Festa dell’Immacolata Concezione (Anno A)

IMMACOLATA CONCEZIONE

Lectio – Anno A

Prima lettura: Gen 3,9-15.20

 

[Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».  L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.

 

v Poiché oggi è ammesso da tutti che i primi capitoli della Genesi non ci forniscono una cronaca di avvenimenti, ma contengono una professione di fede circa i rapporti dell’uomo e della sua storia con Dio, dobbiamo cercare di cogliere il messaggio religioso contenuto nella nostra lettura.

Essa contiene soprattutto l’annunzio di una prospettiva di salvezza per l’umanità rappresentata dalla prima coppia umana. L’annunzio è preceduto da un dialogo in cui Dio mette in evidenza l’effetto distruttore del peccato (la rottura del vincolo di dipendenza da Dio, suggerita dal serpente, che prometteva di far diventare gli uomini come Dio, se si fossero ribellati alle sue leggi): perdita del rapporto amicale con Dio, inizio della diffidenza reciproca tra l’uomo e la donna, ingresso della fatica e del dolore nella vita umana, necessità di lottare sempre contro l’insidia perenne del peccato.

L’annunzio apre la prospettiva che, nel futuro, il seme dell’uomo avrebbe sconfitto il seme del serpente. Il sentimento cristiano, guidato da una interpretazione libera di questo testo documentata dalla Volgata, ha capito che, in questa prospettiva di futura vittoria, un posto speciale spettava a Maria.

 

 

Seconda lettura: Ef 1,3-6.11-12

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.

 

v La nostra seconda lettura utilizza una parte della prosa lirica elevata a Dio in onore di Gesù Cristo, con cui si apre la lettera agli Efesini (1,3-14). Sulla sua scelta per questa liturgia ha forse pesato la presenza del termine immacolati, che ricorre nel v. 4.Il senso principale del brano è che Dio merita la nostra lode e il ringraziamento perché egli per primo ci ha ricolmati di ogni sorta di benedizioni valide per sempre, avendo suscitato per noi il suo Figlio Gesù Cristo, da noi riconosciuto come Signore. Più in particolare, Dio va lodato e ringraziato perché, mediante la persona di Gesù Cristo, noi siamo stati chiamati alla santità (cioè a essere santi e immacolati), con un decreto che precede la fondazione del mondo. Senza che ne avessimo alcun diritto naturale, per poter realizzare la nostra chiamata alla santità, Dio ci ha regalato l’adozione a suoi figli, per i meriti di Gesù Cristo. Tutto questo, già per se stesso, può essere inteso come un inno di lode che celebra l’attività salvifica di Dio. Da aggiungere è anche che, avendo posto in Cristo tutta la nostra speranza, sappiamo che erediteremo la totalità delle divine promesse. Come si vede, al centro della nostra lettura c’è che tutti noi cristiani siamo chiamati alla santità, cioè a essere santi e immacolati, a partecipare quindi al modello di esistenza che ha qualificato Maria santissima come immacolata.

 

Vangelo: Lc 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

 

 

Il Vangelo in immagini

IMMACOLATA ANNO B

 

Esegesi

Tra i testi del Nuovo Testamento che ci parlano di Maria, la madre del Salvatore, il racconto dell’Annunciazione di Gesù è certamente il più ricco di teologia, sicché ad esso si è sempre ispirato lo speciale settore dell’approfondimento teologico che è detto mariologia. Cerchiamo di cogliere questa ricchezza, partendo dall’analisi esegetica dei singoli versetti.

Nei vv. 26-27, l’evangelista stabilisce un rapporto di netta continuità tra il già descritto annuncio della nascita del precursore (Lc l,5ss) e la scena che si accinge a descrivere: ogni singolo avvenimento della storia della salvezza si inquadra perfettamente in un disegno generale concepito e realizzato da Dio. In questo disegno si fronteggiano la grandezza insondabile di Dio, che manda come suo messaggero l’angelo Gabriele (un personaggio a cui nel libro di Daniele era stata affidata una missione riguardante gli avvenimenti messianici), e la piccolezza apparentemente insignificante di Nazareth di Galilea e di una oscura fanciulla che si chiama Maria, promessa sposa di un certo Giuseppe (solo in quest’ultimo personaggio c’è un barlume di riconosciuta nobiltà, perché discende dalla cosa di Davide).

Di Maria è qui sottolineato per ben due volte lo stato di verginità. Per Giuseppe è richiamata la sua appartenenza alla cosa di Davide, da cui doveva venire il Messia.

— Nel v. 28, il saluto dell’angelo, chàire, non è un semplice sinonimo del comune shalom (pace), ma sembra voglia evocare l’accenno alla gioia messianica a cui nei profeti è invitata la figlia di Sion (che significa la nazione ebraica), nell’imminenza dei tempi messianici (Sof 3.14; Gl 2,21.23; Zac 9.9). Il titolo kecharitoméne, con cui Maria è gratificata dall’angelo, non ha certamente il senso di un gentile appellativo (equivalente a una bella fanciulla!), ma sembra si voglia riferire alla missione che a lei Dio vuole affidare e si può ben tradurre: trasformata dal favore divino; la traduzione della Volgata, piena di grazia, rende giustizia alla densità teologica del vocabolo e ha indotto il popolo cristiano a trovare qui incluso un accenno alla verità dell’immacolata concezione. A quella stessa missione sembra debba riferirsi la frase il Signore è con tè; era questa infatti la formula con cui si dava incoraggiamento, nei libri dell’Antico Testamento, ai personaggi scelti da Dio per una qualche missione speciale (Isacco, in Gn 26,3.24; Giacobbe in Gn 28,15; Mosè, in Es 3,12; Gedeone, in Gdc 6,12; ecc.).

— Nel v. 29, il turbamento di Maria, diversamente da quanto è detto per Zaccaria in 1,12, non deriva dalla visione dell’angelo, ma dal senso delle sue parole: Maria dimostra così la sua iniziale consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di misterioso.

— Nei vv. 30-31, l’angelo, dopo averle rivolto un incoraggiamento, rivela a Maria la missione che Dio vuole affidarle: con parole che richiamano alla mente il testo di Is 7,14, le è detto che essa dovrà dare alla luce un figlio del quale Dio stesso ha già stabilito il nome. L’importanza di questo figlio è già oscuramente accennata nell’implicito riferimento al testo di Isaia e nel fatto che il suo nome è direttamente scelto da Dio.

— Nei vv. 32-33, è dichiarata apertamente la straordinaria identità del futuro figlio di Maria. Questo figlio è descritto con chiaro riferimento al testo di 2Sam 7,8-16: da lì sono presi i termini grande… figlio (di Dio) …cosa… regno (i Davide) …regno senza fine. Il figlio di Maria è qui qualificato come il Messia atteso dai Giudei, ma già il senso delle parole adoperate in ambiente giudaico sembra dilatarsi per accogliere la nuova prospettiva cristiana.

— I vv. 34-35 difficilmente potrebbero spiegarsi, se si intendessero come battute stenografiche di un dialogo tra l’angelo e Maria. Sono però chiarissimi nel trasmetterci il messaggio rivelato che il figlio di Maria è stato concepito verginalmente, cioè senza il contributo di un padre terreno, e che questo stesso figlio di Maria è propriamente figlio di Dio fin dalla sua origine, cioè non in conseguenza della sua elezione alla dignità messianica, ma, grazie alla potenza creatrice dello Spirito Santo, fin dal momento della sua prodigiosa concezione.

