Natale del Signore (Anno B)

NATALE DEL SIGNORE

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 52,7-10

 

Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme,  perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

 

v Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno. Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza. È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli. Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui. Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.

Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore. Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.

 

Seconda lettura: Ebrei 1,1-6

Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».

 

v Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei. Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».

Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui». C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.

Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli». L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.

All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata. In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa. Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.

 

Vangelo: Giovanni 1,1-18

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

 

Il Vangelo in immagini

NATALE DEL SIGNORE ANNO B

 

Esegesi

Quante volte può capitare che una notizia buona renda «bella» anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine un po’ ardita, ai piedi «belli» di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene della salvezza, che consiste nel fatto che Dio regna. Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati e reagiscono con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato ap-pello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Il ritorno di Dio produce il cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza la prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro; Dio, infatti, dimostra di essere dalla parte del suo popolo liberandolo dai suoi nemici.

Le parole del profeta fanno da introduzione allo stupendo prologo giovanneo, dove troviamo un araldo d’eccezione quale Giovanni il Battista, qualificato come «testimone»: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce» (Gv 1,6-8). Il Battista, quindi, rende noto che il «ritorno» di Dio è ormai realizzato, al punto da fargli gridare: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me» (Gv 1,15). Si tratta di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che era anche prima di nascere tra gli uomini. Egli è colui che il vangelo di Giovanni definisce Verbo, poi vita e luce; Egli è colui che, pur essendo Dio come suo Padre, s’incarna e diventa essere umano per meglio servire l’umanità. La gioia di cui parla il Deutoroisaia è sostituita qui dallo splendore della luce e dall’abbondanza della vita. Eppure, realisticamente, si annuncia: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta […].Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto» (Gv 1,4-5.10-11).

Dal Verbo scaturisce per noi ciò che l’umanità, seppur a tentoni, ha sempre tentato di conoscere, ossia Dio, che non è stato mai visto da nessuno, in quanto soltanto il suo Figlio unigenito, che ha con Lui un’intimità perfetta (1,18: «che è Dio ed è nel seno del Padre»), ce l’ha potuto rivelare. Il mistero del Natale, dunque, ci invita a prendere coscienza di tutta questa grandezza, che nemmeno i profeti avevano potuto immaginare. La presenza in mezzo a noi dell’erede di Dio Padre, Gesù Cristo, «Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,3), è un evento così sconvolgente quanto desiderato da rendere  difficile il parlarne e da far sentire inadeguato chi vuole accoglierlo.

Perciò, circondati dalla luce, sostenuti dal Verbo, potenziati dalla vita comunicataci da Gesù non ci rimane che arrenderci al Dio che viene a visitarci e a guarire le nostre ferite.

 

Meditazione

La luce giunge ora, nella terza Messa di Natale, a illuminare il giorno pieno. «Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia…Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio» (Sal 97,2.3). Tutto questo perché «si è ricordato del suo amore», canta ancora il salmo responsoriale. Quello che gli occhi delle genti e i confini della terra contemplano è proprio la luminosità di questo amore. Anche il profeta Isaia, nella prima lettura, insiste nell’annunciare una salvezza che tutti i confini della terra vedranno. Le sentinelle scrutano con i loro occhi il ritorno del Signore a Sion, le orecchie ascoltano le buone notizie del messaggero che annuncia la pace e la salvezza (cfr. Is 52,5-7.10). Dio, in questi giorni che sono gli ultimi, parla a noi per mezzo del Figlio (cfr. Eb 1,2). La luce splende nelle tenebre, che non riescono a vincerla anche quando non vogliono accoglierla; per questo noi possiamo contemplare, nel Verbo che si fa carne e pianta la sua tenda in mezzo a noi, la «gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Anche Colui che i nostri occhi non possono vedere, quel Dio che nessuno ha mai visto, ora il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui ce lo racconta! Ogni uomo viene illuminato dalla luce vera che viene nel mondo. Questa luce non solo ci è donata affinché la contempliamo o ci lasciamo da essa illuminare; più radicalmente essa ci trasforma, rendendoci a nostra volta luminosi. Giovanni non è la luce, ma viene come testimone della luce, perché, credendo attraverso la sua testimonianza, noi possiamo diventare figli di Dio, partecipando del suo stesso essere luce. Il Battista rende testimonianza alla luce nel suo farsi luminoso, perché si lascia raggiungere e trasformare dalla luce del Logos.

Ora siamo davvero nel giorno pieno e tutto nella liturgia della Parola torna a sottolineare ciò che può essere visto, udito, contemplato. Potremmo ripetere, con le parole di Giovanni nella prima lettera, «quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo a voi, perché siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,1-4). Siamo davvero nel giorno pieno, non solo perché la luce risplende, ma perché tutto in noi – vista, udito, tatto, cuore – è reso capace di riconoscere e gustare la sua presenza. Tutto diviene possibilità di comunione, con il mistero di Dio e tra di noi. Tutto diviene vita piena, gioia compiuta, annuncio credibile, testimonianza efficace.

Senza entrare nel dibattito su chi sia l’autore del vangelo e della prima lettera di Giovanni, se si tratti dello stesso scrittore o meno, certamente c’è una grande affinità tra i due prologhi con cui si aprono entrambi gli scritti. Un prologo rappresenta certo, secondo le regole retoriche, un momento delicato e decisivo attraverso cui un autore stabilisce un rapporto vivo ed efficace con il suo lettore. Rappresenta anche, nello stesso tempo, la difficoltà di un inizio. La parola deve trovare i modi migliori per esprimersi e incominciare a raccontare. Leggendo il vangelo di Giovanni, ma anche la prima lettera, si ha come l’impressione che l’autore lasci da parte la sua parola per consentire l’irrompere della Parola; lasci da parte ogni preoccupazione su come iniziare, per consentire all’inizio di ogni inizio, a ciò che è «in principio», di rivelarsi e di essere davvero all’origine di ogni altra parola, di ogni altra esperienza, di ogni altra vita, che trova soltanto in Lui la sua origine e la sua consistenza. È come se l’autore, più che iniziare a raccontare, volesse concedere a Colui che è al principio di raccontarsi, di raccontare il Padre, di raccontare la verità di ogni uomo, chiamato in Lui alla vita eterna, a divenire figlio di Dio, a lasciarsi illuminare dalla sua gloria.

Questa dinamica, che emerge in questa esperienza di inizio di scrittura, non è vera per la vita di ogni uomo e di ogni donna? Più che preoccuparci di come vivere, non dovremmo lasciare che sia la vita in pienezza a irrompere in noi con la sua luce, con la sua potenza, che ha fatto tutto ciò che esiste, con il suo dono che ci offre il potere di diventare figli di Dio? In ogni Natale, mentre celebriamo la memoria e continuiamo a contemplare il venire della luce vera, l’abitare in mezzo a noi del Logos che si fa carne, il nascere del bambino di Nazaret, di fatto torniamo a nascere anche noi – è quel «nascere dall’altro, da acqua e da Spirito» di cui parla Gesù a Nicodemo (cfr. Gv 3,3-9) – a condizione di deporre la nostra pretesa di essere il «principio» di noi stessi per accogliere davvero il solo che è al principio della nostra vita e della nostra salvezza. Egli infatti ha voluto assumere la nostra natura umana perché noi potessimo condividere la sua vita divina, come prega la Colletta della Messa del giorno.

 

Preghiere e racconti

 

Andiamo fino a Betlemme!

Miei cari fratelli,

Vorrei essere per voi uno di quei pastori veglianti sul gregge, che la notte del primo Natale, dopo l’apparizione degli angeli, alzò la voce e disse ai compagni: «Andiamo fino a Betlemme, e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori. Ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il vincastro, e scendere giù per le gole di Giudea, lungo i sentieri odorosi di stereo e profumati di menta. Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l’antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori. I quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d’Oriente. Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste… per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori. Ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni nelle circospezioni di infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.

Andiamo fino a Betlemme. E un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all’indietro», è l’unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall’ipoteca della morte.

Auguri, allora, miei cari fratelli.

Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quella della nostra anima sarà libero di smog privo di segni di morte e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

 

Buon Natale! Vostro

 

+ don Tonino, vescovo

 

(Antonio Bello, Oltre il futuro. Perché sia Natale, Molfetta, Luce e vita/La Meridiana, 1995, 25-27).

I pastori

Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori. Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.

Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione. Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.

Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?

 

Esulta dunque!

Ecco quale è la festa che celebriamo oggi: la venuta di Dio presso gli uomini affinché andiamo a Dio o ritorniamo a lui – è più esatto parlare di ritorno -, affinché deponiamo l’uomo vecchio e ci rivestiamo del nuovo (cfr. Ef 4,22-24) e, come siamo morti in Adamo, così viviamo in Cristo (cfr. 1Cor 15,22), nascendo con lui, con lui essendo crocifissi, con lui sepolti, con lui resuscitando (cfr. Rm 6,4; Col 2,12; Ef 2,6). […] Per questo non celebriamo la festa come fosse una solennità profana, ma in maniera divina, non in maniera mondana, ma sovramondana, non come una nostra festa, ma come quella di colui che è nostro, o piuttosto del Signore, non come festa della malattia, ma della guarigione, non come quella della creazione, ma della ri-creazione. […] Dio sempre fu e sempre è e sarà, o piuttosto, egli è sempre. Poiché le espressioni «era» e «sarà» corrispondono a divisioni umane del tempo e della natura sottoposte a mutamento; «colui che è» è invece il nome che si da Dio stesso quando si rivela a Mosè sulla montagna (cfr. Es 3,14). Riunendo tutto in se stesso, possiede l’essere senza principio, senza termine, è come un oceano di esistenza senza limiti né confini, che va al di là di ogni idea di tempo e di natura. […] Ma ora sappi che Cristo è concepito. Esulta, dunque, se non come Giovanni nel seno di sua madre (cfr. Lc 1,41), almeno come Davide al vedere che l’arca trova riposo (cfr. 2Sam 6,14) ; onora il censimento, grazie al quale sei stato inscritto nei cieli; celebra la Natività grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia, tu che, insensato, sei stato nutrito dal Verbo.

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi 38,4.7.17, SC 358, pp. 108-110; 114-116).

