L’ICI e la Chiesa: il dibattito

Partiti, circoli e sindacati
Ecco dove l’Ici non si paga

Pochi lo sanno, ma numerosi soggetti senza scopo di lucro, laici e no, sono esonerati dalla imposta sugli immobili. Dalle birrerie ricreative ai ristoranti culturali. Gli esenti meno noti.

Vi è mai capitato di entrare in un locale dove si ascolta musica, si mangia e si beve birra allegramente seduti ai tavoli, si balla anche, ma prima di entrare vi hanno fatto pagare una piccola quota associativa con tanto di tesserina? Bene, quel locale, noto circolo di una nota associazione ricreativa, non paga l’Ici. Perché la legge la considera un’attività meritoria. E poco importa se fa concorrenza ai locali vicini, dato le attività ricreative sono beneficiate dalla legge istitutiva dell’Ici. Anche il bar dello storico circolo “culturale” vicino a casa, pur dispensando caffè e cappuccini a prezzi competitivi, non sa che cosa sia l’Ici. Per non parlare delle Case del Popolo, così popolari che giustamente, quando la sede è loro, l’Ici manco la devono nominare.
La lista di chi in Italia può fare a meno di versare l’ormai ex Imposta comunale sugli immobili – già, abituiamoci a chiamarla Imu – è molto lunga. E, sorpresa, non prevede solo realtà che possono essere ricondotte alla Chiesa cattolica. Anzi. Il problema è che a dirlo, oggigiorno, si rischia di essere presi per marziani. Eppure è così. Per fare un esempio, gli immobili di proprietà dei sindacati hanno l’esenzione Ici. E non conta se magari tutelano solo i loro iscritti, o se si impegnano per bloccare le riforme di cui un Paese avrebbe bisogno. La loro funzione sociale è, giustamente, riconosciuta dalla legge. Così pure i partiti politici, sì anche loro, non devono pagare l’Ici negli immobili di proprietà. Che siano di destra, di sinistra, o di centro; che siano tolleranti e aperti nei confronti delle altre culture e religioni, o che siano intolleranti esclusivamente verso la religione cattolica.

La norma è abbastanza chiara, aperta a quei soggetti che a loro modo contribuiscono a costruire benessere sociale, eppure le campagne sollevate da alcuni schieramenti hanno fatto il loro lavoro. E stanno diffondendo l’idea che l’esenzione sia un privilegio concesso solo alla Chiesa cattolica in quanto tale, mentre di Chiesa cattolica la legge non parla mai. Parla, al limite, di «fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto, e le loro pertinenze». Dunque la cosa vale anche per valdesi, comunità ebraiche, chiesa evangelica luterana… (cioè le confessioni che hanno stipulato intese con lo Stato).

E non finisce qui. Sono esenti dall’Ici tutti i fabbricati di proprietà degli Stati esteri, come quelli della sciovinista Francia, della dura e forte Germania o della ligia e austera Svizzera, e con loro ovviamente, essendo uno Stato estero (la norma è regolata dal Concordato) anche quelli della Santa Sede. Esenti, per forza di cose, pure i fabbricati di regioni, province, comuni, comunità montane, unità sanitarie locali, camere di commercio.

La sostanza, però, viene dopo. Quando si passa alle realtà non profit, cioè agli enti che non hanno per oggetto esclusivo l’esercizio di attività commerciali. Si tratta di un universo molto vasto in Italia, che comprende tante realtà di ispirazione cattolica e tante di matrice laica. Soggetti che il legislatore ha ritenuto di sostenere per l’apporto che danno alla società, ma solo quando gli immobili non sono “sul mercato” e quando vi si svolgono attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive. Insomma, l’Ici non la pagano – a prescindere dalla loro vicinanza alla Chiesa cattolica –, le mense per i poveri e i bar associativi dove si servono lambrusco e grappini, le società sportive che fanno giocare i ragazzi, gli ospedali e le strutture sanitarie gestite da enti rigorosamente non profit, gli oratori e i ritrovi dei circoli culturali. Anche quelli dove l’argomento più in voga è la Chiesa che non paga l’Ici.

Massimo Calvi

da Avvenire  del 9/12/ 2011

 

 

Altri contributi


Da Avvenire

 

La presa di posizione del presidente della Cei a margine del convegno di Retinopera a Roma. “Eventuali casi di elusione relativi a singoli enti, se provati – ha ricordato Bagnasco – devono essere accertati e sanzionati con rigore: nessuna copertura è dovuta a chi si sottrae al dovere di contribuire al benessere dei cittadini attraverso il pagamento delle imposte. Le tasse non sono un optional”.

LE STORIE: Arezzo | Cosenza
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Bagnasco: cattolici in politica con sereno anticonformismo

Bagnasco: l’Ici? Legge giusta basta confusioneIl presidente della Cei: «Se qualcuno non avesse pagato un tributo dovuto, l’abuso sia accertato e abbia fine».Monti da Bruxelles: nessuna decisione su questa materia.

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LA VERGOGNA DELL’ICI di Marco Tarquinio
ICI, LA VERITÀ È SEMPLICE di Marco Tarquinio
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Dal Corriere della Sera

ECONOMIAIl responsabile per la Cooperazione e l’integrazione a Lucia Annunziata: «Inutile fare una grande battaglia. Si intervenga: se c’è stata malafede si prendano le misure necessarie»

 

Dal Sole 24 ore

 

Da Il fatto Quotidiano

[Manovra, Bagnasco: “Disponibili a discutere su Ici”]

Chiesa graziata sulle rendite catastali Mentre la pressione fiscale vola al 45%

I partiti si dividono sull’Ici al Vaticano. Ma è rivolta sul web (leggi).

Indagine Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza

Scuola, per gli studenti deve preparare di più al lavoro…
…e per i genitori essere più aperta alle proposte degli alunni

 

Secondo gli adolescenti la scuola deve soprattutto prepararli al mondo del lavoro (32,5%), farli maturare (27,8%) e accrescere la loro cultura (26,6%). è quanto emerge dall’Indagine Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Telefono Azzurro ed Eurispes che fornisce una fotografia degli atteggiamenti, delle idee e dei comportamenti dei bambini e degli adolescenti presentata oggi a Roma.

I ragazzi vorrebbero più spazio per sport (16,1%), attività pratiche (15,6%), studio dell’informatica e delle nuove tecnologie (13%) e lingue straniere (12,5%). Allo stesso tempo vorrebbero anche sentirsi più partecipi della vita scolastica e avere più opportunità di indicare su quali temi desiderano soffermarsi (11,1%). Il 7,8% vorrebbe più spazio per la musica, il 4,7% che si facesse una maggiore attività di prevenzione su temi quali bullismo e droghe, il 4,4% che fosse inserita nei programmi anche l’eduzione sessuale e il 3,6% vorrebbe meno nozionismo. Infine il 10,5% degli studenti non cambierebbe nulla: la scuola va bene così com’è.

Ma quasi un terzo degli adolescenti (29,3%) ha dichiarato di sentirsi annoiato per la maggior parte del tempo trascorso a scuola, il 7,1% prova agitazione e il 2,6% addirittura infelicità. I sentimenti negativi raccolgono quindi nel complesso quasi il 40% delle indicazioni. Un dato che desta preoccupazione, anche a fronte di un quarto del campione che si è detto interessato (25,8%), a un quinto che si è detto sereno (20,4%) e al 5% che si diverte tra le mura scolastiche.

Gli studenti vorrebbero essere più partecipi della vita scolastica: infatti, l’84,7% chiede una scuola più aperta alle proposte e alle iniziative dei ragazzi e il 66% auspica un coinvolgimento degli studenti stessi nel fare lezione su alcune materie.

A preoccupare è tuttavia soprattutto la valutazione implicitamente data dagli studenti alla classe docente: dovendo immaginare una scuola ideale, il 59,1% dei ragazzi vorrebbe infatti insegnanti più preparati e più aggiornati.

Sul fronte dei genitori, questi vorrebbero una scuola più aperta alle proposte degli alunni e insegnanti più preparati.

L’80% dei genitori in una “scuola ideale” vorrebbe insegnanti più preparati e più aggiornati. Per il 67% del campione sarebbe necessario invece un maggiore impegno nel combattere le discriminazioni e per il 79,1% la scuola ideale dovrebbe mostrarsi più severa con i ragazzi violenti.

Fortissima anche la richiesta, espressa dall’84,5% dei genitori, di avere una scuola più aperta alle proposte e alle iniziative degli alunni. Meno sentite le opzioni di mandare i propri figli in istituti privi o di alunni stranieri (6%) o di simboli religiosi (12,4%).

L’idea dei genitori è che la scuola debba “accrescere la cultura” (28,9%) e “far maturare le persone” (28,8%); il 17,9% si è espresso richiamando la necessità di preparare al mondo del lavoro e il 13,4% a favore della trasmissione di valori.

Se i ragazzi vorrebbero più sport, attività pratiche e informatica, i genitori desiderano prevenzione e lingue straniere. I genitori vorrebbero aumentare nelle scuole le attività di prevenzione rispetto a fenomeni quali il bullismo o le droghe (20,7%) e dare maggiori opportunità ai ragazzi di scegliere i temi su cui soffermarsi (18,5%). Il 17,9% invece vorrebbe nei programmi scolastici più spazio per lo studio delle lingue straniere e il 12,7% maggiore spazio alle attività pratiche.

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tuttoscuola.com

 

 

Indagine Conoscitiva 2011 sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza

Insegnare ai ragazzi, imparare dai ragazzi. È questo il messaggio principale della Dodicesima Indagine Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Telefono Azzurro ed Eurispes che, come ogni anno, fornisce una fotografia degli atteggiamenti, delle idee e dei comportamenti di bambini e adolescenti, individuando le trasformazioni avvenute nell’ultimo anno e cogliendo i più recenti trend della vita dei giovani italiani.
Non solo, dunque, attenzione alta su quello che ai ragazzi si insegna ma anche su quello che dai giovani si può imparare. Novità assoluta dell’Indagine 2011 è la voce dei genitori.
Oltre ai 1.496 ragazzi tra i 12 e i 18 anni, sono stati infatti ascoltati anche 1.266 genitori con l’intento di fornire un quadro il più possibile esaustivo sulla condizione dei più giovani e di indagare luci e ombre del rapporto genitori-figli.
Famiglia, media e nuove tecnologie, tempo libero, scuola, comportamenti a rischio, bullismo e cyberbullismo i grandi temi dell’Indagine.

 

Per scaricare una sintesi della Indagine Conoscitiva

sintesi_indagine_telefono_azzurroeurispes_2011

 

http://www.azzurro.it/index.php?id=225

 

III Domenica di Avvento (Anno A)

III DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 61,1-2.10-11

 

Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore. Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli. Poiché, come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti.

v In questo brano sono congiunti due frammenti del c. 61: la vocazione del profeta e la sua missione (vv. 1-2); un canto di gioia al Signore elevato dal profeta a nome di Sion (vv. 10-11). L’epoca di questa profezia è quella del fervore religioso degli anni dopo l’esilio (538 a. C.) e della ricostruzione del tempio (520 a. C.).

Il profeta riconosce che il protagonista nella sua vita è stato lo spirito del Signore. Il dono dello Spirito, ossia della sua forza creatrice e illuminante, per lui è stato come una «unzione» che lo consacra tutto al Signore.

vv. 1-2. La missione del profeta è specificata da alcuni momenti che sono quelli che caratterizzano l’anno del giubileo, chiamato nel nostro testo: «anno di misericordia». La prima fase del giubileo è l’annuncio di una Buona Notizia ai poveri, a coloro, cioè, che hanno come unica sicurezza non il potere politico ma il Signore. Le altre fasi sono effetto della forza di questa parola. Essa ha il potere di sanare ferite profonde, «i cuori spezzati», nella comunità, che rischia di perdere la propria identità, e inoltre ha la forza di rompere le catene che tengono schiavi dei fratelli: una schiavitù in senso fisico, ma anche quella più profonda causata dalla paura della morte. Altro effetto della parola è la scarcerazione dei prigionieri: la comunità di Israele era tornata dall’esilio, ma correva sempre il pericolo della depressione e di continuare a portare il muro della sua prigione nel cuore.

vv. 10-11. Il profeta s’identifica con Sion, la sposa del Signore, e ne descrive la gioia mediante immagini che richiamano la liturgia nuziale (vesti, manto, diadema, gioielli) e metafore che richiamano la terra feconda (semi, vegetazione, giardino). Il giubileo sarà un anno in cui l’uomo sperimenta l’amore misericordioso del Signore, la sua «giustizia». Quest’esperienza salvifica si esprimerà nella lode davanti a tutti i popoli.

