanda che impegna l’autore da tanti anni, nelle sue ricerche, nel suo magistero come docente di Pedagogia Religiosa presso la Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Salesiana di Roma, nelle sue pubblicazioni.

Il saggio, estremamente rigoroso, è condotto a partire da sollecitazioni di alcuni autori contemporanei particolarmente significativi. Costituisce un percorso carico di suggestioni per tutti i credenti, portando a scoprire, in alcuni filoni di pensiero, tracce e inviti ad un discorso, ad un linguaggio, a categorie espressive che consentano di “dire Dio”.

Non vuole tanto essere, secondo lo stile di Trenti, un discorso unilateralmente conclusivo, quanto piuttosto il suggerimento di una pluralità di linee di ricerca lungo le quali poter percorrere un cammino personale ma garantito dall’autorevolezza di pensatori che hanno inciso a fondo sulla filosofia contemporanea.

La provocazione al credente può venire da svariate affermazioni. Può essere quella più immediata e scontata  del non credente che afferma: “Crediamo nella constatazione dei fenomeni naturali stabiliti dalla scienza, in quel che è verificato da studi storici e sociali, nell’opportunità di alcuni valori naturali ecc” (Savater 2007), o quella più sottile di Cavalcanti che “passò la vita a cercar se trovar si potesse che Dio non fusse” e che, in questo modo puntualizza la sfida dell’uomo di sempre contro una presenza sentita come soffocante rispetto all’aspirazione ad essere “assolutamente” se stesso, sciolto da qualsiasi legame. Aspirazione ripresa da Sartre: “l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che nulla può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio”.

Oltre che affermazione di merito, quella di Sartre è anche affermazione di metodo. Dio è fuori tema! Il tema è l’uomo!

 

Trenti, a questo punto, fa proprio l’interrogativo di Pascal: “Se l’uomo è fatto per Dio, perché così contrario a Dio; e se non è fatto per Dio, perché così infelice senza Dio?” (Pascal, 367).

 

La domanda su Dio attiene alla dimensione esistenziale, non è una curiosità intellettuale o, meno ancora, argomento di conversazione salottiera o da talk show televisivo.

L’intento dell’autore non è né polemico né apologetico. Gli interessa esplorare il pensiero contemporaneo, perché esso costituisce l’ambito del nostro pensare, del nostro parlare, del nostro comunicare.

 

Il punto di partenza del saggio può essere considerato: il credente di fronte al mistero.

Una prima presa di distanza: il mistero non viene rifiutato nell’illuministica prospettiva di essere identificato con la tenebra che verrà dissipata dalla luce progressivamente penetrante della ragione.

Al contrario, il mistero, proprio perché non è commisurato all’uomo, costituisce una provocazione esistenziale per lui.

La filosofia, dal canto suo, con esiti diversi, continua a tematizzare Dio. Il credente tenacemente ne riafferma la presenza nella sua vita. Sono dati di fatto.

Il credente sente che non basta il percorso storico di un umanesimo radicale, ma non basta neppure una via esclusivamente razionale per radicare la fede.

Il pensiero contemporaneo sembra privilegiare altre vie, che l’autore propone di esplorare.

Il primo approccio è col pensiero di Heidegger. L’analisi del suo pensiero viene condotta su un’opera della maturità dell’autore: i due volumi su Nietzsche.

Nietzsche ha affermato: “Dio è morto”; Heidegger afferma perentoriamente che ciò è dovuto al fatto che la cultura occidentale ha perso il contatto col suo fondamento, l’essere.

La metafisica ha spostato la sua ricerca sull’ente che è diventato il suo interrogativo conduttore (Leitfrage) e ha omesso l’interrogativo di fondo (Grundfrage).

Da questa asserzione fondamentale, si deduce, secondo Trenti, che la cultura occidentale ha smarrito la traccia di Dio.

Approfondendo questa nuova prospettiva, l’analisi portata sugli enti scopre in essi la traccia dell’essere, i segni della sua presenza. Una presenza che non ha altra via per manifestarsi che l’ente. Addirittura, l’essere, mentre ne promuove la manifestazione, si sottrae e si rende inafferrabile.

Il pensiero di Heidegger intende restituire alla realtà fondante, l’essere, la piena iniziativa; ne fa il riferimento ultimo e definitivo, che fonda l’esistenza dell’uomo, al quale è affidato il compito di interpretare e rivelare l’essere stesso.

L’essere, fondante e nascosto, è alla base. In questa realtà reale e nascondentesi va collocata la ricerca sulla condizione di mistero che avvolge l’uomo e sul significato esistenziale che ha per lui.

 

L’essere non è il risultato del pensiero dell’uomo. Ma l’uomo è prodotto dell’essere e, attraverso il linguaggio, è in grado di stabilire una relazione con l’essere.

L’essere, d’altro canto, si può manifestare solo attraverso gli enti.

Heidegger intende restituire alla realtà fondante, l’essere, la piena iniziativa; ne fa il riferimento ultimo e definitivo, che spiega anche l’esistenza dell’uomo, al quale affida il compito di interpretare, rivelare, l’essere stesso nel suo operare.

Heidegger vuole sottolineare che la rivelazione è iniziativa dell’essere e tuttavia l’uomo vi conserva una parte risolutiva: si trova in questo stretto crinale che vede emergere la realtà dall’iniziativa dell’essere, che però sottrae se stesso ad ogni manifestazione.

 

L’uomo, per Heidegger, è caratterizzato dal linguaggio. Il linguaggio diventa la modalità del suo rapportarsi all’essere.

Heidegger trova che è il linguaggio poetico quello che consente all’uomo questo approccio.

Il linguaggio poetico è essenzialmente evocativo; è in grado di lasciar trasparire e presagire una realtà che fonda le cose e contemporaneamente le trascende.

Ma la prospettiva può essere contemporaneamente rovesciata: il linguaggio come evento dell’essere aperto all’esistenza umana. L’uomo è custode di questa emergenza dell’essere.

Il linguaggio poetico è, a sua volta, evento che lascia trapelare la verità delle cose e manifesta la presenza dell’essere.

 

Il pensiero di Heidegger è alimentato dalla riflessione nihilista nietzchiana e ne condivide il sentimento di precarietà. In questa condizione di indigenza radicale si situa il ricorso al fondamento. E’ immediatamente percepibile la fecondità di questa intuizione per la ricerca delle condizioni del “dire Dio”.

Per Heidegger, l’uomo sosta come in un’attesa trepida e vigilante d’una rivelazione, che albeggia sempre senza mai illuminarsi.

 

Si nota che nella parte del saggio dedicata al confronto con Heidegger compaiono riferimenti alla interpretazione di Vattimo, che pure risulta suggestiva per discorso avviato da Trenti.

Insistiamo: Trenti non pretende di battezzare Heidegger; rileva che la sua grande incidenza sulla filosofia contemporanea non esclude, ma consente uno spazio per pensare il mistero e per cogliere un’allusione alla fede religiosa in Dio.

Un’altra suggestione di decisiva rilevanza deriva dalla riflessione ermeneutica, della quale Heidegger è stato maestro.

Trenti introduce a questa dimensione mettendo in evidenza come la sensibilità culturale contemporanea è centrata sull’uomo: da lui parte e a lui ritorna.

Il problema della verità non è più un itinerario della ragione astratta; è un compito di una ragione esistenzialmente impegnata.

Il problema uomo diventa riferimento centrale per ogni ulteriore analisi, compresa quella definitiva sull’essere e sulla verità.

E’ l’uomo che costituisce la domanda e che costruisce il percorso conoscitivo.

La ricerca della verità passa per il filtro dell’esistenza personale. A questo proposito, Trenti fa esplicito riferimento a Kierkegaard.

Il problema del dire Dio si distacca dal procedimento della razionalità funzionale proprio della scienza per assumere la dimensione esistenziale: Dio per l’uomo. Trenti valorizza, in questo contesto, la riflessione antropologica di Scheler. Dio è affermato perché compimento definitivo dell’uomo.

Altro aspetto rilevante è lo spostamento, accentuato dal contributo del pensiero di Martin Buber, dalla centratura sull’individuo a quella sulla relazione interpersonale.

Nel rapporto io-tu, nota Buber,  si va con la totalità dell’esistenza. L’esigenza che si impone nel rapporto interpersonale diventa traccia nella ricerca del Tu assoluto.

 

Dall’insieme delle suggestioni, l’autore afferma che il tema della trascendenza resta da impostare in maniera esistenziale, sia come dato connaturale e costitutivo del vivere umano, sia come insito nell’esistenza ed emergente come presagio.

Si impone l’analisi di “ciò che sono e dei richiami interiori da cui sono attraversato”. Non sono le vie razionali della tradizione quanto piuttosto la coscienza di quanto si vive che porta il richiamo di Dio e consente di affermarlo.

E’ all’interno dell’analisi del mistero che la sua presenza può proporsi, nella libertà di accoglierlo o di negarlo.

Ritornando al processo ermeneutico, si rileva che esso si situa dentro una concezione del linguaggio nuova rispetto a quella tradizionale.

Il linguaggio, più che uno strumento, diventa la condizione del pensare la realtà e del nominarne ciascuna entità, ancora, del comunicare la conoscenza e della partecipazione.

L’uomo è responsabile dell’interpretazione.

Questa istanza fa autorevole riferimento oltre che ad Heidegger anche a Gadamer e a Ricoeur.

L’altra accentuazione, collegata a questa linea di riflessione, è quella legata all’oggetto, l’andare alle cose.

La prospettiva ermeneutica conduce su una traccia feconda. Emerge l’affermazione di una realtà oggettiva che precede l’uomo, ma emerge con altrettanta forza la presenza di una soggettività che tenacemente vuole progettare se stessa. E’ questo il risultato di una ricerca che pone al centro l’esperienza esistenziale umana.

 

La problematica esistenziale rileva da sempre il dato della finitudine dell’esperienza umana e dell’inappagamento delle sue aspirazioni.

Sulla base di queste considerazioni si può affermare che la trascendenza è chiamata in causa perché l’esistenza non sembra in grado di dare ragione di se stessa. Il richiamo al mistero sembra essere la via, anche se non dicibile in termini empirici.

 

Trenti dedica una parte consistente del saggio ad una trattazione del processo ermeneutico, dall’esperienza problematizzante del credente al confronto con i testi della tradizione credente. Il riferimento privilegiato è all’elaborazione di Ricoeur e di Gadamer.

 

Per quanto riguarda le modalità del linguaggio religioso, dopo aver accennato al mito e al rito, l’attenzione viene posta sul simbolo che costituisce una modalità espressiva più interiore e penetrante di dire il divino. Segue un’ampia analisi della simbologia prevalentemente biblica.

 

Tornando sulla constatazione della finitudine e dell’insoddisfazione, si apre per il credente la strada dell’invocazione di una trascendenza. E’ un procedimento che non risulta tanto come frutto di un ragionamento astratto dalle vicende esistenziali, quanto da un’autocomprensione che coinvolge interamente la concreta esistenza.

Per il credente la trascendenza diventa incontro con la realtà religiosa: dalla certezza e fiducia conferita alla realtà sensibile (Savater) si passa alla certezza e fiducia conferita alla realtà trascendente (credo in Dio). Questa asserzione non implica che l’uomo religioso non apprezzi la realtà nella quale è immerso. Ha una ragione diversa per apprezzarla: la realtà sperimentabile empiricamente diventa segno e richiamo della realtà definitiva.

 

Per l’approfondimento antropologico e fenomenologico dell’atto di fede viene fatto ricorso al contributo di Max Scheler, che viene ampiamente esposto e analizzato.

Successivamente si passa alla valorizzazione del contributo derivante dal pensiero di Martin Buber, nella sua peculiare prospettiva dialogica. Per Buber la persona umana è costitutivamente in relazione.

La relazione è costitutiva, a partire dall’aria che respiriamo, dal terreno che calpestiamo.

La vita umana non esiste che nella relazione.

La partecipazione, avvertita o inconsapevole, intesse l’esistenza.