 

In principio era il Verbo

La liturgia di questa domenica ripropone il Prologo del Vangelo di san Giovanni, proclamato solennemente nel giorno di Natale. Questo mirabile testo esprime, nella forma di un inno, il mistero dell’Incarnazione, predicato dai testimoni oculari, gli Apostoli, in particolare da Giovanni, la cui festa, non a caso, si celebra il 27 dicembre. Afferma san Cromazio di Aquileia che “Giovanni era il più giovane di tutti i discepoli del Signore; il più giovane per età, ma già anziano per la fede» (Sermo II,1 De Sancto Iohanne Evangelista, CCL 9a, 101). Quando leggiamo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1), l’Evangelista – paragonato tradizionalmente ad un’aquila – si eleva al di sopra della storia umana scrutando le profondità di Dio; ma ben presto, seguendo il suo Maestro, ritorna alla dimensione terrena dicendo: “E il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). Il Verbo è “una realtà vivente: un Dio che … si comunica facendosi Egli stesso Uomo» (J. Ratzinger, Teologia della liturgia, LEV 2010, 618). Infatti, attesta Giovanni, “venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). “Egli si è abbassato ad assumere l’umiltà della nostra condizione – commenta san Leone Magno – senza che ne fosse diminuita la sua maestà” (Tractatus XXI, 2, CCL 138, 86-87). Leggiamo ancora nel Prologo: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia” (Gv 1,16). “Qual è la prima grazia che abbiamo ricevuto? – si chiede sant’Agostino – È la fede”. La seconda grazia, subito aggiunge, è “la vita eterna” (Tractatus in Ioh. III, 8.9, CCL 36, 24.25).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 02.01.2011).

 

Il Verbo si è fatto carne

A imitazione di Gesù Cristo, immagine di Dio, non allontaniamoci neppure noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio (cfr. Gen 1,26-27), di certo non uguale perché creata dal Padre attraverso il Figlio e non nata dal Padre come [il Figlio, che è] la sapienza di Dio. Noi siamo immagine perché illuminati dalla luce; il Figlio, invece, perché è luce che illumina e perciò, pur non avendo un modello per sé, è modello per noi. Egli non è modellato su qualcuno che lo precede presso il Padre; dal Padre, infatti, non può mai essere separato perché egli è quello stesso da cui ha origine. Noi, invece, cerchiamo di imitare un modello che non muta, seguiamo uno che non si muove e camminando in lui, che è per noi una dimora eterna, tendiamo a lui perché è divenuto per noi nella sua umiliazione una via attraverso il tempo. Agli spiriti immateriali senza peccato che non sono caduti a motivo della superbia il Figlio offre un esempio nella forma di Dio, in quanto uguale a Dio e Dio, ma per offrirsi come esempio di ritorno all’uomo caduto, che a causa dei suoi peccati e della condanna alla mortalità era incapace di vedere Dio, «si è svuotato» (Fil 2,7), non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo (cfr. Fil 2,7) verso di noi, lui che era in questo mondo, perché «il mondo è stato fatto per mezzo di lui»  (Gv 1,10), per essere un esempio a quelli che nelle altezze contemplano Dio, per essere un esempio a quelli che sulla terra ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per quanti si preparano a morire, esempio di resurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose (cfr. Col 1,18). Per conseguire la felicità l’uomo non doveva seguire nessun altro se non Dio, ma egli non era in grado di vedere Dio; seguendo il Dio fatto uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che poteva vedere e uno che doveva seguire. Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che «è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).

(AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità 7,12-13, Opere di sant’Agostino, parte I/IV, pp. 302-304).

 

Oggi

viene svelato il mistero

rimasto nascosto per secoli.

Oggi il Figlio di Dio

diventa figlio dell’uomo…

Maria,

confusa e dolce,

tu guardi il Figlio,

colui che ha le fattezze del tuo volto,

volto umano di Dio,

che ridarà bellezza ad ogni volto d’uomo.

Adori il mistero e ti abbandoni

alla sua grandezza.

Ricolmaci, o Madre,

della tua pace,

ridonaci la bellezza della grazia,

e aiutaci a farci grembo a Dio,

perché cresca in noi…

 


* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

Ortodossia: le sfide del secolo XXI. Sul futuro della teologia ortodossa

Il primo e, secondo la mia opinione, il grande problema della teologia ortodossa oggi è la mancanza di proposte positive. Quando nel decennio degli anni Sessanta la generazione dei teologi, alla quale io appartengo, «fece la rivoluzione» – in qualche modo – nella teologia accademica come l’avevano configurata al seguito dei modelli occidentali le generazioni precedenti (Androutsos ecc.) non si limitò alla critica ma avanzò anche proposte positive. Alcuni, come Giovanni Romanidis, attinsero alla tradizione esicasta e configurarono la teologia attorno all’asse del vissuto personale con un intenso elemento carismatico. Altri, come Christos Yannaras, hanno aperto la teologia ortodossa all’ambito della filosofia mettendo in luce l’ontologia della relazione. Personalmente ho trovato nella divina eucaristia la chiave per la comprensione, prima della struttura e delle funzioni della Chiesa e poi della stessa antropologia (con la nozione di persona come comunione e alterità) e infine del mistero stesso del Dio trino come essenza e persone, comunione e alterità.

Regno-att. n.20, 2011, p.661

 

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“Libertà religiosa, via per la pace”.

 

Pubblichiamo  il testo del Messaggio del Santo Padre per la 44a Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2011, sul tema: “Libertà religiosa, via per la pace”.


 

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
XLIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2011

 

LIBERTÀ RELIGIOSA, VIA PER LA PACE

1. All’inizio di un Nuovo Anno il mio augurio vuole giungere a tutti e a ciascuno; è un augurio di serenità e di prosperità, ma è soprattutto un augurio di pace. Anche l’anno che chiude le porte è stato segnato, purtroppo, dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosa.

Il mio pensiero si rivolge in particolare alla cara terra dell’Iraq, che nel suo cammino verso l’auspicata stabilità e riconciliazione continua ad essere scenario di violenze e attentati. Vengono alla memoria le recenti sofferenze della comunità cristiana, e, in modo speciale, il vile attacco contro la Cattedrale siro-cattolica “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” a Baghdad, dove, il 31 ottobre scorso, sono stati uccisi due sacerdoti e più di cinquanta fedeli, mentre erano riuniti per la celebrazione della Santa Messa. Ad esso hanno fatto seguito, nei giorni successivi, altri attacchi, anche a case private, suscitando paura nella comunità cristiana ed il desiderio, da parte di molti dei suoi membri, di emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita. A loro manifesto la mia vicinanza e quella di tutta la Chiesa, sentimento che ha visto una concreta espressione nella recente Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi. Da tale Assise è giunto un incoraggiamento alle comunità cattoliche in Iraq e in tutto il Medio Oriente a vivere la comunione e a continuare ad offrire una coraggiosa testimonianza di fede in quelle terre.

Ringrazio vivamente i Governi che si adoperano per alleviare le sofferenze di questi fratelli in umanità e invito i Cattolici a pregare per i loro fratelli nella fede che soffrono violenze e intolleranze e ad essere solidali con loro. In tale contesto, ho sentito particolarmente viva l’opportunità di condividere con tutti voi alcune riflessioni sulla libertà religiosa, via per la pace. Infatti, risulta doloroso constatare che in alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi. I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Tanti subiscono quotidianamente offese e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale.[1]

Nella libertà religiosa, infatti, trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona. Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana; ciò significa rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana.

Esorto, dunque, gli uomini e le donne di buona volontà a rinnovare l’impegno per la costruzione di un mondo dove tutti siano liberi di professare la propria religione o la propria fede, e di vivere il proprio amore per Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (cfr Mt 22,37). Questo è il sentimento che ispira e guida il Messaggio per la XLIV Giornata Mondiale della Pace, dedicato al tema: Libertà religiosa, via per la pace.

Sacro diritto alla vita e ad una vita spirituale

2. Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana,[2] la cui natura trascendente non deve essere ignorata o trascurata. Dio ha creato l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,27). Per questo ogni persona è titolare del sacro diritto ad una vita integra anche dal punto di vista spirituale. Senza il riconoscimento del proprio essere spirituale, senza l’apertura al trascendente, la persona umana si ripiega su se stessa, non riesce a trovare risposte agli interrogativi del suo cuore circa il senso della vita e a conquistare valori e principi etici duraturi, e non riesce nemmeno a sperimentare un’autentica libertà e a sviluppare una società giusta.[3]

La Sacra Scrittura, in sintonia con la nostra stessa esperienza, rivela il valore profondo della dignità umana: “Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8, 4-7).

Dinanzi alla sublime realtà della natura umana, possiamo sperimentare lo stesso stupore espresso dal salmista. Essa si manifesta come apertura al Mistero, come capacità di interrogarsi a fondo su se stessi e sull’origine dell’universo, come intima risonanza dell’Amore supremo di Dio, principio e fine di tutte le cose, di ogni persona e dei popoli.[4] La dignità trascendente della persona è un valore essenziale della sapienza giudaico-cristiana, ma, grazie alla ragione, può essere riconosciuta da tutti. Questa dignità, intesa come capacità di trascendere la propria materialità e di ricercare la verità, va riconosciuta come un bene universale, indispensabile per la costruzione di una società orientata alla realizzazione e alla pienezza dell’uomo. Il rispetto di elementi essenziali della dignità dell’uomo, quali il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa, è una condizione della legittimità morale di ogni norma sociale e giuridica.

Libertà religiosa e rispetto reciproco

3. La libertà religiosa è all’origine della libertà morale. In effetti, l’apertura alla verità e al bene, l’apertura a Dio, radicata nella natura umana, conferisce piena dignità a ciascun uomo ed è garante del pieno rispetto reciproco tra le persone. Pertanto, la libertà religiosa va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità.

Esiste un legame inscindibile tra libertà e rispetto; infatti, “nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali, in virtù della legge morale, sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune”.[5]

Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani. Si comprende quindi la necessità di riconoscere una duplice dimensione nell’unità della persona umana: quella religiosa e quella sociale. Al riguardo, è inconcepibile che i credenti “debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti”.[6]

La famiglia, scuola di libertà e di pace

4. Se la libertà religiosa è via per la pace, l’educazione religiosa è strada privilegiata per abilitare le nuove generazioni a riconoscere nell’altro il proprio fratello e la propria sorella, con i quali camminare insieme e collaborare perché tutti si sentano membra vive di una stessa famiglia umana, dalla quale nessuno deve essere escluso.