 

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi 5,16-24

Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.  Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male. Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!

 

v Questa è la prima lettera che Paolo scrive. È indirizzata ad una piccola comunità che l’apostolo aveva catechizzato in poco tempo. Ora continua la sua catechesi per scritto.

Qual è l’atteggiamento interiore di una comunità cristiana in mezzo ai pagani? Innanzi tutto la gioia che nasce da un culto ininterrotto. È lo Spirito che dona la forza di trasformare la vita terrena del cristiano in un autentico culto a Dio. La sua preghiera e il suo ringraziamento sono una corrente che fluisce continuamente.

Tutta la vita cristiana è segnata dalla presenza dello Spirito, perciò Paolo esorta: «non spegnete lo Spirito». La comunità non si opponga, per durezza di cuore o per immoralità, ai diversi carismi con cui lo Spirito la favorisce. Sarà una comunità ricca di discernimento: «vagliate ogni cosa».

L’opera di santificazione non è conclusa con il battesimo. Dio deve completare quest’opera già iniziata. È una santificazione sempre insidiata, per questo Dio deve conservarla: «si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo». La fiducia del cristiano non sta nelle proprie forze ma in «colui che vi chiama» continuamente al suo Regno: egli è fedele e condurrà a compimento ciò che ha incominciato.

Vangelo: Giovanni 1,6-8.19-28

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia».  Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».  Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

 

Il Vangelo in immagini

 

 

Esegesi


Il testo mette insieme due parti ben distinte: i vv. 6-8 presi dal prologo e i vv. 19-28 dal primo dei tre giorni in cui Giovanni dà testimonianza a Gesù.

L’evangelista incomincia a parlare di Giovanni Battista, che ha preceduto di poco la missione di Gesù. Nelle discussioni nelle comunità cristiane dopo la pasqua non si era spesso d’accordo sul compito affidato da Dio al Battista. L’evangelista chiarisce che il Battista ha avuto la missione di «dare testimonianza alla luce» (v. 7). Egli non era la «luce». Solo Gesù è la luce, quella vera. Egli aveva il compito di portare alla fede in Gesù.

I vv. 19-34 parlano della testimonianza del Battista dapprima negativa e indiretta (vv. 19-28), poi positiva in riferimento all’identità e alla missione di Gesù. Egli parla ad una delegazione di sacerdoti e di leviti inviata dai Giudei, cioè al gruppo ostile, che non crede a Gesù, e nel v. 24 entrano in scena anche i farisei: si tratta quindi una testimonianza ufficiale.

Il Battista inizia confessando di non essere né il Cristo, né Elia, né il profeta: tre espressioni di attesa messianica (vv. 19-23). Il Cristo è il Messia; Elia era atteso prima del giorno del Signore; il profeta era aspettato come il nuovo Mosè che avrebbe rinnovato i prodigi dell’esodo (cf. Dt 18,15-18). Con una triplice negazione Giovanni Battista esclude chiaramente di essere colui che il popolo attendeva.

Nel v. 23 egli risponde positivamente e applica a se stesso il testo di Is 40,3: «voce di uno che grida nel deserto». Non era lui la Parola, ma solo una «voce», che doveva gridare per preparare la via al Signore che viene.

I farisei allora gli fanno una domanda sulla sua attività di battezzatore. Il Battista declassa il suo battesimo: «Io battezzo nell’acqua» (v. 26). Egli si sente solo un precursore di uno che è già presente, e che è più importante, ma che i farisei non conoscono.

Il brano si conclude ricordando il luogo della testimonianza di Giovanni: «Betania, al di là del Giordano» (v. 28).

 

Meditazione


Nella liturgia della Parola di questa III domenica di Avvento, un posto particolare è riservato ancora alla testimonianza del Precursore, colui che è chiamato a dare testimonianza alla luce vera che illumina ogni uomo, il Cristo, «perché tutti credano per mezzo di lui» (cfr. Gv 1,7). Ma l’approssimarsi della venuta del Signore offre, a questa domenica di Avvento, una coloritura particolare: la gioia, tema tradizionale nella maggior parte delle antiche liturgie occidentali. Una orazione dell’antica liturgia mozarabica per questa domenica così invita a pregare: «Signore Gesù, che porti la pace in mezzo al turbamento… fa che sempre, in composta serenità, attendiamo la tua venuta, o vigilante Amico, o Protettore, o unico Elargitore della pace». E l’invito alla gioia risuona nel testo di Isaia, come risposta al lieto annuncio di liberazione: «Io gioisco pienamente nel Signore… perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza» (Is 61, 0). Ma anche l’apostolo Paolo, nel testo proposto come seconda lettura, esortando a mantenersi «irreprensibili per la venuta del Signore», invita i credenti a «stare sempre lieti… in ogni cosa rendendo grazie» (1Ts 5,16).

L’autore del quarto vangelo invece ci introduce alla testimonianza del Precursore. Dopo aver richiamato alcuni versetti del prologo, il testo della liturgia inizia con Gv 1,19: «Questa è la testimonianza di Giovanni…». Tutta l’attenzione dell’evangelista è dunque concentrata sul testimone e sulla qualità della sua testimonianza. Ma sorprendente è il modo con cui viene presentata questa testimonianza. Veramente nel quarto vangelo al Battista si addice il testo di Isaia: essere voce di un annuncio che orienta e attrae verso quella Parola di cui il testimone afferma la presenza in mezzo agli uomini e di cui attesta la verità. La domanda posta a Giovanni riguarda la sua identità: «Tu chi sei?… Sei tu il profeta?… Che cosa dici di te stesso?» (cfr. 1,19-22). Ma Giovanni non è il testimone di se stesso. E d’altra parte, paradossalmente, il Battista afferma la sua identità attraverso una negazione, quasi scomparendo per lasciare lo spazio a Colui sul quale deve essere concentrata la ricerca dell’uomo (Gesù domanderà ai due discepoli di Giovanni che lo seguivano: «Chi cercate?»: Gv 1,38). Il Precursore, in qualche modo, ritiene solo curiosità una domanda che riguarda la sua identità. La vera domanda è altrove: chi è Gesù? Solo se si inizia un cammino a partire da questa domanda, che ciascuno deve porsi nella verità, si può giungere alla stessa esperienza del Battista e cioè conoscere Gesù per testimoniarlo. Ed è per questo che il quarto vangelo concentra la nostra attenzione sul verbo testimoniare e attorno a esso fa ruotare tutta la figura di Giovanni.

In Gv 1 ci vengono offerti molti elementi che caratterizzano la testimonianza del Battista. Ne evidenziamo solo alcuni. Anzitutto, come abbiamo già sottolineato, Giovanni è pienamente consapevole che la sua intera vita, e dunque la sua testimonianza, sono totalmente in relazione al Cristo. Di fronte a coloro che lo interrogavano sulla sua identità, Giovanni insiste nel dire chi non è. La sua risposta appare come uno sfondo scuro che crea un contrasto e permette alla luce di manifestarsi: egli è solo «una lampada che arde e risplende» (Gv 5,35), non la luce; è «l’amico dello sposo» (3,29), non lo sposo; è il testimone della verità, non la Verità; è la voce, non la Parola. Certamente una vita che sembra fondarsi su di una negazione ci lascia attoniti; ma è una negazione (una kenosis) necessaria per fare spazio a Gesù. In questa paradossale perdita di identità, Giovanni ritrova se stesso ed è per questo che la sua gioia è piena.

Il Battista esprime, inoltre, la sua relazione con Gesù con un stupenda immagine la quale, nello stesso tempo, rivela un tratto del volto di Cristo, caro al quarto vangelo. Giovanni dice: «A Lui, io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (1,27). Questo gesto simbolico era previsto nella cosiddetta legge del levirato (Dt 25,5-10) e avveniva quando un uomo rinunciava al diritto di riscatto verso la propria cognata, rimasta vedova, per dare una discendenza al fratello morto. Giovanni è consapevole di non poter pretendere di togliere il diritto di matrimonio al legittimo sposo, cioè al Messia, sottomettendolo al rito previsto dalla legge. Ma il gesto simbolico di cui il Precursore non si sente degno è ugualmente il gesto umile dello schiavo. E Giovanni sente di non poter neppure assumersi questo ruolo, perché solo Gesù è il servo del Signore, in quanto è la realizzazione di quel misterioso servo che si è addossato le nostre colpe e che come agnello muto, condotto al macello, pazientemente soffre (cfr. Is 53,7). Ecco perché il Battista indicherà Gesù come l’agnello di Dio (cfr. Gv 1,36). Gesù è lo Sposo; Gesù è il Servo. Due immagini che ritorneranno, nel quarto vangelo, al capitolo 19, nella scena della crocifissione. Giovanni il testimone aveva già visto da lontano il volto pasquale di Cristo e nella oscurità l’aveva testimoniato. Ora alla fine, ai piedi della croce, c’è un altro testimone, il discepolo amato, che vede e che rende testimonianza affinché noi crediamo (19,35). E il discepolo amato è colui che rimane, con la sua testimonianza, finché il Signore Gesù ritorna. In questo discepolo trova spazio la testimonianza della Chiesa, lungo la storia, la nostra personale testimonianza. Tuttavia è il Battista a indicarci, ancora oggi, lo stile di questa testimonianza attraverso una vita che si definisce a partire da Cristo e attraverso una testimonianza che non è preoccupata di se stessa. Il testimone autentico è colui che vive riconoscendo e vedendo Colui che sta in mezzo a noi, e per questo la sua testimonianza orienta. La vita di Giovanni è stata veramente nascosta come quella del seme caduto in terra. Ma il frutto di una testimonianza umile e nascosta resta sempre la gioia; colui che ha seminato, si vede ammesso alla gioia del mietitore. Ancora nel ventre della madre, Giovanni sussultò di gioia (cfr. Lc 1,44). Alla fine della sua vita il testimone potrà dire: «L’amico dello sposo… esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,29-30).

 

 

Preghiere e racconti


Il Vangelo della gioia

«Il Signore è fedele per sempre

rende giustizia agli oppressi,

da il pane agli affamati.

Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,

il Signore rialza chi è caduto,

il Signore ama i giusti,

il Signore protegge lo straniero».

(Sal 145)

 

C’è una splendida invocazione con la quale chiediamo al Padre di poter accogliere, riconoscenti, il Vangelo della gioia.

Viene così indicato il tema che, con modulazioni diverse, percorre con tale insistenza i testi biblici da indurre ad enumerare i termini che appartengono alla famiglia di «santa letizia», e che risuonano continui nella liturgia.

«Rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4.5). Se l’invito alla gioia oggi è perentorio come non mai, non meno chiare sono le indicazioni che ci vengono offerte affinché si possa accogliere fruttuosamente il Vangelo della gioia.

Rischiando forse la semplificazione, potremmo individuare le condizioni di fondo, per esserne destinatari sicuri, in questi tre atteggiamenti: umiltà, fedeltà, utopia. Se poi le categorie astratte ci risultano difficili, possiamo dire che la gioia del Natale viene accordata agli umili, agli uomini fedeli e ai sognatori.

 

Umiltà

Qualche finezza etimologica non guasta. E allora è utile capire che la parola letizia ha la stessa radice di letame.

II verbo latino laetare, infatti, significa fecondare, concimare, rendere fertile. Letame è, appunto, lo strame che rende ubertosa la terra. E letizia è quel sentimento di ricchezza interiore che deriva dal rigoglio spirituale. Così come lieto è un aggettivo il cui significato originario è fecondo, cioè fertile, rigoglioso.

Sembra fuori posto osservare che certi messaggi del cielo si insinuano perfino nelle radici delle parole?

E appare davvero esibizione di bravura far notare che, se nei versetti dei salmi si dice «ascoltino gli umili e si rallegrino», l’abbinamento tra umiltà (espressa dal letame) e letizia non è proprio puramente casuale?