La relazione o è piena o non è autenticamente relazione. Un rapporto autentico instaurato con le cose e soprattutto con l’altro può sottendere la relazione costitutiva con la trascendenza; e di conseguenza un richiamo decisivo della verità di un rapporto fondante, che Dio solo compie; si tratta di avvertire tale apertura alla trascendenza come costitutiva e originaria, propria della persona.

 

Col passaggio al contributo del pensiero di Gabriel Marcel si giunge a tematizzare l’invocazione, terminus ad quem del saggio.

Marcel, impegnato in un’analisi dell’esistenza nella concretezza della situazione reale, si rende attento soprattutto al richiamo trascendente che la attraversa. Le sue indagini tendono a dare volto e linguaggio al presagio interiore, ad indagare il mistero in cui l’esistenza risulta immersa. Nel contesto attuale può offrire una lucida testimonianza di come un credente viva la propria esperienza di fede e di quale apporto la fede possa dare per decifrare l’esistenza in tutto il suo laborioso processo di interpretazione.

Per Marcel dire Dio è legittimo dove l’esistenza, esplorata nelle sue pieghe segrete, ne presagisce e ne esige la presenza: anzi dove questa presenza si impone per conferire autenticità e tenuta all’esperienza.

La sua ricerca è piegata dunque sull’esistenza concreta. Molte delle analisi che propone sottendono una tenace esigenza di definitiva razionalità e di senso: perciò Dio è chiamato in causa.

Marcel non è un sistematico. Anzi spesso si è dichiarato apertamente estraneo all’esigenza di sistematicità. Il suo è un percorso sollecitato da situazioni concrete con cui è chiamato a fare i conti e sulle quali riflette da pensatore e da credente, senza troppo preoccuparsi di definire lo spazio che compete al pensatore e l’attesa che attraversa il credente.

Il primo tema esperienziale preso in considerazione è quello della fedeltà. Essa presuppone un impegno di vita che va al di là della contingenza di una promessa datata. Marcel individua nel riferimento ulteriore e ultimo a Dio il fondamento di una fedeltà che sia per sempre.

Affermare il principio della fedeltà all’istante significa trascendere l’istante.

La ricerca di Marcel è segnata da una scelta fondamentale. Riconosce che alla base della propria riflessione vi è sempre stata un’opzione per l’essere.

Una fedeltà autentica metta in gioco la persona ma contemporaneamente si fonda necessariamente sull’essere. Stringe, per così dire, l’uomo all’essere in un medesimo destino. Risulta caratterizzata “da un’intima comunione fra il personale e l’ontologico”. Ma proprio questa relazionalità mette in gioco essere e persona e li coinvolge in un medesimo processo; trasforma il senso della ricerca.

Non si tratta di trovare soluzione ad un problema, quanto di percepirsi immersi in un mistero che ci supera. Cosicché non si tratta tanto di argomentare per provare, quanto di esplorare per far luce e prendere consapevolezza di una situazione che si vive.

In sintesi pregnante: “I misteri non sono verità che ci trascendono, bensì verità che ci comprendono”. I misteri attraversano e alimentano la vita dell’uomo, testimone d’un’ansia che lo scuote, eppure fiducioso in un’arcana presenza che lo rasserena.

Marcel, in una situazione di precarietà storica ed esistenziale, quale quella determinata dalla II Guerra Mondiale, si trova di fronte ad una duplice alternativa: considerare se stesso (l’uomo) come l’assoluto oppure cercare l’assoluto in un altro diverso da sé:

Marcel si pone sulla seconda opzione. Ma questo altro assoluto non è concepito come esteriore rispetto al sé. Dio non è concepito in termini di causalità, sentito come estraneo all’uomo, come forza che gli si sovrappone. Unità e totalità si salvano solo in termini di interpersonalità, in ultima analisi in un rapporto di amore. Dunque complementarietà e reciproca compenetrazione.

La creazione è per la persona una proposta e un compito. E’ il margine riservato alla persona in faccia alla totalità.

In sintesi, tre affermazioni emergono da queste intuizioni

La vita dell’uomo è dono d’amore da parte di Dio.

L’uomo è costituito libero.

Può rifiutare oppure può rivolgersi a Dio attraverso l’invocazione.

Trenti dedica una parte notevole del saggio all’analisi puntuale del pensiero di Marcel, nel quale sembra riporre la sostanza della sua proposta, che può essere così evidenziata.

L’affermazione della trascendenza è, prima di tutto, sofferta consapevolezza di precarietà e di insufficienza, presentimento di arcana presenza, gesto spontaneo di adorazione. Si tratta di un’esperienza personalissima, incomparabile, in un certo senso incomunicabile.

 

Trenti conclude il suo saggio cercando, alla luce degli spazi di espressione consentiti dagli autori considerati, di proporre quale può essere un atteggiamento credente nell’ambito culturale e nel linguaggio attuali.

La proposta condotta esplicitamente sul terreno filosofico chiama in causa la teologia per una nuova formulazione della sua indagine scientifica credente, sia dal punto di vista metodologico che da quello contenutistico.

Parimenti è chiamata in causa la pedagogia per una mediazione proponibile nella concreta condizione educativa e didattica attuali.

 

Lucillo Maurizio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jacques Arènes: La quête spirituelle hier et aujourd’hui.

 

 

Jacques Arènes, La quête spirituelle hier et aujourd’hui. Un point de vue psichanalytique, Cerf, Parigi, 2011

 

 

 

La psicanalisi in cerca di fede
intervista a Jacques Arènes, psicanalista,

 

Nel suo ultimo libro, lei commenta la tesi di Marcel Gauchet sull’abbandono della religione
dicendo che è “un’evidenza non così evidente”. Perché?

Che la società non sia più strutturata dall’elemento religioso, è un fatto evidente. Ciò significa che il mondo comune  non si basa sulla religione e che il fatto religioso in quanto strutturante sociale è diventato minoritario.
In compenso, nella costruzione di Marcel Gauchet, ci saranno sempre dei credenti. Ma le credenze riguardano ormai solo la soggettività delle persone. Non possono più basarsi su dati comuni per far esistere la loro fede.
Le comunità esistono ancora, ma il rapporto con la comunità è più fragile. È soprattutto dell’ordine dell’adesione  individuale, che può essere revocata. Sono le persone stesse che portano in sé la fede.
Così, l’abbandono della religione è uno dei fattori che comportano un’evoluzione importante del soggetto  contemporaneo. In sintesi, il rapporto con la religione e con la fede è molto cambiato.

In quanto psicanalista, lei insiste spesso sull’importanza del senso di colpa personale. Il che richiama forse uno degli aspetti del cristianesimo.
Sì, nel mondo cristiano, fin dall’inizio, si credeva al peccato originale. Si condivideva più o meno questa “colpa”. Era impossibile esserne esenti, anche se si era comunque assolti. Trovo questo profondamente liberante.

Liberante?
Sì, il senso di colpa, quando non scade in un aspetto morboso, è libertà. Il fatto di avere un rapporto personale e  soggettivo con la colpa, davanti all’altro – il prossimo e/o Dio – è molto importante per la libertà di ciascuno.
Ma oggi siamo in una società che si vuole de-colpevolizzata. Invece di cercare “colpe” personali, si rinvia a “colpe” collettive identificando dei gruppi di “cattivi”. Spesso non si è lontani dal pensare che i colpevoli siano in realtà  vittime. Di fatto, ci si interesse di più delle vittime che dei colpevoli e si mette in primo piano una posizione vittimistica.
Secondo me, questo pone un problema: è un modo di togliere la responsabilità alle persone e quindi la loro libertà.  Perché quando si è colpevoli e responsabili dei propri atti, si è liberi. In particolare si è liberi di non fare errori, ma  anche, semplicemente, di costruire la propria vita.


Ma non ci si può esentare dalla “colpa”?

Quest’idea che ci si possa premunire contro la “colpa”, essere dalla parte dei puri, di coloro che sono in buoni rapporti  con gli altri, è molto “imprigionante”. Molte persone pensano ad esempio che si possa evitare di commettere errori se   appena si è un po’ informati. Così, sono sprovvedute di fronte alla violenza, a volte alla loro violenza, e di fronte ai  conflitti in generali. Ora, bisogna avere il realismo della fallibilità. C’è una opacità della vita umana che fa sì che non si  possa sempre evitare di commettere errori.

Per esempio nella vita di coppia…
Si ha una visione della vita di coppia molto irenica: una vita di coppia sarebbe una vita coniugale senza conflitti. Perché  ltrimenti vorrebbe dire che non si sta bene insieme. Ma certi conflitti sono normali! La vita con qualcuno per  trent’anni, non è semplice. Soprattutto oggi quando i ruoli non sono più fissi come lo erano un secolo fa. A volte, gli  sposi avevano delle vite parallele. Si è molto più vicini oggi, e si fanno molte più cose insieme. Questo provoca conflitti  e rivalità. Tutto ciò fa parte della vita di coppia. Ma non vi siamo necessariamente preparati.

Le religioni sarebbero più “realiste” di quello che propone la psicologia?
Nelle religioni c’è un realismo di fondo della vita: la vita non è quello che si percepisce immediatamente. C’è anche un  realismo sulla sofferenza, sui limiti della vita, sulla fragilità e sulla vulnerabilità, anche sulla colpa. Certo, vogliamo  essere persone “buone”, ma non ci riusciamo sempre. È la vita.
Questo realismo esiste anche, certamente, nella psicanalisi. Le religioni sono particolarmente realiste in rapporto alle  questioni ampiamente rimosse oggi, come la fine della vita e il lutto. Tutti affronteremo questo problema. Ma la nostra  società non propone che soluzioni dell’ordine della potenza. In quanto l’idea è di invecchiare restando giovani, o di  scegliere una “buona morte”. È un tranello.
Il cristianesimo ci insegna anche che si può scegliere una maggiore libertà interiore…, anche a costo di una certa  sofferenza. Penso che non si debba eliminare completamente l’idea che nelle nostre vite ci siano mancanze. La vita  cristiana postula che si possa attraversare la sofferenza con una forza che accompagna la persona.

Storicamente, la psicanalisi e la religione non funzionano bene insieme. Con la sua tesi, si ha l’impressione di assistere però ad un dialogo fruttuoso.
Sì, questa tesi ne è la prova! Quando l’ho sostenuta, non ho visto ostilità nel mondo universitario.
Vent’anni fa, ci sarebbe stata un’accoglienza più fredda.
È vero che il concetto di guarigione in psicanalisi è abbastanza vicino a quello del giudeocristianesimo.
Gli psicanalisti non cercano la “guarigione” nel senso del benessere. Qualcuno che ha perso i figli in un incidente di  macchina non sarà mai più come prima. Si tratta proprio di trovare uno stato di libertà interiore, in rapporto alla sofferenza.
Ma la psicanalisi e la religione sono in parte irreconciliabili, soprattutto in Europa, dominata dalla psicanalisi  freudiana. Per Freud, nato in un secolo positivista, l’inconscio è puramente laico.
Per molto tempo, gli psicanalisti tendevano a dire: dell’interiorità dell’essere umano, tocca a noi occuparci, è il nostro  territorio ed è puramente laico. L’essere umano diventa così in fondo padrone e possessore di se stesso. Ma subito si  scontra con ciò che è sconosciuto dentro se stesso. Del resto, è per questo motivo che le persone vanno dagli  psicologi/psicanalisti.
Oggi, gli psicanalisti diffidano meno delle religioni. Il vero pericolo per gli psicanalisti non sono più le religioni, ma  tutte le concezioni di pensiero puramente materialiste. Come certe derive naturaliste delle neuroscienze, che ci  spiegano che lo spirito umano è un po’ come un hardware, come un “cablaggio” neuronico e che noi saremmo tutti  determinati dai nostri neurotrasmettitori.

Si vede un numero crescente di cristiani che si dicono “convertiti”. Che cos’è la conversione
per uno psicanalista?