La famiglia fondata sul matrimonio, espressione di unione intima e di complementarietà tra un uomo e una donna, si inserisce in questo contesto come la prima scuola di formazione e di crescita sociale, culturale, morale e spirituale dei figli, che dovrebbero sempre trovare nel padre e nella madre i primi testimoni di una vita orientata alla ricerca della verità e all’amore di Dio. Gli stessi genitori dovrebbero essere sempre liberi di trasmettere senza costrizioni e con responsabilità il proprio patrimonio di fede, di valori e di cultura ai figli. La famiglia, prima cellula della società umana, rimane l’ambito primario di formazione per relazioni armoniose a tutti i livelli di convivenza umana, nazionale e internazionale. Questa è la strada da percorrere sapientemente per la costruzione di un tessuto sociale solido e solidale, per preparare i giovani ad assumere le proprie responsabilità nella vita, in una società libera, in uno spirito di comprensione e di pace.

Un patrimonio comune

5. Si potrebbe dire che, tra i diritti e le libertà fondamentali radicati nella dignità della persona, la libertà religiosa gode di uno statuto speciale. Quando la libertà religiosa è riconosciuta, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli. Viceversa, quando la libertà religiosa è negata, quando si tenta di impedire di professare la propria religione o la propria fede e di vivere conformemente ad esse, si offende la dignità umana e, insieme, si minacciano la giustizia e la pace, le quali si fondano su quel retto ordine sociale costruito alla luce del Sommo Vero e Sommo Bene.

La libertà religiosa è, in questo senso, anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica. Essa è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna. In questo ambito, l’ordinamento internazionale risulta emblematico ed è un riferimento essenziale per gli Stati, in quanto non consente alcuna deroga alla libertà religiosa, salvo la legittima esigenza dell’ordine pubblico informato a giustizia.[7] L’ordinamento internazionale riconosce così ai diritti di natura religiosa lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare.

La libertà religiosa non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice. Essa è “la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani”.[8] Mentre favorisce l’esercizio delle facoltà più specificamente umane, crea le premesse necessarie per la realizzazione di uno sviluppo integrale, che riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione.[9]

La dimensione pubblica della religione

6. La libertà religiosa, come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta. Anche la libertà religiosa non si esaurisce nella sola dimensione individuale, ma si attua nella propria comunità e nella società, coerentemente con l’essere relazionale della persona e con la natura pubblica della religione.

La relazionalità è una componente decisiva della libertà religiosa, che spinge le comunità dei credenti a praticare la solidarietà per il bene comune. In questa dimensione comunitaria ciascuna persona resta unica e irripetibile e, al tempo stesso, si completa e si realizza pienamente.

E’ innegabile il contributo che le comunità religiose apportano alla società. Sono numerose le istituzioni caritative e culturali che attestano il ruolo costruttivo dei credenti per la vita sociale. Più importante ancora è il contributo etico della religione nell’ambito politico. Esso non dovrebbe essere marginalizzato o vietato, ma compreso come valido apporto alla promozione del bene comune. In questa prospettiva bisogna menzionare la dimensione religiosa della cultura, tessuta attraverso i secoli grazie ai contributi sociali e soprattutto etici della religione. Tale dimensione non costituisce in nessun modo una discriminazione di coloro che non ne condividono la credenza, ma rafforza, piuttosto, la coesione sociale, l’integrazione e la solidarietà.

Libertà religiosa, forza di libertà e di civiltà:
i pericoli della sua strumentalizzazione

7. La strumentalizzazione della libertà religiosa per mascherare interessi occulti, come ad esempio il sovvertimento dell’ordine costituito, l’accaparramento di risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo, può provocare danni ingentissimi alle società. Il fanatismo, il fondamentalismo, le pratiche contrarie alla dignità umana, non possono essere mai giustificati e lo possono essere ancora di meno se compiuti in nome della religione. La professione di una religione non può essere strumentalizzata, né imposta con la forza. Bisogna, allora, che gli Stati e le varie comunità umane non dimentichino mai che la libertà religiosa è condizione per la ricerca della verità e la verità non si impone con la violenza ma con “la forza della verità stessa”.[10] In questo senso, la religione è una forza positiva e propulsiva per la costruzione della società civile e politica.

Come negare il contributo delle grandi religioni del mondo allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo. Le comunità cristiane, con il loro patrimonio di valori e principi, hanno fortemente contribuito alla presa di coscienza delle persone e dei popoli circa la propria identità e dignità, nonché alla conquista di istituzioni democratiche e all’affermazione dei diritti dell’uomo e dei suoi corrispettivi doveri.

Anche oggi i cristiani, in una società sempre più globalizzata, sono chiamati, non solo con un responsabile impegno civile, economico e politico, ma anche con la testimonianza della propria carità e fede, ad offrire un contributo prezioso al faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà umane. L’esclusione della religione dalla vita pubblica sottrae a questa uno spazio vitale che apre alla trascendenza. Senza quest’esperienza primaria risulta arduo orientare le società verso principi etici universali e diventa difficile stabilire ordinamenti nazionali e internazionali in cui i diritti e le libertà fondamentali possano essere pienamente riconosciuti e realizzati, come si propongono gli obiettivi – purtroppo ancora disattesi o contraddetti – della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948.

Una questione di giustizia e di civiltà:
il fondamentalismo e l’ostilità contro i credenti pregiudicano
la laicità positiva degli Stati

8. La stessa determinazione con la quale sono condannate tutte le forme di fanatismo e di fondamentalismo religioso, deve animare anche l’opposizione a tutte le forme di ostilità contro la religione, che limitano il ruolo pubblico dei credenti nella vita civile e politica.

Non si può dimenticare che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità. Entrambe, infatti, assolutizzano una visione riduttiva e parziale della persona umana, favorendo, nel primo caso, forme di integralismo religioso e, nel secondo, di razionalismo. La società che vuole imporre o, al contrario, negare la religione con la violenza, è ingiusta nei confronti della persona e di Dio, ma anche di se stessa. Dio chiama a sé l’umanità con un disegno di amore che, mentre coinvolge tutta la persona nella sua dimensione naturale e spirituale, richiede di corrispondervi in termini di libertà e di responsabilità, con tutto il cuore e con tutto il proprio essere, individuale e comunitario. Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza. Proprio per questo, le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto. Esse devono commisurarsi – attraverso l’opera democratica di cittadini coscienti della propria alta vocazione – all’essere della persona, per poterlo assecondare nella sua dimensione religiosa. Non essendo questa una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto.

L’ordinamento giuridico a tutti i livelli, nazionale e internazionale, quando consente o tollera il fanatismo religioso o antireligioso, viene meno alla sua stessa missione, che consiste nel tutelare e nel promuovere la giustizia e il diritto di ciascuno. Tali realtà non possono essere poste in balia dell’arbitrio del legislatore o della maggioranza, perché, come insegnava già Cicerone, la giustizia consiste in qualcosa di più di un mero atto produttivo della legge e della sua applicazione. Essa implica il riconoscere a ciascuno la sua dignità,[11] la quale, senza libertà religiosa, garantita e vissuta nella sua essenza, risulta mutilata e offesa, esposta al rischio di cadere nel predominio degli idoli, di beni relativi trasformati in assoluti. Tutto ciò espone la società al rischio di totalitarismi politici e ideologici, che enfatizzano il potere pubblico, mentre sono mortificate o coartate, quasi fossero concorrenziali, le libertà di coscienza, di pensiero e di religione.

Dialogo tra istituzioni civili e religiose

9. Il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica è una ricchezza per i popoli e i loro ethos. Esso parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare la pratica delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana.[12]

Nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali, la dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta. A tal fine è fondamentale un sano dialogo tra le istituzioni civili e quelle religiose per lo sviluppo integrale della persona umana e dell’armonia della società.

Vivere nell’amore e nella verità

10. Nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multi-etniche e multi-confessionali, le grandi religioni possono costituire un importante fattore di unità e di pace per la famiglia umana. Sulla base delle proprie convinzioni religiose e della ricerca razionale del bene comune, i loro seguaci sono chiamati a vivere con responsabilità il proprio impegno in un contesto di libertà religiosa. Nelle svariate culture religiose, mentre dev’essere rigettato tutto quello che è contro la dignità dell’uomo e della donna, occorre invece fare tesoro di ciò che risulta positivo per la convivenza civile.

Lo spazio pubblico, che la comunità internazionale rende disponibile per le religioni e per la loro proposta di “vita buona”, favorisce l’emergere di una misura condivisibile di verità e di bene, come anche un consenso morale, fondamentali per una convivenza giusta e pacifica. I leader delle grandi religioni, per il loro ruolo, la loro influenza e la loro autorità nelle proprie comunità, sono i primi ad essere chiamati al rispetto reciproco e al dialogo.

I cristiani, da parte loro, sono sollecitati dalla stessa fede in Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, a vivere come fratelli che si incontrano nella Chiesa e collaborano all’edificazione di un mondo dove le persone e i popoli “non agiranno più iniquamente né saccheggeranno […], perché la conoscenza del Signore riempirà la terracome le acque ricoprono il mare” (Is 11, 9).

Dialogo come ricerca in comune

11. Per la Chiesa il dialogo tra i seguaci di diverse religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le comunità religiose al bene comune. La Chiesa stessa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle varie religioni. “Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”.[13]

Quella indicata non è la strada del relativismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti, “annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose”.[14] Ciò non esclude tuttavia il dialogo e la ricerca comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come recita un’espressione usata spesso da san Tommaso d’Aquino, “ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo”.[15]

Nel 2011 ricorre il 25° anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata ad Assisi nel 1986 dal Venerabile Giovanni Paolo II. In quell’occasione i leader delle grandi religioni del mondo hanno testimoniato come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. Il ricordo di quell’esperienza è un motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace.