— Nei vv. 36-37, l’angelo conferma l’eccezionalità dell’avvenimento annunziato, fornendo un segno capace di renderlo credibile: rivela a Maria la notizia ancora sconosciuta da tutti, che la sterile Elisabetta è diventata feconda nella sua vecchiaia, a dimostrazione che nulla è impossibile a Dio.

— Nel v. 38, che conclude il racconto, l’evangelista ci fa capire che Maria ha pienamente inteso l’alta missione che le è stata affidata, al punto che mette sulle sue labbra parole evocanti alte personalità dell’Antica Alleanza (Abramo, Mosè, Davide, il misterioso Servo di JHWH), che avevano meritato il titolo onorifico di servi del Signore. Proclamandosi serva di Dio, Maria è ben lontana dall’esprimere una semplice rassegnazione a oscuri disegni divini, dichiara piuttosto di essere gioiosamente pronta a collaborare alla imminente salvezza del mondo portata dal suo figlio Gesù.

Dall’esame analitico dei singoli versetti emerge la conclusione che il racconto di Luca ha come scopo principale quello di rivelarci l’identità messianica del figlio di Maria, che però è anche, a titolo specialissimo, figlio di Dio sin dalla sua concezione. In secondo luogo, il racconto ci parla della missione affidata a Maria, sottolineando soprattutto due cose: che l’iniziativa di quanto dovrà accadere appartiene esclusivamente a Dio; che lo stesso Dio ha reso Maria idonea all’assolvimento del compito affidatele mediante la pienezza di grazia. In questa pienezza, il popolo cristiano ha sentito che doveva starci anche l’Immacolata Concezione.

 

Meditazione

La liturgia della Parola di questa festa ci consente di abbracciare in un solo sguardo il mistero della salvezza. Al centro delle letture c’è il testo tratto dalla lettera agli Efesini in cui Paolo medita quale sia il desiderio originario di Dio; la prima lettura, dalla Genesi, descrive la risposta umana, il peccato, che tuttavia non arresta il piano di Dio, ma lo trasforma in una promessa che attraversa la storia fino a compiersi nell’incarnazione del Figlio di Dio, come il racconto di Luca annuncia.

In Cristo il Padre «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi» (Ef 1,4-5). Adamo ed Eva non sanno accogliere questa gratuita iniziativa di Dio. In loro opera l’inganno della tentazione che li induce a ritenere di dover conquistare, in modo autonomo e autosufficiente, ciò che Dio intende dare loro gratuitamente: l’essere per lui figli santi e immacolati. Dopo il peccato Adamo ed Eva sono ancora tentati di percorrere la via dell’autonomia, senza affidarsi alla misericordia del Padre. Si nascondono e, riconoscendosi nudi, intrecciano foglie di fico per farne cinture (cfr. Gen 3,7). È Dio invece a intrecciare per loro una storia di salvezza, rivestendoli di tuniche di pelle (cfr. Gen 3,21) e promettendo loro che, nella lotta contro quel male che sempre insidia la vita umana, un figlio di donna, stirpe della sua stirpe, conseguirà la vittoria.

«Dove sei?», domanda Dio all’uomo peccatore. La risposta che Adamo non sa dare la darà Dio stesso nell’incarnazione del Figlio: siamo in lui, nel Cristo. Essere in Cristo è uno dei temi più cari e ricorrenti in Paolo ed emerge anche nel brano della lettera agli Efesini. «In lui» – l’apostolo lo ripete continuamente – Dio ci ha benedetti, ci ha scelti, ci ha reso eredi… e sempre «in lui» si fonda la nostra speranza e sale al Padre la nostra benedizione e la nostra lode alla sua gloria. Dove sei? Siamo in Cristo.

Tale è anche il segreto della vita di Maria, colei che si lascia totalmente rivestire dalla gratuità di Dio per dare carne a questa grazia che in lei si fa persona e assume un volto umano: «Colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Diversamente da Adamo ed Eva, che oppongono il loro progetto alla promessa di Dio, in Maria tutto è ascolto e recettività dell’agire divino. Si può rileggere il racconto di Luca facendo attenzione ai tre nomi con cui la vergine di Nàzaret viene chiamata. Il primo è quello con cui Gabriele la saluta: «piena di grazia», che traduce un’espressione greca più ricca di sfumature (kecharitoméne). Luca usa qui un participio perfetto di forma passiva. Un perfetto: in greco questo modo verbale indica un’azione passata che ha raggiunto la sua perfezione e perdura nel presente. Maria è stata e rimane oggetto del favore divino. Il participio è di forma passiva e ha come soggetto implicito Dio stesso: viene così posto l’accento sull’agire divino. Essere ricolma della grazia, prima che costituire una qualità di Maria, rivela l’atteggiarsi di Dio nei suoi confronti, il suo modo di guardarla e di incontrarla. Infine, il verbo indica una trasformazione. Non significa semplicemente guardare qualcuno con benevolenza, ma trasformare, in virtù di questo favore, l’oggetto del proprio sguardo, rendendolo amabile. Maria è l’amata da Dio e, in quanto amata, è totalmente rinnovata da questo amore. Il nome usato da Gabriele acquista così la sua pregnanza: da un lato sottolinea la gratuità dell’azione di Dio, dall’altro manifesta la recettività piena e cordiale da parte di Maria.

Solo dopo averla salutata con il nome che viene da Dio, Gabriele la chiama anche con il nome datele dagli uomini. La verità della vita di ciascuno di noi sta nel modo che Dio ha di guardarci e chiamarci. Il nome umano è Maria. Se confrontiamo questa scena con il precedente annuncio rivolto a Zaccaria (Lc 1,5-7.13) emerge una grande differenza. Di Maria non si dice nulla, ne della sua discendenza, ne delle sue qualità morali; nulla neppure di un suo desiderio di maternità. L’unica realtà ricordata è la sua verginità. Due volte, con insistenza, il testo afferma che Maria è vergine (vv. 27 e 28). Tale condizione segnala ancora una povertà: viene annunciata una gravidanza a una vergine, vale a dire a una persona che sembrerebbe del tutto impari rispetto al compito affidatele. Nello stesso tempo questa verginità sottolinea la radicale apertura e docilità di Maria verso l’agire di Dio. Tutto in lei è povertà che si apre ad accogliere la potenza di Colui al quale nulla è impossibile (cfr. v. 37).

Infine nel racconto risuona un terzo nome che Maria stessa si da in risposta al saluto dell’angelo: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38). Quello di Maria non è un semplice atto di obbedienza. E un modo peculiare di collocarsi davanti al Signore e di entrare nella giusta relazione con lui. L’angelo aveva salutato Maria annunciandole come Dio si relazionava con lei: il Signore è con te, tu sei la piena di grazia, colei che Dio ama e trasforma nel suo amore. Rispondendo, Maria afferma a sua volta come desidera che sia la sua relazione con Dio: sono la «schiava» del Signore. Colei che in tutto dipende dalla sua Parola. Quello di Maria è un atto di fede prima ancora che di obbedienza. Il suo atteggiamento mostra inoltre il legame che sussiste tra fede e umiltà. Non presume di sé; al contrario si domanda «com’è possibile? come posso io?»; di conseguenza si affida, facendo della propria povertà e inadeguatezza lo spazio nel quale il Signore può manifestare la sua potenza. Come canterà nel Magnificat, Dio ha potuto compiere in lei grandi cose, perché ha conosciuto l’umiltà, la piccolezza, il «niente» della sua serva. Dio agisce in lei non a misura della sua piccolezza, ma a misura della grandezza del proprio amore.