Penso che la conversione risponda ad un’attesa molto forte di trasformazione personale attraverso il fatto religioso. Corrisponde al nostro tempo. Le persone sono più sole e meno “costruite” di prima.
Il mondo comune le sostiene meno.
Di conseguenza, si ha un bisogno molto forte di cambiare. Lo si vede bene nel mondo dei carismatici. Le persone si  aspettano che la religione le aiuti a costruirsi concretamente, non solo moralmente. La religione diventa così uno  strumento di trasformazione. Forse è questo che la religione può insegnare alla psicanalisi.

 

a cura di Henrik Lindell
in “www.temoignagechretien.fr” del 18 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Paul Klee, Henry Miller e gli altri: gli artisti moderni tra secolarizzazione e mistero divino

Con un po’ di libertà vorrei innanzitutto affidarmi al filo della mia memoria autobiografica. Infatti, studente di teologia alla Pontificia Università Gregoriana, ero anch’io in Piazza San Pietro l’8 dicembre 1965, quando i padri a chiusura del  Concilio Vaticano II lanciarono, tra i vari messaggi alle diverse categorie sociali e professionali, queste parole agli  artisti:

“Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò  che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e  le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani”.

Alle spalle di quel momento solenne c’era un altro evento che l’anno prima avevo seguito solo dall’esterno, vedendo alcune figure importanti della cultura (ho ancor oggi in mente il profilo scavato di Eduardo De Filippo…) che uscivano  dalla Cappella Sistina. Là erano stati convocati il 7 maggio 1964 da Paolo VI, che a loro aveva rivolto un appassionato discorso nel quale proponeva di ristabilire una “nuova alleanza” tra arte e fede, sulla scia di un passato glorioso e nella consapevolezza che la grande sfida dell’artista è quella di “carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di  parola, di colori, di forme, di accessibilità”.
Passarono vari anni e nella Pasqua del 1999 Giovanni Paolo II indirizzò una Lettera agli artisti perché con loro si  inverdisse “quel fecondo colloquio che in duemila anni di storia non si è mai interrotto…, un dialogo non dettato  solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa  sia della creazione artistica”. Prima della pubblicazione di quel testo, sorprendente anche per la filigrana dei suoi   rimandi culturali, fui invitato a una lettura previa e a offrire eventuali considerazioni.
A distanza oramai di dieci anni, divenuto ormai a Roma presidente dei dicasteri vaticani destinati al confronto con la  cultura e col grandioso patrimonio artistico fiorito nei secoli, proposi a Papa Benedetto XVI di incontrare, ancora nella  ornice gloriosa della Cappella Sistina, trecento artisti di tutte le discipline e di tutto il mondo per rinnovare un  dialogo interrotto. Il desiderio era quello di rinnovare quello che accadeva già nell’VIII secolo quando il cantore delle  immagini sacre, ovvero san Giovanni Damasceno, si rivolgeva così ai cristiani: “Se un pagano viene e ti dice: ‘Mostrami  la tua fede!’, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri”.
Questo vincolo così stretto – lo si deve realisticamente riconoscere – a partire dal secolo scorso si è allentato fino al  punto di infrangersi. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi delle  epoche precedenti, oppure ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla  bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva innalzando edifici sacri simili, come  sarcasticamente diceva padre David Maria Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli. D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le  figure e tutto quel “grande codice” che era stata la Bibbia. Ha abbandonato come pericolosa ogni proposta di un  messaggio, considerandolo un capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e  provocatori, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai  più, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed eccessivo. Un po’ di verità c’è  nella definizione coniata da Henri Meyers a proposito dell’artista contemporaneo: “Un uomo che non prostituisce mai  la sua arte, eccetto che per denaro”.
Riconosciute le colpe reciproche che hanno divaricato sempre più fede e arte, è necessario ora andare oltre i sospetti e  itornare a incontrarsi. Al riguardo è stato emblematico il presentarsi di sessanta artisti, con opere elaborate per  l’occasione, davanti a Benedetto XVI nel luglio scorso per celebrare i suoi sessant’anni di sacerdozio. Ma lo è anche  l’esperienza che la chiesa milanese ha attuato elaborando e presentando in questi giorni un nuovo Evangeliario  Ambrosiano. E’ evidente che i quattro Vangeli costituiscono uno dei cardini della liturgia cristiana. Già a partire dal VI  secolo sono fioriti codici miniati di mirabile finezza nei quali le immagini s’intrecciavano col testo sacro in una sorta di  dialogo tra parola e visione. D’altronde l’arte occidentale di quei secoli era in pratica un’esegesi figurativa delle Scritture Sacre.
Nel VI secolo il papa Gregorio Magno invitava “coloro che non sanno leggere i testi a leggere sulle pareti attraverso la vista”. C’era, infatti, una Bibbia di pietra sui capitelli, sui portali, sui bassorilievi, nei complessi statuari, e una Bibbia  colorata negli affreschi e nei dipinti, pagine aperte a tutti, anche agli analfabeti. E’ interessante notare che una delle  dichiarazioni di principio degli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento suonava così: “Noi siamo manifestatori, agli  uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede”. E’ ciò che si ripete – naturalmente in un contesto culturale e secondo un approccio stilistico differente – nell’opera realizzata ora dalla  chiesa di Milano. Tre sono le caratteristiche che la contraddistinguono.
La prima è la presenza di sei artisti contemporanei significativi che si sono confrontati col testo evangelico secondo i  loro particolari percorsi di ricerca. Da un lato, ci sono figure affermate come Mimmo Paladino e Nicola De Maria che,  dopo aver attraversato la “Transavanguardia”, hanno imboccato itinerari personali molto originali. A loro si accosta  Ettore Spalletti, che sa plasmare col colore forti evocazioni. D’altro lato, entrano in scena in queste pagine anche autori di una generazione più giovane come Nicola Samorì e Nicola Villa: si è, così, voluto aprire l’orizzonte andando oltre i  canoni critici già codificati. Ma la sorpresa maggiore per molti sarà l’ingresso di un fotografo come Giovanni  Chiaramonte che segna in tal modo quasi la consacrazione di un’arte relativamente nuova ma lasciata in passato fuori  dal museo e soprattutto dal tempio.
Il secondo profilo specifico che rivela questo esperimento è da cercare nel corteo di mostre che a Milano lo  accompagna. In ambienti diversi – da Palazzo Reale alla chiesa di San Raffaele e alla galleria San Fedele – si snoda un  tracciato espositivo che parte dalla gloriosa eredità del passato, attestata da esemplari particolarmente preziosi. Si tratta di codici miniati celebri come, ad esempio, l’Evangeliario di Ariberto e quello di Vercelli, la Pace di Chiavenna e  la “Coperta” di Teodolinda, per la prima volta riuniti insieme in una sorta di costellazione artistica. Si passa poi alle  opere degli artisti che hanno collaborato all’allestimento del nuovo Evangeliario esponendone i bozzetti e altre testimonianze del loro incontro con la fede e la liturgia. Un incontro non così estemporaneo e marginale, se è vero  quello che scriveva Hermann Hesse nel suo scritto “Klein e Wagner”: “Arte significa: in ogni cosa mostrare Dio”. Una  intuizione confermata anche da un grande pittore come Paul Klee il quale confessava che “l’arte non rappresenta il  visibile ma l’Invisibile che si cela nel visibile”.
C’è una terza e ultima caratteristica da segnalare nell’esperienza milanese. La sottolineava l’arcivescovo emerito  Dionigi Tettamanzi, che ha patrocinato calorosamente quest’opera come suggello conclusivo del suo ministero  milanese. Affermava, infatti, che in questo modo “la chiesa torna a essere committente, con coraggio, consapevolezza,  rispetto, così come lo è stata in passato.
E ogni commissione presuppone con i veri interlocutori un confronto aperto, una ricerca per comprendere le ragioni, i  linguaggi e il dono dell’altro in vista di un obiettivo comune”. Si riprende, quindi, la gloriosa tradizione del passato  che vedeva nei papi e nei vescovi le figure capitali per la promozione dell’arte, attraverso un dialogo creativo e vivace  con gli artisti. Ed è ciò che l’Evangeliario Ambrosiano testimonia; per questa via si compie anche l’auspicio di Papa  Paolo VI e dei suoi successori per una “nuova alleanza” tra arte e fede. Henry Miller nella raccolta di poesie “Sapienza  del cuore” univa, infatti, queste due realtà tra loro in un paradosso provocatorio ma suggestivo: entrambe  “apparentemente non servono a nulla, tranne che a insegnare il senso della vita”.

in “il Foglio” del 1 novembre 2011

 

La bellezza nella Parola: il nuovo Evangeliario Ambrosiano – Palazzo Reale, Chiesa di San Raffaele e Galleria San Fedele

Da sabato 5 novembre a domenica 11 dicembre 2011 a Palazzo Reale di Milano, la mostra dal titolo La bellezza nella Parola presenterà il nuovo EVANGELIARIO AMBROSIANO, il volume usato nella solenne lettura delle celebrazioni liturgiche, le cui pagine accolgono le tavole di maestri dell’arte contemporanea, quali Nicola DE MARIA, Mimmo PALADINO, Ettore SPALLETTI, il fotografo Giovanni CHIARAMONTE e due giovani artisti, Nicola SAMORÌ e Nicola VILLA. COMUNICATO STAMPA >

In mostra, l’Evangeliario di Paolo VI che è stato posto sulla bara del beato Giovanni Paolo II, il giorno delle sue esequie. L’iniziativa è promossa dal Comune di Milano, Cultura, Expo, Moda, Design, dalla Galleria San Fedele, da Palazzo Reale, e organizzata dall’Arcidiocesi di Milano.

Il percorso espositivo, che ruota attorno al Duomo e si snoda tra Palazzo Reale, la Chiesa di San Raffaele e la Galleria San Fedele, proporrà un confronto tra queste opere e alcuni dei più importanti capolavori d’arte sacra antica di area lombarda.

Il progetto, curato da una commissione composta da don Umberto Bordoni, arch. Carlo Capponi, p. Andrea Nicola De Maria.

 

 

Natale del Signore – Nella notte

Dall’Asta S.I., mons. Domenico Sguaitamatti, prof. Francesco Tedeschi, don Norberto Valli, si è sviluppato proprio a seguito della pubblicazione della nuova edizione dell’Evangeliario Ambrosiano, che il Cardinale Dionigi Tettamanzi ha voluto realizzare in dialogo con l’arte contemporanea, con l’intento di avvicinare le persone al messaggio evangelico attraverso un linguaggio artistico del nostro tempo.

La sezione a Palazzo Reale presenterà, per la prima volta insieme, manufatti d’arte antica di straordinaria bellezza come la Coperta dell’Evangeliario di Teodolinda da Monza, la Pace di Chiavenna, l’Evangeliario di Ariberto del Duomo di Milano e quello di Vercelli che convergono a illustrare la sintesi medievale fra ordine cosmologico, ingegno umano e redenzione divina.

Inoltre, si troverà una serie di Evangeliari manoscritti e miniati con inchiostro, oro e porpora, come il Codex Sarzanensis della Diocesi di Tortona, l’Evangeliario di Busto, l’Evangeliario di Bobbio e l’A 28 conservati alla Biblioteca Ambrosiana, e l’Evangeliario Casola della Biblioteca Capitolare di Milano.

A segnare il passaggio all’arte contemporanea sarà l’Evangeliario di Paolo VI, lo stesso che venne posto sulla bara di Giovanni Paolo II, nel giorno delle sue esequie.

 

Nicola Samorì, Natale del Signore – All’aurora

La mostra prosegue con la presentazione della ‘coperta’ e di tutte le 73 tavole del nuovo Evangeliario Ambrosiano, che saranno visibili insieme, per la prima e unica volta, prima di essere rilegate nel volume originale che verrà in seguito consegnato all’uso liturgico del Duomo.

Ettore Spalletti, Esaltazione della Santa Croce

Le opere dei sei artisti, che dal dialogo con il testo evangelico traggono una particolare forza e significato, sono in grado di affermare la capacità del nostro tempo di dare una forma contemporanea di bellezza alla Parola eterna delle Scritture.

La sezione allestita alla Galleria San Fedele (aperta fino al 22 dicembre) proporrà una selezione di bozzetti e un lavoro a soggetto sacro particolarmente significativo dei sei artisti, mentre alla chiesa di San Raffaele verranno esposte alcune opere appositamente realizzate per l’occasione, che illustreranno il rapporto vitale con il culto e la liturgia.