Verità morale nella politica e nella diplomazia

12. La politica e la diplomazia dovrebbero guardare al patrimonio morale e spirituale offerto dalle grandi religioni del mondo per riconoscere e affermare verità, principi e valori universali che non possono essere negati senza negare con essi la dignità della persona umana. Ma che cosa significa, in termini pratici, promuovere la verità morale nel mondo della politica e della diplomazia? Vuol dire agire in maniera responsabile sulla base della conoscenza oggettiva e integrale dei fatti; vuol dire destrutturare ideologie politiche che finiscono per soppiantare la verità e la dignità umana e intendono promuovere pseudo-valori con il pretesto della pace, dello sviluppo e dei diritti umani; vuol dire favorire un impegno costante per fondare la legge positiva sui principi della legge naturale.[16] Tutto ciò è necessario e coerente con il rispetto della dignità e del valore della persona umana, sancito dai Popoli della terra nella Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 1945, che presenta valori e principi morali universali di riferimento per le norme, le istituzioni, i sistemi di convivenza a livello nazionale e internazionale.

Oltre l’odio e il pregiudizio

13. Nonostante gli insegnamenti della storia e l’impegno degli Stati, delle Organizzazioni internazionali a livello mondiale e locale, delle Organizzazioni non governative e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà che ogni giorno si spendono per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, nel mondo ancora oggi si registrano persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e di intolleranza basati sulla religione. In particolare, in Asia e in Africa le principali vittime sono i membri delle minoranze religiose, ai quali viene impedito di professare liberamente la propria religione o di cambiarla, attraverso l’intimidazione e la violazione dei diritti, delle libertà fondamentali e dei beni essenziali, giungendo fino alla privazione della libertà personale o della stessa vita.

Vi sono poi – come ho già affermato – forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini. Esse fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi.

La difesa della religione passa attraverso la difesa dei diritti e delle libertà delle comunità religiose. I leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle Nazioni rinnovino, allora, l’impegno per la promozione e la tutela della libertà religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l’identità della maggioranza, ma sono al contrario un’opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo.

Libertà religiosa nel mondo

14. Mi rivolgo, infine, alle comunità cristiane che soffrono persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e intolleranza, in particolare in Asia, in Africa, nel Medio Oriente e specialmente nella Terra Santa, luogo prescelto e benedetto da Dio. Mentre rinnovo ad esse il mio affetto paterno e assicuro la mia preghiera, chiedo a tutti i responsabili di agire prontamente per porre fine ad ogni sopruso contro i cristiani, che abitano in quelle regioni. Possano i discepoli di Cristo, dinanzi alle presenti avversità, non perdersi d’animo, perché la testimonianza del Vangelo è e sarà sempre segno di contraddizione.

Meditiamo nel nostro cuore le parole del Signore Gesù: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati […]. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati […]. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,4-12). Rinnoviamo allora “l’impegno da noi assunto all’indulgenza e al perdono, che invochiamo nel Pater noster da Dio, per aver noi stessi posta la condizione e la misura della desiderata misericordia. Infatti, preghiamo così: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12)”.[17] La violenza non si supera con la violenza. Il nostro grido di dolore sia sempre accompagnato dalla fede, dalla speranza e dalla testimonianza dell’amore di Dio. Esprimo anche il mio auspicio affinché in Occidente, specie in Europa, cessino l’ostilità e i pregiudizi contro i cristiani per il fatto che essi intendono orientare la propria vita in modo coerente ai valori e ai principi espressi nel Vangelo. L’Europa, piuttosto, sappia riconciliarsi con le proprie radici cristiane, che sono fondamentali per comprendere il ruolo che ha avuto, che ha e che intende avere nella storia; saprà, così, sperimentare giustizia, concordia e pace, coltivando un sincero dialogo con tutti i popoli.

Libertà religiosa, via per la pace

15. Il mondo ha bisogno di Dio. Ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi, e la religione può offrire un contributo prezioso nella loro ricerca, per la costruzione di un ordine sociale giusto e pacifico, a livello nazionale e internazionale.

La pace è un dono di Dio e al tempo stesso un progetto da realizzare, mai totalmente compiuto. Una società riconciliata con Dio è più vicina alla pace, che non è semplice assenza di guerra, non è mero frutto del predominio militare o economico, né tantomeno di astuzie ingannatrici o di abili manipolazioni. La pace invece è risultato di un processo di purificazione ed elevazione culturale, morale e spirituale di ogni persona e popolo, nel quale la dignità umana è pienamente rispettata. Invito tutti coloro che desiderano farsi operatori di pace, e soprattutto i giovani, a mettersi in ascolto della propria voce interiore, per trovare in Dio il riferimento stabile per la conquista di un’autentica libertà, la forza inesauribile per orientare il mondo con uno spirito nuovo, capace di non ripetere gli errori del passato. Come insegna il Servo di Dio Paolo VI, alla cui saggezza e lungimiranza si deve l’istituzione della Giornata Mondiale della Pace: “Occorre innanzi tutto dare alla Pace altre armi, che non quelle destinate ad uccidere e a sterminare l’umanità. Occorrono sopra tutto le armi morali, che danno forza e prestigio al diritto internazionale; quelle, per prime, dell’osservanza dei patti”.[18] La libertà religiosa è un’autentica arma della pace, con una missione storica e profetica. Essa infatti valorizza e mette a frutto le più profonde qualità e potenzialità della persona umana, capaci di cambiare e rendere migliore il mondo. Essa consente di nutrire la speranza verso un futuro di giustizia e di pace, anche dinanzi alle gravi ingiustizie e alle miserie materiali e morali. Che tutti gli uomini e le società ad ogni livello ed in ogni angolo della Terra possano presto sperimentare la libertà religiosa, via per la pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre 2010

 

BENEDICTUS PP XVI

 


 

[1] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 29.55-57.
[2] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 2.
[3] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 78.
[4]Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 1.
[5] Id., Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 7.
[7] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 2
[9] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 11.
[10] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 1.
[11] Cfr Cicerone, De inventione, II, 160.
[12] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai Rappresentanti di altre Religioni del Regno Unito (17 settembre 2010): L’Osservatore Romano (18 settembre 2010), p. 12.
[13] Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 2.
[14] Ibidem.
[15] Super evangelium Joannis, I, 3.
[18] Ibid., p. 668.

“Guerra o pace? I luoghi sacri contesi”

Studiosi e religiosi delle tre fedi abramitiche a confronto all’Angelicum

Luoghi sacri per l’umanità


Mai violare i luoghi sacri alle altrui religioni, anche in tempo di guerra, e “tenere i luoghi santi fuori dal conflitto”. È l’appello lanciato giovedì – dopo la notizia di due moschee date alle fiamme in Terra Santa – dagli studiosi e leader religiosi ebrei, cristiani e musulmani riuniti nella Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum) per elaborare un concetto comune di spazio sacro nelle rispettive tradizioni religiose. Si tratta di esperti teologi, giuristi e sociologi provenienti da dodici diversi Paesi, fra i quali Iran, India e Israele. Nel corso dei lavori, i partecipanti alla Conferenza “Guerra o pace? I luoghi sacri contesi”, hanno sottoscritto una dichiarazione comune: “Noi – vi si legge – assicuriamo il fermo impegno a proteggere tutti gli spazi santi di tutte le religioni. Questo impegno è sia teorico che pratico. In via di principio, ogni casa nella quale Dio è chiamato in verità e sincerità è santificata dalla ricerca di Dio e deve essere rispettata da tutti. In termini pratici, ogni atto di distruzione può in breve tempo rivolgersi contro gli stessi autori e generare un infinito ciclo di rappresaglie, contrari alla gloria di Dio”. Continua la dichiarazione: “Noi chiediamo a tutte le parti di non violare i luoghi sacri degli altri, anche in tempo di guerra. Questo impegno non è solo un segno di rispetto per l’unico Dio che tutti riconosciamo ma anche una via concreta per imparare a praticare il rispetto l’uno con l’altro”. Secondo gli studiosi e leader ebrei, cristiani e musulmani, “tenere i luoghi santi fuori dal conflitto è un piccolo passo per umanizzare una difficile condizione e per ricordare che Dio è il nostro più grande valore e la nostra più grande ispirazione”. “Preghiamo – è la conclusione – che tale riconoscimento possa aprire la strada per una maggiore comprensione, una maggiore armonia e per la pace”.
Come accennato, gli studiosi e religiosi – fra essi islamici sunniti come Yasir Qadhi, sciiti, come l’ayatollah Mostafa Mohaghegh Damas, e sufi, come lo sceicco Abd al-Wahid Pallavicini, insieme con il rabbino israeliano Daniel Sperber e Robert A. Destro, della Columbus School of Law – si sono riuniti all’Angelicum per un confronto inedito, nel quale sono esaminate le radici teologiche, politiche e sociali dei conflitti che riguardano la gestione dei luoghi sacri sui quali diverse religioni allo stesso tempo vantano diritti e autorità. L’obiettivo è quello di arrivare a una definizione condivisa di “luogo sacro” in modo da verificare, su base teologica, la legittimità dell’esclusione dei fedeli di altre religioni.
Un’esigenza sentita non solo riguardo ai luoghi sacri più noti ma anche in quelli di cui spesso non si parla, come in India, per esempio. Il controllo dei luoghi sacri alle religioni – affermano gli organizzatori – costituisce “un problema a livello globale” ma “il confronto sul tema può tramutarsi al tempo stesso in una occasione per un dialogo fra religioni consapevole e aperto alla possibilità, se non di una pace, almeno di una coesistenza pacifica”.
È dunque a questo fine che esperti di tutto il mondo si sono riuniti a Roma: l’obiettivo è quello di indicare soluzioni praticabili a questioni nelle quali spesso si inseriscono convenienze politiche ed emotività. Nella conferenza, sponsorizzata dal rabbino Jack Bemporad, direttore del Centro Giovanni Paolo II per il Dialogo interreligioso presso l’Angelicum, dal professor Cole Durham, della Brigham Young University (Utah), e dal professor Marshall Breger, della Catholic University of America (Washington DC), si sono affrontati diversi temi, dal concetto di sacro al suo significato teologico per le differenti religioni, dal negoziato per risolvere i conflitti all’analisi dei successi e gli insuccessi che si registrano nel mondo. Spiega il professor Breger: “Si discute raramente di teoria e di teologia riguardo a questo argomento ma esse hanno un peso determinante nel processo verso una coesistenza realmente pacifica”.