Possiamo comprendere il mistero dell’«Immacolata» alla luce di questi tre nomi, che tracciano anche per noi una via di santificazione personale.

 

Preghiere e racconti


La festa dell’Immacolata

«La prima festa dell’anno è l’Immacolata. Non è senza motivo che l’anno liturgico si apra con una visione di bellezza. Nella preghiera liturgica, anzi nella vita stessa della Chiesa il primato è della contemplazione – ogni attività apostolica e anche morale ha termine nella contemplazione della gloria divina, nel silenzio dell’adorazione, nel canto della lode. La Chiesa prima di tutto canta la bellezza. (…) La festa dell’Immacolata è visione di sovrumana bellezza».

(D. Barsotti, Il mistero cristiano nell’anno liturgico, 69).


Maria, vergine dell’attesa

Se andiamo alla ricerca di un motivo esemplare che possa ispirare i nostri passi, e dare agilità alle cadenze del nostro cammino in questo periodo che ci separa dal Natale, dobbiamo assolutamente rifarci alla Madonna. Lei è la Vergine dell’attesa, la Vergine dell’Avvento, la Madre dell’attesa.

Lo sapete che nel Vangelo, prima ancora che ci venga detto il suo nome, viene riferito un fremito d’attesa che ardeva nella sua anima? San Luca, prima ancora di dirci che «il suo nome era Maria» (Lc 1, 26), ci dice un’altra cosa: «In quel tempo l’angelo Gabriele venne mandato ad una ragazza promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide» (Lc 1, 26-27).

«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese. Fidanzata è colei che attende. Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni.

Maria viene presentata come la donna che attende. Fidanzata, cioè. Solo dopo ci viene detto il suo nome. L’attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l’ultima. E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l’ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura. Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell’ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni.

Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.

 

Maria, Vergine e Madre dell’attesa

Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell’attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell’attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa, all’inizio. Madre in attesa, alla fine. E nell’arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l’altra cosi divina, cento altre attese struggenti. L’attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L’attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L’attesa del giorno, l’unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L’attesa dell’«ora»: l’unica per la quale non avrebbe saputo frenare l’impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L’attesa dell’ultimo rantolo dell’unigenito inchiodato sul legno. L’attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia. Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all’infinito.

 

Con la lampada accesa

E noi oggi di che cosa parliamo se non di Avvento, di attesa? Voi promettete fede al Signore e con i vostri sospiri, con i vostri sentimenti, con le vostre attese, ricevete le tenerezze misteriose che vi riserva: vigilanti, così come si vive il periodo del fidanzamento, con il tripudio interiore.

Un giorno le nozze dell’Agnello le celebreremo tutti quanti. Saremo tutti invitati, tutti protagonisti. Verrà questo giorno!

Nei tempi gelidi che stiamo vivendo, nell’appannamento dei nostri entusiasmi e nella tristezza dei nostri peccati, non possiamo sentirci mancare il coraggio, al punto da non annunciarvi queste cose con forza, per quanto possano sembrare lontane, utopiche. No, non sono utopie, sono invece i luoghi dove noi realizzeremo veramente la nostra felicità, il nostro bene. Questo vi annunciamo oggi!

Le ragazze che sono davanti a me, sono anche un po’ l’icona di quello che dovremmo essere: con l’abito bianco, con la lampada accesa, in attesa; disponibili non soltanto a tenere la lampada accesa, ma anche a conservare una riserva sufficiente di olio nei recipienti, al punto che quando qualcuno ci rivolge quella preghiera così implorante e così umana che dice: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono!», noi possiamo rispondere non come le vergini prudenti: «No, perché non basta ne a noi ne a voi» (Mt 25, 9), ma: «Sì, vogliamo correre il rischio che non basti ne a noi ne a voi».

A voi che oggi non fuggite per la tangente dell’irreale, ma fate una scelta di concretezza, vorrei dire: «Amate il mondo e siate disponibili a dare l’olio alle lampade del mondo, perché anche il mondo possa attendere e possa vivere l’attesa».

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La vera tristezza

Oggi non si attende più. La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio. Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi sono fatti. E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere. La vita, allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco. Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle attese. E forse è vero.

Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i profumi dei pampini, degli ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne. Forse sto scappando anch’io per le tangenti del sogno, però – dite la verità – è così standardizzata la nostra vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c’imprigionano e ci stringono all’angolo, che non sappiamo più aspettare. Intuiamo tutti che abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.

 

Una «pro-vocazione»

Oggi l’Avvento c’impegna invece a prendere la storia in mano, a mettere le mani sul timone della storia attraverso la preghiera, l’impegno e starei per dire anche l’indignazione: indignatevi un po’, fratelli e sorelle! Indignatevi, perché abbiamo perso questa capacità; anche noi sacerdoti, anche noi vescovi, non ci sappiamo più indignare per tanti soprusi, tante ingiustizie, tante violenze… Tutto quello che viviamo ora, qui, non è solo una simbologia. Vorrei dirvi, cari fratelli, che questi ragazzi, Antonio e Stefano e poi Barbara e Francesca e Lorella e Miriam, devono diventare per noi una provocazione, uno scrupolo, una spina di inappagamento, messa nel fianco della nostra vita, un’icona, una «pro-vocazione», una chiamata da parte di chi sta un po’ più avanti. Con i gesti anche paradossali delle scelte audaci, ci stimolano ad essere uomini dell’attesa come Maria; ci spingono a non diffidare mai dei sogni, per essere capaci sempre di annunciare al mondo rovesciamenti da troni e innalzamenti dello stereo, come Maria, donna dell’attesa, che ha aspettato questa ricollocazione sui troni della giustizia per tutti coloro che, invece, vivono nel fetore delle stalle e nel sopruso degli egemoni, che schiacciano sempre la gente.

Attesa, attesa, ma di che? Che cosa aspettiamo?

Aspettiamo prima di tutto un cambio per noi, per la nostra vita spirituale, interiore, e poi avvertiamo che stiamo camminando su speroni pericolosi, su rocce che possono farci ruzzolare da un momento all’altro. Forse abbiamo assunto un modo non proprio allineato alla logica delle beatitudini.

Attesa quindi di rinnovamento per noi, attesa di rinnovamento per la storia dell’umanità. Attesa di cambi interiori della nostra mentalità: non siamo ancora capaci di pronunciare una parola forte per dire che la guerra è iniqua, che ogni guerra è iniqua! Ancora ci stiamo trastullando con i concetti della guerra giusta o ingiusta, o della difesa…

Abbiamo nelle mani il Vangelo della non violenza attiva, il codice del perdono, ma siamo ancora cristiani irresoluti, che camminano secondo le logiche della prudenza carnale e non della prudenza dello Spirito. Siamo gente che riesce a dormire con molta tranquillità, pur sapendo che nel mondo ci sono tante sofferenze. Sopportiamo facilmente che, all’interno della nostra città, col freddo che fa, le stazioni siano assediate da terzomondiali o da persone che vivono allo sbando, che non hanno più progetti.

Macché fidanzamento, che sogni, che attese di sandali, che profumi di vernice o di santità! Molta gente odora soltanto della tristezza dei propri sudari.