Il libro dei Vangeli ha sempre rivestito una grande importanza, sia nella storia della liturgia che in quello dell’arte. Fin dal Medioevo e dal primo Rinascimento, il prezioso volume si è rivestito di autentici capolavori dell’ingegno umano. Gli splendidi elementi artistici rivelavano la ricchezza dei testi sacri in esso contenuti e davano forma di bellezza e di cultura a un messaggio di vita capace di attraversare i tempi e illuminare i secoli.

 

Nicola Villa, Presentazione del Signore

La Chiesa, la cui esistenza ha come motivo principale la custodia e la consegna delle parole di Gesù contenute nel Vangelo in ogni epoca e in ogni luogo, trova nella produzione dei preziosi Evangeliari, un luogo di espressione simbolico della sua identità e missione. La scelta di percorrere la via della contemporaneità corrisponde alla sua pretesa non solo di camminare al passo coi tempi, quanto di anticiparli nella profezia.

 

 

Evangeliario di Ariberto recto

 

 

 

 

 

 

 

Evangeliario di Ariberto verso

 

 

 

 

 

 

La Bellezza nella Parola

Madonna al sepolcro, 1820

Il nuovo Evangeliario Ambrosiano e capolavori antichi

Milano, Palazzo Reale, Chiesa di San Raffaele

5 Novembre / 11 Dicembre 2011

Galleria San Fedele

5 novembre / 22 dicembre

Orari:

Palazzo Reale (piazza Duomo)

Lunedì h 14.30 – 19.30

Martedì, mercoledì, venerdì, domenica h 9.30 – 19.30

Giovedì e sabato h 9.30 – 22.30

Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura

Chiesa San Raffaele (via San Raffaele 4)

Lunedì-venerdì ore 8.30-18.30; sabato ore 16.30-18.30; festivi chiusa

Galleria San Fedele (piazza San Fedele 4)

Dal martedì al sabato 16.00 – 19.00 (al mattino su richiesta); festivi chiusa
Ingresso gratuito.
Visite guidate gratuite.
Informazioni per le visite guidate al +39 345 5081982

Catalogo Silvana Editoriale

Informazioni:

Cooperativa “Oltre”
+39 345 2525299

per la Galleria San Fedele anche
tel. 0286352233

Uffici Stampa

Ufficio Stampa Comune di Milano
Elena Conenna
tel. 0288453314 | elenamaria.conenna@comune.milano.it

CLP Relazioni Pubbliche
tel. 02.433403 – 02.36571438 – fax 02.4813841
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Cooperativa “Oltre”
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XXXII Domenica del tempo ordinario (anno A)

XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Sapienza 6,12-16

 

La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro.

 

v Il nostro brano si trova nella seconda sezione del libro della Sapienza, quando, dopo aver rilevato la duplice sorte dei giusti e dei malvagi al cospetto del creatore (cc. 1-5), l’autore fa l’elogio della sapienza quale guida sicura che conduce al supremo bene dell’uomo (6,1-11,3). Sono le riflessioni di un ebreo della diaspora (circa il 50 a.C.) che intende esporre alla luce della fede javista e con il linguaggio della cultura greca i grandi problemi dell’esistenza umana in vista di un’immortalità felice. Orientativi sono due versi: «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura» (2,23) «hai compassione di tutti… ami tutte le cose esistenti».

«La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano». Qui la sapienza (come la maat egiziana) viene personificata con i lineamenti di una giovane sposa, attraente, radiosa. Chi comincia a contemplarla non può non innamorarsi di lei, e chi le si mette in cerca riuscirà sicuramente a trovarla: «il desiderio della sapienza conduce al regno» (6,20). È qualcosa che già sta nell’intimo del cuore umano, qualcosa a cui siamo già orientati.

«Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano». Si completa il concetto precedente: se qualcuno coltiva l’anelito verso la sapienza, essa già gli si avvicina per farsi «conoscere» nel senso pieno semitico, entrerà cioè nella sua intimità, le si affezionerà profondamente.

«La troverà seduta alla sua porta». se qualcuno quanto prima (di buon mattino) si muoverà verso di lei, se la troverà addirittura di fronte, presso la porta di casa, ad attenderlo: «quanti la cercano di buon mattino, si dirà in Sir 4,12, saranno ricolmi di gioia».

«Lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei ». C’è di più. Essa è già in cammino alla ricerca di quanti sono aperti verso di lei, riflettono su di essa, si comportano con rettitudine, in conformità di ciò che hanno intuito di bello e di nobile in lei: ad essi «andrà incontro come una madre» (Sir 15,2), «beato chi medita sulla sapienza e … considera nel cuore le sue vie» (Sir 14,20s).

È un riflesso dell’infinita saggezza del Dio altissimo che opera in tutto con giustizia, benevolenza e comprensione, scruta i cuori e al minimo accenno di apertura fa sentire loro la sua presenza, e li guida verso la meta dell’esistenza terrena, verso colui che è il felice compimento di ogni nostra aspirazione.

 

 

Seconda lettura: 1Tessalonicesi 4,13-18



Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti. Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, scenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.

 

v La lettera ai Tessalonicesi risale a pochi anni dalla morte di Gesù. S. Paolo vi rivela tutto il suo affetto e la sua fiducia per quella comunità cristiana da lui fondata (cc. 1-3), e insieme la sua viva sollecitudine perché essa si conservi nella carità e nella continua vigilanza in vista della gloriosa Parusia del Signore Gesù (cc. 4-5). Gli preme in modo particolare rassicurarli su un loro specifico problema. Lui aveva loro annunziato la grande regola per chiamare a sé «tutti i suoi santi» (3,12), nell’ora e nel giorno noti solo al Padre. Era l’autentica promessa del maestro divino (v. 15; Mt 24,30.36). Ma i neofiti di Tessalonica, impressionati per quel glorioso evento, si andavano interrogando sulla sorte di chi in quell’ora misteriosa non si sarebbe trovato presente, perché già nel frattempo fosse deceduto. Il nostro brano risponde a questa aporia.

«Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti». Rassicura anzitutto i suoi discepoli dichiarando che non hanno motivo di preoccuparsi. Essi che credono in Cristo Signore dell’universo hanno in lui ogni speranza. Essi, come Paolo, vivono in Cristo, e Cristo vive in loro (Gal 2,20). Al contrario di coloro che non lo riconoscono (gli estranei, i pagani: 5,6), essi continueranno a vivere per sempre in lui.

«Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti». Ora chiaramente afferma: la stessa potenza divina che ha fatto risorgere Gesù, farà sì che tornino in vita anche i suoi fedeli amici e nulla vi si può opporre.

«Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo». Paolo conosce bene tutto l’insegnamento escatologico del Maestro: il martirio dei suoi evangelizzatori (Mt 24,9); il raduno di tutti gli eletti dai quattro venti (Mt 24,30s), di ogni epoca e regione. «Noi che saremo ancora in vita… non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti»: perché in quell’ultima ora prima risorgeranno tutti coloro che hanno perseverato nella loro fede in Cristo, e quindi insieme con loro quelli che saranno rimasti in vita andranno incontro al Signore della gloria.

«Verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore». La solenne descrizione escatologica (suono di tromba, voce dell’arcangelo, nubi del cielo… v. 16) ribadisce la consolante realtà che attende tutti i credenti in Cristo, sia già deceduti, sia ancora viventi al momento della grande Parusia: andargli lietamente incontro e vivere eternamente con lui nel suo regno di amore.

 

Vangelo: Matteo 25,1-13


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.  Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

 

 

Commento  del testo con immagini

XXXII DOM TEMP ORD ANNO A

 

Esegesi


È stata detta “la parabola della vigilanza”. Nel contesto del primo vangelo sembra riferirsi all’ultima venuta del signore, la Parusia (24-25). “Allora”, “in quel tempo” (nel testo greco) indica il tempo del giudizio finale (25,1; 24,39-50). Non si può escludere però che nella predicazione di Gesù il racconto riguardasse più direttamente l’incontro dei singoli uditori con il supremo Signore al termine della loro vita terrena. Lo scenario non è quello cosmico dell’intera umanità di fronte al giudice divino (24,30-31: segni del cielo e raduno dei popoli, con tutti i suoi angeli).

Rassomiglia invece all’esito del comportamento dei singoli individui durante la loro vita, sempre nell’ambito della storia: come nel racconto di Lazzaro e del ricco gaudente (Lc 16,27-31); sono due tipi di persone, di cui l’una è presente all’appuntamento festivo, l’altra per sua negligenza arriva in ritardo; l’uno è ammesso nel convito (seno di Abramo), l’altro è lasciato nel buio della notte (nel fuoco infernale). Rimane inteso in ogni caso che poi al momento del giudizio finale dell’umanità sarà solennemente ratificato il destino eterno di ciascuno (cf. Mt 25,14-30).

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini…».

Si annunzia il termine di paragone tra l’ingresso delle anime nel regno dei cieli e l’incontro dello sposo nel corteo delle ragazze che dovevano festeggiare uno sposalizio. La celebrazione solenne del matrimonio avveniva con una cerimonia notturna. Sull’imbrunire alcune damigelle si riunivano nella casa della fidanzata e aspettavano che arrivasse lo sposo perché introducesse l’intero corteo nella propria casa e si desse inizio ai festeggiamenti. Poteva succedere però qualche imprevisto.

«Le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio». Cinque damigelle non ebbero l’accortezza di rifornirsi sufficientemente di olio per ogni evenienza: non calcolarono bene la durata dell’attesa. Almeno così immagina il narratore ai fini del suo insegnamento. Difatti, ritardando lo sposo, le ragazze si assopirono tutte e le lampade esauriscono il loro olio (vv. 5-6).

«A mezzanotte… tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade». Le 5 sagge poterono rifornire le loro lampade con l’olio di scorta e si mossero col corteo dello sposo verso il luogo del banchetto.

«Mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa».

Nella parabola si immagina pure che le stolte tentano in quel frangente di rimediare alla loro negligenza. Ma, prima, le loro colleghe rifiutano di condividere le riserve di olio, perché non venisse a mancare anche ad esse; e poi i rivenditori a quell’ora tardano a fornirle. Sicché quando trafelate arrivano al luogo del convito per prendere parte alla gioia di quello sposalizio, si sentono rispondere dalla voce dello stesso festeggiato «non so chi siete», e la porta rimane chiusa; sono definitivamente escluse da quella comunità in festa!

«Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora». Il significato dell’episodio si evidenzia in pieno nell’ultima frase rivolta agli uditori dell’araldo evangelico: ‘il regno di Dio è vicino, e si avvicina sempre più’ (in Mc 1,15 il verbo è al perfetto: ‘continua ad avvicinarsi’). Dalla partecipazione ad esso dipende la sorte felice di ogni uomo. È importante essere trovati pronti ad entrarvi; occorre essere sempre in regola con l’olio luminoso della rettitudine e dell’amore. Poco vale per aver iniziato a compiere il bene e fermarsi a metà. È sommamente necessario aver perseverato e rimanere sempre all’erta nel giusto atteggiamento in consonanza con lo sposo divino. Egli può giungere a noi in piena notte come in qualsiasi momento; allora non resta più alcuna possibilità di rimediare (sia per quanto riguarda il giudizio particolare, sia quello finale universale).

 

Meditazione

 

Essenziale per ottenere la sapienza è desiderarla: il desiderio della sapienza spinge a cercarla e la sapienza stessa va incontro a chi la cerca. Se la sapienza è luminosa e splendente, essa irraggia su chi la desidera e la cerca: è la ricerca stessa della sapienza che rende sapienti (I lettura). Il credente cristiano non abbisogna solamente di fede, ma anche di sapienza. Sapienza è predisporre tutto per incontrare il Signore. Stoltezza – e c’è la possibilità di una fede stolta, insulsa, stupida, non intelligente – è negligenza nel prepararsi all’incontro con il Signore. Ma il Signore va incontro lui stesso a chi lo cerca e lo attende tenendo viva nella notte la lampada del desiderio dell’incontro (vangelo).