E può definirsi esercitazione sterile quella che sottolinea le tante connessioni tra i poveri e il lieto annunzio che viene ad essi portato?

E può essere giudicato fuori tema il riferimento a Maria, protagonista silenziosa, la quale ha dato la spiegazione di tanta esultanza in Dio suo salvatore proprio nell’umiltà della sua serva? (Lc 1, 47.48).

Ed è indugio sui versanti del moralismo facile il richiamo alla necessità di fare il vuoto dentro di sé, per farsi ricolmare di beni dal Signore?

Del resto tutta quella turba di indigenti che affollano i testi biblici e che sono soccorsi da Dio e che gioiscono per liberazioni raggiunte, non ci dice forse che l’umiltà è la condizione indispensabile perché le speranze di salvezza si tramutino in realtà?

 

Fedeltà

La gioia cristiana deriva da due fontane. La prima è la certezza che Dio è fedele e non viene meno alle sue promesse. Se egli ha assicurato il suo aiuto, si può star certi che non si tira più indietro. Il nostro, insomma, è un Dio di parola. «Il Signore è fedele per sempre»: è il grande attacco del salmo 145 il quale prosegue enumerando emblematicamente le categorie degli umili che confidano in Dio e che non resteranno delusi: dagli oppressi agli orfani, dagli affamati alle vedove, dai carcerati agli stranieri.

«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete, ecco il vostro Dio: giunge la ricompensa divina”».

È il profeta Isaia (35, 3) che esorta i poveri, soprattutto nei momenti dello sconforto, a fare assegnamento sulla fedeltà del Signore. La gioia non tarderà ad irrompere.

La seconda fontana di gioia è la fedeltà che noi dobbiamo conservare nei confronti del Signore, fino a quando egli tornerà: «Siate pazienti fino alla venuta del Signore».

Una pazienza che significa perseveranza, fiducia incrollabile e perdurante, capacità di superare la prova, attitudine alla tenacia anche nelle avversità, forza che non si affievolisce, tempra non scalfibile nel tempo.

A questo punto, non è male riflettere se alle radici di tante nostre tristezze non ci siano forse dei processi patologici di infedeltà, nonostante le mille professioni di fede, e se, di fronte a un Dio di parola, non dovremmo rivedere seriamente certe nostre strutture comportamentali, connotate dal tradimento cronico e dalla slealtà sistematica.

 

Utopia

«Fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35, 10). È la più osata battuta di Isaia. La più incredibile.

Messa al termine di una pagina intrisa di sogni, vibra al limite dell’allucinazione: steppe che fioriscono come narcisi, deserti che risuonano di canzoni, zoppi che saltano come cervi, muti che esplodono negli urli della gioia.

Ma si tratta di intemperanze dovute a un particolare genere letterario, e che, quindi, vanno prosciugate di un abbondante tasso di assurdo perché diventino più assimilabili alle nostre logiche terra terra?

O sono, invece, i primi segnali di quel mondo altro, il più vero, il cui avvento, nonostante i nostri sospiri liturgici, facciamo ancora fatica ad affrettare perché, omologati ai canoni del più gelido realismo, non percepiamo quanto sia umbratile la cosiddetta concretezza delle nostre esperienze?

O sono il banco di prova del nostro gioioso abbandono alla Parola, superato felicemente il quale, Gesù ci giudicherà destinatari di quella beatitudine che è risuonata nel Vangelo: «Beato colui che non si scandalizza di me»?

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 67-72)

 

Questa è la mia gioia

Questa è la mia gioia: attendere e guardare

il bordo della strada, dove l’ombra

insegue la luce, e la pioggia cade

nella vigilia dell’estate.

 

Messaggeri mi portano novelle

di cieli sconosciuti,

mi salutano

e s’affrettano lungo la via.

Il mio cuore è lieto, e soave

è il respiro della brezza che passa.

 

Dall’alba all’imbrunire

siedo qui davanti alla mia porta,

e so che all’improvviso arriverà

il momento in cui potrò vedere.

 

E intanto sorrido

e tutto solo canto.

E intanto l’aria si riempie

del profumo della promessa.

 

(R. TAGORE, Poesie. Gitanjali, Roma, Newton, 1988, 83.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

Riprende il dibattito sul fine vita (Dossier)

 

Rinunciare alla vita: cedimento o solidarietà?
di Bruno Forte
in “Il sole 24 Ore” del 4 dicembre 2011

Non è facile la riflessione che sto per proporre. Non lo è anzitutto perché davanti al mistero della morte, di qualunque  morte, ciò che più si addice è il silenzio. E non lo è perché qualunque parola si dica di fronte a questa morte comunque  inquietante – il “suicidio assistito” di Lucio Magri, un uomo pubblico, che ha vissuto con passione la storia dell’Italia  repubblicana -, si rischia di essere pregiudizialmente giudicati, quasi che la lettura di quel gesto comporti  inevitabilmente una presa di posizione ideologica, una sorta di sentenza scontata a seconda di chi intervenga.
Ecco perché ritengo giusto affermare che quanto cercherò di esprimere è parola “seconda”, che segue al silenzio  prolungato della riflessione e della preghiera, cui il mio cuore di credente si è immediatamente aperto di fronte alla  notizia, e volutamente rifugge da ogni giudizio sul sacrario della coscienza, in cui solo ciascuno può tentare di entrare  per sé, e dove, per chi ha fede, entra unicamente il giudizio dell’amore giusto e misericordioso di Dio.
Lucio Magri, dunque, giovane democristiano negli anni 50, passato poi attraverso le diverse avventure della sinistra  italiana, fondatore con altri de Il Manifesto e protagonista di non poche battaglie politiche su posizioni di critica spesso  adicale nei confronti dei “vincenti” di turno, ha comprato un biglietto di sola andata per la Svizzera, dove, in un  centro a ciò predisposto, in base alle leggi di quel Paese, si è fatto accompagnare fino all’atto estremo del suicidio, per  cui tutto era stato accuratamente predisposto. Gli amici, che nulla avevano potuto di fronte alla depressione che aveva  invaso quel cuore, specialmente dopo la morte della persona amata, sono stati puntualmente informati una  volta compiutosi l’atto estremo, senza ritorno.
Una scelta disperata? Una rinuncia finale a ogni possibile conforto, a ogni sia pur lieve barlume di speranza? O – come qualcuno ha dichiarato – una scelta da rispettare e basta, senza tener conto della possibile ricaduta che inevitabilmente  una simile azione, specialmente in quanto compiuta da un uomo pubblico, ha potuto o potrà avere su  altri? A rispondere a questi interrogativi può forse aiutare  la vicenda stessa di Magri. Siamo nell’Italia della metà degli  anni Cinquanta e il dibattito interno al partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, si va facendo  incandescente.
Fra i giovani militanti di quella forza politica si forma una consistente minoranza di sinistra, che riconosce i suoi  leaders proprio in Lucio Magri e altri. Furono questi a dar voce alla loro insoddisfazione di fronte a quello che  ritenevano l’immobilismo sociale e politico dei capi, dando vita al mensile “Il ribelle e il conformista”. Il nome del  periodico intendeva ricordare da una parte il foglio “Il ribelle” del partigiano cattolico bresciano, ucciso dai tedeschi,  Teresio Olivelli, e dall’altra il romanzo da poco pubblicato di Alberto Moravia “Il conformista”: una sorta di sì gridato al coraggio di chi lotta e dà la vita per la causa, e di no a chi rinuncia a lottare e si arrende alla logica dominante.
L’editoriale del primo numero, uscito nel gennaio 1955, faceva comprendere il perché di quel titolo: ispirandosi a  precise «scelte culturali» e ad «atteggiamenti morali», in specie all’«eredità della resistenza e della tradizione  dossettiana», il periodico si proponeva come voce e strumento di «un’esigenza strategicamente rivoluzionaria», al cui  servizio intendeva elaborare un discorso «rigorosamente politico», tale da giudicare «le forze e la situazione» e  individuare «una meta strategica, che definisse i successivi momenti tattici». Compito del mensile voleva essere  insomma quello di compiere una «rottura, il lancio delle ipotesi, l’inizio di un dibattito, in una parola, la battaglia delle  idee». L’appello era rivolto a tutte le forze giovanili italiane e trasudava – anche nel linguaggio fra l’ispirato e il  visionario – di un atteggiamento fondamentale di speranza, di reazione alla stasi, di nuovo inizio in nome di una  migliore città futura, accogliente e giusta per tutti.
Sono passati più di cinquant’anni da quel grido di riscossa giovanile. Ora Lucio Magri non può più far sentire la sua  voce, come peraltro da tempo mi pare avesse scelto di fare. Se n’è andato volontariamente a cercare la morte in un  Paese straniero, paradossalmente proprio quello che la militanza rivoluzionaria di alcuni anni fa avrebbe definito senza  scusanti un Paese “borghese”. Il suo ultimo respiro lo ha emesso nell’ambiente ovattato di una clinica deputata  ad assistere la volontà di farla finita di alcuni (si calcola un paio di centinaia di persone all’anno), una sorta di tempio  della morte desiderata e accompagnata per chi ha decisione e mezzi per farlo. A quanti credono che la vita è dono e che  solo al Dio donatore spetta di porle fine, la scelta appare evidentemente  inaccettabile, contraria alla vocazione  più profonda impressa nel cuore umano dal suo Creatore. Al di là di ogni giudizio morale, però, non mi sembra  impropria la domanda se questa sia stata una morte da “ribelle” o da “conformista”.
Di fronte alla deriva rinunciataria e al riflusso nel privato di molta cultura post-ideologica o – come si ama dire – “post- moderna”, l’impressione è di trovarsi dinanzi più a un cedimento che a una ribellione. Senza minimamente giudicare il  cuore, oggettivamente ritengo quest’atto tutt’altro che una riscossa anticonformista. Ciò di cui c’è bisogno, in tutti, e  specialmente in chi è più provato dall’attuale crisi economica e sociale, è un atto di coraggio, uno sforzo collettivo  perché nessuno cada nel baratro: insomma, una “ribellione”, non nel segno della violenza o dell’ideologia rivelatasi asfissiante e totalitaria, ma in quello della solidarietà, del l’amore umile e concreto, di quei piccoli (e grandi) segni di  speranza, di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, amare e dare agli altri,
specialmente ai giovani, ragioni di vita e di speranza. Riflettere su questa morte potrà aiutarci, forse, ad amare di più la  vita e a volerla migliore per tutti.