Fratelli e sorelle, vergini fidanzate, provocate questa gente! Oggi ci sono tante fotografie per voi, tanti lampeggiamenti di flash; sarebbe molto bello che ognuno di voi, con il suo obiettivo allargato, imprimesse la provocazione di un’attesa di cieli nuovi e terre nuove. Anche tu, Stefano, che ti accingi ad entrare nel consesso presbiterale; e tu, Antonio, che ci sei già entrato, che sei già lettore e annunci la parola di Dio e da oggi tocchi anche le patene, le pissidi: tocchi quello che sarà il corpo vivente del Signore. Questo contatto con i vasi sacri, col grano fatto pane, con l’uva fatta vino, ti mette in rapporto con il cosmo, con questa realtà materiale, toccabile, perché il regno di Dio viene costruito non con i fumi delle nostre utopie ma con le pietre che vengono scavate nelle cave della storia, della terra. Scommetto che anche il pane che si mangia nel cielo è intriso delle acque della nostra terra e del grano che viene prodotto dai nostri campi!

Buona attesa, dunque. Il Signore ci dia la grazia di essere continuamente allerta, in attesa di qualcuno che arrivi, che irrompa nelle nostre case e ci dia da portare un lieto annuncio!

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 45-54).

 

Benedetta sei Tu, Vergine Maria

Benedetta sei Tu, più grande del cielo, più bella della terra e più profonda di tutta la ragione, chi riesce a esprimere la Tua grandezza? Non c’è niente che sia uguale a Te, Vergine Maria. Ti glorificano gli angeli, Ti lodano i serafini, perché Colui che siede nella gloria è venuto a dimorare nel Tuo corpo. L’amico degli uomini ci ha innalzato fino a Sé, ha preso su di Sé la nostra morte, ci ha donato la vita Colui a cui appartiene onore e lode. Tu, Tu sola, nostra Signora, genitrice di Dio, sei madre della luce. Ti glorifichiamo con cantico di lode.

 

Sei il candelabro che porta la lampada sempre accesa, la luce del mondo, luce da luce senza inizio, Dio da Dio vero, che da Te prese senza mutamento la forma umana, che ci ha illuminati con la Sua venuta, noi che sedevamo nel buio e nell’ombra della morte, Luce che guida i nostri passi sulla via della pace per mezzo del mistero della Sua santa sapienza.

 

Rallegrati, benedetta vergine senza macchia, Tu vaso puro, Tu gloria del mondo, Tu luce intramontabile, Tu tempio indistruttibile, Tu bastone della fede, Tu solido sostegno dei santi. Prega per noi il Tuo figlio diletto, nostro redentore, perché abbia pietà di noi e sia misericordioso, e attraverso la Sua grazia ci siano perdonati i peccati per sempre.

Amen.

(Preghiera etiope)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

 

«La crisi è un travaglio, se ne esce insieme»

Discorso alla città di Milano del Crad.Scola

«Crisi e travaglio all’inizio del terzo millennio» è il titolo del primo «Discorso alla città» che il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, pronuncerà alle 18 durante la celebrazione vigiliare di sant’Ambrogio nella basilica dedicata al patrono della città e compatrono della diocesi. Ai Primi Vespri saranno presenti autorità, istituzioni e comunità etniche di Milano. Anticipiamo qui un passaggio del discorso che Scola pronuncerà stasera, martedì 6 dicembre.

L’allora Cardinale Montini, in occasione della festa di Sant’Ambrogio 1962, fece questa preziosa osservazione: «Siamo ormai così abituati noi moderni a considerare questa distinzione del profano dal sacro, che facilmente pensiamo i due campi non solo distinti, ma separati; e sovente non solo separati, ma ciascuno a sé sufficiente e dimentico della coessenzialità dell’uno e dell’altro nella formula integrale e reale della vita». Con questa sensibilità e con lo sguardo orientato al Santo Patrono vorrei offrire qualche riflessione sul delicato frangente che stiamo attraversando.
Entrare nei meandri della crisi economica e finanziaria è, per la stragrande maggioranza dei cittadini, un’impresa impervia. Qualsiasi analisi appena un po’ meno che generica diventa presto inintelligibile al profano. Così il discorso economico, e ancor più quello finanziario, si è fatto lontanissimo dalla possibilità di comprensione di coloro che pure ne sono i destinatari e gli attori finali, cioè tutti.
È necessario che l’economia e la finanza, senza ovviamente prescindere dal loro livello specialistico, non rinuncino mai ad esplicitare quello elementare e universale. Tutti debbono poter capire, almeno a grandi linee, la “cosa” con cui economia e finanza hanno a che fare. Non si può accettare una riflessione e una pratica dell’economia che prescinda da una lettura culturale complessiva che inevitabilmente implica un’antropologia ed un’etica.
A questo proposito mi sembra decisiva la prospettiva con cui si sceglie di guardare all’odierna situazione. Parlare di crisi economico-finanziaria per descrivere l’attuale frangente di inizio del Terzo Millennio non è sufficiente. A mio giudizio la crisi del momento presente chiede di essere letta e interpretata in termini di travaglio e di transizione.
Questo tempo in cui la Provvidenza ci chiama più che mai ad agire da co-agonisti nel guidare la storia è simile a quello di un parto, una condizione di sofferenza anche acuta, ma con lo sguardo già rivolto alla vita nascente: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16, 21). Il travaglio del parto esige però dalla donna l’impegno di tutta la sua energia umana. Così anche noi, cittadini immersi nella crisi economico-finanziaria, siamo chiamati a metterci in gioco, impegnando tutta la nostra energia personale e comunitaria. Il domani avrà un volto nuovo se rifletterà la nostra speranza di oggi. Una «speranza affidabile» deve quindi guidare le nostre decisioni e la nostra operosità.
Parlare di travaglio, e non limitarsi a parlare di crisi economico-finanziaria, vuol dire non fermarsi alle pur necessarie misure tecniche per far fronte alle gravi difficoltà che stiamo attraversando.
Secondo molti esperti la radice della cosiddetta crisi starebbe nel rovesciamento del rapporto tra sistema bancario-finanziario ed economia reale. Le banche sarebbero state spinte a dirottare molte risorse che avevano in gestione (e quindi anche il risparmio delle famiglie) verso forme di investimento di tipo puramente finanziario. Anche a proposito della nostra città si è potuto affermare: a Milano è rimasta solo la finanza.
Non spetta a me confermare o meno tale diagnosi. Voglio, invece, far emergere un dato che reputo decisivo: nonostante l’ostinato tentativo di mettere tra parentesi la dimensione antropologica ed etica dell’attività economico-finanziaria, in questo momento di grave prova il peso della persona e delle sue relazioni torna testardamente a farsi sentire.
In vista della necessaria ricentratura antropologica ed etica dell’economia – domandata a ben vedere dalla stessa ragione economica – è giusto riconoscere, come da più parti si è fatto, che la radice patologica della crisi sta nella mancanza di fiducia e di coesione.
Dalla crisi si esce solo insieme, ristabilendo la fiducia vicendevole. E questo perché un approccio individualistico non rende ragione dell’esperienza umana nella sua totalità. Ogni uomo, infatti, è sempre un “io-in-relazione”. Per scoprirlo basta osservarci in azione: ognuno di noi, fin dalla nascita, ha bisogno del riconoscimento degli altri. Quando siamo trattati umanamente, ci sentiamo pieni di gratitudine e il presente ci appare carico di promessa per il futuro. Con questo sguardo fiducioso diventiamo capaci di assumere compiti e di fare, se necessario, sacrifici.
Da qui è bene ripartire per ricostruire una idea di famiglia, di vicinato, di città, di Paese, di Europa, di umanità intera, che riconosca questo dato di esperienza, comune a tutti gli uomini.
Non basta la competenza fatta di calcolo e di esperimento. Per affrontare la crisi economico-finanziaria occorre anche un serio ripensamento della ragione, sia economica che politica, come ripetutamente ci invita a fare il Papa. È davvero urgente liberare la ragione economico-finanziaria dalla gabbia di una razionalità tecnocratica e individualistica. Ed è altrettanto urgente liberare la ragione politica dalle secche di una realpolitik incapace di capire il cambiamento e coglierne le sfide. La politica, nell’attuale impasse nazionale e nel monco progetto europeo, ha bisogno di una rinnovata responsabilità creativa perché la società non può fare a meno del suo compito di impostazione e di guida. A questa assunzione di responsabilità da parte della politica deve corrispondere l’accettazione, da parte di tutti i cittadini, dei sacrifici che l’odierna situazione impone. Per sollevare la nazione è necessario il contributo di tutti, come succede in una famiglia: soprattutto in tempi di grave emergenza ogni membro è chiamato, secondo le sue possibilità, a dare di più. Chi ha il compito istituzionale di imporre sacrifici dovrà però farlo con criteri obiettivi di giustizia ed equità, inserendoli in una prospettiva di sviluppo integrale (“Caritas in veritate”) che non si misura solo con la pur indicativa crescita del Pil.