Opposta alla sapienza è la stupidità che è un difetto «che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona […] La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza (Sal 111,10), dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità» (Dietrich Bonhoeffer). La nostra parabola dice dunque che sapienza è anche senso di responsabilità e capacità di vita interiore.

Uscire, andare incontro al Signore veniente, tenere le lampade accese nel buio della notte, attendere il Signore: queste espressioni riferite alle ragazze amiche della sposa che, secondo gli usi matrimoniali del tempo, attendevano a casa di lei l’arrivo dello sposo, esprimono bene la missione della chiesa nella storia. Si tratta di compiere un esodo, una fuoriuscita dalla mentalità mondana; di cercare il Signore per vivere una relazione autentica e vitale con lui; di custodire la fede, l’amore e la speranza e attendere la sua venuta.

In particolare, occorre mantenere vivo il desiderio del Signore, questa la lampada che la chiesa è chiamata a tenere accesa nella buio della notte. Un credente o una comunità cristiana che perdano il desiderio del Signore, sono come sale che perde sapore (cfr. Mt 5,13),

luce che spegne se stessa (cfr. Mt 5,14-15). Questo desiderio è il proprium del credente: o lo si ha in sé o nessuno può pretenderlo dagli altri. Le ragazze stolte, chiedendo l’olio alle sapienti, pretendono ciò che non può essere dato.

Nella vita cristiana, la sapienza è il predisporre tutto per essere pronti per il Signore, per la sua venuta, per il suo dono, per la sua grazia, ed è tutt’altro rispetto all’efficienza e all’attivismo del protagonismo cristiano. Nella sapienza è sempre insita l’umiltà, la giusta misura di sé.

Dietro l’immagine del ritardo dello sposo (cfr. Mt 25,5) si delinea il problema della promessa della venuta del Signore e del protrarsi della sua attesa nella storia. Problema esposto con spietata lucidità da Ivan Karamazov nel famoso romanzo di Fëdor Dostoevskij: «Son passati quindici secoli dal momento in cui Lui promise di venire nel suo Regno… ma l’umanità l’aspetta ancora con fede sempre uguale e con sempre uguale tenerezza. Anzi, con fede ancor maggiore, giacche son trascorsi quindici secoli dal tempo in cui fu sospeso all’uomo ogni pegno celeste: “Credi a ciò che dice il cuore: non più pegni dà il cielo”. E così, unica e sola, è rimasta la fede in ciò che dice il cuore». La venuta del Signore è solo ormai una pia illusione? Un anelito sgorgato dal cuore umano? Alla chiesa il compito di rispondere a queste domande con la propria prassi storica e umana ispirata alla fede nella promessa del Signore e con la propria sapiente attesa.

La sapienza è arte di vivere il tempo: la venuta del Signore non è misurabile cronologicamente, ma è essenziale perché afferma che il tempo ha una fine e un fine. Se il sapiente, per la Bibbia, è «colui che cerca Dio» (Sal 14,2), egli è anche colui che contare il tempo e ne conosce la finitezza (cfr. Sal 90,12). Rimuovere la finitezza del tempo e la fine del mondo significa in realtà mandare a morte l’uomo, liquidare l’uomo.

La parabola è anche immagine del giudizio che attende il cristiano dopo la morte. La dialettica addormentarsi-alzarsi (cfr. Mt 25,5.7) esprime la polarità del morire-risorgere (cfr. Mt 27,52; lCor l5,20; 1Ts 4,13-15). L’esito del giudizio lo si gioca oggi, qui e ora, nella storia.

 

Preghiere e racconti

Vegliare con il Cristo

Veglia con il Cristo colui che, pur guardando verso l’avvenire, non perde di vista il passato e, pur contemplando ciò che il suo salvatore ha guadagnato per lui, non dimentica ciò che ha sofferto per lui. Veglia con il Cristo colui che commemora e rinnova continuamente nella sua persona la croce e l’agonia di Cristo e indossa gioiosamente questo mantello d’afflizione che il Cristo ha indossato quaggiù e si è lasciato dietro quando è salito al cielo. È per questo che, nelle loro lettere, gli autori ispirati esprimono cosi spesso il loro desiderio della sua seconda venuta, ogni volta che parlano del ricordo che hanno conservato della prima, e che la sua risurrezione non fa mai perdere loro di vista la sua crocifissione.

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, vol. IV, sermone 22)

 

Egli può sempre arrivare

«… non si può mai sapere se Dio è in una storia,

prima che uno l’abbia finita di raccontare.

Perché anche se mancassero solo due parole o soltanto

la pausa che segue le ultime parole del racconto,

Egli può sempre arrivare»

(Rainer Maria Rilke)

 

Tu vegli su noi

Mio Dio, io sono convinto che tu vegli

su coloro che sperano in te,

e che non si può mancare di nulla

quando da te si attende ogni cosa,

per cui ho deciso di vivere in avvenire

senza alcuna preoccupazione

e di deporre in te

tutte le mie inquietudini…

Gli uomini possono spogliarmi

dei beni e dell’onore,

le malattie possono togliermi

le forze e i mezzi per servirti,

io posso perfino perdere

la tua grazia col peccato,

io non perderò mai la speranza,

ma la conserverò

fino all’ultimo istante

della mia vita.

(Jean Guitton)

 

Giudizio finale

Tu giudicaci tutti

come se tutti fossimo bambini

che giocano con la vita

in questo cortile assurdo e prodigioso.

 

Quando giunge la notte,

raccoglici tutti

nel calore della tua Casa

per sempre.

 

E pianta di bellezza imperitura

il vecchio cortile amato…

(Pedro Casaldáliga)

 

Preghiera

Signore Gesù, Figlio di Dio e Sapienza del Padre, Verbo fatto carne e splendore della gloria, tu ti sei avvicinato a noi, venendoci incontro e invitandoci alle nozze della chiesa con Dio, Padre di tutti. Che il nostro amore domandi, cerchi, raggiunga e scopra la tua sapienza e permanga sempre in ciò che ha scoperto.

Oggi desideriamo evocarti e pregarti con le parole evangeliche: «Beati gli invitati alla mensa del Signore», cioè: «Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello» (Ap 19,9), o con quelle di sant’Agostino: «Tutta la durata del tempo è come la notte, nel corso della quale la chiesa veglia, con gli occhi della fede rivolti alle Sacre Scritture come a fiaccole che risplendono nel buio, fino alla venuta del Signore».

Noi siamo ora quelle cinque vergini prudenti, che siedono a mensa con lo sposo.

Affidiamo tutti insieme, con fede e umiltà, un desiderio alla generosità del nostro Dio: che tutti noi, che viviamo nella fede e siamo nell’attesa della pace sabbatica, possiamo ritrovarci un giorno riuniti nel tuo Regno, nel banchetto eterno, e che nessuno resti fuori da quella misteriosa porta, là fuori «dove c’è pianto e stridore di denti».

Allo stesso modo, possa tu, o Signore, quando verrai, trovare la tua chiesa vigilante nella luce dello Spirito per risvegliarla anche nel corpo, che giacerà addormentato nella tomba.

 

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

 

La sapienza della croce: Seminario di studio

Pontificia Università Lateranense – Cattedra Gloria Crucis

Seminario di studio

Martedì, 13 Dicembre 2011



LA SAPIENZA DELLA CROCE

COME RISPOSTA ALLA DOMANDA DI SENSO

 

Sessione mattutina


Moderatore: Prof. Lubomir Zak, vice decano della Facoltà di Teologia

Ore 9, Saluto del Prorettore della Pontificia Università Lateranense, mons. Patrick Valdrini,

Delegato dell’Università per le Aree di Ricerca e le Cattedre Autonome.

Presentazione del Prof. Fernando Taccone cp, Direttore della Cattedra

ore 9,30           Relazione: LA RICERCA DI SENSO E IL MESSAGGIO DELLA CROCE NELL’ANTROPOLOGIA CONTEMPORANEA: aspetto teologico, Sua Ecc. Mons. Ignazio Sanna, Arcivescovo di Oristano.

 

Dialogo


ore 11,00         Intervallo

ore 11,30         Comunicazione: Approccio biblico al tema: Dal silenzio alla parola della croce nell’epistolario paolino: ragioni e conseguenze, Antonio Pitta, docente alla Pontificia Università Lateranense

Comunicazione: Approccio patristico al tema, La ‘ricerca di senso’ e il messaggio della Croce. L’approccio patristico, da Giustino a Origene, S.E.Mons. Enrico dal Covolo sdb,  Rettore magnifico della PUL.

 

Dialogo


ore 13.00        Pausa pranzo, è disponibile la mensa universitaria.

Sessione pomeridiana

ore 15.00         Relazione: LA RICERCA DI SENSO E IL MESSAGGIO DELLA CROCE NELL’ANTROPOLOGIA CONTEMPORANEA: aspetto filosofico-culturale, Mons. Prof. Antonio Livi, Pontificia Università Lateranense

 

Dialogo


ore 16,15         Intervallo

ore 16,45         Tavola rotonda con esperienze a confronto e dialogo

Grazia Maria Costa, Preside della Scuola Edi.S.I., Istituto Edith Stein: Momenti di  fatica e di rimotivazione nella Vita Consacrata.

Chiara Amirante, fondatrice Nuovi orizzonti: Vivere la gioia nella sofferenza.