 

 

Il momento della pietas
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 1° dicembre 2011

Di fronte a un gesto estremo come quello di Lucio Magri è naturale che negli animi si accendano le passioni. E che da  queste sorgano giudizi di approvazione o disapprovazione a seconda delle provenienze culturali. Ogni coscienza  responsabile sa però che la complessa situazione del nostro mondo non ha certo bisogno di “kamikaze del pensiero” che  ripetono aprioristicamente convinzioni vecchie di secoli.
Ha bisogno piuttosto di analisi pacate e di conoscenza oggettiva perché l’etica non divenga un motivo in più di   divisione, ma realizzi la sua vera missione di far vivere in armonia gli esseri umani.
E in questa prospettiva si impone alla mente una prima inderogabile condizione: rispetto.
Aggiungo che se c’è una situazione in cui hanno senso le parole di Gesù «non giudicare» (Matteo 7,1), è proprio quella  nella quale un essere umano sceglie di porre fine alla sua vita. Sostengo in altri termini che, di contro a una tradizione  secolare che non ha esitato a condannare nel modo più crudo i suicidi, oggi il compito della teologia e della fede  responsabile è di sospendere il giudizio,
offrire dati, produrre analisi, al fine di generare pietas.
La riflessione umana presenta un dato sorprendente: mentre tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, sia  religiose sia filosofiche, condannano senza mezzi termini l’omicidio, per il suicidio le cose non sono altrettanto chiare.  Nelle religioni rimangono di gran lunga prevalenti le posizioni di condanna, com’è il caso di ebraismo, cristianesimo,  slam, e poi di induismo, buddhismo, confucianesimo. Il medesimo orientamento di condanna è maggioritario in  filosofia, come mostrano Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Heidegger. Tra i filosofi però si danno anche punti di vista  che giungono a non condannare, talora anzi a valutare positivamente, il suicidio: così gli epicurei, gli stoici, Montaigne,  Nietzsche, Jaspers. Ma l’aspetto veramente sorprendente, soprattutto per un cristiano, è il fatto che la  Bibbia non condanni mai, in nessun luogo, il suicidio. L’hanno osservato nel ‘900 i maggiori teologi contemporanei, tra  cui Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Hans Küng. «Il suicidio non viene mai esplicitamente vietato nella Bibbia», scrive  Barth, aggiungendo che si tratta di «un fatto veramente seccante per tutti quelli che volessero comprenderla e  servirsene in senso morale!».
Sono una decina i suicidi narrati dalla Bibbia e per nessuno vi è una condanna. Anzi un suicida, per l’esattezza Sansone,  viene perfino ricordato dal Nuovo Testamento tra i padri della fede. Non deve stupire quindi che nella Bibbia si  ritrovino parole come queste: «Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica»  (Siracide 30,17). Nel libro di Giobbe si legge di uomini che «aspettano la morte», «che la cercano più di un tesoro»,  «che gioiscono quando la trovano» (Giobbe 3,21-22), e non per condannare questi uomini, perché chi viene  condannato è piuttosto chi sostiene con arroganza e intransigenza la prospettiva contraria come i cosiddetti amici di Giobbe cioè i dogmatici Elifaz, Bildad, Zofar, Elihu.
Certo, tutti sanno che dalla Bibbia emerge soprattutto il messaggio della sensatezza e della sacralità della vita, quello  secondo cui la nostra vita è «nelle mani di Dio» (Salmo 16,5), in Dio è «la sorgente della vita» (Salmo 36,10) ed esiste  quindi una sorta di rifugio imprendibile dentro cui la nostra energia spirituale più preziosa, detta tradizionalmente  anima, non corre pericolo: «Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere  l’anima» (Matteo 10,28).
Alla luce di questi dati emerge che il compito dei cristiani oggi non è di emettere condanne qualificando negativamente  e sofferte scelte di chi si suicida. È piuttosto di vivere la fede nella dimensione spirituale dentro cui  l’anima vive al sicuro, anche quando il corpo tradisce. È da questa prospettiva spirituale che io giungo a valutare  negativamente il suicidio, e a lottare perché la fiducia verso la vita non venga mai meno, ma si possa assaporare ogni  istante l’energia vitale che ci è stata data (se da un Dio personale o dall’impersonalità del processo cosmico, a questo  riguardo è una questione secondaria).
Concludendo l’articolo sul compagno di tante battaglie, ieri Valentino Parlato scriveva della necessità di «affrontare  l’attuale, e storica, crisi della sinistra, per ridare alle donne e agli uomini la speranza di un cambiamento, di una uscita  dall’attuale stato di mortificazione degli esseri umani».
Ottimo obiettivo, ma per raggiungerlo io non conosco modo migliore di ospitare fino all’ultimo dentro di sé un  sentimento di gratitudine verso la vita in tutte le sue manifestazioni, quel medesimo sentimento che ha portato Violeta  Parra a comporre e a cantare la sua bellissima canzone Gracias a la vida.

 

 

Liberi di vivere e morire
di Paolo Flores D’Arcais
iin “il Fatto Quotidiano” del 2 dicembre 20112

Se la tua vita non appartiene a te, amico lettore, ne sarà padrone un altro essere umano, finito e fallibile non meno di  te. Ti sembra accettabile? Su questa terra infatti si agitano e scontrano solo e sempre volontà umane, una volontà  anonima e superiore che si imponga a tutti, oggettivamente o intersoggettivamente, è introvabile. Chi ciancia della  volontà di Dio è blasfemo (come può pensare di conoscere ciò che è incommensurabile con la piccolezza umana?). In  realtà attribuisce a Dio la propria volontà, lucrando sulla circostanza che nessun Dio potrà querelarlo per  diffamazione. Il Dio cattolico di Küng considera lecita l’eutanasia, il Dio altrettanto cattolico di Ratzinger l’equipara all’omicidio. Perché in realtà si tratta dell’opinione di Küng e dell’opinione di Ratzinger, umanissime entrambe e non  più autorevoli della tua. Perciò, rispetto alla tua vita, o il padrone sei tu o il padrone è un altro “homo sapiens”, eguale  a te in dignità (così Kant, e ogni democrazia anche minima), vescovo, primario ospedaliero, pater familias o altra  “autorità” che sia. Ma poiché siamo tutti eguali, deve anche valere il reciproco: se il padrone della tua vita può essere  qualcun altro, tu potrai a tua volta decidere della sua vita contro la sua volontà. Se c’è davvero qualcuno che accetterebbe si faccia avanti. Ma non ce n’è nessuno. Nella realtà esistono solo “homo sapiens” finiti, fallibili e   peccatori come te e come me, amico lettore, che pretendono di imporre alle altrui vite la loro personale volontà, ma mai accetterebbero di essere soggetti ad analoga mostruosa prevaricazione.

PERCIÒ, senza perifrasi: il suicidio assistito è un diritto? Sì. Fa tutt’uno col diritto alla vita e alla libertà, inscindibili. La  “Vita” che qualcuno vuole “sacra” è infatti la vita umana, non il “bios” in generale (ogni volta che prendiamo un  antibiotico, come dice la parola, facciamo strage di “vita”), e la vita umana è tale perché singolare e irripetibile, cioè  assolutamente MIA. Se non più mia, ma a disposizione di volontà altrui, è già degradata a cosa: “Instrumentum  vocale”, dicevano giustamente gli antichi.

Per Lucio Magri la vita era ormai solo tortura. Per Mario Monicelli la vita era ormai solo tortura. Per porvi fine, Lucio Magri ha dovuto andare in esilio e Mario Monicelli gettarsi dal quinto piano.
La legge italiana vieta infatti una fine che non aggiunga dolore al dolore già insopportabile: su chi ti aiuta incombe una  condanna fino a 12 anni di carcere. E per “assistenza” al suicidio si intende anche quella semplicemente morale! Due  casi raccapriccianti di anni recenti: un coniuge accompagna l’altro nell’ultimo viaggio (solo questo: la vicinanza) e  deve patteggiare una pena di oltre due anni, altrimenti la sentenza sarebbe stata assai più pesante. Una signora di 54  anni, affetta da paralisi progressiva, decide di andare da sola in Svizzera, proprio per non coinvolgere la figlia.
Che tuttavia le prenota il taxi per disabili che la porterà oltre frontiera. È bastato per l’incriminazione: ha dovuto patteggiare un anno e mezzo di carcere.

MA QUANDO si vuole porre fine alla tortura che ormai ha saturato la propria esistenza, si ha sempre bisogno di  assistenza: il pentobarbital sodium non si trova dal droghiere, solo un medico lo può procurare. L’alternativa è  appunto l’esilio o lo strazio estremo dell’angoscia aggiuntiva: gettarsi sotto un treno o nel vuoto o nella morte per  acqua. Le anime “virili” che si sono concessi perfino l’ironia (“se uno vuol farla finita ha mille modi, senza piagnistei di  ‘aiuto’”: i blog ne sono pieni), hanno davvero oltrepassato la soglia del vomitevole.

Altre obiezioni grondano comunque ipocrisia o illogicità. “Se vedi uno che si sta impiccando che fai, rispetti la sua  libertà o intanto lo salvi?”. Ovvio che lo salvo, poiché potrebbe essere un momento di sconforto. Ma i casi di cui  parliamo sono sempre e solo riferiti a scelte lungamente maturate, ponderate, ribadite. Lucidamente e  incrollabilmente definitive (a maggior ragione se chi vuole morire subito è un malato terminale comunque condannato   morte). Da rispettare, dunque, se a una persona si vuole bene davvero: anche se la fine della sua tortura ci procura il dolore della sua assenza per sempre.

ALTRETTANTO pretestuosa l’accusa che il medico verrebbe costretto a praticare l’eutanasia a chiunque la chieda.  Nessuno ha mai avanzato questa richiesta, ma solo il diritto – per il medico che questo aiuto vuole dare – di non  rischiare il carcere come un criminale. Spiace perciò particolarmente che Ignazio Marino, clinico e cittadino dai molti  meriti, abbia dichiarato: “Non dividiamoci tra ‘pro vita’ e ‘pro morte’, il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla  fragilità umana”.
A parte la scurrilità del “tifo da stadio”: essere “pro choice” non è essere “pro morte” ma per la libertà di ciascuno di  decidere liberamente, mentre troppi “pro vita” sono semplicemente “pro tortura”, poiché pretendono di imporla a chi  invece la vive come peggiore della morte. Tu hai tutto il diritto di dire che mai e poi mai ricorrerai al suicidio assistito,  che la sola idea ti fa orrore. Ma che diritto hai di imporre questo rifiuto a me, cui fa più orrore la tortura, visto che  siamo cittadini eguali in dignità e libertà?

 

 

Il cardinal Martini e la morte
di Armando Massarenti
in “Il Sole 24 Ore” del 4 dicembre 2011

Nell’introduzione al recente «Meridiano» dedicato a Carlo Maria Martini, Marco Garzonio ricorda la copertina che il cardinale scrisse per la Domenica del Sole 24 Ore il 21 gennaio 2007, «Io, Welby e la morte». «A un mese di distanza  dalla morte di Piergiorgio Welby, l’uomo malato di Sla cui la Chiesa non aveva concesso i funerali religiosi» ricorda  Garzonio, Martini scriveva: «Con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, costituite  negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore automatico». Il cardinale ai tempi era già affetto dal  Parkinson, ed era consapevole degli effetti progressivamente invalidanti della malattia. «Si può allora immaginare – scrive Garzonio – quanto le sue argomentazioni fossero arricchite dalla sofferenza provata sulla propria pelle oltreché  dalle ragioni della teologia, del diritto e della morale». Si incentravano in particolare sulla nozione di “accanimento  terapeutico”: «Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi  matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le  condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la  volonta del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di  valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate».  Ecco, il punto è tutto in quel «non può essere trascurata la volontà del malato». Ancor più laicamente io direi che la  volontà del malato è decisiva. Ma la cauta espressione del cardinal Martini, presa sul serio, sarebbe già sufficiente per evitare lo scempio della nostra libertà previsto dalla legge sul testamento biologico elaborata dall’attuale Parlamento.

 

 

Il dibattito

 

Anche quest’oggi diamo spazio alle riflessioi sul suicidio “”non siamo padroni della vita! Ma padrone della vita non può essere nemmeno il caso, o la malattia, o la tecnologia, o lo stato con le sue leggi e lei stessa, chiesa, che della vita dovrebbe essere serva, non padrona!” “E’ questa presa di coscienza della complessità del problema che manca ai teologicchi di oggi, semplici megafoni amplificatori della “Voce del Padrone”! ” (ndr.: la riflessione svolta riguarda il suicidio, non il suicidio assistito, che pone dei problemi ulteriori)
“Scorretto parlare di confronto tra “pro vita” e “pro morte”. Nel mondo anglosassone si parla di “pro choice”…
“esiste, a mio avviso, una differenza profonda tra sospendere terapie che hanno il carattere della straordinarietà o sono ritenute sproporzionate dal paziente, come può essere la nutrizione artificiale oppure un intervento chirurgico, e porre volontariamente fine alla vita di un essere umano attraverso la somministrazione di un farmaco letale”
Il gesto estremo, se proprio si vuole compierlo, bisogna affrontarlo da soli, senza complicità di sorta. Pretendere di farsi assistere nel suicidio è una mostruosità logica e giuridica, prima amcora che religiosa
  • Lucio e il volo di Giancarla Codrignani in l’Unità del 2 dicembre 2011
“Lucio Magri era un uomo di fede. Laica, laicissima… la fede è pericolosa, soprattutto quando un dio viene sostituito da un’idea … di salvezza umana. Se un Papa avesse una fede così e volesse chiamare cristiano “questo” mondo, si suiciderebbe… Per chi continua, senza ali, con i piedi per terra, a fare politica, cioè alimenta per sé e per altri la speranza, il sentimento del limite umano incomincia a far male dentro….
Nalla bibbia non c’è alcun divieto al suicidio, non c’è un Dio che condanni a vivere. ” si tratta di considerare tutte le persone come dei soggetti liberi, responsabili dei propri atti… e di dar loro il desiderio di scegliere ancora la vita nono stante tutto”
“Mi è preziosa la facoltà di scegliere se vivere o morire, e però mi fa disperare e ribellare l’eventualità che una persona che amo scelga di morire… Ci sono due gruppi nei quali il suicidio infierisce: i giovani, e i carcerati… Non si sceglie di morire come per una liberazione: questo è un eufemismo. Si sceglie, o ci si rassegna, a non poter più essere liberati…”
“si deve rispettare la coscienza seria di chi non vede più un senso umano, che anche Dio vuole per la nostra vita, della propria sofferenza esistenziale”
“Esiste un diritto di morire? Si può legittimamente programmare la propria morte, facendosi aiutare da un medico? Ognuno di noi ha sicuramente il diritto di essere riconosciuto come soggetto della propria vita fino alla fine, anche in punto di morte…”
Austria “Nella sua ultima “lettera alle parrocchie” del settembre 2011 si dichiarava favorevole a “quasi tutte” le richieste dell’Appello alla disobbedienza” e a questo proposito argomentava: “I parroci della Initiative, che conosco personalmente, non sono dei rivoluzionari, ma preti appassionati.”
“Tutto può essere perdonato, salvo la sovrana decisione di sé. In tanti Paesi che si pretendono democratici questa libertà è oggi considerata una solida conquista. A quando la compiutezza di un diritto che emancipi la nostra Repubblica dai condizionamenti della Chiesa? “

