NATALE DEL SIGNORE |
Lectio – Anno B
Prima lettura: Isaia 52,7-10
Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.
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v Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno. Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza. È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli. Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui. Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.
Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore. Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.
Seconda lettura: Ebrei 1,1-6
Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
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v Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei. Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».
Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui». C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.
Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli». L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.
All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata. In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa. Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.
Vangelo: Giovanni 1,1-18
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
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Il Vangelo in immagini
Esegesi
Quante volte può capitare che una notizia buona renda «bella» anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine un po’ ardita, ai piedi «belli» di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene della salvezza, che consiste nel fatto che Dio regna. Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati e reagiscono con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato ap-pello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Il ritorno di Dio produce il cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza la prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro; Dio, infatti, dimostra di essere dalla parte del suo popolo liberandolo dai suoi nemici.
Le parole del profeta fanno da introduzione allo stupendo prologo giovanneo, dove troviamo un araldo d’eccezione quale Giovanni il Battista, qualificato come «testimone»: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce» (Gv 1,6-8). Il Battista, quindi, rende noto che il «ritorno» di Dio è ormai realizzato, al punto da fargli gridare: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me» (Gv 1,15). Si tratta di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che era anche prima di nascere tra gli uomini. Egli è colui che il vangelo di Giovanni definisce Verbo, poi vita e luce; Egli è colui che, pur essendo Dio come suo Padre, s’incarna e diventa essere umano per meglio servire l’umanità. La gioia di cui parla il Deutoroisaia è sostituita qui dallo splendore della luce e dall’abbondanza della vita. Eppure, realisticamente, si annuncia: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta […].Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto» (Gv 1,4-5.10-11).
Dal Verbo scaturisce per noi ciò che l’umanità, seppur a tentoni, ha sempre tentato di conoscere, ossia Dio, che non è stato mai visto da nessuno, in quanto soltanto il suo Figlio unigenito, che ha con Lui un’intimità perfetta (1,18: «che è Dio ed è nel seno del Padre»), ce l’ha potuto rivelare. Il mistero del Natale, dunque, ci invita a prendere coscienza di tutta questa grandezza, che nemmeno i profeti avevano potuto immaginare. La presenza in mezzo a noi dell’erede di Dio Padre, Gesù Cristo, «Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,3), è un evento così sconvolgente quanto desiderato da rendere difficile il parlarne e da far sentire inadeguato chi vuole accoglierlo.
Perciò, circondati dalla luce, sostenuti dal Verbo, potenziati dalla vita comunicataci da Gesù non ci rimane che arrenderci al Dio che viene a visitarci e a guarire le nostre ferite.
Meditazione
La luce giunge ora, nella terza Messa di Natale, a illuminare il giorno pieno. «Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia…Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio» (Sal 97,2.3). Tutto questo perché «si è ricordato del suo amore», canta ancora il salmo responsoriale. Quello che gli occhi delle genti e i confini della terra contemplano è proprio la luminosità di questo amore. Anche il profeta Isaia, nella prima lettura, insiste nell’annunciare una salvezza che tutti i confini della terra vedranno. Le sentinelle scrutano con i loro occhi il ritorno del Signore a Sion, le orecchie ascoltano le buone notizie del messaggero che annuncia la pace e la salvezza (cfr. Is 52,5-7.10). Dio, in questi giorni che sono gli ultimi, parla a noi per mezzo del Figlio (cfr. Eb 1,2). La luce splende nelle tenebre, che non riescono a vincerla anche quando non vogliono accoglierla; per questo noi possiamo contemplare, nel Verbo che si fa carne e pianta la sua tenda in mezzo a noi, la «gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Anche Colui che i nostri occhi non possono vedere, quel Dio che nessuno ha mai visto, ora il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui ce lo racconta! Ogni uomo viene illuminato dalla luce vera che viene nel mondo. Questa luce non solo ci è donata affinché la contempliamo o ci lasciamo da essa illuminare; più radicalmente essa ci trasforma, rendendoci a nostra volta luminosi. Giovanni non è la luce, ma viene come testimone della luce, perché, credendo attraverso la sua testimonianza, noi possiamo diventare figli di Dio, partecipando del suo stesso essere luce. Il Battista rende testimonianza alla luce nel suo farsi luminoso, perché si lascia raggiungere e trasformare dalla luce del Logos.
Ora siamo davvero nel giorno pieno e tutto nella liturgia della Parola torna a sottolineare ciò che può essere visto, udito, contemplato. Potremmo ripetere, con le parole di Giovanni nella prima lettera, «quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo a voi, perché siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,1-4). Siamo davvero nel giorno pieno, non solo perché la luce risplende, ma perché tutto in noi – vista, udito, tatto, cuore – è reso capace di riconoscere e gustare la sua presenza. Tutto diviene possibilità di comunione, con il mistero di Dio e tra di noi. Tutto diviene vita piena, gioia compiuta, annuncio credibile, testimonianza efficace.