 

Angelo Scola, arcivescovo di Milano

Cristiani e adulti

 

Due libri che giungono dal cattolicesimo vallone ci danno delle piste perché la Chiesa viva, nonostante le pesantezze dell’istituzione.
La Chiesa è forse in pericolo di vita? L’abisso che si crea tra le pratiche della base e le parole della gerarchia è tale che  “la Chiesa imploderà”, diagnostica Paul Löwenthal. L’ex presidente del Consiglio interdiocesano dei Laici (CIL) del  Belgio francofono conosce bene la vita delle comunità cattoliche.
Nel luo libro Ne laissons pas mourir l’Eglise. Foi chrétienne et identité catholique (Non lasciamo morire la Chiesa.  Fede cristiana e identità cattolica), passa in rassegna tutte le sfide a cui si trova confrontata. Non esita a porre  domande accusatrici ad un magistero ipertrofico che, sempre più, irrigidisce la tradizione. Forse che il magistero è lui  solo esperto in umanità? Che cosa ne fa, della libertà di coscienza? Della misericordia verso coloro che sono in  situazioni dolorose? Del riconoscimento dell’autonomia umana?
Dopo questa constatazione di un fallimento cocente della Chiesa nella modernità… e nei confronti delle persone più  impegnate, l’autore delinea il programma del cristiano adulto: libertà, responsabilità e apertura. Che continui ad agire  e ad impegnarsi: la moltiplicazione delle iniziative finirà per “far vacillare i capi”. Paul Löwenthal si ribella contro una  religione che invita ad osservare delle regole e chiede una Chiesa cattolica… più cristiana. Il discorso è a volte un po’ ripetitivo, ma l’analisi è acuta e colpisce nel segno. Molti cattolici fedeli al Vaticano II saranno d’accordo con lui.

 

Così come si troveranno a loro agio in “L’Eglise quand même. A l’écoute du peuple de Dieu (La Chiesa comunque. In  ascolto del popolo di Dio).Questo testo collettivo nato anch’esso nel CIL (Consiglio interdiocesano dei Laici), unisce  ugualmente analisi severa e amore per la Chiesa. Non è per la qualità letteraria che questo opuscolo è degno di  interesse, ma perché è frutto di una serie di inchieste, di conversazioni, di testimonianze di cattolici che ci svelano il  loro vissuto e le loro riflessioni sul “fare Chiesa” e sulle gioie e le difficoltà che vi vivono.
Presenta una valutazione della situazione, seguita dagli auspici espressi nell’inchiesta: una Chiesa fondata su piccole  comunità conviviali e fraterne che vivono la corresponsabilità in tutti i ministeri in uno spirito democratico. Sapendo  che l’essenziale è che il Vangelo sia meglio annunciato e ascoltato. Il CIL deduce dall’inchiesta dieci punti per dare  indicazioni sul futuro della Chiesa.

 

 

Ne laissons pas mourir l’Église. Foi chrétienne et identité catholique, Paul Löwenthal, Mols, 302
p., 22 €
L’Église quand même. À l’écoute du peuple de Dieu, Conseil interdiocésain des Laïcs, Fidélité, 120
p., 11,95 €

 

in “www.temoignagechretien.fr” del 29 novembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Paolo Dall’Oglio: La sete di Ismaele

 

Siria, ecco il monastero dove le fedi si incontrano

 


Un diario dal deserto. Gli articoli che padre Paolo Dall’Oglio ha scritto dal 2007 per il mensile internazionale «Popoli» sono ora raccolti nel volume La sete di Ismaele, in libreria da domani (Gabrielli, pagine 144, euro 12,00, introduzione  di Stefano Femminis). Il libro è arricchito dalla prefazione – di cui anticipiamo una parte – del giornalista e scrittore  Paolo Rumiz, che ha visitato l’antico monastero in cui ha sede la comunità monastica di  (www.deirmarmusa.org),  fondata da padre Dall’Oglio nel 1991 e dedita all’accoglienza e al dialogo interreligioso, in particolare con l’Islam. È dei  giorni scorsi la notizia che il religioso ha ricevuto dal governo siriano un decreto di espulsione, a causa del suo  impegno a favore della riconciliazione: sono in corso trattative con la Chiesa locale affinché l’effettività del decreto sia sospesa e il gesuita possa restare.