 

 

 

 

“Á annag veg – Either Way”


il film di Gunnar Sigurdsson si impone al Torinio Film Festival

 

Per vincere bastano due attori

 

Il Torino Film Festival non ha regalato grandi sussulti. Anzi, anche facendo la tara alla scarsa esperienza di autori dalla carriera acerba, e spesso soltanto all’opera prima, si può concludere che la media della qualità in campo è stata piuttosto modesta.
A saltare all’occhio, in particolare, è stata la diffusa assenza di un lavoro di scrittura anche solo lontanamente solido. Quasi tutte le opere viste si basano infatti su una linea narrativa e un quadro drammaturgico appena accennato, e si affidano per il resto all’abilità espressiva del regista che fra l’altro si rintana spesso nei moduli del cinema documentario. Nella maggior parte dei casi il risultato è un lavoro che assomiglia più a un esercizio di regia, a una tesina di fine corso – e nel novero ce n’erano effettivamente un paio – che a un film organico e compiuto.
Non a caso, sfuggono alla sensazione di un lavoro irrisolto quei pochi film che fanno proprio della mancanza di una struttura solida uno stile o addirittura un contenuto. A partire dal vincitore, l’islandese Á annag veg – Either Way di Gunnar Sigurdsson, storia di un’amicizia sul lavoro, sempre in bilico sull’assurdo, per la quale non a caso si sono fatti i nomi di Beckett e Kaurismäki. Se i modelli sono ancora lontani, l’esordiente regista colpisce già per la consapevolezza del proprio stile, tanto rigoroso da far dimenticare che in scena ci sono solo due attori. Ma è il caso anche del francese La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, presentato fuori concorso. La storia di due genitori alle prese con una grave malattia del figlio nato da poco, sfrutta quello che è poco più d’un assunto narrativo per rispolverare gli stilemi della Nouvelle vague, e di un cinema che, liberato in gran parte dalle briglie letterarie, si regga il più possibile sui suoi mezzi espressivi peculiari. I momenti di astrattezza godardiana risultano un po’ rancidi, e rischiano di inquinare il film, ma in generale alla regista riesce la cosa più difficile, ossia raccontare con levità un dramma toccante, giocando sulla dicotomia fra morte e vita, in ciò memore piuttosto della lezione di Agnés Varda e del suo Cléo dalle nove alle cinque (1962). Inoltre il film ha il grande merito di non ricattare il pubblico, mostrando già nelle prime immagini come la guerra dichiarata alla malattia probabilmente è già a buon punto. Sempre fuori concorso, lo statunitense Bad Posture di Malcolm Murray fa invece dell’assenza di contenuti il proprio argomento. Il racconto di due amici senza arte né parte che sprecano le loro giornate fra graffiti, bevute e piccoli furti nemmeno troppo convinti, diventa infatti alla lunga un film sul nichilismo, che supera il rischio di diventare a sua volta nichilista in virtù di uno stile insospettabilmente rigoroso e di brevi, controllatissimi squarci lirici attraverso cui filtra uno sguardo dolente e nient’affatto cinico.
Deludono invece i titoli che si sono spartiti ex-aequo il premio speciale della giuria: l’arabo Tayeb, Khalas, Yalla di Rania Attieh e Daniel Garcia, e soprattutto il francese 17 filles di Delphine e Muriel Coulin, il film più sopravvalutato del festival. La storia – ispirata a un fatto reale – di diciassette compagne di scuola che decidono di rimanere incinte contemporaneamente poteva essere lo spunto per mille riflessioni, invece qui non si va mai oltre la fenomenologia adolescenziale stravista altrove. Se al posto della gravidanza le protagoniste fossero state coinvolte in qualsiasi altro evento, il film non sarebbe cambiato di un fotogramma.
In questo contesto non esaltante, poi, si sono difesi i titoli italiani. Ulidi piccola mia di Mateo Zoni è una microscopica produzione in stimolante bilico fra documentario e fiction, ambientata in una casa-famiglia di ragazze dal passato difficile. Uno di quei film dove la felice scelta degli elementi messi in scena fa passare in secondo piano la mancanza di un progetto strettamente creativo. Mentre con Sette opere di misericordia, fuori concorso, i fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio lasciano intravedere ottime capacità espressive. Nonostante la loro storia fra sottoproletariato e simbologia cristiana si appesantisca a tratti di programmatici “pasolinismi”.
Il festival in ogni caso si dimostra interessante quando si mantiene sui binari di questo cinema strettamente d’autore e indipendente, anche se spesso acerbo e a volte compiaciuto. Un po’ sulla scia, insomma, del Sundance festival americano. Perché quando invece si inoltra verso i territori del cinema di genere, o si avvicina alla produzione mainstream, rischia di diventare del tutto insulso.
Fanno parte del primo gruppo un paio di film molto attesi che non hanno mancato di entusiasmare qualcuno. Attack the Block di Joe Cornish, una produzione franco-inglese, è ormai l’ennesima alchimia fra commedia e fanta-horror, ma si risolve presto in una pallida e noiosa imitazione di prototipi come L’alba dei morti dementi (2004), pellicola firmata da quell’Edgar Wright che guarda caso con Cornish ha contribuito recentemente a scrivere la sceneggiatura del Tintin spielberghiano. Mentre l’indonesiano The Raid di Gareth Huw Evans è una ripetitiva parata di arti marziali, ancorché finemente coreografate. Se la cava meglio Jaume Balaguerò, nome interessante dell’horror spagnolo, col suo Mientras duermes.
Rientrano invece del tutto o in parte nel cinema hollywoodiano due film sportivi: Moneyball – L’arte di vincere di Bennett Miller con Brad Pitt e Win Win – mosse vincenti di Thomas McCarthy con Paul Giamatti. Morale edificante preconfezionata al servizio di lavori inappuntabili che però metaforicamente non travalicano di un centimetro gli angusti confini del campo da gioco. Mentre The Descendants di Alexander Payne con George Clooney è un prodotto degno di nota, ma fuori dal target del festival, perché firmato da un regista che è già un nome noto e collaudato della commedia grazie a titoli come A proposito di Schmidt (2002) e Sideways (2004). Nel complesso, comunque, con le sue tante anteprime mondiali, la sua direzione autorevole, la sua presidenza di giuria prestigiosa, il Festival di Torino continua a essere una finestra privilegiata da cui guardare da che parte sta andando il cinema. E uno specchio sicuramente credibile dello stato degli autori indipendenti. A deludere, semmai, a volte, è ciò che vi rimane riflesso.

di Emilio Ranzato

 

L’Osservatore Romano 5-6 dicembre 2011

Festa dell’Immacolata Concezione (Anno A)

IMMACOLATA CONCEZIONE

Lectio – Anno A

Prima lettura: Gen 3,9-15.20

 

[Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».  L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.

 

v Poiché oggi è ammesso da tutti che i primi capitoli della Genesi non ci forniscono una cronaca di avvenimenti, ma contengono una professione di fede circa i rapporti dell’uomo e della sua storia con Dio, dobbiamo cercare di cogliere il messaggio religioso contenuto nella nostra lettura.

Essa contiene soprattutto l’annunzio di una prospettiva di salvezza per l’umanità rappresentata dalla prima coppia umana. L’annunzio è preceduto da un dialogo in cui Dio mette in evidenza l’effetto distruttore del peccato (la rottura del vincolo di dipendenza da Dio, suggerita dal serpente, che prometteva di far diventare gli uomini come Dio, se si fossero ribellati alle sue leggi): perdita del rapporto amicale con Dio, inizio della diffidenza reciproca tra l’uomo e la donna, ingresso della fatica e del dolore nella vita umana, necessità di lottare sempre contro l’insidia perenne del peccato.

L’annunzio apre la prospettiva che, nel futuro, il seme dell’uomo avrebbe sconfitto il seme del serpente. Il sentimento cristiano, guidato da una interpretazione libera di questo testo documentata dalla Volgata, ha capito che, in questa prospettiva di futura vittoria, un posto speciale spettava a Maria.

 

 

Seconda lettura: Ef 1,3-6.11-12

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.

 

v La nostra seconda lettura utilizza una parte della prosa lirica elevata a Dio in onore di Gesù Cristo, con cui si apre la lettera agli Efesini (1,3-14). Sulla sua scelta per questa liturgia ha forse pesato la presenza del termine immacolati, che ricorre nel v. 4.Il senso principale del brano è che Dio merita la nostra lode e il ringraziamento perché egli per primo ci ha ricolmati di ogni sorta di benedizioni valide per sempre, avendo suscitato per noi il suo Figlio Gesù Cristo, da noi riconosciuto come Signore. Più in particolare, Dio va lodato e ringraziato perché, mediante la persona di Gesù Cristo, noi siamo stati chiamati alla santità (cioè a essere santi e immacolati), con un decreto che precede la fondazione del mondo. Senza che ne avessimo alcun diritto naturale, per poter realizzare la nostra chiamata alla santità, Dio ci ha regalato l’adozione a suoi figli, per i meriti di Gesù Cristo. Tutto questo, già per se stesso, può essere inteso come un inno di lode che celebra l’attività salvifica di Dio. Da aggiungere è anche che, avendo posto in Cristo tutta la nostra speranza, sappiamo che erediteremo la totalità delle divine promesse. Come si vede, al centro della nostra lettura c’è che tutti noi cristiani siamo chiamati alla santità, cioè a essere santi e immacolati, a partecipare quindi al modello di esistenza che ha qualificato Maria santissima come immacolata.

 

Vangelo: Lc 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

 

 

Il Vangelo in immagini

IMMACOLATA ANNO B

 

Esegesi

Tra i testi del Nuovo Testamento che ci parlano di Maria, la madre del Salvatore, il racconto dell’Annunciazione di Gesù è certamente il più ricco di teologia, sicché ad esso si è sempre ispirato lo speciale settore dell’approfondimento teologico che è detto mariologia. Cerchiamo di cogliere questa ricchezza, partendo dall’analisi esegetica dei singoli versetti.

Nei vv. 26-27, l’evangelista stabilisce un rapporto di netta continuità tra il già descritto annuncio della nascita del precursore (Lc l,5ss) e la scena che si accinge a descrivere: ogni singolo avvenimento della storia della salvezza si inquadra perfettamente in un disegno generale concepito e realizzato da Dio. In questo disegno si fronteggiano la grandezza insondabile di Dio, che manda come suo messaggero l’angelo Gabriele (un personaggio a cui nel libro di Daniele era stata affidata una missione riguardante gli avvenimenti messianici), e la piccolezza apparentemente insignificante di Nazareth di Galilea e di una oscura fanciulla che si chiama Maria, promessa sposa di un certo Giuseppe (solo in quest’ultimo personaggio c’è un barlume di riconosciuta nobiltà, perché discende dalla cosa di Davide).