P. Eligio Gelmini ofm, fondatore Mondo X, “Sono forse io il responsabile di mio  fratello”

ore 18.00        Fine lavori

Futuro dell’umanità

Tutti vorrebbero conoscere il futuro dell’ umanità. È più di una semplice curiosità o di un sfizio dell’ immaginazione. Si tratta di un bisogno arcano, da sempre nascosto nel profondo delle aspirazioni di ciascuno. Gli strumenti statistici e le analisi della società, tuttavia, riescono oggi, malgrado l’ invalicabilità del limite, a dirci qualcosa su come sarà probabilmente il mondo di domani. O, almeno, come potrebbe presentarsi la condizione di vita sulla Terra, se i parametri attuali rimanessero costanti. Cosa evidentemente insicura. È questo l’ argomento dell’ importante rapporto di quest’ anno del Fondo dell’ Onu per la popolazione. Il quadro che emerge sul futuro dell’ umanità appare veramente molto interessante. Intanto si conferma un dato del presente che riguarda il censimento complessivo. Dal 31 ottobre il nostro pianeta ha 7 miliardi di abitanti, un miliardo in più rispetto a 12 anni fa e 6 rispetto all’ Ottocento. Fin qui abbiamo a che fare non con le previsioni ma con una constatazione di base. L’ aumento demografico si consolida. Tanto che, se i tassi di crescita resteranno gli attuali, gli inquilini della Terra toccheranno nel 2100 la quota di 15 miliardi. Ma sappiamo anche che la tendenza attuale – come è già avvenuto prima – decrescerà nel futuro. Una prima riflessione s’ impone e riguarda la distribuzione degli incrementi che coinvolgono l’ emisfero nord in modo sensibilmente inferiore rispetto a quello centrale e meridionale. Nell’ Europa Occidentale ci sono oggi 170 abitanti per chilometro quadro. Nell’ Africa subsahariana 70. Maa nessuno viene in mente di affermare che in Europa ci sono troppe persone. Le ragioni macrodemografiche sono ovviamente complesse, coinvolgendo sia gli atteggiamenti economici che le identità culturali. In ogni caso il ritmo di aumento delle natalità, con il concorso effettivo della vita media, connesso con l’ invecchiamento occidentale, contribuirà di sicuro ad una forma di mescolamento migratorio inevitabile. Il documento delle Nazioni Unite, tuttavia, guarda soprattutto alle probabili modalità di configurazione dell’ ordine sociale dell’ avvenire. Si è registrato una costante intensificazione della mobilità, non soltanto da Paese a Paese, ma anche tra i diversi continenti. E, cosa abbastanza significativa, un processo di urbanizzazione crescente che si realizzerà in modo massiccio nei prossimi 40 anni. Qui si indica già un campo su cui attivare politiche adeguate, viste le tendenze all’ accentramento di popolazione di vasta scala nelle città. D’ altronde, il ruolo politico delle grandi metropoli sta diventando sempre più consapevolmente un perno del processo d’ integrazione democratica. Qui s’ incontrano demografia e cultura democratica. Il rapporto dà, però, in modo esplicito alcune indicazioni chiare sui giovani, cui è riconosciuto un potenziale enorme a causa del fatto che la metà della popolazione mondiale sarà composta da persone con meno di cinquant’ anni. Poiché l’ 80% proverrà da continenti in via di sviluppo, puntare su istruzione, salute e occupazione è interesse unanime. Stesso discorso anche per la condizione femminile che appare addirittura, tra le righe del resoconto, un elemento chiave per il bene comune dell’ umanità. L’ emancipazione del genere femminile, in costante accentuazione, garantirà insieme all’ acquisizione di un ruolo e di un’ identità specifica delle donne, un protagonismo fondamentale nell’ educazione delle successive generazioni. Due osservazioni di straordinaria rilevanza devono essere accompagnate a questi fatti. In primo luogo la constatazione, valida a livello globale, che non è possibile uno sviluppo complessivo dell’ umanità senza che le dinamiche spontanee siano supportate da interventi precisi e razionali che garantiscano equità nell’ accesso alle risorse. Questo primo punto è imprescindibile per scongiurare catastrofi umanitarie ed esiti negativi in termini di miseria e di impossibile sopravvivenza, specialmente nei Paesi cerniera che hanno rapidamente accesso a tassi di crescita significativi. In secondo luogo, come emerge con chiarezza nelle conclusioni del rapporto, è insensato lavorare su progetti neo-malthusiani di controllo e limitazione delle nascite perché le crisi non verranno certo dall’ aumento della popolazione, ma dalle diseguaglianze culturali, ambientali ed economiche che possono insinuarsi. Per adesso, anzi, è una costante la crescita economica legata alla crescita demografica. Investire in politiche sociali, senza più territori determinati e chiusi, significa trasferire inevitabilmente a livello planetario l’ applicazione di certe prerogative etiche un tempo affidate agli Stati nazionali. Intervenire laddove gli sprechi sono estenuanti, pianificare un controllo degli investimenti, vuol dire garantire un’ espansione dell’ umanità in un mondo vivibile tendenzialmente e senza problemi da tutti. Appare, in tal senso, impossibile non guardare alla famiglia come soggetto sociale privilegiato nel permettere educazione, salute e formazione etica civilizzatrice della prole. Si deve riconoscere, insomma, che solo nel tessuto domestico si formano le categorie etiche fondamentali e si constata la pratica dell’ equa dignità tra i sessi, nonché la fiducia nel grado di umanizzazione che s’ intende diffondere a livello intergenerazionale. Dà comunque soddisfazione, per una volta, intravedere un quadro complessivo in cui non è la crescita di umanità ma la diminuzione d’ immoralità a minacciare il futuro. Un futuro, conviene precisare, che o è umano o non esiste. E per questo può pensarsi anche nel segno dell’ ottimismo.

 

Repubblica

02 novembre 2011 

Africa. Quella religione che immola i bambini

 

con una denuncia diretta, Benedetto XVI ha criticato le religioni tradizionali africane che arrivano ad uccidere vecchi e bambini come in una moderna caccia alle streghe

 

Il primo personaggio a destra nella foto, accanto al papa, al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e al rabbino David Rosen, è il professor Wande Abimbola, nigeriano.

Ad Assisi, al “pellegrinaggio” promosso da Benedetto XVI lo scorso 27 ottobre, Abimbola ha preso la parola “a nome dei capi e dei seguaci delle religioni indigene d’Africa”. Lui stesso è sacerdote e rappresentante mondiale della religione Ifa e Yoruba, diffusa in larga parte dell’Africa subsahariana e arrivata anche nelle Americhe sulla rotta delle migrazioni.

Parlando ad Assisi, Abimbola ha chiesto che “alle religioni indigene africane venga dato lo stesso rispetto e considerazione delle altre religioni”.

E Benedetto XVI – che quando scrive i discorsi di suo pugno, come in questo caso, non è mai politicamente corretto – l’ha preso in parola.

Nel discorso tenuto poco dopo ai trecento esponenti religiosi e “cercatori della verità”, il papa ha espresso considerazioni critiche su tutte le religioni, comprese le religioni tradizionali africane. Le ha accomunate in una storia fatta anche di “ricorso alla violenza in nome della fede”: una storia, quindi, bisognosa per tutte di purificazione.

Ma due giorni dopo l’incontro di Assisi, Benedetto XVI è stato ancor più crudo e mirato. Ricevendo in Vaticano i vescovi dell’Angola in visita “ad limina”, ha denunciato una violenza che in nome delle tradizioni religiose africane arriva persino ad uccidere bambini ed anziani:

“Uno scoglio nella vostra opera di evangelizzazione è il cuore dei battezzati ancora diviso fra il cristianesimo e le religioni tradizionali africane. Afflitti dai problemi della vita, non esitano a ricorrere a pratiche incompatibili con la sequela di Cristo. Effetto abominevole di ciò è l’emarginazione e persino l’uccisione di bambini ed anziani, a cui sono condannati da falsi dettami di stregoneria. Ricordando che la vita umana è sacra in tutte le sue fasi e situazioni, continuate, cari vescovi, ad alzare la vostra voce a favore delle sue vittime. Ma, trattandosi di un problema regionale, è opportuno uno sforzo congiunto delle comunità ecclesiali provate da questa calamità, cercando di determinare il significato profondo di tali pratiche, d’identificare i rischi pastorali e sociali da esse veicolati e di giungere a un metodo che conduca al loro definitivo sradicamento, con la collaborazione dei governi e della società civile”.

Già due anni prima, nel 2009, nel corso del suo viaggio in Angola, Benedetto XVI aveva sollevato la questione:

“Tanti vivono nella paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui si credono minacciati; disorientati, arrivano al punto di condannare bambini della strada e anche i più anziani, perché – dicono – sono stregoni”.

E aveva anche respinto un’obiezione corrente nella stessa Chiesa:

“Qualcuno obietta: ‘Perché non li lasciamo in pace? Essi hanno la loro verità; e noi, la nostra. Cerchiamo di convivere pacificamente, lasciando ognuno com’è, perché realizzi nel modo migliore la propria autenticità’. Ma, se noi siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che senza Cristo la vita è incompleta, le manca una realtà – anzi la realtà fondamentale –, dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, dobbiamo farlo, è un obbligo”.

Anna Bono, esperta di tradizioni africane, ha commentato sul giornale cattolico on line “La Bussola Quotidiana”:

“Ciò che il papa ha denunciato non succede solo in Angola. In Africa la stregoneria è una delle più radicate e persistenti istituzioni tribali. Se ne parla poco, forse anche perché la sua esistenza contraddice la prevalente rappresentazione delle comunità tradizionali africane come modelli di pacifica convivenza, tolleranza, equità e armonia sociale, depositarie di valori umani che l’Occidente avrebbe invece sacrificato al potere e al denaro”.

Nello stesso commento, Anna Bono riferisce alcuni casi recenti di uccisioni di bambini per motivi di stregoneria in vari paesi dell’Africa, o di loro mutilazioni “a causa delle proprietà speciali attribuite ai loro organi”, come avviene con gli albini.

C’è chi è rimasto stupito per una denuncia così esplicita di tali uccisioni, fatta da Benedetto XVI parlando ai vescovi dell’Angola.

I discorsi del papa ai vescovi in visita “ad limina”, infatti, passano sempre al vaglio della diplomazia vaticana, di solito molto prudente.

Questa volta, però, anche il revisore che se ne è più di tutti occupato, in segreteria di Stato, sapeva il fatto suo.

L’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, oggi sostituto segretario di Stato per gli affari generali, cioè numero due del governo centrale della Chiesa subito dopo il cardinale Tarcisio Bertone, era nunzio in Angola quando Benedetto XVI visitò quel paese, con tappa precedente nel Camerun, e sollevò il velo su quell’abominio.

Il 18 novembre prossimo papa Joseph Ratzinger si recherà in Benin per consegnare a una rappresentanza di vescovi del continente l’esortazione apostolica conclusiva del sinodo dei vescovi del 2009, dedicato appunto all’Africa.

Sarà interessante vedere che cosa il documento dirà sulle religioni tradizionali africane.

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Il discorso del 29 ottobre 2011 di Benedetto XVI ai vescovi dell’Angola:

> “Nella gioia della fede…”

E l’omelia tenuta dal papa a Luanda il 21 marzo 2009:

> “Come abbiamo sentito…”

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Il commento di Anna Bono su “La Bussola Quotidiana”:

> La strage dei bambini “stregoni”

La crisi economica: una riflessione sulle cause e le soluzioni

 

Crescere nella crisi.

Commissione famiglia e società della Conferenza dei vescovi di Francia

 


Tutte le analisi sull’attuale crisi economica indicano la necessità di «cambiare i nostri comportamenti e i nostri stili di vita. Tuttavia, sembra che a una simile lucidità non si accompagni una reale disponibilità al cambiamento. Anche quando pareva che vi fosse un consenso sulla necessità di un cambiamento di rotta, come nel caso della riforma del sistema pensionistico, sui termini delle modifiche da operare vi era poi un disaccordo tale che la sua realizzazione appariva frutto di una costrizione imposta piuttosto che un compromesso accettato in vista di un bene comune». Sembrano parole indirizzate al contesto italiano quel le a firma della Commissione famiglia e società dell’episcopato francese rese note lo scorso febbraio nel documento Crescere nella crisi. Esso, infatti, si rivolge a quel «malessere più generale » costituito dalla mancanza di «fiducia negli altri e nella collettività nazionale », che, assieme alla lucidità rispetto a un futuro incerto, generano «una grande angoscia, della quale la prossima generazione rischia di essere la prima vittima». Sullo stesso tema e con tonalità simili sono anche intervenuti i vescovi irlandesi (cf. in questo numero a p. 474).

J.-C. Descubes, Commissione famiglia e società Conferenza dei vescovi di Francia

 

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Dalla crisi alla speranza.

Consiglio giustizia e pace della Conferenza vescovi cattolici irlandesi


«Solidale con tutti coloro che soffro no a causa della crisi economica», il Consiglio per la giustizia e la pace della Conferenza episcopale irlandese ha pre sentato il 21 febbraio scorso una di chiarazione aggiungen do «la sua voce a tutte quelle che si levano per domandare un cambiamento positivo nella nostra società». L’attuale momento «di notevole inquietudine politico- finanziaria» vie ne analizzato – alla luce dell’en ci clica Caritas in veritate – con un’attenzione particolare ai «costi umani» di una crisi i cui effetti «sorprendenti e spaventosi» sono disoccupazione, insicurezza, «crollo del – la fiducia nelle istituzioni» e disperazione. Di fronte al fallimento di un modello economico e culturale, consapevoli che non si uscirà dalla crisi senza promuovere una «cultura della speranza», i membri del Consiglio offrono un’alternativa ispirata ai valori evangelici e alla dottrina sociale cristiana nella quale, tenendo conto «delle variabili presenti in ogni equazione politica: efficienza economica, libertà individuale, tutela dell’ambiente e giustizia sociale», an che «il principio di gratuità e la logica del dono» trovano spazio tra i criteri che possono e devono regolare l’attività economica.