(©L’Osservatore Romano 18 dicembre 2011)

Fratelli d’Egitto. Ma i copti sono sempre più soli

Le elezioni politiche in Egitto si stanno svolgendo in più tornate successive e dureranno molti mesi. Ma è bastato il primo test elettorale al Cairo, ad Alessandria e in alcune altre città per seminare allarme.

I Fratelli Musulmani, col Partito della libertà e della giustizia, hanno ottenuto il 36 per cento dei voti. Il Blocco egiziano, che raggruppa le formazioni più sensibili alle richieste di libertà di piazza Tahrir, il 15 per cento. Ma la vera sorpresa è stato il 25 per cento di voti andato al Partito della Luce, Hizb an Nour, fondato dieci mesi fa dai salafiti, ossia dagli islamisti più radicali.

Nelle cancellerie dell’Occidente si è subito temuta una saldatura tra i Fratelli Musulmani e i salafiti, che sommati totalizzerebbero i due terzi dei seggi del futuro parlamento egiziano.

Ma un simile sbocco è tutt’altro che probabile. Per i Fratelli Musulmani i salafiti non sono affatto un possibile alleato, ma l’avversario più pericoloso ed ostile.

Padre Rafic Greiche, portavoce della minuscola Chiesa cattolica egiziana, prevede piuttosto che il Partito della libertà e della giustizia si allei con il blocco dei movimenti democratici. Una previsione che per lui è anche un auspicio: “per fermare leggi illiberali e pericolose per la minoranza cristiana”.

Il programma politico dei Fratelli Musulmani è lungo 45 pagine ed è quanto di più inaccettabile ci sia per gli integralisti salafiti. Così lo riassume Daniele Raineri in un reportage dal Cairo per “il Foglio”: “Adesione piena e senza ambiguità ai principi democratici della rappresentanza politica e del rinnovo periodico del potere con elezioni, piena dignità davanti alla legge di tutti gli egiziani, nessuna discriminazione per sesso, religione o razza, quindi non contro le donne o contro la minoranza cristiana. Due priorità: la sicurezza e l’economia”.

In una Fratellanza che nei suoi 83 anni di vita ha sempre alternato estremismo a moderazione e a dissimulazione, questo improvviso e conclamato innamoramento per la democrazia desta sospetti.

Ma è anche incontestabile che se c’è un modello al quale oggi i Fratelli Musulmani egiziani guardano, questo non è l’islamismo fondamentalista e retrogrado dei wahhabiti dell’Arabia Saudita, ma quello pragmatico della Turchia di Recep Tayyip Erdogan.

La recente visita del primo ministro turco in Egitto ha registrato un’accoglienza trionfale. In lui i Fratelli Musulmani vedono non solo un grande leader sunnita capace di conciliare islamismo e modernità, ma anche colui che ha restituito diritto di cittadinanza all’islam popolare, in una Turchia non più ostaggio dei generali.

In un Egitto dove tutte le cariche religiose, da al-Azhar all’ultima delle moschee, sono state fin qui di nomina del governo e sotto la tutela dell’esercito, l’apologia della laicità fatta da Erdogan durante la sua visita è stata interpretata da molti come un messaggio liberatorio, a favore di una religione finalmente affrancata dal controllo del Principe.

I Fratelli Musulmani si presentano anche con un volto amico per i copti, che con oltre dieci milioni di fedeli costituiscono la più grande minoranza cristiana in un paese arabo. Ne hanno messi alcuni nelle liste elettorali. Ed è copto il vicepresidente del Partito della libertà e della giustizia.

Ma fino a che punto è credibile – in particolare per i cristiani – questa metamorfosi del Fratelli Musulmani?

L’eccidio del 9 ottobre 2011 nel quartiere Maspero del Cairo, con 22 copti uccisi dai blindati dell’esercito, è stato per i cristiani d’Egitto un trauma senza precedenti, più sconvolgente di quelli provocati dagli innumerevoli atti di violenza e di vessazione subiti ad opera dei musulmani.

Quel baluardo di protezione ultima che, nella visione dei copti, era stato fin lì l’esercito, si era rivoltato loro contro, con l’opinione pubblica anch’essa schierata contro di loro.

Ed è passato un mese prima che il grande imam della moschea di al-Azhar, Ahmad Muhammad al-Tayyeb, convocasse dei leader musulmani e cristiani nella “Casa delle famiglia egiziana” ed emettesse un comunicato che definisce “martiri” gli uccisi e invoca “provvedimenti pratici necessari per rafforzare il dettato costituzionale del principio di cittadinanza per tutti gli egiziani”.

Il grande imam al-Tayyeb è uno dei firmatari della lettera amichevole inviata a Benedetto XVI da 138 saggi musulmani dopo la lezione di Ratisbona. Ma è anche colui che ha rotto le relazioni col Vaticano prendendo a pretesto la preghiera del papa per i cristiani uccisi nell’attentato dello scorso Capodanno in una chiesa copta di Alessandria d’Egitto e per tutte le vittime della violenza interreligiosa.

Al-Tayyeb ha anche rifiutato di prendere parte all’incontro di Assisi dello scorso 27 ottobre. Prima di essere grande imam della prima moschea del Cairo, è stato gran mufti e rettore dell’università di al-Azhar, la più importante del mondo musulmano sunnita. Ogni volta per nomina del presidente Mubarak, dal quale, dopo la sua caduta, ha preso marcatamente le distanze.

Sta di fatto che il rapporto tra musulmani e copti, in Egitto, si è molto deteriorato da un secolo a questa parte.

Nell’analisi che segue, Tewfik Aclimandos, docente di storia contemporanea del mondo arabo al Collège de France, tratteggia l’evoluzione di questo rapporto, giunto in questi ultimi anni al suo punto più critico.

L’analisi è uscita sull’ultimo numero di “Oasis”, la newsletter in cinque lingue, tra cui l’arabo, diretta da Maria Laura Conte e promossa dall’omonima fondazione internazionale con sede a Venezia, a sua volta nata da un’idea del cardinale Angelo Scola, quand’era patriarca della città.

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COPTI E MUSULMANI D’EGITTO: COME SI È ARRIVATI ALL’EMERGENZA DI OGGI

di Tewfik Aclimandos

[…] L’emancipazione copta è un processo messo in atto dalla dinastia di Mehemet Ali, soprattutto con l’abrogazione del testatico nel 1855 voluta da Said, culminata nell’unione sacrée dell’insurrezione anti-britannica del 1919. Laure Guirguis ha mostrato nella sua tesi l’originaria ambivalenza della concordia e della fraternizzazione tra comunità nell’ambito del grande partito nazionalista Wafd (1919). Il discorso del Wafd sulla laicità e sulla secolarizzazione è molto più islamico di quanto generalmente si creda. La monarchia egiziana e la costituzione del 1923 non smantellano le strutture dello Stato confessionale e non rimettono in discussione neppure per un istante l’esistenza di più statuti personali. Modernizzano le strutture e i dispositivi, li adattano, per quanto possibile, all’imperativo di uguaglianza e all’idea regolatrice di cittadinanza.

Ma, nei fatti, questa unione sacrée o questa simbiosi si basa su istituzioni, organizzazioni dello spazio, modi di fare, pratiche quotidiane che organizzano e facilitano la coesistenza. I quartieri “indigeni” dove abitano copti e musulmani e che possono essere contrapposti ai quartieri “europei” o “occidentalizzati” delle classi superiori e delle comunità europee sono bastioni del nazionalismo. Si vive uno accanto all’altro, si parla, ci si rende visita. Un sistema educativo statale che progressivamente prende il sopravvento su quello tradizionale controllato dagli ulema è accessibile agli egiziani delle classi medie emergenti, indipendentemente dalla loro confessione. I liceali manifestano insieme, fanno sport insieme, studiano insieme. Si conoscono.

Ma dopo il 1945 ciò che rendeva possibile questa unione verrà eroso. Non mi soffermerò qui sulla nascita della questione identitaria: l’Egitto è ancora un paese musulmano, con tutto ciò che questo implica? La domanda è stata posta, diffusa, espressa e valorizzata dalla confraternita dei Fratelli Musulmani. Ricordo però ciò che è meno evidente: uno dei fatti sociali principali degli ultimi cento anni è stato la liberazione della donna, la quale ha avuto accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e ha scelto il proprio marito. La comparsa della donna nello spazio pubblico sarà una delle cause, se non la principale, della creazione delle strutture comunitarie. In effetti, essa ha reso possibili i matrimoni tra persone di religioni differenti.

Considerati gli statuti personali e la legislazione, ogni matrimonio “misto” è però una conquista per la comunità musulmana e una perdita per le comunità non musulmane: se lo sposo è musulmano, lo saranno anche i figli, e un non musulmano per sposare una musulmana dovrà convertirsi all’islam. Stando così le cose, verranno lentamente attivate pratiche sociali volte a proibire la donna copta allo sguardo musulmano (per esempio, il capo di famiglia copto porterà i suoi figli da un medico copto) e a organizzare la promiscuità uomo-donna in uno spazio comunitario (le chiese creano dei club annessi al luogo di culto).

Per altri versi il principale deficit dei successori del presidente Nasser è stata l’indifferenza di fronte al terribile declino del sistema educativo egiziano, quando la scuola era il fattore e lo spazio d’integrazione per eccellenza. La degradazione e l’estensione dello spazio urbano rimettono in discussione gli stili di vita quotidiani e il vivere insieme, che erano lo zoccolo duro dell’unità nazionale. Infine, all’interno della comunità copta, gli equilibri interni tra grandi proprietari e clero si sono rotti a vantaggio di quest’ultimo a causa dei colpi inflitti ai primi dalle riforme nasseriane.

Forse queste evoluzioni erano difficili da contrastare. Ma le scelte politiche del presidente Sadat le aggraveranno al punto che esse si riveleranno irrimediabili. Il successore di Nasser, che vuole riconquistare il Sinai (occupato nel 1967) e mettere fine al partenariato con l’ingombrante padrino sovietico, ha bisogno dell’Arabia Saudita all’esterno e degli islamisti all’interno. Per distruggere le roccaforti di sinistra all’università cavalcando l’ondata di religiosità e di “ritorno a Dio” che ha fatto seguito alla disfatta del 1967, favorirà la nascita di un movimento islamista plurale, di discorsi islamisti radicali, alimentando troppo spesso uno o più odiosi discorsi anti-cristiani. Gli islamisti più estremisti non si accontentano di “suonarle alla sinistra”: le loro estorsioni a danno dei copti – da un racket presentato come ripristino della jizya agli omicidi, passando per l’incendio delle chiese – sono sempre più numerose. E soprattutto lo Stato, su indicazione dei vertici, guarda altrove.