Di Maria è qui sottolineato per ben due volte lo stato di verginità. Per Giuseppe è richiamata la sua appartenenza alla cosa di Davide, da cui doveva venire il Messia.

— Nel v. 28, il saluto dell’angelo, chàire, non è un semplice sinonimo del comune shalom (pace), ma sembra voglia evocare l’accenno alla gioia messianica a cui nei profeti è invitata la figlia di Sion (che significa la nazione ebraica), nell’imminenza dei tempi messianici (Sof 3.14; Gl 2,21.23; Zac 9.9). Il titolo kecharitoméne, con cui Maria è gratificata dall’angelo, non ha certamente il senso di un gentile appellativo (equivalente a una bella fanciulla!), ma sembra si voglia riferire alla missione che a lei Dio vuole affidare e si può ben tradurre: trasformata dal favore divino; la traduzione della Volgata, piena di grazia, rende giustizia alla densità teologica del vocabolo e ha indotto il popolo cristiano a trovare qui incluso un accenno alla verità dell’immacolata concezione. A quella stessa missione sembra debba riferirsi la frase il Signore è con tè; era questa infatti la formula con cui si dava incoraggiamento, nei libri dell’Antico Testamento, ai personaggi scelti da Dio per una qualche missione speciale (Isacco, in Gn 26,3.24; Giacobbe in Gn 28,15; Mosè, in Es 3,12; Gedeone, in Gdc 6,12; ecc.).

— Nel v. 29, il turbamento di Maria, diversamente da quanto è detto per Zaccaria in 1,12, non deriva dalla visione dell’angelo, ma dal senso delle sue parole: Maria dimostra così la sua iniziale consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di misterioso.

— Nei vv. 30-31, l’angelo, dopo averle rivolto un incoraggiamento, rivela a Maria la missione che Dio vuole affidarle: con parole che richiamano alla mente il testo di Is 7,14, le è detto che essa dovrà dare alla luce un figlio del quale Dio stesso ha già stabilito il nome. L’importanza di questo figlio è già oscuramente accennata nell’implicito riferimento al testo di Isaia e nel fatto che il suo nome è direttamente scelto da Dio.

— Nei vv. 32-33, è dichiarata apertamente la straordinaria identità del futuro figlio di Maria. Questo figlio è descritto con chiaro riferimento al testo di 2Sam 7,8-16: da lì sono presi i termini grande… figlio (di Dio) …cosa… regno (i Davide) …regno senza fine. Il figlio di Maria è qui qualificato come il Messia atteso dai Giudei, ma già il senso delle parole adoperate in ambiente giudaico sembra dilatarsi per accogliere la nuova prospettiva cristiana.

— I vv. 34-35 difficilmente potrebbero spiegarsi, se si intendessero come battute stenografiche di un dialogo tra l’angelo e Maria. Sono però chiarissimi nel trasmetterci il messaggio rivelato che il figlio di Maria è stato concepito verginalmente, cioè senza il contributo di un padre terreno, e che questo stesso figlio di Maria è propriamente figlio di Dio fin dalla sua origine, cioè non in conseguenza della sua elezione alla dignità messianica, ma, grazie alla potenza creatrice dello Spirito Santo, fin dal momento della sua prodigiosa concezione.

— Nei vv. 36-37, l’angelo conferma l’eccezionalità dell’avvenimento annunziato, fornendo un segno capace di renderlo credibile: rivela a Maria la notizia ancora sconosciuta da tutti, che la sterile Elisabetta è diventata feconda nella sua vecchiaia, a dimostrazione che nulla è impossibile a Dio.

— Nel v. 38, che conclude il racconto, l’evangelista ci fa capire che Maria ha pienamente inteso l’alta missione che le è stata affidata, al punto che mette sulle sue labbra parole evocanti alte personalità dell’Antica Alleanza (Abramo, Mosè, Davide, il misterioso Servo di JHWH), che avevano meritato il titolo onorifico di servi del Signore. Proclamandosi serva di Dio, Maria è ben lontana dall’esprimere una semplice rassegnazione a oscuri disegni divini, dichiara piuttosto di essere gioiosamente pronta a collaborare alla imminente salvezza del mondo portata dal suo figlio Gesù.

Dall’esame analitico dei singoli versetti emerge la conclusione che il racconto di Luca ha come scopo principale quello di rivelarci l’identità messianica del figlio di Maria, che però è anche, a titolo specialissimo, figlio di Dio sin dalla sua concezione. In secondo luogo, il racconto ci parla della missione affidata a Maria, sottolineando soprattutto due cose: che l’iniziativa di quanto dovrà accadere appartiene esclusivamente a Dio; che lo stesso Dio ha reso Maria idonea all’assolvimento del compito affidatele mediante la pienezza di grazia. In questa pienezza, il popolo cristiano ha sentito che doveva starci anche l’Immacolata Concezione.

 

Meditazione

La liturgia della Parola di questa festa ci consente di abbracciare in un solo sguardo il mistero della salvezza. Al centro delle letture c’è il testo tratto dalla lettera agli Efesini in cui Paolo medita quale sia il desiderio originario di Dio; la prima lettura, dalla Genesi, descrive la risposta umana, il peccato, che tuttavia non arresta il piano di Dio, ma lo trasforma in una promessa che attraversa la storia fino a compiersi nell’incarnazione del Figlio di Dio, come il racconto di Luca annuncia.

In Cristo il Padre «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi» (Ef 1,4-5). Adamo ed Eva non sanno accogliere questa gratuita iniziativa di Dio. In loro opera l’inganno della tentazione che li induce a ritenere di dover conquistare, in modo autonomo e autosufficiente, ciò che Dio intende dare loro gratuitamente: l’essere per lui figli santi e immacolati. Dopo il peccato Adamo ed Eva sono ancora tentati di percorrere la via dell’autonomia, senza affidarsi alla misericordia del Padre. Si nascondono e, riconoscendosi nudi, intrecciano foglie di fico per farne cinture (cfr. Gen 3,7). È Dio invece a intrecciare per loro una storia di salvezza, rivestendoli di tuniche di pelle (cfr. Gen 3,21) e promettendo loro che, nella lotta contro quel male che sempre insidia la vita umana, un figlio di donna, stirpe della sua stirpe, conseguirà la vittoria.

«Dove sei?», domanda Dio all’uomo peccatore. La risposta che Adamo non sa dare la darà Dio stesso nell’incarnazione del Figlio: siamo in lui, nel Cristo. Essere in Cristo è uno dei temi più cari e ricorrenti in Paolo ed emerge anche nel brano della lettera agli Efesini. «In lui» – l’apostolo lo ripete continuamente – Dio ci ha benedetti, ci ha scelti, ci ha reso eredi… e sempre «in lui» si fonda la nostra speranza e sale al Padre la nostra benedizione e la nostra lode alla sua gloria. Dove sei? Siamo in Cristo.

Tale è anche il segreto della vita di Maria, colei che si lascia totalmente rivestire dalla gratuità di Dio per dare carne a questa grazia che in lei si fa persona e assume un volto umano: «Colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Diversamente da Adamo ed Eva, che oppongono il loro progetto alla promessa di Dio, in Maria tutto è ascolto e recettività dell’agire divino. Si può rileggere il racconto di Luca facendo attenzione ai tre nomi con cui la vergine di Nàzaret viene chiamata. Il primo è quello con cui Gabriele la saluta: «piena di grazia», che traduce un’espressione greca più ricca di sfumature (kecharitoméne). Luca usa qui un participio perfetto di forma passiva. Un perfetto: in greco questo modo verbale indica un’azione passata che ha raggiunto la sua perfezione e perdura nel presente. Maria è stata e rimane oggetto del favore divino. Il participio è di forma passiva e ha come soggetto implicito Dio stesso: viene così posto l’accento sull’agire divino. Essere ricolma della grazia, prima che costituire una qualità di Maria, rivela l’atteggiarsi di Dio nei suoi confronti, il suo modo di guardarla e di incontrarla. Infine, il verbo indica una trasformazione. Non significa semplicemente guardare qualcuno con benevolenza, ma trasformare, in virtù di questo favore, l’oggetto del proprio sguardo, rendendolo amabile. Maria è l’amata da Dio e, in quanto amata, è totalmente rinnovata da questo amore. Il nome usato da Gabriele acquista così la sua pregnanza: da un lato sottolinea la gratuità dell’azione di Dio, dall’altro manifesta la recettività piena e cordiale da parte di Maria.

Solo dopo averla salutata con il nome che viene da Dio, Gabriele la chiama anche con il nome datele dagli uomini. La verità della vita di ciascuno di noi sta nel modo che Dio ha di guardarci e chiamarci. Il nome umano è Maria. Se confrontiamo questa scena con il precedente annuncio rivolto a Zaccaria (Lc 1,5-7.13) emerge una grande differenza. Di Maria non si dice nulla, ne della sua discendenza, ne delle sue qualità morali; nulla neppure di un suo desiderio di maternità. L’unica realtà ricordata è la sua verginità. Due volte, con insistenza, il testo afferma che Maria è vergine (vv. 27 e 28). Tale condizione segnala ancora una povertà: viene annunciata una gravidanza a una vergine, vale a dire a una persona che sembrerebbe del tutto impari rispetto al compito affidatele. Nello stesso tempo questa verginità sottolinea la radicale apertura e docilità di Maria verso l’agire di Dio. Tutto in lei è povertà che si apre ad accogliere la potenza di Colui al quale nulla è impossibile (cfr. v. 37).

Infine nel racconto risuona un terzo nome che Maria stessa si da in risposta al saluto dell’angelo: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38). Quello di Maria non è un semplice atto di obbedienza. E un modo peculiare di collocarsi davanti al Signore e di entrare nella giusta relazione con lui. L’angelo aveva salutato Maria annunciandole come Dio si relazionava con lei: il Signore è con te, tu sei la piena di grazia, colei che Dio ama e trasforma nel suo amore. Rispondendo, Maria afferma a sua volta come desidera che sia la sua relazione con Dio: sono la «schiava» del Signore. Colei che in tutto dipende dalla sua Parola. Quello di Maria è un atto di fede prima ancora che di obbedienza. Il suo atteggiamento mostra inoltre il legame che sussiste tra fede e umiltà. Non presume di sé; al contrario si domanda «com’è possibile? come posso io?»; di conseguenza si affida, facendo della propria povertà e inadeguatezza lo spazio nel quale il Signore può manifestare la sua potenza. Come canterà nel Magnificat, Dio ha potuto compiere in lei grandi cose, perché ha conosciuto l’umiltà, la piccolezza, il «niente» della sua serva. Dio agisce in lei non a misura della sua piccolezza, ma a misura della grandezza del proprio amore.

Possiamo comprendere il mistero dell’«Immacolata» alla luce di questi tre nomi, che tracciano anche per noi una via di santificazione personale.

 

Preghiere e racconti


La festa dell’Immacolata

«La prima festa dell’anno è l’Immacolata. Non è senza motivo che l’anno liturgico si apra con una visione di bellezza. Nella preghiera liturgica, anzi nella vita stessa della Chiesa il primato è della contemplazione – ogni attività apostolica e anche morale ha termine nella contemplazione della gloria divina, nel silenzio dell’adorazione, nel canto della lode. La Chiesa prima di tutto canta la bellezza. (…) La festa dell’Immacolata è visione di sovrumana bellezza».

(D. Barsotti, Il mistero cristiano nell’anno liturgico, 69).


Maria, vergine dell’attesa

Se andiamo alla ricerca di un motivo esemplare che possa ispirare i nostri passi, e dare agilità alle cadenze del nostro cammino in questo periodo che ci separa dal Natale, dobbiamo assolutamente rifarci alla Madonna. Lei è la Vergine dell’attesa, la Vergine dell’Avvento, la Madre dell’attesa.

Lo sapete che nel Vangelo, prima ancora che ci venga detto il suo nome, viene riferito un fremito d’attesa che ardeva nella sua anima? San Luca, prima ancora di dirci che «il suo nome era Maria» (Lc 1, 26), ci dice un’altra cosa: «In quel tempo l’angelo Gabriele venne mandato ad una ragazza promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide» (Lc 1, 26-27).

«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese. Fidanzata è colei che attende. Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni.