Senza entrare nel dibattito su chi sia l’autore del vangelo e della prima lettera di Giovanni, se si tratti dello stesso scrittore o meno, certamente c’è una grande affinità tra i due prologhi con cui si aprono entrambi gli scritti. Un prologo rappresenta certo, secondo le regole retoriche, un momento delicato e decisivo attraverso cui un autore stabilisce un rapporto vivo ed efficace con il suo lettore. Rappresenta anche, nello stesso tempo, la difficoltà di un inizio. La parola deve trovare i modi migliori per esprimersi e incominciare a raccontare. Leggendo il vangelo di Giovanni, ma anche la prima lettera, si ha come l’impressione che l’autore lasci da parte la sua parola per consentire l’irrompere della Parola; lasci da parte ogni preoccupazione su come iniziare, per consentire all’inizio di ogni inizio, a ciò che è «in principio», di rivelarsi e di essere davvero all’origine di ogni altra parola, di ogni altra esperienza, di ogni altra vita, che trova soltanto in Lui la sua origine e la sua consistenza. È come se l’autore, più che iniziare a raccontare, volesse concedere a Colui che è al principio di raccontarsi, di raccontare il Padre, di raccontare la verità di ogni uomo, chiamato in Lui alla vita eterna, a divenire figlio di Dio, a lasciarsi illuminare dalla sua gloria.
Questa dinamica, che emerge in questa esperienza di inizio di scrittura, non è vera per la vita di ogni uomo e di ogni donna? Più che preoccuparci di come vivere, non dovremmo lasciare che sia la vita in pienezza a irrompere in noi con la sua luce, con la sua potenza, che ha fatto tutto ciò che esiste, con il suo dono che ci offre il potere di diventare figli di Dio? In ogni Natale, mentre celebriamo la memoria e continuiamo a contemplare il venire della luce vera, l’abitare in mezzo a noi del Logos che si fa carne, il nascere del bambino di Nazaret, di fatto torniamo a nascere anche noi – è quel «nascere dall’altro, da acqua e da Spirito» di cui parla Gesù a Nicodemo (cfr. Gv 3,3-9) – a condizione di deporre la nostra pretesa di essere il «principio» di noi stessi per accogliere davvero il solo che è al principio della nostra vita e della nostra salvezza. Egli infatti ha voluto assumere la nostra natura umana perché noi potessimo condividere la sua vita divina, come prega la Colletta della Messa del giorno.
Preghiere e racconti
Andiamo fino a Betlemme!
Miei cari fratelli,
Vorrei essere per voi uno di quei pastori veglianti sul gregge, che la notte del primo Natale, dopo l’apparizione degli angeli, alzò la voce e disse ai compagni: «Andiamo fino a Betlemme, e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».
Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori. Ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il vincastro, e scendere giù per le gole di Giudea, lungo i sentieri odorosi di stereo e profumati di menta. Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l’antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.
Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori. I quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d’Oriente. Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste… per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».
Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori. Ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni nelle circospezioni di infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.
Andiamo fino a Betlemme. E un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all’indietro», è l’unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall’ipoteca della morte.
Auguri, allora, miei cari fratelli.
Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quella della nostra anima sarà libero di smog privo di segni di morte e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.
Buon Natale! Vostro
+ don Tonino, vescovo
(Antonio Bello, Oltre il futuro. Perché sia Natale, Molfetta, Luce e vita/La Meridiana, 1995, 25-27).
I pastori
Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori. Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.
Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione. Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.
Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?
Esulta dunque!
Ecco quale è la festa che celebriamo oggi: la venuta di Dio presso gli uomini affinché andiamo a Dio o ritorniamo a lui – è più esatto parlare di ritorno -, affinché deponiamo l’uomo vecchio e ci rivestiamo del nuovo (cfr. Ef 4,22-24) e, come siamo morti in Adamo, così viviamo in Cristo (cfr. 1Cor 15,22), nascendo con lui, con lui essendo crocifissi, con lui sepolti, con lui resuscitando (cfr. Rm 6,4; Col 2,12; Ef 2,6). […] Per questo non celebriamo la festa come fosse una solennità profana, ma in maniera divina, non in maniera mondana, ma sovramondana, non come una nostra festa, ma come quella di colui che è nostro, o piuttosto del Signore, non come festa della malattia, ma della guarigione, non come quella della creazione, ma della ri-creazione. […] Dio sempre fu e sempre è e sarà, o piuttosto, egli è sempre. Poiché le espressioni «era» e «sarà» corrispondono a divisioni umane del tempo e della natura sottoposte a mutamento; «colui che è» è invece il nome che si da Dio stesso quando si rivela a Mosè sulla montagna (cfr. Es 3,14). Riunendo tutto in se stesso, possiede l’essere senza principio, senza termine, è come un oceano di esistenza senza limiti né confini, che va al di là di ogni idea di tempo e di natura. […] Ma ora sappi che Cristo è concepito. Esulta, dunque, se non come Giovanni nel seno di sua madre (cfr. Lc 1,41), almeno come Davide al vedere che l’arca trova riposo (cfr. 2Sam 6,14) ; onora il censimento, grazie al quale sei stato inscritto nei cieli; celebra la Natività grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia, tu che, insensato, sei stato nutrito dal Verbo.
