Il card. Angelo Scola su crisi economica e dottrina sociale della Chiesa

Di fronte alla grave crisi dell’occupazione e alla necessità di rilanciare lo sviluppo, è ancora adeguato quel caposaldo della dottrina sociale della Chiesa che parla della centralità del soggetto del lavoro come fondamento del primato del lavoro sul capitale?

con questa domanda, ieri (17 maggio), ha aperto il suo intervento il card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano, nell’ultima serata del ciclo “Dalla crisi economica alla speranza affidabile”, organizzato da Fondazione “Milano Famiglie 2012” e “Gruppo 24 Ore” in preparazione al VII Incontro mondiale delle famiglie (www.family2012.com).

Tema della serata: “Nuove politiche sociali e di lavoro per la sostenibilità della famiglia”. All’incontro hanno partecipato anche Donatella Treu, amministratore delegato del “Gruppo 24 Ore”, e Tiziano Treu, vicepresidente XI Commissione Lavoro del Senato.

È seguita la tavola rotonda “Nuovi modelli di lavoro nella famiglia oggi”, con Michele Tito Boeri del Dipartimento economia dell’Università Bocconi di Milano, Alberto Quadrio Curzio, docente emerito di economia politica all’Università Cattolica di Milano, Giovanni Maria Vian, direttore de “L’Osservatore Romano”, e Marco Vitale, economista.

Scarica gli interventi:

VII-Inc-Mondiale-Famiglie-Card-Scola

ASCENSIONE DEL SIGNORE Lectio – Anno B

Prima lettura: Atti 1,1-11

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

Se il Vangelo di Marco è molto rapido ed essenziale nel parlarci dell’ascensione di Gesù al cielo, il libro degli Atti tenta di «descrivercela» quasi visivamente nella seconda parte del brano oggi propostoci (At 1,6-11).

Stando al racconto di Luca, sembra che si tratti dell’ultima «cristofania», concessa da Gesù agli Apostoli, i quali peraltro si dimostrano ancora impreparati alla comprensione del mistero di Cristo: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v. 6). Pur dopo la risurrezione, essi pensano terrenisticamente! Gesù supera la loro incomprensione, rimandando alla discesa dello Spirito la piena illuminazione del suo mistero ed anche della loro missione in ordine a quel mistero: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (1,7-8).

Come si vede, anche qui siamo davanti ad un mandato «missionario»,di tipo universalistico: si parte, com’era ovvio e doveroso, dalla patria stessa di Gesù, per arrivare «fino agli estremi confini della terra». Il libro degli Atti, conforme a questo comando di Gesù ci illustrerà successivamente le varie tappe di questa evangelizzazione, che Paolo porterà perfino a Roma, nel cuore cioè dell’immenso impero che dominava tutto il mondo allora conosciuto.

Anche qui la «forza» per adempiere questo compito immane non viene garantita dalle deboli ed impari risorse umane dei discepoli, ma dalla irruzione e dalla continua assistenza dello Spirito. Nel capitolo 2 del libro degli Atti, infatti, Luca ci descriverà la impetuosa discesa dello Spirito e la sua potenza di «trasformazione» dell’anima e dei sentimenti degli Apostoli: da timidi ed impauriti com’erano, diventeranno intrepidi e inarrestabili annunciatori e testimoni del Risorto. È ancora Cristo che «opera insieme a loro»: non direttamente, ma mediante lo Spirito che egli invierà da parte del Padre (cf. At 2,32-33).

Dopo aver dato loro il suo «mandato» missionario, Gesù «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9). Abbiamo già detto della tristezza degli Apostoli nel vedersi «sottrarre» il Risorto. Quello che conta, però, non è la sua presenza fisica, ma la convinzione di fede che egli sarà sempre con i suoi, con la potenza dello Spirito, sino al momento del suo «ritorno» glorioso, come proclamano i due misteriosi personaggi «in vesti candide»: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

In questo intervallo di tempo, che è già durato più da 2000 anni e non sappiamo per niente quanto durerà ancora, tocca ai suoi discepoli, cioè alla sua Chiesa, allargare gli «spazi» della sua signoria, rendergli testimonianza, facendolo conoscere ed amare da tutti gli uomini.

È così che il suo «regno» si stabilisce anche lungo la storia, fra gli uomini, per mezzo di altri uomini.

È a livello di queste considerazioni che possiamo comprendere la «indispensabilità» della Chiesa nel mondo, in attesa del «ritorno» glorioso di Cristo: anzi, proprio per «preparare» e predisporre tutti e tutto, anche il convivere sociale, a quell’incontro con il Signore dell’universo, essa è destinata!