Maria viene presentata come la donna che attende. Fidanzata, cioè. Solo dopo ci viene detto il suo nome. L’attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l’ultima. E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l’ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura. Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell’ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni.

Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.

 

Maria, Vergine e Madre dell’attesa

Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell’attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell’attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa, all’inizio. Madre in attesa, alla fine. E nell’arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l’altra cosi divina, cento altre attese struggenti. L’attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L’attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L’attesa del giorno, l’unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L’attesa dell’«ora»: l’unica per la quale non avrebbe saputo frenare l’impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L’attesa dell’ultimo rantolo dell’unigenito inchiodato sul legno. L’attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia. Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all’infinito.

 

Con la lampada accesa

E noi oggi di che cosa parliamo se non di Avvento, di attesa? Voi promettete fede al Signore e con i vostri sospiri, con i vostri sentimenti, con le vostre attese, ricevete le tenerezze misteriose che vi riserva: vigilanti, così come si vive il periodo del fidanzamento, con il tripudio interiore.

Un giorno le nozze dell’Agnello le celebreremo tutti quanti. Saremo tutti invitati, tutti protagonisti. Verrà questo giorno!

Nei tempi gelidi che stiamo vivendo, nell’appannamento dei nostri entusiasmi e nella tristezza dei nostri peccati, non possiamo sentirci mancare il coraggio, al punto da non annunciarvi queste cose con forza, per quanto possano sembrare lontane, utopiche. No, non sono utopie, sono invece i luoghi dove noi realizzeremo veramente la nostra felicità, il nostro bene. Questo vi annunciamo oggi!

Le ragazze che sono davanti a me, sono anche un po’ l’icona di quello che dovremmo essere: con l’abito bianco, con la lampada accesa, in attesa; disponibili non soltanto a tenere la lampada accesa, ma anche a conservare una riserva sufficiente di olio nei recipienti, al punto che quando qualcuno ci rivolge quella preghiera così implorante e così umana che dice: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono!», noi possiamo rispondere non come le vergini prudenti: «No, perché non basta ne a noi ne a voi» (Mt 25, 9), ma: «Sì, vogliamo correre il rischio che non basti ne a noi ne a voi».

A voi che oggi non fuggite per la tangente dell’irreale, ma fate una scelta di concretezza, vorrei dire: «Amate il mondo e siate disponibili a dare l’olio alle lampade del mondo, perché anche il mondo possa attendere e possa vivere l’attesa».

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La vera tristezza

Oggi non si attende più. La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio. Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi sono fatti. E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere. La vita, allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco. Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle attese. E forse è vero.

Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i profumi dei pampini, degli ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne. Forse sto scappando anch’io per le tangenti del sogno, però – dite la verità – è così standardizzata la nostra vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c’imprigionano e ci stringono all’angolo, che non sappiamo più aspettare. Intuiamo tutti che abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.

 

Una «pro-vocazione»

Oggi l’Avvento c’impegna invece a prendere la storia in mano, a mettere le mani sul timone della storia attraverso la preghiera, l’impegno e starei per dire anche l’indignazione: indignatevi un po’, fratelli e sorelle! Indignatevi, perché abbiamo perso questa capacità; anche noi sacerdoti, anche noi vescovi, non ci sappiamo più indignare per tanti soprusi, tante ingiustizie, tante violenze… Tutto quello che viviamo ora, qui, non è solo una simbologia. Vorrei dirvi, cari fratelli, che questi ragazzi, Antonio e Stefano e poi Barbara e Francesca e Lorella e Miriam, devono diventare per noi una provocazione, uno scrupolo, una spina di inappagamento, messa nel fianco della nostra vita, un’icona, una «pro-vocazione», una chiamata da parte di chi sta un po’ più avanti. Con i gesti anche paradossali delle scelte audaci, ci stimolano ad essere uomini dell’attesa come Maria; ci spingono a non diffidare mai dei sogni, per essere capaci sempre di annunciare al mondo rovesciamenti da troni e innalzamenti dello stereo, come Maria, donna dell’attesa, che ha aspettato questa ricollocazione sui troni della giustizia per tutti coloro che, invece, vivono nel fetore delle stalle e nel sopruso degli egemoni, che schiacciano sempre la gente.

Attesa, attesa, ma di che? Che cosa aspettiamo?

Aspettiamo prima di tutto un cambio per noi, per la nostra vita spirituale, interiore, e poi avvertiamo che stiamo camminando su speroni pericolosi, su rocce che possono farci ruzzolare da un momento all’altro. Forse abbiamo assunto un modo non proprio allineato alla logica delle beatitudini.

Attesa quindi di rinnovamento per noi, attesa di rinnovamento per la storia dell’umanità. Attesa di cambi interiori della nostra mentalità: non siamo ancora capaci di pronunciare una parola forte per dire che la guerra è iniqua, che ogni guerra è iniqua! Ancora ci stiamo trastullando con i concetti della guerra giusta o ingiusta, o della difesa…

Abbiamo nelle mani il Vangelo della non violenza attiva, il codice del perdono, ma siamo ancora cristiani irresoluti, che camminano secondo le logiche della prudenza carnale e non della prudenza dello Spirito. Siamo gente che riesce a dormire con molta tranquillità, pur sapendo che nel mondo ci sono tante sofferenze. Sopportiamo facilmente che, all’interno della nostra città, col freddo che fa, le stazioni siano assediate da terzomondiali o da persone che vivono allo sbando, che non hanno più progetti.

Macché fidanzamento, che sogni, che attese di sandali, che profumi di vernice o di santità! Molta gente odora soltanto della tristezza dei propri sudari.

Fratelli e sorelle, vergini fidanzate, provocate questa gente! Oggi ci sono tante fotografie per voi, tanti lampeggiamenti di flash; sarebbe molto bello che ognuno di voi, con il suo obiettivo allargato, imprimesse la provocazione di un’attesa di cieli nuovi e terre nuove. Anche tu, Stefano, che ti accingi ad entrare nel consesso presbiterale; e tu, Antonio, che ci sei già entrato, che sei già lettore e annunci la parola di Dio e da oggi tocchi anche le patene, le pissidi: tocchi quello che sarà il corpo vivente del Signore. Questo contatto con i vasi sacri, col grano fatto pane, con l’uva fatta vino, ti mette in rapporto con il cosmo, con questa realtà materiale, toccabile, perché il regno di Dio viene costruito non con i fumi delle nostre utopie ma con le pietre che vengono scavate nelle cave della storia, della terra. Scommetto che anche il pane che si mangia nel cielo è intriso delle acque della nostra terra e del grano che viene prodotto dai nostri campi!

Buona attesa, dunque. Il Signore ci dia la grazia di essere continuamente allerta, in attesa di qualcuno che arrivi, che irrompa nelle nostre case e ci dia da portare un lieto annuncio!

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 45-54).

 

Benedetta sei Tu, Vergine Maria

Benedetta sei Tu, più grande del cielo, più bella della terra e più profonda di tutta la ragione, chi riesce a esprimere la Tua grandezza? Non c’è niente che sia uguale a Te, Vergine Maria. Ti glorificano gli angeli, Ti lodano i serafini, perché Colui che siede nella gloria è venuto a dimorare nel Tuo corpo. L’amico degli uomini ci ha innalzato fino a Sé, ha preso su di Sé la nostra morte, ci ha donato la vita Colui a cui appartiene onore e lode. Tu, Tu sola, nostra Signora, genitrice di Dio, sei madre della luce. Ti glorifichiamo con cantico di lode.

 

Sei il candelabro che porta la lampada sempre accesa, la luce del mondo, luce da luce senza inizio, Dio da Dio vero, che da Te prese senza mutamento la forma umana, che ci ha illuminati con la Sua venuta, noi che sedevamo nel buio e nell’ombra della morte, Luce che guida i nostri passi sulla via della pace per mezzo del mistero della Sua santa sapienza.

 

Rallegrati, benedetta vergine senza macchia, Tu vaso puro, Tu gloria del mondo, Tu luce intramontabile, Tu tempio indistruttibile, Tu bastone della fede, Tu solido sostegno dei santi. Prega per noi il Tuo figlio diletto, nostro redentore, perché abbia pietà di noi e sia misericordioso, e attraverso la Sua grazia ci siano perdonati i peccati per sempre.

Amen.

(Preghiera etiope)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

 

«La crisi è un travaglio, se ne esce insieme»

Discorso alla città di Milano del Crad.Scola

«Crisi e travaglio all’inizio del terzo millennio» è il titolo del primo «Discorso alla città» che il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, pronuncerà alle 18 durante la celebrazione vigiliare di sant’Ambrogio nella basilica dedicata al patrono della città e compatrono della diocesi. Ai Primi Vespri saranno presenti autorità, istituzioni e comunità etniche di Milano. Anticipiamo qui un passaggio del discorso che Scola pronuncerà stasera, martedì 6 dicembre.

L’allora Cardinale Montini, in occasione della festa di Sant’Ambrogio 1962, fece questa preziosa osservazione: «Siamo ormai così abituati noi moderni a considerare questa distinzione del profano dal sacro, che facilmente pensiamo i due campi non solo distinti, ma separati; e sovente non solo separati, ma ciascuno a sé sufficiente e dimentico della coessenzialità dell’uno e dell’altro nella formula integrale e reale della vita». Con questa sensibilità e con lo sguardo orientato al Santo Patrono vorrei offrire qualche riflessione sul delicato frangente che stiamo attraversando.
Entrare nei meandri della crisi economica e finanziaria è, per la stragrande maggioranza dei cittadini, un’impresa impervia. Qualsiasi analisi appena un po’ meno che generica diventa presto inintelligibile al profano. Così il discorso economico, e ancor più quello finanziario, si è fatto lontanissimo dalla possibilità di comprensione di coloro che pure ne sono i destinatari e gli attori finali, cioè tutti.
È necessario che l’economia e la finanza, senza ovviamente prescindere dal loro livello specialistico, non rinuncino mai ad esplicitare quello elementare e universale. Tutti debbono poter capire, almeno a grandi linee, la “cosa” con cui economia e finanza hanno a che fare. Non si può accettare una riflessione e una pratica dell’economia che prescinda da una lettura culturale complessiva che inevitabilmente implica un’antropologia ed un’etica.
A questo proposito mi sembra decisiva la prospettiva con cui si sceglie di guardare all’odierna situazione. Parlare di crisi economico-finanziaria per descrivere l’attuale frangente di inizio del Terzo Millennio non è sufficiente. A mio giudizio la crisi del momento presente chiede di essere letta e interpretata in termini di travaglio e di transizione.
Questo tempo in cui la Provvidenza ci chiama più che mai ad agire da co-agonisti nel guidare la storia è simile a quello di un parto, una condizione di sofferenza anche acuta, ma con lo sguardo già rivolto alla vita nascente: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16, 21). Il travaglio del parto esige però dalla donna l’impegno di tutta la sua energia umana. Così anche noi, cittadini immersi nella crisi economico-finanziaria, siamo chiamati a metterci in gioco, impegnando tutta la nostra energia personale e comunitaria. Il domani avrà un volto nuovo se rifletterà la nostra speranza di oggi. Una «speranza affidabile» deve quindi guidare le nostre decisioni e la nostra operosità.
Parlare di travaglio, e non limitarsi a parlare di crisi economico-finanziaria, vuol dire non fermarsi alle pur necessarie misure tecniche per far fronte alle gravi difficoltà che stiamo attraversando.
Secondo molti esperti la radice della cosiddetta crisi starebbe nel rovesciamento del rapporto tra sistema bancario-finanziario ed economia reale. Le banche sarebbero state spinte a dirottare molte risorse che avevano in gestione (e quindi anche il risparmio delle famiglie) verso forme di investimento di tipo puramente finanziario. Anche a proposito della nostra città si è potuto affermare: a Milano è rimasta solo la finanza.
Non spetta a me confermare o meno tale diagnosi. Voglio, invece, far emergere un dato che reputo decisivo: nonostante l’ostinato tentativo di mettere tra parentesi la dimensione antropologica ed etica dell’attività economico-finanziaria, in questo momento di grave prova il peso della persona e delle sue relazioni torna testardamente a farsi sentire.
In vista della necessaria ricentratura antropologica ed etica dell’economia – domandata a ben vedere dalla stessa ragione economica – è giusto riconoscere, come da più parti si è fatto, che la radice patologica della crisi sta nella mancanza di fiducia e di coesione.
Dalla crisi si esce solo insieme, ristabilendo la fiducia vicendevole. E questo perché un approccio individualistico non rende ragione dell’esperienza umana nella sua totalità. Ogni uomo, infatti, è sempre un “io-in-relazione”. Per scoprirlo basta osservarci in azione: ognuno di noi, fin dalla nascita, ha bisogno del riconoscimento degli altri. Quando siamo trattati umanamente, ci sentiamo pieni di gratitudine e il presente ci appare carico di promessa per il futuro. Con questo sguardo fiducioso diventiamo capaci di assumere compiti e di fare, se necessario, sacrifici.
Da qui è bene ripartire per ricostruire una idea di famiglia, di vicinato, di città, di Paese, di Europa, di umanità intera, che riconosca questo dato di esperienza, comune a tutti gli uomini.
Non basta la competenza fatta di calcolo e di esperimento. Per affrontare la crisi economico-finanziaria occorre anche un serio ripensamento della ragione, sia economica che politica, come ripetutamente ci invita a fare il Papa. È davvero urgente liberare la ragione economico-finanziaria dalla gabbia di una razionalità tecnocratica e individualistica. Ed è altrettanto urgente liberare la ragione politica dalle secche di una realpolitik incapace di capire il cambiamento e coglierne le sfide. La politica, nell’attuale impasse nazionale e nel monco progetto europeo, ha bisogno di una rinnovata responsabilità creativa perché la società non può fare a meno del suo compito di impostazione e di guida. A questa assunzione di responsabilità da parte della politica deve corrispondere l’accettazione, da parte di tutti i cittadini, dei sacrifici che l’odierna situazione impone. Per sollevare la nazione è necessario il contributo di tutti, come succede in una famiglia: soprattutto in tempi di grave emergenza ogni membro è chiamato, secondo le sue possibilità, a dare di più. Chi ha il compito istituzionale di imporre sacrifici dovrà però farlo con criteri obiettivi di giustizia ed equità, inserendoli in una prospettiva di sviluppo integrale (“Caritas in veritate”) che non si misura solo con la pur indicativa crescita del Pil.