Deir Mar Musa. Il nome mi chiamava come una fata morgana, come la nostalgia di qualcosa di antico, qualcosa che  avevo dimenticato ma continuava ad agitarsi nel fondo dell’anima.
Quella fortezza della fede, arroccata sugli ultimi precipizi del Monte Libano davanti al deserto siriano, era una tappa  ineludibile del mio viaggio verso la Terra Santa. Cercavo i cristiani d’Oriente, eppure a parlarmi per primo del  monastero retto dal gesuita Paolo Dall’Oglio non era stato un prete ma un musulmano d’Italia. «Vai a vedere – aveva  detto – un luogo dove la tua fede ha imparato a convivere con l’islam». E aggiunse parole lusinghiere sulla capacità di  quel suo priore molto sui generis di capire il mondo musulmano pur tenendo dritta la barra del cristianesimo in quel  difficile avamposto.
Così andai, e già la lunga strada di avvicinamento lungo l’Anatolia fino alle terre alte del Tigri (dove comunità cristiane  di lingua aramaica vecchie di quasi due millenni resistevano miracolosamente alla pressione del nazionalismo islamico  urco) aveva ribaltato molte delle mie false certezze. Credevo, prima di prendere quella lunga strada, di  allontanarmi dal baricentro, dai punti di riferimento più forti della mia fede, e invece constatavo che proprio  allontanandomi da Roma avvertivo la presenza di un messaggio cristiano più limpido, cristallino, sempre più vicino alla sua fonte originaria, e sempre meno disturbato da tentazioni di egemonia e di potere. Era come se mi fosse  possibile prendere atto della mia identità e della mia cultura religiosa d’origine solo in terre dove il cristianesimo era  decisamente minoritario, se non addirittura perseguitato.
Erano passati, non dimentichiamolo, appena quattro anni dall’attentato alle Torri gemelle, e il discorso del conflitto di  civiltà era stato semplificato ad arte dai seminatori di zizzania come scontro religioso. Era anche per reagire a questa  semplificazione che avevo intrapreso quel viaggio tra i miei cugini d’Oriente, un viaggio che mi portava fatalmente a  sconfinare, un giorno sì e uno no, nei territori dell’ebraismo e della fede musulmana. Così, quando in una sera di  temporale imminente arrivai al monastero fortificato di Mar Musa, mi ero già reso conto che religiosi da prima linea  come Paolo Dall’Oglio si trovavano, con la loro semplice presenza, non soltanto a combattere con le infinite  suscettibilità del mondo musulmano, ma anche a scontare sulla loro pelle (con molte eccezioni s’intende) le  incomprensioni e i pregiudizi dei loro referenti d’Occidente. Di queste il priore di Mar Musa non volle mai parlarmi, ma  era mia ferma convinzione che esse ci fossero.
Ebbi la conferma, lì a Mar Musa, che per farsi riconoscere, il cristianesimo aveva anche bisogno di capire come Cristo e   discepoli erano visti dagli altri popoli del Libro. Nel suo ineguagliabile L’Usage du monde, Nicolas Bouvier racconta  del viaggio compiuto negli anni Cinquanta fino al subcontinente indiano. Nella tappa afghana egli narra di aver trovato  nel bazar di Kabul una raffigurazione di Gesù che ascendeva al cielo circondato da apostoli armati. Per un musulmano era magari concepibile che un profeta della bontà di Isa accettasse di essere catturato senza difendersi, ma era  assolutamente inammissibile che i suoi uomini rinunciassero a difenderlo. Vili, codardi, non avevano reagito. E  soprattutto, rinunciando a uccidere dei malvagi, essi avevano favorito la catena del male. La raffigurazione di discepoli  armati altro non era che il desiderio dei musulmani di rendere più presentabile il martirio di quel sant’uomo.  Ancora più interessante la visione degli ebrei ortodossi, così come mi era stata vivacemente spiegata da un rabbino  gerosolimitano di nascita italiana. Il difetto maggiore di Cristo? Non si era sposato, non aveva figli. Chi non fa figli non è  un uomo e non ascolta i comandamenti di Elohim: crescete e moltiplicatevi. E allora, mi disse, come fa a essere dio  uno che non è nemmeno uomo? E che dire dei discepoli, questi scioperati perdigiorno che avevano rinunciato alla  fatica della terra e del lavoro? Che garanzie di serietà potevano dare questi scapoloni a zonzo capaci di vivere solo alle spalle altrui? Sì, era fondamentale ascoltare storie così, sentire il parere degli “altri” per raccontare la “nostra” identità  con maggiore forza e consapevolezza.
Una sera pregammo insieme, in quel monastero che altro non era che la “reception” di un arcipelago di grotte  eremitiche sparse nelle rocce circostanti. Risuonarono antiche litanie, sentii la bellezza della preghiera cristiana  formulata in lingua araba, e la parole-chiave attorno cui tutto ruotava era “nur”, luce. Cantava Paolo Dall’Oglio dentro  una chiesa buia, dove la luce, appunto, era solo un raggio che entrava da una feritoia verso Oriente. Fu da quel viaggio  che cominciai a cercare la mia fede proprio nelle periferie, negli avamposti, nelle trincee di mondi considerati a rischio   nel profondo di stati marchiati come “canaglia” dalla geopolitica banalizzata dell’Occidente.
Ad Antiochia – incontrando la mia compagna di viaggio Monika Bulaj – una donna che si era convertita al  Cristianesimo e subiva per questo non poche ritorsioni, aveva spostato una tendina in casa sua e mostrato, dietro, un  foglio di giornale illustrato con la raffigurazione di Cristo. Sospirò e spiegò perché aveva deciso di seguirlo. «Come fai a  non fidarti di uno con un viso simile?», riassunse così il concetto, prima di riempirci il sacco da viaggio di frutta secca e caffè che a lei dovevano essere costati una fortuna.

Paolo Rumiz
in “Avvenire” del 4 dicembre 2011

Rapporto CENSIS sulla scuola italiana

Censis: a scuola meno abbandoni ma uno su quattro non si diploma

 

In Italia diminuiscono gli abbandoni scolastici, però è ancora lontano l’obiettivo europeo di giungere nel 2020 ad una media del 10% di ‘early school leavers’ cioè gli abbandoni prematuri della scuola. Non solo. Tra i giovani che si iscrivono alle superiori solo il 75% dei 19enni riesce a raggiungere il diploma. E’ quanto emerge dal 45° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese del Censis.

Nel 2010 la quota di giovani 18-24enni in possesso della sola licenza media e non più inseriti in percorsi formativi è scesa dal 19,2% al 18,8%, con varia intensità in tutte le aree del Paese, ad eccezione del Centro che rimane però l’area dove tale indicatore è  più contenuto (14,8%).

Restano però numerosi i punti critici e le discontinuità di intervento che rendono non lineari i risultati degli interventi di prevenzione e contrasto al fenomeno della dispersione scolastica. Sono soprattutto gli studenti delle isole maggiori a distinguersi per una profonda disaffezione ai percorsi scolastici e formativi. Ad esempio in Sicilia, dove gli ‘early school leavers’ sono più di un quarto dei 18-24enni residenti.

Inoltre, rileva il Rapporto, non sembra essere stato ancora adeguatamente affrontato il fenomeno laddove ha maggiore intensità, ovvero nel primo e, in misura minore, nel secondo anno delle superiori. Tra il 2006-2007 e il 2009-2010 la quota di abbandoni del percorso scolastico entro il biennio si è ampliata, passando dal 15,6% al 16,7%, in misura maggiore negli istituti professionali.

Ulteriore elemento di disomogeneità è rappresentato dalla maggiore o minore sinergia tra i soggetti istituzionali e non impegnati nel contrasto dei fenomeni di disagio giovanile.

E un altro fattore di complessità è rappresentato dal fatto che abbandoni e irregolarità sono sovente la conseguenza di un fenomeno pià ampio di disaffezione allo studio, determinato anche dalla carenza di prospettive di lavoro e da incerte traiettorie di vita futura.

Secondo il 54,4% dei dirigenti scolastici tra i propri allievi prevale la propensione a continuare negli studi, ma spesso senza un progetto di vita e di lavoro. Un ulteriore 45,1% osserva che i propri studenti non sembrano essere del tutto consapevoli delle reali difficoltà del mondo esterno alla scuola.

E’ semmai il disorientamento rispetto a un futuro incerto e precario, probabilmente aggravato dal perdurare della crisi economica, che nelle nuove generazioni può offuscare la riflessione rispetto al proprio percorso futuro.




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tuttoscuola.com

 

Censis: Italia ultima in Europa per l’occupazione dei laureati
Si interrompe la crescita dell’educazione degli adulti, l’istruzione tecnica non soddisfa le esigenze delle imprese

 

Il Rapporto Censis presentato oggi non si limita a dare una fotografia della scuola, ma esamina diffusamente tutto il mondo del lavoro, trattando di università, delle relazioni tra formazione e lavoro, e dell’educazione degli adulti.