Consiglio per la giustizia e la pace – Conferenza vescovi cattolici irlandesi

 

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Da consultare

Nota: “Per una riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale” (24 ottobre 2011)

 

 

Un nuovo modello di leaderschip

Ettore Gotti Tedeschi

Gli errori di interpretazione e la sottovalutazione dell’attuale crisi economica sono stati gravi e perdurano. Sono state male interpretate le sue vere origini, cioè il crollo della natalità, e le conseguenze che hanno portato all’aumento delle tasse sul pil per assorbire i costi dell’invecchiamento della popolazione. E sono stati sottovalutati gli effetti delle decisioni prese per compensare questi fenomeni, soprattutto con la delocalizzazione produttiva e con i consumi a debito.
Non sono stati poi presi nella giusta considerazione l’urgenza di intervenire e i criteri da seguire per sgonfiare il debito prodotto. Non è stato quindi previsto il crollo di fiducia che ha condotto al ridimensionamento dei valori delle Borse e alla crisi del debito.
A questo punto le soluzioni non sono più tante. Per ridurre il debito totale – pubblico, delle banche, delle imprese, delle famiglie – e riportarlo ai livelli precedenti alla crisi, cioè a circa il 40 per cento in meno, è immaginabile, ma non raccomandabile, cancellarne una parte con una specie di concordato preventivo in base al quale i creditori vengano pagati al 60 per cento. È pensabile, ma si tratta di un’ipotesi senza prospettive, inventare qualche nuova bolla per compensare il debito con una crescita di valori mobiliari o immobiliari. È valutabile – ma speriamo sia solo una tentazione – una tassazione della ricchezza delle famiglie, sacrificando però una risorsa necessaria allo sviluppo e producendo allo stesso tempo un’ingiustizia. Si può anche ricercare una via di sviluppo rapido, grazie a una crescita di competitività, che nella crisi globale non è però facile generare. Non ci sono capitali da investire, le banche sono deboli, il problema demografico penalizza la domanda e gli investimenti. In questo contesto, inoltre, i consumi a debito non sono nemmeno immaginabili.
I Paesi occidentali sono costosi e per renderli economici in tempo breve si dovrebbe intervenire sul costo del lavoro. Interventi di stampo protezionistico per sostenere le imprese non competitive produrrebbero però svantaggi per i consumatori e ridurrebbero i consumi già in declino. Si potrebbe svalutare la moneta unica, ma questa iniziativa condurrebbe all’aumento dei prezzi di beni importati.
Qualcuno, per sgonfiare il debito, pensa anche all’inflazione. Ma l’inflazione non si accende se la crescita economica è pari a zero, se i salari sono fermi, se incombe l’ombra della disoccupazione e se diminuiscono persino i prezzi delle materie prime.
Si potrà affermare che la spirale inflazionistica non si avvia finché non c’è sfiducia nella propria moneta. La questione è che oggi non ci si può fidare di nessuna valuta: tutte, compresi euro e dollaro, sono deboli. L’inflazione non parte anche perché la liquidità non circola, ma soprattutto perché quella creata dalle banche centrali ha sostituito quella prodotta dai sistemi bancari per sostenere la crescita a debito.
Il primo problema oggi non è quindi l’inflazione ma la deflazione. I mercati stanno infatti privilegiando la liquidità. Questo perché in regime deflazionistico il valore della moneta cresce, mentre durante l’inflazione decresce. Far progredire l’economia oggi senza aumentare il debito pubblico significa correlare i tassi di interesse al pil. Nei Paesi con un debito pubblico superiore al 100 per cento del pil, è evidente che, per ottenere una crescita dell’1 per cento senza fare aumentare il debito, bisogna avere tassi non superiori all’1 per cento, penalizzando in questo modo i risparmi.
La soluzione è in mano ai Governi e alle banche centrali che devono realizzare un’azione strategica coordinata di reindustrializzazione, rafforzamento degli istituti di credito e sostegno dell’occupazione. Questo richiederà tempo, un tempo di austerità nel quale ricostituire i fondamentali della crescita economica. Ma soprattutto i Governi devono ridare fiducia ai cittadini e ai mercati attraverso una governance adatta ai tempi, che, oltre a garantire adeguatezza tecnica, sia anche un modello di leadership. Cioè uno strumento per raggiungere l’obiettivo del bene comune.

(©L’Osservatore Romano 4 novembre 2011)

 

 

La vera crescita? Meno finanza e più produzione

Paolo Sorbi

Avvenire 3 novembre 2011

La continuità e la profondità dell’attuale crisi sistemica internazionale ha sorpreso in buona parte la comunità dei ricercatori. Grandi quantità di dollari e di euro sono state introdotte nei circuiti finanziari dagli stati del G20, ma sino ad ora non c’è nessuna credibilità di uscire a breve termine dalla crisi internazionale dell’economia/mondo. Si è, comunque, preso atto della fine di un lungo ciclo dello stesso sviluppo capitalistico globale.

 

 

 

I meccanismi liberistici senza regole non funzionano. Si è iniziata una riflessione sui temi della produzione e dell’economia riecheggiando tematiche “interventiste” degli stati nazionali pensando di ricopiare alcuni modelli keynesiani degli anni Trenta. Ma la natura della crisi globale non è assimilabile a quella della prima grande crisi del 1929. Gli attuali processi di stagnazione internazionale non sono l’assemblaggio delle singole crisi dei sistemi nazionali. Inoltre l’attuale crisi generale (non solo economica, ma anche culturale ed antropologica) inizia a bloccare le forti crescite economiche classiche che avevano visto per protagonisti gli stati ed i grandi territori del Brasile, della Russia, dell’India e della Cina. Contemporaneamente, negli ultimi due anni, dati Fao, il numero di coloro che sono affamati non solo non è diminuito, ma è accresciuto: addirittura del 25%.

Dai grattacieli di Manhattan, ai deserti dell’Africa centrale è tutto il ciclo della globalizzazione “soft” – cioè quella prima ed iniziale fase di globalizzazione della finanza e delle tecnologie che aspiravano ad una crescita senza contraddizioni – ad aver ceduto. Sono i “cicli lunghi”, studiati dall’economista, Kondratieff, delle conflittualità sociali e popolari, ad aver indotto ristrutturazioni ed innovazioni di portata internazionale. Gli esiti economici, all’inizio del terzo millennio, sono stati grandi mutamenti “hard” per il volto feroce che hanno assunto verso centinaia di milioni di nuovi poveri. Un altro “volano” che ritengo decisivo, è determinato dalle dinamiche-sociodemografiche su scala globale.

È stato il crollo della natalità in Usa, Europa e Giappone, ad essere uno dei vettori dell’attuale crisi internazionale di stagnazione dello sviluppo. Sono le ricerche del maggior economista-demografo contemporaneo Alfred Sauvy, a dimostrare che nell’Occidente della crescita zero, la mancanza di innovazioni è correlata al “grande inverno” dell’invecchiamento delle popolazioni. Quelle ricerche dimostrano che tra popolazione giovane, sviluppo economico ed innovazioni istituzionali c’è una forte correlazione. Colpisce la decelerazione economica, ancora poco studiata, della Cina. Cresciuta in anni di boom economico straordinario in modo impressionante, in recenti surveys della società “Oxford Economic” emergono dati preoccupanti di un deleveraging, vale a dire di una rapida ed improvvisa decrescita che potrebbe raggiungere uno stop netto verso il 2014.

Gli investimenti in Cina si fermano, perché crescono contemporaneamente i tassi bancari ed il costo del lavoro per l’estesa diffusione di lotte operaie e popolari. La catena delle forniture in Asia colpisce il motore profondo della crescita economica ininterrotta e si aprono problemi di recessione e disoccupazione anche in quei territori. L’estensione rapidissima di lotte sociali è emersa anche in tutta la realtà del colosso brasiliano. Conflittualità sempre più apportatrici di fiducia tra fasce sociali estremamente povere di quelle aree che, per la prima volta nella loro storia, si autoidentificano come lavoratori portatori di rivendicazioni e saperi culturali solidali. Quello che sta accadendo, durante questi recenti anni di crisi internazionale, non a sufficienza monitorato dalla ricerca sociale, è un grande mutamento di ciclo economico.

La globalizzazione reale ha voluto dire un processo di costruzione e di decentramento produttivo in una sorte di corrente tecnologica “nord-sud” del mondo. Ora invece quella corrente si rovescia verso una tendenza “sud-nord”. Nell’attuale crisi, innumerevoli realtà imprenditoriali multinazionali, sia americane che europee, cominciano a comprendere che non conviene più l’outsourcing produttivo in molte aree dei cosiddetti paesi in sviluppo.

Un recente studio del “McKinsey Quarterly”, fine del 2010, evidenzia che in Cina i salari sono cresciuti del 15% all’anno, dal 2000 al 2009. Nei prossimi anni di rallentamento, anche in Cina, i salari cresceranno, comunque, tra il 20 ed il 30% in più. Gli utili stanno diminuendo, perché i costi della produzione stanno rapidamente aumentando.

Ad esempio, Barack Obama, all’inizio di quest’anno, nel suo discorso sullo stato dell’Unione ha enfatizzato l’importanza del “rientro in patria” degli ordini manifatturieri e tecnologici. In Inghilterra la crescita delle piccole e medie imprese dei segmenti della meccanica e del tessile, dopo oltre tre decenni di declino, ha subito una rapida ripresa riportando quei segmenti produttivi, all’inizio degli anni Novanta. Insomma l’Occidente finanziarizzato ha in buona parte perduto i criteri dell’economia reale che non può essere un semplice mondo di servizi e consumi.

“Ritorno della produzione” in Occidente vuol dire, secondo recenti ricerche di team di sociologi industriali, tra cui Francesco Garibaldo, che bisogna mettere mano ad una riorganizzazione sul territorio anche del sindacato e dei suoi modelli di partecipazione e democrazia. È ovvio che le nuove produzioni saranno sempre di più finalizzate ai mutamenti ecosistemici, decisivi per aprire concretamente nuove strade di crescita, ma anche per aprire nuove strade a modelli sociali differenti ed, in parte, anche oltre le logiche del puro profitto capitalistico.

Non è il ritorno meccanico ad una tradizionale forza-lavoro industriale, ma è certamente una crescita di lavori collegata a queste nuovi materiali e nuove produzioni, a dinamiche di mobilità sostenibili, a dinamiche di manutenzione del territorio, a dinamiche anche di grandi opere, ma di certe opere, orientate alla conversione strutturale ed ecosistemica delle vecchie strutture capitalistiche che non possono produrre “nuova crescita”.