 

Angelo Scola, arcivescovo di Milano

Cristiani e adulti

 

Due libri che giungono dal cattolicesimo vallone ci danno delle piste perché la Chiesa viva, nonostante le pesantezze dell’istituzione.
La Chiesa è forse in pericolo di vita? L’abisso che si crea tra le pratiche della base e le parole della gerarchia è tale che  “la Chiesa imploderà”, diagnostica Paul Löwenthal. L’ex presidente del Consiglio interdiocesano dei Laici (CIL) del  Belgio francofono conosce bene la vita delle comunità cattoliche.
Nel luo libro Ne laissons pas mourir l’Eglise. Foi chrétienne et identité catholique (Non lasciamo morire la Chiesa.  Fede cristiana e identità cattolica), passa in rassegna tutte le sfide a cui si trova confrontata. Non esita a porre  domande accusatrici ad un magistero ipertrofico che, sempre più, irrigidisce la tradizione. Forse che il magistero è lui  solo esperto in umanità? Che cosa ne fa, della libertà di coscienza? Della misericordia verso coloro che sono in  situazioni dolorose? Del riconoscimento dell’autonomia umana?
Dopo questa constatazione di un fallimento cocente della Chiesa nella modernità… e nei confronti delle persone più  impegnate, l’autore delinea il programma del cristiano adulto: libertà, responsabilità e apertura. Che continui ad agire  e ad impegnarsi: la moltiplicazione delle iniziative finirà per “far vacillare i capi”. Paul Löwenthal si ribella contro una  religione che invita ad osservare delle regole e chiede una Chiesa cattolica… più cristiana. Il discorso è a volte un po’ ripetitivo, ma l’analisi è acuta e colpisce nel segno. Molti cattolici fedeli al Vaticano II saranno d’accordo con lui.

 

Così come si troveranno a loro agio in “L’Eglise quand même. A l’écoute du peuple de Dieu (La Chiesa comunque. In  ascolto del popolo di Dio).Questo testo collettivo nato anch’esso nel CIL (Consiglio interdiocesano dei Laici), unisce  ugualmente analisi severa e amore per la Chiesa. Non è per la qualità letteraria che questo opuscolo è degno di  interesse, ma perché è frutto di una serie di inchieste, di conversazioni, di testimonianze di cattolici che ci svelano il  loro vissuto e le loro riflessioni sul “fare Chiesa” e sulle gioie e le difficoltà che vi vivono.
Presenta una valutazione della situazione, seguita dagli auspici espressi nell’inchiesta: una Chiesa fondata su piccole  comunità conviviali e fraterne che vivono la corresponsabilità in tutti i ministeri in uno spirito democratico. Sapendo  che l’essenziale è che il Vangelo sia meglio annunciato e ascoltato. Il CIL deduce dall’inchiesta dieci punti per dare  indicazioni sul futuro della Chiesa.

 

 

Ne laissons pas mourir l’Église. Foi chrétienne et identité catholique, Paul Löwenthal, Mols, 302
p., 22 €
L’Église quand même. À l’écoute du peuple de Dieu, Conseil interdiocésain des Laïcs, Fidélité, 120
p., 11,95 €

 

in “www.temoignagechretien.fr” del 29 novembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Paolo Dall’Oglio: La sete di Ismaele

 

Siria, ecco il monastero dove le fedi si incontrano

 


Un diario dal deserto. Gli articoli che padre Paolo Dall’Oglio ha scritto dal 2007 per il mensile internazionale «Popoli» sono ora raccolti nel volume La sete di Ismaele, in libreria da domani (Gabrielli, pagine 144, euro 12,00, introduzione  di Stefano Femminis). Il libro è arricchito dalla prefazione – di cui anticipiamo una parte – del giornalista e scrittore  Paolo Rumiz, che ha visitato l’antico monastero in cui ha sede la comunità monastica di  (www.deirmarmusa.org),  fondata da padre Dall’Oglio nel 1991 e dedita all’accoglienza e al dialogo interreligioso, in particolare con l’Islam. È dei  giorni scorsi la notizia che il religioso ha ricevuto dal governo siriano un decreto di espulsione, a causa del suo  impegno a favore della riconciliazione: sono in corso trattative con la Chiesa locale affinché l’effettività del decreto sia sospesa e il gesuita possa restare.

Deir Mar Musa. Il nome mi chiamava come una fata morgana, come la nostalgia di qualcosa di antico, qualcosa che  avevo dimenticato ma continuava ad agitarsi nel fondo dell’anima.
Quella fortezza della fede, arroccata sugli ultimi precipizi del Monte Libano davanti al deserto siriano, era una tappa  ineludibile del mio viaggio verso la Terra Santa. Cercavo i cristiani d’Oriente, eppure a parlarmi per primo del  monastero retto dal gesuita Paolo Dall’Oglio non era stato un prete ma un musulmano d’Italia. «Vai a vedere – aveva  detto – un luogo dove la tua fede ha imparato a convivere con l’islam». E aggiunse parole lusinghiere sulla capacità di  quel suo priore molto sui generis di capire il mondo musulmano pur tenendo dritta la barra del cristianesimo in quel  difficile avamposto.
Così andai, e già la lunga strada di avvicinamento lungo l’Anatolia fino alle terre alte del Tigri (dove comunità cristiane  di lingua aramaica vecchie di quasi due millenni resistevano miracolosamente alla pressione del nazionalismo islamico  urco) aveva ribaltato molte delle mie false certezze. Credevo, prima di prendere quella lunga strada, di  allontanarmi dal baricentro, dai punti di riferimento più forti della mia fede, e invece constatavo che proprio  allontanandomi da Roma avvertivo la presenza di un messaggio cristiano più limpido, cristallino, sempre più vicino alla sua fonte originaria, e sempre meno disturbato da tentazioni di egemonia e di potere. Era come se mi fosse  possibile prendere atto della mia identità e della mia cultura religiosa d’origine solo in terre dove il cristianesimo era  decisamente minoritario, se non addirittura perseguitato.
Erano passati, non dimentichiamolo, appena quattro anni dall’attentato alle Torri gemelle, e il discorso del conflitto di  civiltà era stato semplificato ad arte dai seminatori di zizzania come scontro religioso. Era anche per reagire a questa  semplificazione che avevo intrapreso quel viaggio tra i miei cugini d’Oriente, un viaggio che mi portava fatalmente a  sconfinare, un giorno sì e uno no, nei territori dell’ebraismo e della fede musulmana. Così, quando in una sera di  temporale imminente arrivai al monastero fortificato di Mar Musa, mi ero già reso conto che religiosi da prima linea  come Paolo Dall’Oglio si trovavano, con la loro semplice presenza, non soltanto a combattere con le infinite  suscettibilità del mondo musulmano, ma anche a scontare sulla loro pelle (con molte eccezioni s’intende) le  incomprensioni e i pregiudizi dei loro referenti d’Occidente. Di queste il priore di Mar Musa non volle mai parlarmi, ma  era mia ferma convinzione che esse ci fossero.
Ebbi la conferma, lì a Mar Musa, che per farsi riconoscere, il cristianesimo aveva anche bisogno di capire come Cristo e   discepoli erano visti dagli altri popoli del Libro. Nel suo ineguagliabile L’Usage du monde, Nicolas Bouvier racconta  del viaggio compiuto negli anni Cinquanta fino al subcontinente indiano. Nella tappa afghana egli narra di aver trovato  nel bazar di Kabul una raffigurazione di Gesù che ascendeva al cielo circondato da apostoli armati. Per un musulmano era magari concepibile che un profeta della bontà di Isa accettasse di essere catturato senza difendersi, ma era  assolutamente inammissibile che i suoi uomini rinunciassero a difenderlo. Vili, codardi, non avevano reagito. E  soprattutto, rinunciando a uccidere dei malvagi, essi avevano favorito la catena del male. La raffigurazione di discepoli  armati altro non era che il desiderio dei musulmani di rendere più presentabile il martirio di quel sant’uomo.  Ancora più interessante la visione degli ebrei ortodossi, così come mi era stata vivacemente spiegata da un rabbino  gerosolimitano di nascita italiana. Il difetto maggiore di Cristo? Non si era sposato, non aveva figli. Chi non fa figli non è  un uomo e non ascolta i comandamenti di Elohim: crescete e moltiplicatevi. E allora, mi disse, come fa a essere dio  uno che non è nemmeno uomo? E che dire dei discepoli, questi scioperati perdigiorno che avevano rinunciato alla  fatica della terra e del lavoro? Che garanzie di serietà potevano dare questi scapoloni a zonzo capaci di vivere solo alle spalle altrui? Sì, era fondamentale ascoltare storie così, sentire il parere degli “altri” per raccontare la “nostra” identità  con maggiore forza e consapevolezza.
Una sera pregammo insieme, in quel monastero che altro non era che la “reception” di un arcipelago di grotte  eremitiche sparse nelle rocce circostanti. Risuonarono antiche litanie, sentii la bellezza della preghiera cristiana  formulata in lingua araba, e la parole-chiave attorno cui tutto ruotava era “nur”, luce. Cantava Paolo Dall’Oglio dentro  una chiesa buia, dove la luce, appunto, era solo un raggio che entrava da una feritoia verso Oriente. Fu da quel viaggio  che cominciai a cercare la mia fede proprio nelle periferie, negli avamposti, nelle trincee di mondi considerati a rischio   nel profondo di stati marchiati come “canaglia” dalla geopolitica banalizzata dell’Occidente.
Ad Antiochia – incontrando la mia compagna di viaggio Monika Bulaj – una donna che si era convertita al  Cristianesimo e subiva per questo non poche ritorsioni, aveva spostato una tendina in casa sua e mostrato, dietro, un  foglio di giornale illustrato con la raffigurazione di Cristo. Sospirò e spiegò perché aveva deciso di seguirlo. «Come fai a  non fidarti di uno con un viso simile?», riassunse così il concetto, prima di riempirci il sacco da viaggio di frutta secca e caffè che a lei dovevano essere costati una fortuna.

Paolo Rumiz
in “Avvenire” del 4 dicembre 2011