Per quello che riguarda l’università, in Italia trova lavoro il 76,6%, dei laureati e il Belpaese si piazza all’ultimo posto tra i Paesi europei: la media Ue è dell’82,3%. Inoltre, difficilmente i giovani sono chiamati a coprire ruoli di responsabilità in tempi brevi, iniziando i percorsi professionali, nella maggioranza dei casi, al di sotto delle loro competenze: il 49,2% dei laureati 15-34enni e il 46,5% dei diplomati al primo impiego risultano sottoinquadrati. Sul fronte della mobilità transnazionale, poi, la partecipazione italiana necessita per il Censis di essere agevolata: il 12,1% dei giovani di età compresa tra 15 e 35 anni che dichiarano di aver soggiornato all’estero per istruzione e formazione è al di sotto della media europea (15,4%) di oltre 3 punti percentuali: valore ben lontano dal 27,8% e dal 23,6% di austriaci e svedesi.

Riguardo invece all’istruzione degli adulti, si è interrotto il trend di sia pur moderata crescita, attestandosi nel 2009 al 6% e risalendo debolmente l’anno successivo al 6,2, a fronte di una media europea del 9,1 nel 2010 e della soglia del 15% posta dalla strategia Europa 2020. L’istruzione degli adulti sembra essere relegata a un ruolo sempre più marginale: la relativa voce di spesa è diminuita di 72 punti percentuali passando dai 16 milioni di euro del 2009 ai 4,4 del 2011.

Un capitolo a parte merita merita l’ultima riforma del sistema scolastico italiano, che sembra aver dato nuovo slancio agli istituti tecnici che, supportati anche da un attivo interessamento da parte della rappresentanza imprenditoriale, registrano nel corrente anno scolastico un incremento dello 0,4% di iscrizioni al primo anno rispetto al 2010-2011 (dati riferiti alla sola scuola statale).

Il rinnovato appeal non si estende agli istituti professionali, che nello stesso periodo hanno perso ben il 3,4% di neoiscritti, a favore soprattutto dei percorsi liceali. Le annuali rilevazioni del Sistema informativo Excelsior sui fabbisogni professionali delle imprese italiane evidenziano, al contrario, come per le figure professionali assimilabili a quelle formate negli istituti professionali e/o nel circuito della formazione professionale di base ci sia una richiesta tutto sommato interessante e come nel 2011, rispetto al 2010, le richieste di personale con la sola qualifica professionale siano aumentate, passando dall’11,7% al 13,5%.

L’offerta di percorsi triennali di IeFp (Istruzione e Formazione professionale) non sembra riuscire a colmare questa lacuna, almeno in termini quantitativi. I giovani che si rivolgono a questo tipo di percorsi costituiscono solo il 6,7% del totale degli iscritti al secondo ciclo di istruzione, pari a circa 38.000 studenti. Mentre in Germania e in Austria il 95% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 35 anni ritiene che i percorsi professionalizzanti possano costituire un’opzione interessante, in Italia tale posizione è espressa solo dal 50%, il valore più basso di tutta l’area.




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tuttoscuola.com

Il Centro Salesiano di Pastorale Giovanile (CSPG)

Storia

Raccogliendo le esperienze e le riflessioni di una lunga tradizione nel campo dell’impegno pastorale ed educativo salesiano e con la consapevolezza della crescente complessità della situazione giovanile e culturale, il Centro Salesiano Pastorale Giovanile (CSPG) nasce nel 1966 e si costituisce come comunità a Torino (1973) con il compito di conoscere meglio la condizione giovanile in rapida evoluzione, raccogliere e coordinare le migliori riflessioni ed esperienze salesiane, suscitare e orientare l’azione educativa degli ambienti salesiani.

Il suo campo di competenza e di intervento sono prevalentemente i “settori formativi” in ogni ambiente dove vivono i giovani: catechesi e liturgia, formazione spirituale-morale e formazione sociale, associazioni e movimenti giovanili, orientamento vocazionale, cultura e tempo libero.

Gli strumenti operativi sono essenzialmente la rivista Note di pastorale giovanile (1967), notiziari di collegamento e di sussidiazione interni alla Congregazione Salesiana, la rivista per giovani Dimensioni (nata nel 1962) e per preadolescenti Ragazzi Duemila (Mondo Erre dal 1975).

Per potenziare l’azione del Centro e favorire i contatti con il Dicastero centrale di pastorale giovanile dei Salesiani, l’Università Salesiana UPS e altri organismi di animazione salesiani ed ecclesiali, nel 1983 il CSPG si trasferisce a Roma, e con esso la rivista Note di pastorale giovanile.

Nel 1987 entra a far parte di una comunità che accoglie altri servizi di animazione della Congregazione Salesiana, comunità che nel 1993 diventa sede del Centro Nazionale Opere Salesiane (CNOS), con il compito statutario di animazione pastorale e coordinamento di tutte le opere salesiane operanti sul territorio con intendimento educativo. 
All’interno di essa il CSPG conferma la sua principale attività di studio e di proposta educativa e pastorale per la Congregazione e la Chiesa in Italia, mentre si apre a nuove attenzioni e collaborazioni: il “Sud” d’Italia, l’Ufficio di pastorale giovanile della CEI e gli incaricati diocesani di PG, numerose diocesi e congregazioni nella loro rinnovata attenzione ai giovani.

Il CSPG si è reso presente nel mercato editoriale (quasi esclusivamente attraverso l’Editrice Elledici) con numerose collane per gli operatori pastorali e per i giovani stessi. Ricordiamo in particolare la serie “Animazione dei gruppi giovanili” e “Preghiere per i ragazzi e i giovani”. Particolarmente significativa, per il grande successo editoriale ottenuto, la pubblicazione dei “Quaderni dell’animatore”, che ha segnato nel campo ecclesiale e laico la ripresa di interesse per la formazione degli animatori. 
Il CSPG si è fatto inoltre promotore di ricerche sociologiche che hanno riportato alla cura degli educatori “un’età negata” (i preadolescenti), ed ha collaborato a una ricerca dell’Università Salesiana sull’esperienza religiosa dei giovani.

Lungo gli anni ’90 editorialmente si è impegnato nella riedizione (totalmente rinnovata) dei “Quaderni dell’animatore”, nell’arricchimento delle collane “Meditazioni per educatori” e “Meditazioni per adolescenti e giovani”, nel completamento della collana “Teologia per giovani animatori” con la collana “Parlare di Dio” e nella pubblicazione di materiali pratici per i vari itinerari di educazione alla fede.
Nei primi anni del nuovo Millennio la famosa collana “quadrotta” sulla formazione degli animatori è stata sostituita da una nuova collana (sempre pubblicata dall Elledici) “Pastorale giovanile e animazione”: un progetto in 10 volumi che costituisce un vero e proprio corso (di base e di approfondimento) per la formazione di questa figura ecclesiale dell’animatore che sempre più acquista nella chiesa e nelle istituzioni educative rilevanza e legittimità.