(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi 38,4.7.17, SC 358, pp. 108-110; 114-116).
In principio era il Verbo
La liturgia di questa domenica ripropone il Prologo del Vangelo di san Giovanni, proclamato solennemente nel giorno di Natale. Questo mirabile testo esprime, nella forma di un inno, il mistero dell’Incarnazione, predicato dai testimoni oculari, gli Apostoli, in particolare da Giovanni, la cui festa, non a caso, si celebra il 27 dicembre. Afferma san Cromazio di Aquileia che “Giovanni era il più giovane di tutti i discepoli del Signore; il più giovane per età, ma già anziano per la fede» (Sermo II,1 De Sancto Iohanne Evangelista, CCL 9a, 101). Quando leggiamo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1), l’Evangelista – paragonato tradizionalmente ad un’aquila – si eleva al di sopra della storia umana scrutando le profondità di Dio; ma ben presto, seguendo il suo Maestro, ritorna alla dimensione terrena dicendo: “E il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). Il Verbo è “una realtà vivente: un Dio che … si comunica facendosi Egli stesso Uomo» (J. Ratzinger, Teologia della liturgia, LEV 2010, 618). Infatti, attesta Giovanni, “venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). “Egli si è abbassato ad assumere l’umiltà della nostra condizione – commenta san Leone Magno – senza che ne fosse diminuita la sua maestà” (Tractatus XXI, 2, CCL 138, 86-87). Leggiamo ancora nel Prologo: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia” (Gv 1,16). “Qual è la prima grazia che abbiamo ricevuto? – si chiede sant’Agostino – È la fede”. La seconda grazia, subito aggiunge, è “la vita eterna” (Tractatus in Ioh. III, 8.9, CCL 36, 24.25).
(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 02.01.2011).
Il Verbo si è fatto carne
A imitazione di Gesù Cristo, immagine di Dio, non allontaniamoci neppure noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio (cfr. Gen 1,26-27), di certo non uguale perché creata dal Padre attraverso il Figlio e non nata dal Padre come [il Figlio, che è] la sapienza di Dio. Noi siamo immagine perché illuminati dalla luce; il Figlio, invece, perché è luce che illumina e perciò, pur non avendo un modello per sé, è modello per noi. Egli non è modellato su qualcuno che lo precede presso il Padre; dal Padre, infatti, non può mai essere separato perché egli è quello stesso da cui ha origine. Noi, invece, cerchiamo di imitare un modello che non muta, seguiamo uno che non si muove e camminando in lui, che è per noi una dimora eterna, tendiamo a lui perché è divenuto per noi nella sua umiliazione una via attraverso il tempo. Agli spiriti immateriali senza peccato che non sono caduti a motivo della superbia il Figlio offre un esempio nella forma di Dio, in quanto uguale a Dio e Dio, ma per offrirsi come esempio di ritorno all’uomo caduto, che a causa dei suoi peccati e della condanna alla mortalità era incapace di vedere Dio, «si è svuotato» (Fil 2,7), non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo (cfr. Fil 2,7) verso di noi, lui che era in questo mondo, perché «il mondo è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,10), per essere un esempio a quelli che nelle altezze contemplano Dio, per essere un esempio a quelli che sulla terra ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per quanti si preparano a morire, esempio di resurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose (cfr. Col 1,18). Per conseguire la felicità l’uomo non doveva seguire nessun altro se non Dio, ma egli non era in grado di vedere Dio; seguendo il Dio fatto uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che poteva vedere e uno che doveva seguire. Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che «è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).
(AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità 7,12-13, Opere di sant’Agostino, parte I/IV, pp. 302-304).
Oggi
viene svelato il mistero
rimasto nascosto per secoli.
Oggi il Figlio di Dio
diventa figlio dell’uomo…
Maria,
confusa e dolce,
tu guardi il Figlio,
colui che ha le fattezze del tuo volto,
volto umano di Dio,
che ridarà bellezza ad ogni volto d’uomo.
Adori il mistero e ti abbandoni
alla sua grandezza.
Ricolmaci, o Madre,
della tua pace,
ridonaci la bellezza della grazia,
e aiutaci a farci grembo a Dio,
perché cresca in noi…
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
o serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.
– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.