La ferita è profonda e non sarà mai rimarginata. Queste pratiche rianimano la solidissima tradizione vittimistica e il culto del martirio dei copti, i quali percepiscono l’ambiente come unanimemente ostile e preferiscono il ripiegamento su se stessi. Diversi osservatori sono molto critici verso la gestione delle relazioni con lo Stato da parte di papa Shenuda III e ritengono che egli sia arrivato troppo spesso al “braccio di ferro”, che abbia fatto tutto il possibile per opporsi a Sadat, che si sia preoccupato soprattutto di consolidare il dominio del clero sulla comunità e che abbia favorito, all’interno di essa, la diffusione di ideologie antipatiche quanto i discorsi anti-cristiani dell’altra sponda. Non sono sicuro che questi analisti abbiano ragione su tutti i punti. Ricordo solamente che non è chiaro se papa Shenuda abbia avuto tutta la libertà che gli viene attribuita. Si tende a credere che egli sia all’origine di tutti gli “errori” della sua comunità o delle sue rivendicazioni, comprese le più irrealistiche, ma questo non è provato. Segnaliamo, al contrario, che il suo atteggiamento ostile verso Israele gli sarebbe valso un sostegno molto solido nella comunità intellettuale egiziana, musulmani e copti indistintamente, e che sarebbero stati numerosi i membri musulmani di questa comunità che avrebbero provato simpatia e manifestato il loro sostegno alle principali rivendicazioni copte.

Nonostante il proliferare, all’interno di ciascuna comunità, di discorsi odiosi che consolidano sgradevoli “immagini dell’altro”, nonostante l’attuazione quotidiana di pratiche di costruzione di spazi comunitari, nonostante il moltiplicarsi delle discriminazioni quotidiane ad opera di tutti, agenti dell’apparato di Stato e copti inclusi, nonostante infine la relativa frequenza di incidenti violenti, che sono talvolta veri e propri pogrom, la “questione confessionale” resta tabù fino al 2004 quando diventa improvvisamente uno dei temi principali del dibattito pubblico.

L’emergere della questione e le sue molteplici sfaccettature sono state studiate molto bene da Laure Guirguis. Non mi interessa qui studiare le prese di posizione assunte dagli uni e dagli altri, ma ricordare che la gerarchia copta non ha sempre dato prova di saggezza o giudizio. Oltre a qualche sconcertante eccesso verbale di alcune personalità (l’amba Bishoi, numero due della Chiesa, per esempio) che in virtù delle loro funzioni avrebbero dovuto essere prudenti, la sua gestione degli incidenti relativi alle conversioni reali o presunte all’islam delle mogli di alcuni preti desiderose di lasciare i loro mariti, è stata disastrosa. Tra l’altro queste mogli non si sono più viste, ciò che rende credibili le tesi e le voci che facevano pensare a un loro sequestro. Infine, la gerarchia copta ha spesso dato l’impressione di essere arrogante e di sfruttare la fragilità di un regime ansioso di piacere a Washington e di preparare la trasmissione ereditaria del potere. Dire questo naturalmente non significa affermare che gli attori statuali o religiosi musulmani siano stati molto più brillanti e la saggezza e l’umanità degli ultimi due grandi imam di al-Azhar sono l’importante eccezione che conferma la regola.

Ora c’è una situazione di emergenza. La principale evoluzione degli ultimi dodici anni è la “democratizzazione” degli incidenti interconfessionali. Questi non sono più appannaggio di qualche islamista fanatico che sente il bisogno di rifarsi sui copti. Oppongono ormai persone che abitano nello stesso quartiere. In qualsiasi lite fra vicini si rischia di perdere il controllo della situazione ed è un miracolo che ciò non accada più spesso.

Gli incidenti principali hanno due tipi di cause. A) la questione della costruzione delle chiese, un dossier che ormai non dà tregua all’apparato statale. Allo stato attuale è praticamente impossibile ottenere un’autorizzazione per la costruzione di chiese. I copti costruiscono perciò chiese illegali […] e spesso, queste chiese illegali o decretate tali sono incendiate da una popolazione infastidita dalla loro presenza, con una intolleranza, sia detto en passant, che cinquant’anni fa sarebbe stata inimmaginabile. B) le storie d’amore tra persone di confessione diversa, soprattutto se si traducono nella partenza della giovane, che lascia il domicilio famigliare. Nessuna delle due comunità sembra disposta a riconoscere il diritto degli individui alla felicità; e quella copta è maggiormente giustificabile poiché perde membri a ogni matrimonio misto.

Questo quadro, molto fosco, spiega il vero e proprio panico che si è impadronito della comunità copta. Essa sapeva che l’assolutismo di Mubarak, malgrado i suoi difetti, costituiva una protezione e apportava una dose apprezzata di liberalismo. Mubarak poteva fare concessioni agli oscurantisti, ma non era uno di loro. Certamente non ha riservato al problema l’attenzione che meritava ma, fino a prova contraria, non l’ha consapevolmente aggravato. Questo panico sarà acuito, in un primo tempo, dall’eccidio del 9 ottobre 2011 nel quartiere Maspero del Cairo (nell’inconscio copto l’esercito era il baluardo del legame nazionale, il rappresentante dello Stato-nazione egiziano, il protettore ultimo). Il protettore è diventato nel giro di poche ore il carnefice e questo lascerà tracce profonde. In alcune città di provincia le famiglie che hanno i mezzi per farlo cercano di emigrare e, dallo scorso gennaio, oltre 93.000 copti hanno abbandonato il territorio. Resta da capire se è una situazione temporanea a meno.

Il quadro è già abbastanza cupo e non è il caso di dipingerlo a tinte ancora più fosche. È bene notare che la comunità intellettuale, l’intelligentsia, è molto sensibile al problema e sono molto numerosi i suoi membri che hanno spesso preso le difese dei copti, sapendo trovare le parole giuste e sbagliando di rado. Ancora più rassicurante è il fatto che se i copti, in generale, hanno avuto il sostegno dei musulmani che non avevano alcun problema con la nozione di uguaglianza dei cittadini, ricevono sempre più l’appoggio di quanti, molto numerosi, pur non accettando questa nozione di uguaglianza e non amando veramente i cristiani, sono indignati dai maltrattamenti inflitti ai copti e condannano con fermezza e veemenza le uccisioni, gli incendi dei luoghi di culto e dicono a voce alta che l’Islam “non è questo” e che non vogliono più che si verifichino fatti simili.

Resta ancora molto da fare – tra le altre, un aggiornamento copto – e non dovremmo minimizzare i pericoli: abbiamo visto come alcune centinaia di militanti siano riusciti, l’11 settembre 2001, a devastare il rapporto tra l’islam e l’Occidente per almeno un decennio. Detto questo, non bisogna neppure sottovalutare le energie e la vitalità dell’umanesimo musulmano, il primo a essere minacciato dall’estremismo.

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Il testo integrale dell’analisi di Tewfik Aclimandos, in “Oasis”:
> Copti e musulmani d’Egitto: come si è arrivati all’emergenza di oggi

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Il comunicato del grande imam di al-Azhar, Ahmad Muhammad al-Tayyeb, a commento dell’eccidio di copti compiuto dall’esercito il 9 ottobre 2011 nel quartiere Maspero del Cairo:
> Uno shock per la coscienza dell’Egitto

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Sulla Turchia di Erdogan come modello per i Fratelli Musulmani d’Egitto, in un’analisi di Tewfik Aclimandos per “Oasis”:
> Come Erdogan affascina gli egiziani

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Sugli orientamenti dell’opinione pubblica egiziana, in un’inchiesta del Pew Forum on Religion & Public Life di Washington:

> Il “democratico” Egitto manda a morte gli apostati

“La teologia del Novecento”

Il libro:

Fulvio Ferrario, “La teologia del Novecento”, Carocci, Roma, 2011, pp. 304, euro 24,00.

 

È uscito quest’anno in Italia un libro sulla teologia del Novecento scritto da un teologo protestante, il valdese Fulvio Ferrario, che colpisce non solo per la rara chiarezza e ricchezza dell’esposizione e per l’efficacia narrativa, ma anche per il rilievo dato ad alcuni grandi teologi che sono, tra i non cattolici, proprio i più vicini alla visione e alla sensibilità dell’attuale papa, lui stesso teologo.

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Il primo è Oscar Cullmann (1902-1999), nato a Strasburgo, vissuto a Basilea e ospite a Roma, negli anni del Concilio Vaticano II, della stessa facoltà teologica valdese nella quale Ferrario insegna.

Ferrario lo annovera “tra i teologi protestanti più apprezzati in campo cattolico”. Pur meno famoso di un Barth, di un Bultmann, di un Bonhoeffer, Cullmann ha lasciato un’impronta forte e durevole.

È lui che ha coniato la formula – divenuta d’uso universale – del “già e non ancora” per esprimere la dialettica tra la salvezza già realizzata da Cristo e l’attesa del compimento finale.

Ed è lui, soprattutto, che ha insistito in ogni sua opera – da “Cristo e il tempo” a “La cristologia del Nuovo Testamento” – sulla continuità tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Cullmann era prima di tutto un grande esegeta delle Sacre Scritture, ma ha sempre coniugato la ricerca filologica e storiografica alla riflessione teologica. E “nella ricerca di questo difficile equilibrio – scrive Ferrario – egli costituisce un modello, in una stagione nella quale la difficoltà di comunicazione tra le due discipline raggiunge livelli pericolosi”.

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Un secondo grande teologo messo in primissimo piano da Ferrario è il tedesco Wolfhart Pannenberg, luterano, 83 anni.

In lui il nesso tra teologia e filosofia è strettissimo. Il Cristo crocifisso e risorto è l’evento capitale – raggiungibile anche dalla scienza storica – che consente di afferrare il senso della storia universale dell’uomo e del mondo. La rivelazione di Dio è storia; e lo smarrimento di questo orizzonte è la radice della crisi della cultura contemporanea. “È abbastanza facile notare – scrive Ferrario – le obiettive convergenze di questa impostazione con molte tesi del magistero cattolico romano”.