http://www.cnos.org/

Il Progetto Policoro

24° Corso di Formazione Nazionale Progetto Policoro

S. Maria degli Angeli – Assisi, 30 novembre – 4 dicembre 2011

Il 24° modulo formativo nazionale del Progetto Policoro vede coinvolti 174 giovani/adulti dei quattro (tre più uno “senior”) anni di corso. Nell’ambito dei lavori sono previsti, tra gli altri, gli interventi di mons. Angelo Casile, direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro, don Domenico Beneventi, aiutante di studio del Servizio Nazionale per la pastorale giovanile e di Piero Rinaldi di Caritas Italiana. Tra i temi che verranno approfonditi, l’identità del Progetto Policoro tra vocazione, educazione e animazione, e gli approfondimenti sul Compendio della Dottrina sociale della Chiesa. «Agli animatori – spiega mons. Casile – viene proposto un cammino incentrato sulla chiamata personale, riconoscibile tramite i segni dell’amore di Dio Padre nella vita di ciascuno e il servizio nella comunità e con la comunità. L’itinerario di crescita indicato intende condurli alla testimonianza dell’Amore ricevuto fra i coetanei. L’educazione, così, apre a domande profonde di senso e l’evangelizzazione assume i volti degli uomini, testimoniando una Chiesa che va oltre il fatalismo e realizza gesti concreti, come ad esempio i progetti elaborati attraverso il microcredito. Proprio a quest’ultima importantissima pratica saranno dedicate le testimonianze di alcune cooperative presenti al corso e l’intervento del prof. Daniele Ciravegna, presidente della Fondazione don Mario Operti». Il programma dei lavori prevede anche una visita alla Basilica di San Francesco e a quella di Santa Chiara e la partecipazione al musical “Notte di Natale 1211”. Tra i partecipanti a questo corso sono da segnalare giovani/adulti provenienti da dieci diocesi ulteriormente coinvolte nel Progetto Policoro: Anagni-Alatri, Cesena-Sarsina, Modena-Nonantola, Palestrina, Prato, Pistoia, Senigallia e Velletri-Segni.
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Presentazione del Progetto Policoro

di don Angelo Casile


Cos’è il Progetto Policoro? È un progetto organico della Chiesa italiana che tenta di dare risposta concreta al problema della disoccupazione in Italia. Policoro, città in provincia di Matera, è il luogo dove si svolse il primo incontro il 14 dicembre del 1995, subito dopo il 3° Convegno Ecclesiale Nazionale tenuto a Palermo. Si vuole affrontare il problema della disoccupazione giovanile, attivando iniziative di formazione a una nuova cultura del lavoro, promuovendo e sostenendo l’imprenditorialità giovanile e costruendo rapporti di reciprocità e sostegno tra le Chiese del Nord e quelle del Sud, potendo contare sulla fattiva collaborazione di aggregazioni laicali che si ispirano all’insegnamento sociale della Chiesa.

Ideatore del Progetto Policoro è mons. Mario Operti: nato a Savigliano (Cuneo) nel 1950, sacerdote della diocesi di Torino, direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI (1995-2000), deceduto il 18 giugno 2001.

L’icona biblica del Progetto è tratta dagli Atti degli Apostoli (3,1-10). Pietro e Giovanni, allo storpio che chiedeva l’elemosina alla Porta Bella del Tempio di Gerusalemme, non hanno da offrire ricchezze materiali, ma il Vangelo che è Gesù. «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!». La Chiesa offre a ogni persona il suo tesoro, Gesù. La ricchezza del Vangelo cambia la vita e aiuta le persone ad alzarsi dalla strada della rassegnazione e del mendicare assistenza per camminare insieme e con cuore nuovo lungo i sentieri della speranza e dell’autentico sviluppo.

Nella convinzione di «stare dentro la storia con amore»[1], l’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro coinvolse il Servizio Nazionale per la pastorale giovanile e la Caritas Italiana nell’incontro svolto a Policoro (14 dicembre 1995), che vide la partecipazione dei rappresentanti diocesani di Basilicata, Calabria e Puglia e di alcune Associazioni laicali per riflettere sulla disoccupazione giovanile nella sicura speranza che l’Italia «non crescerà se non insieme»[2].

Il Progetto è per tutta l’Italia. Avviato nel 1995 in Basilicata, Calabria e Puglia, oggi il Progetto coinvolge sempre più Campania, Sicilia, Sardegna, Abruzzo-Molise, Umbria, Emilia-Romagna e ultimamente il Lazio, le Marche e la Toscana per un totale di 97 diocesi e 137 animatori. Con le altre regioni, in particolare Lombardia, Piemonte e Triveneto sono attivi fin dall’inizio importanti rapporti di reciprocità, che si basano sulla comunione ecclesiale.

Il documento dell’Episcopato italiano Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno (2010), scritto a vent’anni dal documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno (1989), ha riconosciuto il Progetto Policoro «tra i segnali concreti di rinnovamento e di speranza che hanno per protagonisti i giovani, […] con l’intento di affrontare il problema della disoccupazione giovanile, attivando iniziative di formazione a una nuova cultura del lavoro, promuovendo e sostenendo l’imprenditorialità giovanile e costruendo rapporti di reciprocità e sostegno tra le Chiese del Nord e quelle del Sud, potendo contare sulla fattiva collaborazione di aggregazioni laicali che si ispirano all’insegnamento sociale della Chiesa»[3].

L’intuizione fondamentale del Progetto Policoro è il lavorare insieme di diversi soggetti (ecclesiali, associativi, istituzionali) attorno allo stesso problema (la disoccupazione) nell’ottica dell’attenzione alla persona e alla società per un loro autentico sviluppo nella solidarietà, sussidiarietà e reciprocità tra le Chiese del Nord Italia e del Sud Italia.

Il metodo sviluppato dal Progetto Policoro consiste nel coinvolgere sempre più sul territorio e in sinergia le diocesi, con l’apporto competente dei direttori degli Uffici e degli animatori di comunità, e le associazioni per evangelizzare il lavoro e la vita, educare e formare le coscienze, esprimere gesti concreti (idee imprenditoriali e reciprocità). Lo stile è quello di aiutarsi a crescere insieme nel rispetto reciproco delle specificità e competenze, nella solidarietà e nella comunione. La virtù cristiana che lo sostiene è la speranza.

 


[1] Conferenza Episcopale Italiana, Con il dono della carità dentro la storia, 26 maggio 1996, n. 6.

[2] Consiglio Permanente della CEI, La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 23 ottobre 1981, n. 8.

[3] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 21 febbraio 2010, n. 12.

 

Programma.pdf
Programma_sintetico.doc
Il Progetto come vocazione, Casile
Chiamati ad educare a… .Beneventi
Alle radici di un impegno, Rinaldi
Il Microcredito nel Progetto
Presentazione Progetto Policoro 2012
Conclusioni, Casile e Beneventi

Nasce Eurypedia, banca dati sull’educazione

 

 

Ha pochi giorni di vita, ma si annuncia come un servizio molto utile per tutti quelli, addetti ai lavori e non, che sono interessati alla scuola.

Eurypedia – espressione di European Schoolnet – già nel nome suggerisce la propria vocazione enciclopedica e settoriale.

Si tratta, nel complesso, di una banca dati incentrata sulla raccolta sistematica e aggiornata di tutto quello che concerne i sistemi educativi sia dei Paesi europei sia di tutte le altre nazioni coinvolte solitamente nelle rilevazioni internazionali. Il servizio è disponibile principalmente in inglese, ma anche, in alcuni casi, in altre lingue.

E’ possibile reperire informazioni per nazione oppure per argomento o per ordine di scuola. Sono disponibili informazioni anche sulle iniziative in corso e sulle politiche scolastiche nazionali, sui finanziamenti assegnati ai diversi progetti.

Si può consultare un glossario delle abbreviazioni e delle parole chiave e, nella bibliografia, sono raccolte le fonti consultate.

L’ambiente è di immediata lettura, con una simbolizzazione studiata per orientare con certezza chi naviga nel sito, raggiungibile attraverso il link : http://eacea.ec.europa.eu/education/eurypedia






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