ATRI CONTRIBUTI


«Pochi giorni fa – ricorda il parroco – il Vaticano ha pubblicato una nota in cui chiede l’istituzione di un’autorità mondiale che regoli il mercato finanziario e monetario». Da qui le campane, piccolo segno per un proposito enorme: superare l’idea assoluta di libero mercato, che alla fine si riduce al «libera volpe in libero pollaio»
“Deve tornare alle profezie di allora [degli anni 60], il cattolicesimo, se vuole rispondere al collasso generato da quella che nel 1991 papa Wojtyla chiamò l’«idolatria del mercato»… Recependo Benedetto XVI, il documento vaticano rivendica il primato di spiritualità, etica e politica su economia e finanza… Intervenendo sul Financial Times, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams ha definito l’idea di un governo mondiale «alquanto utopistica», ma ha elogiato la concretezza della ricetta vaticana, contrapposta alla vaga protesta degli indignati di St Paul’s Cathedral”
“Pensare una riforma finanziaria senza fare opera di verità… significa votare al fallimento ogni tentativo. Affinché emerga un’economia “giusta e responsabile”, la Chiesa del Var ritiene che ogni attività economica debba avere come norma l’adeguatezza tra ciò che viene fatto e ciò che è dovuto. È doveroso rimettere l’uomo al centro dell’economia attraverso la definizione di un quadro etico”
“Le monastère au travail: le Royaume de Dieu au défi de l’économie”, un libro della sociologa Isabelle Jonveaux. “I monaci mostrano che un modello fondato su valori diversi da quelli del mondo – rispetto della persona, carità, aiuto reciproco, rifiuto del rendimento ad ogni costo – può avere successo… Ci propongono l’idea di un’economia della sobrietà: produrre in funzione dei bisogni e non di più. E se si riceve di più, si dona”
“Ma che mondo è questo nostro nel quale la concentrazione della ricchezza è tale per cui i bonus della Goldman Sachs, anno domini 2009, sono pari al reddito di 224 milioni delle persone più povere del pianeta? Globalizzare produzione e commerci, attorno al dogma della libera circolazione dei capitali, e deregolare le società occidentali, in nome del massimo lucro di manager e azionisti, ha prodotto il sonno del diritto. E come il sonno della ragione di Goya, anche questo genera un mostro: l’eccesso di disuguaglianza”
“All’interno delle categorie prevalenti nel modello di sviluppo ancora oggi dominante non c’è soluzione. Per uscire da questo circolo vizioso occorre cambiare prospettiva… Un prezioso contributo viene da Michael Porter, guru del pensiero manageriale internazionale, il quale opportunamente ha cominciato a parlare di «valore condiviso»”
“L’etica protestante del lavoro ha contribuito a far crescere le economie del nord Europa più di quelle dei paesi del sud del continente e gli effetti in questi mesi di crisi del debito sono evidenti a tutti…”
“l’arcivercovo di Canterbury Rowan Williams scomunica «gli idoli dell’alta finanza», ciechi e sordi… [e] chiama la Chiesa anglicana alla mobilitazione. Uno: occorre che gli istituti separino le loro attività commerciali «dalle transazioni speculative»… Due: si ricapitalizzino le banche con denaro pubblico a patto che le banche stesse «siano obbligate» a intervenire per rinvigorire l’economia reale… Tre, così come il Vaticano, anche la Chiesa anglicana… raccomanda l’adozione della «Tobin tax»”
“Gli indignati di Londra non ce l’hanno fatta ad abbattere il capitalismo, ma sono riusciti almeno a provocare un certo parapiglia nella Chiesa d’Inghilterra. Accampati da due settimane sul sagrato della cattedrale Saint-Paul, nel cuore della City, le poche centinaia di manifestanti hanno vinto un’importante battaglia nei confronti dei dignitari religiosi: questi ultimi hanno rinunciato in extremis a lanciare una procedura di espulsione, autorizzando de facto la stabilizzazione dell’accampamento”
Testo completo dell’articolo dell’Arcivescovo di Canterbury, Dr Rowan Williams, pubblicato sul quotidiano The Financial Times. “La Chiesa d’Inghilterra e la Chiesa Universale sono autenticamente interessate all’etica del mondo finanziario e al problema di sapere se le nostre pratiche finanziarie sono a servizio di coloro che hanno bisogno di essere serviti – o se sono semplicemente diventate idoli che chiedono per se stesse un servizio acritico”
“non è possibile uno sviluppo complessivo dell’umanità senza… interventi precisi e razionali che garantiscano equità nell’accesso alle risorse… è insensato lavorare su progetti neo-malthusiani di controllo e limitazione delle nascite… Investire in politiche sociali, senza più territori determinati e chiusi, significa trasferire inevitabilmente a livello planetario l’applicazione di certe prerogative etiche un tempo affidate agli Stati nazionali… impossibile non guardare alla famiglia come soggetto sociale privilegiato…”

 


La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi

Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso.
La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine  spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione,   anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un’Italia in cui  l’appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni  religiose.
In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l’esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non  particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta  nell’avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella  propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell’idea di far parte di un mondo di  spiriti e di mistero che trascende l’esperienza terrena.
Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano  ercepiti e ricercati più all’esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei  santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle  pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un’eco attuale (o di un restyling) della religiosità  popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata.  Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile  ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione  ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un’immagine che contrasta l’idea che l’epoca  attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo – parafrasando Peter  Berger – non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta»  che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale.
L’immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal  cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l’80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in  cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l’appartenenza cattolica ha una  funzione rassicurante per la nazione?
Perché molti continuano a identificarsi – pur in modo ambivalente – con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei  cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di  salvezza?
L’idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero,  per confinarlo nell’oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi  dell’esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente  impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un’immagine del  cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come  muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota  di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come  criterio di vita, più per l’educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali.
Nella società dell’insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un  serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si  conciliano con la propria cultura e abitudini.
Parallelamente, l’adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un’identità
nostrana in un’Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul
territorio e enfatizzato dai mass media.
Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell’adesione di molti italiani alla fede della  tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi  ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o  anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell’epoca attuale. L’avvento del pluralismo culturale e religioso non  produce necessariamente l’abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l’espressione. Si può essere  convinti che non c’è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso  sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria  tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive  dell’esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa  di attribuire un’ anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall’altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.

in “La Stampa” del 1° novembre 2011

Con il nuovo Evangeliario la liturgia diventa arte

 

Nel congedarsi dalla diocesi di Milano, il cardinale Martini – vescovo della Parola in una stagione di immagini distorte –   ha voluto che l’ultima iniziativa del suo ministero pastorale fosse la «Casa della carità»: un luogo che rendesse  manifesto il chinarsi dei cristiani sulle sofferenze dei poveri. Il suo successore, il cardinale Tettamanzi – vescovo della  carità in una stagione di indifferenza verso il prossimo – ha voluto che l’ultimo dono alla diocesi fosse il libro del  Vangelo, la Parola posta al cuore della celebrazione liturgica, un libro che rendesse manifesto il piegarsi dell’orecchio  dei cristiani alla Parola proclamata. Così, nella scia di san Paolo, il cardinale Tettamanzi ha inteso «affidare alla Parola»  i cristiani della sua diocesi e lo ha fatto attraverso un «Evangeliario», concepito e realizzato come compendio della sua  sollecitudine di pastore e del suo amore di padre.
Ma cos’è un evangeliario? «Questo è il Libro della vita, / questa la fonte e l’origine dei libri.

Qui scintillano i quattro fiumi dall’unica sorgente». Nei versi anonimi vergati sulle prime pagine di un manoscritto del  IX secolo cogliamo il significato e il valore che le chiese cristiane, sin dall’antichità, hanno attribuito all’evangeliario,  cioè a quel libro, destinato al culto liturgico, che contiene il testo dei quattro Vangeli, suddiviso secondo l’ordine delle  pericopi che vengono proclamate nel susseguirsi dei giorni, delle domeniche e delle feste dell’anno liturgico. Sì, i  cristiani hanno sempre riconosciuto uno statuto particolare a questo libro che custodisce l’«attestazione» delle parole del Signore Gesù, raccolte dagli apostoli e dalle prime comunità cristiane e trasmesse sino a noi.
Non si tratta semplicemente di un libro, ma del Libro per eccellenza, non riducibile a una mera suppellettile per il  culto: nella fede della Chiesa che si esprime nella liturgia, questo oggetto è riconosciuto come simbolo vivo, come  «sacramento» e «icona» del Cristo risorto, che si fa presente in mezzo alla sua comunità, che parla al suo cuore e  spezza il pane delle Scritture. Per questo, attraverso i secoli, il libro del Vangelo quadriforme è stato circondato da  eculiari segni di onore e venerazione nelle diverse tradizioni liturgiche: affidato alla ministerialità del diacono, portato solennemente in processione fra lumi, incensi e canti di acclamazione, intronizzato sul leggio più alto degli amboni,  salutato con il bacio da parte dei ministri e talora dei fedeli. Il libro, inserito nel dinamismo celebrativo all’interno del  «sito» liturgico della proclamazione, rende per così dire visibile ai nostri occhi e udibile alle nostre orecchie la  presenza del Figlio e Verbo di Dio, che ha assunto la visibilità della nostra carne e l’udibilità delle nostre parole umane  per narrare agli uomini la misericordia e la condiscendenza del Padre.
È proprio all’interno di questa secolare tradizione che si inscrive anche la progettazione e realizzazione del nuovo  Evangeliario Ambrosiano, promossa dal cardinale Dionigi Tettamanzi. Un evangeliario «nuovo» sotto diversi punti di  vista: contiene infatti la nuova traduzione liturgica della Scrittura approvata dalla Conferenza episcopale italiana;  inoltre segue la scelta delle letture evangeliche selezionate secondo la recente riforma del Lezionario ambrosiano  pubblicato nel 2008; ed è nuovo, infine, per la scelta audace della Chiesa di tornare a farsi interlocutrice e  committente nei confronti della tecnica e dell’arte contemporanee. Frutto di un lavoro di équipe, che con la consulenza di esperti, biblisti e liturgisti ha chiamato un architetto (Pierluigi Cerri) e sei artisti (Giovanni Chiaramonte,  Nicola De Maria, Mimmo Paladino, Nicola Samorì, Ettore Spalletti e Nicola Villa) a dare forma e volume, colore, figura  e visibilità segnica alle «parole di vita eterna» dei santi Vangeli, senza trascurare una certa omogeneità del progetto  decorativo. I testi evangelici – che si susseguono organizzandosi intorno ai grandi poli dei Misteri dell’Incarnazione,  della Pasqua e della Pentecoste – sono suddivisi in tre tomi, segno questo di un’attenzione pastorale concreta all’uso  liturgico dell’Evangeliario, che deve coniugare la «nobile bellezza» della forma con le esigenze di praticità e di  maneggevolezza richieste da un libro rituale.
Questo ambizioso progetto – illustrato ora dalla mostra «La bellezza nella Parola: il nuovo Evangeliario Ambrosiano e  capolavori antichi» (Milano, 5 novembre – 11 dicembre) manifesta dunque lo sforzo sinergico della Chiesa e del genio  contemporaneo, per dare vita a un’autentica ars liturgica , frutto di una sapiente «cospirazione» fra la ricerca di nuove  espressività, la preservazione della coerenza simbolica, l’alleanza culturale tra la fede cristiana, la creatività e l’abilità  tecnica dell’operare umano, e la fedeltà alla tradizione della Chiesa. Sì, la liturgia ha bisogno di questa diaconia della  bellezza: bellezza della materia, bellezza dell’arte umana, bellezza ordinata alla carità, bellezza che sa narrare la bellezza  ella presenza e dell’azione del Signore vivente. Si tratta indubbiamente di una bellezza che esige un cammino  di discernimento, un cammino ascetico mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni  bellezza, la quale sempre  rimanda a Dio, lui che è l’«autore della bellezza». Solo così la bellezza dei simboli e dell’arte nella liturgia potrà essere rivelativa di Dio, della sua azione, del suo amore fedele per questa creazione e per l’umanità  intera.
Davvero negli ultimi trent’anni di ministero pastorale a Milano sono state «scritte» pagine esemplari di primato della  parola di Dio e di carità operosa verso gli ultimi: ora sono simbolicamente raccolte e offerte a tutti attraverso un’opera  d’arte che non esiteremmo a definire l’«Evangeliario della carità».

in “La Stampa” del 3 novembre 2011

 

 

Altri contributi

 

“Il cardinale Tettamanzi ha voluto offrire alla sua Chiesa un singolare dono di bellezza: un evangeliario artistico… Tutt’altro che accidentale è il rapporto fra fede e bellezza… Non a caso né per incidente di percorso il “logos” della fede si apre all'”hymnos”, la riflessione alla preghiera, l’esperienza di Dio nell’invocazione e nella carità alle forme dell’arte, in cui risplende l’umile bellezza dell’Altissimo”
“«L’arte presenta [rende presente] la bellezza, lo splendore, la gloria, la maestà, il plus che è nelle cose e che si ritira quando dite che la luna è solo terra e le nuvole sono solo acqua». Queste parole di padre Bernard Lonergan identificano con chiarezza l’esperienza dell’incontro con l’opera d’arte.” Promosso dal predecessore Tettamanzi, il libro sposa il Vangelo alle immagini di Mimmo Paladino, Nicola De Maria, Ettore Spalletti, Giovanni Chiaramonte, Nicola
Villa e Nicola Samorì.
“Il dono di un nuovo Evangeliario alla Diocesi di Milano è il gesto con il quale intendo lasciare un segno preciso e forte: la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa e dei cristiani… Desiderandolo come segno importante per la cultura e la spiritualità del nostro tempo, ho voluto che si esprimesse nella lingua delle donne e degli uomini di oggi… l’Evangeliario è stato per me un percorrere i sentieri della bellezza, attraverso la ricerca degli autori tradotta in forme e colori”
Tra “fede e arte, è necessario ora andare oltre i sospetti e ritornare a incontrarsi. La chiesa milanese presenta in questi giorni un nuovo Evangeliario Ambrosiano: “arte e fede “apparentemente non servono a nulla, tranne che a insegnare il senso della vita””