Non solo. Anche nella dottrina dei sacramenti e dei ministeri ordinati le riflessioni del protestante Pannenberg si avvicinano a quelle cattoliche. Ferrario sottolinea che “egli ritiene non solo possibile, ma a certe condizioni persino auspicabile, che il protestantesimo riconosca l’importanza del cosiddetto ‘ministero petrino’, cioè del papato”.

Lo stesso avviene nel campo della teologia morale:

“L’orientamento generale del pensiero di Pannenberg e la sua fiducia nelle possibilità teoriche di un’etica filosofica di derivazione aristotelica lo conducono a guardare con un marcato sospetto a molti orientamenti delle società secolarizzate in campo morale, ad esempio in materia di sessualità. In alcune occasioni egli esprime pubblicamente il proprio disaccordo nei confronti di posizioni che gli appaiono troppo ‘permissive’ delle Chiese evangeliche tedesche”.

Ma ciò non trattiene Ferrario dal concludere il profilo di Pannenberg – cioè del più “ratzingeriano” dei grandi teologi protestanti viventi – con questo altissimo apprezzamento:

“Nel contesto postmoderno, il pensiero di Pannenberg detiene un’inattualità che affascina e stimola. L’appello al rigore e alla portata universale della ragione critica, l’insistenza su una visione della fede come ‘grande narrazione’, addirittura storico-universale, costituisce una provocazione nei confronti della retorica di una teologia che vorrebbe ridursi all’autobiografia del teologo. Pannenberg ha in comune con i classici della riflessione teologica l’idea di un pensiero intrepido, che non accetta di fermarsi prima di aver incontrato la realtà di Dio. Ed è questo ardire del concetto che ne fa, al di là di ogni critica, un maestro”.

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Una terza personalità messa in forte rilievo da Ferrario nel capitolo dedicato alla teologia delle Chiese ortodosse è Ioannis Zizioulas, metropolita di Pergamo.

Zizioulas è il vescovo-teologo più autorevole del patriarcato ecumenico di Costantinopoli ed è amico di lunga data di Joseph Ratzinger. “Egli sviluppa – scrive Ferrario – l’idea della Chiesa come comunità che scaturisce dall’eucaristia. E in quanto tale essa è, non in senso teorico ma altamente realistico, corpo terreno del Risorto e partecipazione alla vita trinitaria”.

Non meraviglia, quindi, che “l’ecclesiologia eucaristica di Ioannis di Pergamo è assai utilizzata e apprezzata in ambito ecumenico. Essa è infatti molto organicamente, ed elegantemente, legata all’insieme della visione teologica e permette una comprensione della Chiesa in chiave anzitutto mistico-sacramentale, contro una deriva giuridica della quale, a volte, gli stessi cattolici romani evidenziano almeno alcuni limiti”. Una comprensione della Chiesa alla quale, riconosce Ferrario, “la mentalità protestante reagisce per contro in modo ambivalente”.

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Nella pagina finale del suo avvincente viaggio nella teologia del Novecento, Ferrario cita la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, con la sua rivendicazione di uno spazio pubblico per la teologia nelle moderne università del sapere.

E così conclude:

“Il nostro sguardo alla storia della teologia del Novecento dovrebbe aver mostrato che la teologia è stata ‘pubblica’ proprio quando è stata ecclesiale: quando cioè ha dato espressione intellettualmente critica al tentativo della comunità cristiana di annunciare l’evangelo nel mondo. […]

“I metodi esegetici, storici, filologici impiegati dalla teologia saranno gli stessi delle scienze religiose o delle teorie del cristianesimo che già ora l’affiancano e con le quali il pensiero ecclesiale è chiamato a dialogare serenamente.

“Ma diverso è il compito che la teologia cristiana si ostina a ritenere che le sia assegnato dal suo Signore: quello di contribuire, mediante la riflessione, al ministero della Chiesa, cioè alla predicazione della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, nell’attesa della sua venuta”.

E con questa limpida sentenza del più autorevole teologo protestante italiano, i molti falsi teologi che oggi affollano il proscenio – per “umanizzare” Gesù invece che predicarlo vero Dio e vero uomo – sono serviti.

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L’autore è professore di dogmatica e discipline affini presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma e docente invitato presso l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia. Dirige la rivista teologica della Facoltà Valdese “Protestantesimo”.

Sandro Magister

 

Il corpo è il messaggio. L’incarnazione al tempo delle cyberfilosofie

 

Il culto del corpo è l’imperativo quotidiano della nostra epoca. Solo chi si sforza di raggiungere il proprio ideale fisico può avere successo, e dunque botox, body-styling e chirurgia estetica divengono i riti che ci promettono un’eterna giovinezza.

D’altro lato, tuttavia, la dimensione corporea va contemporaneamente perdendo sempre più di significato, parallelamente allo svilupparsi delle potenzialità virtuali offerte dal cybermondo costituito da Internet, giochi di ruolo, videogiochi, nanotecnologie applicate alla medicina, che rivelano il profondo desiderio dell’uomo di superare il limite fisico e in definitiva di raggiungere l’immortalità.

Ma a ciò fa ancora resistenza il messaggio evangelico dell’incarnazione di Dio, che continua ad affrancare e a restituire dignità a ogni corpo fragile, limitato, vulnerato nella sua esistenza, e che oggi il pensiero cristiano deve riproporre in modo consapevole e attrezzato come risorsa di senso per una vita vissuta e ancorata alla realtà nell’epoca del cyber-mondo.

 

 

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Regno-att. n.20, 2011, p.707

Le tasse non sono un optional

Intervista al Card. Bagnasco

 

Il cardinale Angelo Bagnasco, 69 anni a gennaio, presidente dei vescovi italiani, è nella casa d’accoglienza vicina alle mura vaticane, che lo ospita quando si trova a Roma. Un bambino arabo di tre anni scorrazza nei corridoi. Le suore preparano il presepe. Un religioso sudamericano lavora al computer.

Eminenza, come valuta la svolta politica italiana e la nascita del governo Monti?
«Non spetta alla Chiesa formulare una valutazione politica. La crisi globale ha portato a galla alcuni elementi di inadeguatezza del sistema-Paese, che venivano da lontano e hanno contribuito a modificare il quadro politico, già segnato da non poche inquietudini. Questo governo, che a cominciare dal presidente Monti è composto da personalità della cultura e del mondo sociale ed economico, ha una finalità assolutamente prioritaria. L’auspicio è che possa realizzare quel risanamento dei conti pubblici senza del quale l’Italia rischia tutto, e grazie al quale tutto diventa possibile; e, nello stesso tempo, imprimere una spinta decisiva allo sviluppo».

Si è parlato molto dello «spirito di Todi», di un nuovo impegno dei cattolici. Il nuovo governo ne è un frutto?
«Todi è stato un momento di una presa di coscienza più generale, che ha rimarcato il contributo necessario dei cattolici alla vita sociale e politica. È significativo che ampi settori della pubblica opinione abbiano richiesto l’apporto di chi fa del “bene comune” l’asse di una buona politica, al di là di polarità che finiscono per esacerbare gli animi e suscitare contrapposizioni inutili. Da tempo Benedetto XVI ha richiamato all’impegno i cattolici italiani, sostenendo che la fede evita il disimpegno specialmente nei momenti di crisi e non accetta di essere ridotta alla pura sfera privata, senza incidere sulla costruzione della città in cui sono in gioco valori non solo economici ma più profondamente umani».

I sacrifici imposti da Monti erano necessari? O finiranno per estendere ancora di più le fasce di povertà e per aggravare le difficoltà del ceto medio?
«Una società non può vivere a lungo al di sopra delle proprie forze. A meno di introdurre forzature che però non resistono alla prova dei fatti. Non solo l’Italia, ma una certa mentalità che si è diffusa a macchia d’olio ovunque ha insistito nel “comprare oggi e pagare domani”. Si è così ribaltato un costume radicato tra la nostra gente, che faceva del risparmio, della misura e della concretezza uno stile di vita. A ciò si aggiunga la diffusa tentazione di caricare sulla generazione successiva i costi di un risanamento pure intravisto come necessario. La responsabilità tra generazioni impone di predisporre le cose perché i giovani che verranno dopo di noi trovino un mondo più vivibile. Oggi ciò che lasciamo in dote è meno di quanto abbiamo ricevuto; tenendo conto che la coesione umana e la giustizia sociale sono parte irrinunciabile di questo patrimonio».

Il Papa ha insistito molto sulla «sobrietà». C’è qualcosa che la Chiesa può fare, per partecipare anch’essa ai sacrifici?
«La sobrietà non è il frutto di una scelta imposta dall’esterno. Corrisponde a una visione dell’esistenza che privilegia i beni relazionali rispetto a quelli materiali. La Chiesa partecipa ai sacrifici della gente condividendone la vita quotidiana attraverso il reticolato più capillare che esista, quello delle parrocchie. Perfino nei centri più piccoli e sperduti il campanile rimane un riferimento di spiritualità e solidarietà. Per non parlare delle metropoli dove la presenza della comunità cristiana è l’avamposto a contatto con le mille forme della povertà vecchia e nuova. Anche a me, quando cammino nei vicoli della mia città, tra i carrugi di Genova, capita d’essere fermato da anziani malfermi, immigrati, drogati che mi stringono la mano e mi dicono: “Volevo soltanto ringraziarla”. Se la Chiesa cessasse d’improvviso la sua testimonianza di fede e di carità, tutta la società sarebbe decisamente più povera».

Come funziona oggi precisamente il sistema delle esenzioni dall’Ici? C’è qualcosa che la Chiesa è disposta a cambiare?
«La Chiesa paga l’Ici! Occorre dirlo, visto che si parte sempre dall’assunto contrario. Eventuali casi di elusione relativi a singoli enti, se provati, devono essere accertati e sanzionati con rigore: nessuna copertura è dovuta a chi si sottrae al dovere di contribuire al benessere dei cittadini attraverso il pagamento delle imposte. Le tasse non sono un optional. Detto questo, l’esenzione dall’Ici per talune categorie di enti e di attività non è un privilegio. È il riconoscimento del valore sociale dell’attività che viene esentata e – cosa non secondaria – non riguarda solo la Chiesa ma anche altre confessioni religiose e una miriade di realtà non profit. Si tratta di chiedersi – ma qui credo che il consenso sia più vasto di quel che si creda – se il mondo della solidarietà debba essere tassato al pari di quello del business. A chi fa concorrenza una mensa per i poveri piuttosto che un campetto di calcio dell’oratorio? In ogni caso, ripeto: siamo disposti a valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il mondo dei soggetti e delle attività non profit oggetto dell’attuale esenzione».

Si è parlato, e lo ha fatto anche lei, di «disinformazione». Ma perché fa presa? Sta forse calando nella gente la consapevolezza di ciò che fa la Chiesa in campo sociale?
«Il momento è obiettivamente duro, in particolare per alcuni. In questo clima di esasperazione attaccare la Chiesa perché non pagherebbe l’Ici è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. E la Chiesa è un bersaglio facile; perché non ha nulla da nascondere. In realtà, già da anni avevo lanciato l’allarme dell’aumento dei pacchi-viveri da parte delle Caritas diocesane, quando un po’ dappertutto si asseriva che la crisi non avrebbe riguardato il nostro Paese. Al contrario chi opera in campo sociale e assistenziale se n’era accorto, per la pressione sulle parrocchie di persone insospettabili e di ceti sociali un tempo garantiti. La gente che trova aiuto e spesso generi di prima necessità lo sa bene. Ma non basta evidentemente a cambiare l’agenda dell’informazione diffusa. Mi chiedo se sia solo questione di ignoranza. O anche di malafede».

Non pensa che la Chiesa abbia sbagliato qualcosa?
«Penso che dovremmo superare quel pudore che impedisce di parlare di quanto si fa generosamente, spesso in silenzio e tra enormi problemi. Credo pure che la trasparenza sia la strada da privilegiare in qualsiasi attività di una realtà ecclesiale. Così si attiva meglio la consapevolezza di chi non ha pregiudizi, la corresponsabilità sociale e insieme il controllo».
Non teme che il gettito dell’8 per mille possa diminuire?
«Se c’è una campagna verità, farà bene a tutti. Certo, a forza di calunniare, qualcosa resta. Ho letto e sentito dire in tv che la Chiesa riceve un miliardo di euro e spende 350 milioni per gli stipendi; “il resto è la cresta dei vescovi”. Ora, voi sapete qual è lo stipendio di un vescovo?»

Ce lo dica lei.
«Nella Chiesa abbiamo tre fasce di retribuzione. Lo stipendio di un giovane sacerdote è di circa 800 euro. Quello di un parroco intorno a mille. Quello di un vescovo sui 1.300. Lascio a voi il raffronto con le sperequazioni di altre strutture gerarchiche. Il punto è un altro. I restanti 650 milioni sono spesi per la Caritas, per i beni culturali, per il Terzo Mondo. Una quota è riservata alle vittime di calamità nazionali e internazionali; ad esempio abbiamo speso un milione per gli alluvionati in Liguria. Ed è tutto pubblicato su Internet. Tutto trasparente».

Ora che una fase si è chiusa, forse si può fare una riflessione storica: la Chiesa italiana ha concesso un credito troppo grande, e troppo a lungo, a Berlusconi?
«La Chiesa non sposa questo o quel governo. Con ogni governo però coltiva rapporti di collaborazione all’insegna del bene comune. Confondere la necessaria collaborazione istituzionale con altre forme di vicinanza strategica è fuorviante. Altro è poi quello che singoli cattolici fanno all’interno della loro personale posizione partitica».
Nel campo opposto, a sinistra, c’è spazio per i cattolici? C’è attenzione alle loro esigenze?
«Lo spazio per i cattolici non dovrebbe trovare pregiudiziali rispetto alla questione decisiva dell’etica della vita, come per la libertà scolastica. È questo un valore, sancito dalla Costituzione che prevede l’istruzione come un diritto da garantire a tutti, senza darne l’esclusiva allo Stato. Crescere nella libertà di scelta è aiutare la crescita della democrazia nel nostro Paese, ancora attraversato da residui pregiudiziali ormai superati dalla storia e dall’Europa».

Sì, ma questo spazio per i cattolici c’è nel Pd?
«Noi enunciamo il criterio. Circa i valori irrinunciabili in linea di principio e di fatto. Se c’è lo spazio in concreto, bisogna chiederlo agli esponenti del Pd».
Il ritorno del centro può far pensare a un ritorno anche dell’unità politica dei cattolici?
«L’unità politica dei cattolici non si costruisce necessariamente tramite un partito. Anche se la storia non l’ha escluso. Domani, si vedrà. Ma l’unità si costruisce a partire da un plesso di valori che ha nella vita – dal concepimento alla conclusione naturale -, nella famiglia e nella libertà religiosa il suo riferimento necessario. L’etica della vita è il presupposto dell’etica sociale che garantisce il bene comune, fatto anche di lavoro, casa, integrazione».

Aldo Cazzullo
Gian Guido Vecchi

17 dicembre 2011 | 12:27

Una suora detective in stile Don Matteo

Nell’ultima puntata di Don Matteo 8, andata in onda giovedì scorso, l’abbiamo vista incrociare il sacerdote sfrecciando sul suo furgoncino blu. Adesso suor Angela, al secolo Elena Sofia Ricci, arriva su Raiuno il giovedì in prima serata (da domani) proprio al posto del prete-investigatore campione di ascolti, in Che Dio ci aiuti, la nuova serie giallo-rosa targata Lux Vide, diretta da Francesco Vicario e interpretata, oltre che dalla Ricci, anche da Massimo Poggio, Serena Rossi, Francesca Chillemi, Miriam Dalmazio, Marco Messeri e Valeria Fabrizi. Sedici gli episodi previsti, per otto prime serate, ambientate a Modena, la città in cui suor Angela vive, nel Convento degli Angeli Custodi, trasformato dalla religiosa, per motivi economici, in un convitto universitario con tanto di bar “L’angolo Divino”. La vita di suor Angela, con un passato non proprio cristallino con il quale sta ancora facendo i conti, si incrocia sin da subito con quella di Marco Ferrari, brillante ispettore di polizia (anche lui con un passato che finirà per venire a galla), e, soprattutto, con le sue indagini.

Elena Sofia Ricci racconta: «Il ruolo della suora mi è sembrato subito una bella sfida. E mi ha offerto anche l’occasione per scoprire qualcosa in più, di ritrovare un po’ quella parte spirituale che c’è in ognuno di noi e che tutti dovremmo ritrovare soprattutto in periodi come questo. In Che Dio ci aiuti ho provato a fare la suora che avrei voluto incontrare nella vita: un po’ don Matteo e un po’ don Camillo e anche un po’ Sister Act». Per prepararsi, l’attrice ha passato due giorni in un convento di clausura: «È stata un’esperienza incredibile.

Le suore mi hanno letteralmente sommersa di un amore che non è di questo mondo. Mi ero sempre chiesta come potesse essere la vita delle suore dietro quelle grate e Che Dio ci aiuti mi ha dato la possibilità di vederla da vicino anche se non nascondo che, all’inizio, è stato un po’ impressionante sentire il rumore delle chiavi che chiudevano i cancelli alle mie spalle». Entusiasta anche Massimo Poggio per il quale, «pur interpretando io il ruolo del poliziotto, questa non è una serie poliziesca ma pone l’aspetto soprattutto sul lato umano. Ogni personaggio, all’inizio, ha qualcosa in sospeso che si chiarisce strada facendo».

A chi ipotizza suor Angela come una sorta di don Matteo in gonnella, risponde il regista: «La differenza principale tra i due è che don Matteo è pieno di certezze, è più istituzionale. Suor Angela, invece, è una che ci prova ma che ha sempre la sensazione di non farcela».

Poi, aggiunge: «Questa serie insegna a fermarsi e a ragionare, a dare agli altri una seconda possibilità, a vedere come ci si può capire e volere bene». Matilde Bernabei, che col fratello Luca ha prodotto (in coproduzione con Rai Fiction) Che Dio ci aiuti, conferma: «Questa è una di quelle storie che possono aiutarci a vivere la vita di tutti i giorni, guardando gli altri con un occhio diverso». Il direttore di Rai Fiction Fabrizio Del Noce (proprio nel giorno in cui i produttori tv hanno protestato in Vigilanza Rai per i tagli agli investimenti nelle fiction) non nasconde l’entusiasmo, anche alla luce dell’ottimo risultato di ascolto ottenuto lunedì scorso dalla replica di Preferisco il Paradiso, la storia di san Filippo Neri, sempre prodotta dalla Lux Vide: «Che Dio ci aiuti è una scommessa importante e ci sono fondate ragioni per pensare che proseguirà, il giovedì sera, sulla scia del successo di Don Matteo».

Avvenire  17 12 2011

Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani

“Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani”: questo il titolo, modulato dal magistero di Benedetto XVI, della Giornata di riflessione sulla formazione socio-politica, promossa da Retinopera a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, sabato 17 dicembre.
I lavori sono stati aperti dal Card. Angelo Bagnasco. Nella sua relazione, il Presidente della Cei ha esortato a tenere vivo il concetto vero di coscienza, a formarla, educandosi a scegliere sempre il bene concreto e ad esercitarla nel discernimento ecclesiale.
Rispondendo ai giornalisti, ha chiarito che “la Chiesa paga l’Ici! Eventuali casi di elusione relativi a singoli enti, se provati, devono essere accertati e sanzionati con rigore: nessuna copertura è dovuta a chi si sottrae al dovere di contribuire al benessere dei cittadini attraverso il pagamento delle imposte. Le tasse non sono un optional”.
Il Cardinale ha anche spiegato che “l’esenzione dall’Ici per talune categorie di enti e di attività non è un privilegio, ma è il riconoscimento del valore sociale dell’attività che viene esentata”; esenzione – ha ricordato – che “non riguarda solo la Chiesa ma anche altre confessioni religiose e una miriade di realtà non profit”.
Infine, ha ribadito la disponibilità della Chiesa che vive in Italia a “valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il mondo dei soggetti e delle attività non profit oggetto dell’attuale esenzione”.

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