Seconda lettura: Efesini 4,1-13

Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

A proposito della Chiesa, perché compia la sua missione di testimonianza nel mondo, anzi di rappresentanza «vicaria» di Cristo, e in tal modo anticipare addirittura la venuta del «regno», dice delle cose stupende il brano della lettera agli Efesini, oggi proposta alla nostra considerazione.

Due mi sembrano le idee di fondo che guidano il testo, troppo ricco per entrare nei suoi dettagli esegetici.

La prima è quella della «unità» di quel «corpo» meraviglioso che è la Chiesa: in essa, proprio per questa esigenza fondamentale, ci deve essere circolazione di «amore», che si manifesta nell’umiltà e nella capacità di «sopportazione» reciproca, allo scopo di «conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).

Ci sono troppi motivi di «unione» che obbligano i cristiani a fare «comunione» fra di loro. Una Chiesa «divisa» non rende buona testimonianza né a Cristo, né allo Spirito, che è essenzialmente «Spirito di amore»! E perciò è destinata ad essere fatalmente inerte, se non controproducente. «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo...» (4,4-5).

La seconda idea, che viene espressa in questo testo e non è per niente antitetica alla prima, è che nella Chiesa, pur nella più rigorosa «unità», c’è una «molteplicità» di «doni», di «carismi» o di «ministeri» che dir si voglia, che permettono, anzi esigono, che tutti diano il loro contributo per la crescita armonica di quell’unico «corpo», di cui tutti siamo «membra».

E la cosa che più sorprende è che proprio il Cristo, «asceso al di sopra di tutti i cieli» (4,10), ha voluto concedere questi «doni» alla sua Chiesa: essi, pertanto, non sono tanto delle acquisizioni nostre, che nascono da «prediposizioni» di natura e perciò da rivendicare a tutti i costi, quanto «doni» che vengono dall’alto, da esercitare perciò con grande senso di «responsabilità» per il bene di tutti. «A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» (4,7). Si noti l’espressione «a ciascuno di noi»: perciò ogni battezzato non può non avere uno spazio nella Chiesa!

A modo di esemplificazione, vengono poi ricordati alcuni «ministeri» tra i più fondamentali nella Chiesa: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,11-13).

Come si vede, i «ministeri» qui ricordati non sono dati per esercitare un «dominio» nella Chiesa, come talvolta, da qualcuno si è pensato o si potrebbe pensare, ma un «servizio» di crescita comune. Il traguardo per tutti, siano essi apostoli, o profeti, o pastori, o qualsiasi altra cosa, è quello di «crescere» e far «crescere» fino a raggiungere «la misura della pienezza di Cristo» (4,13). Il che è tremendamente impegnativo per tutti.

Vangelo: Marco 16,15-20

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

Esegesi

Come è risaputo da tutti, questa parte «conclusiva» del Vangelo di Marco (16,9-20) è stata aggiunta successivamente da qualche autore che non conosciamo. Non è che Marco ignorasse questi eventi: è che egli ha voluto chiudere il suo Vangelo con lo «stupore» delle donne davanti al sepolcro vuoto e all’annuncio che Gesù è stato risuscitato da morte (Mc 16,6-8). Ed è proprio questo «stupore» che dovrà accompagnare sempre i credenti nel Signore risorto!

Comunque, tutto questo non crea per noi alcun problema, perché siamo davanti ad un testo egualmente «ispirato» e come tale riconosciuto dalla Chiesa. Cerchiamo perciò di metterne in evidenza il ricco e molteplice contenuto.

Si tratta dell’ultima «cristofania» del Risorto ai suoi Apostoli ai quali viene affidato un mandato «missionario» universale.

Abbiamo detto sopra che l’ascensione al cielo non era l’abbondono di Gesù, ma solo un suo «momentaneo» allontanamento. Nel frattempo gli Apostoli avrebbero dovuto prolungarne l’opera di salvezza, annunciando il suo «Vangelo» ad ogni creatura. Perciò essi vengono rivestiti di un compito di rappresentanza «vicaria» del Cristo, da realizzare ed estendere per tutto l’arco della storia. È attraverso degli uomini che Cristo verrà ormai «annunciato» ad altri uomini! È questo il suo mandato «testamentario»: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (16,15-16).

Due cose sono da sottolineare in questo «comando» del Signore. Prima di tutto la sua «universalità»: è «in tutto il mondo» che vengono inviati gli Apostoli; il Vangelo deve essere predicato «ad ogni creatura», senza escludere nessuna razza umana, in qualunque parte della terra essa abiti. In secondo luogo, si esige l’accoglienza, per «fede», del dono del «Vangelo», congiunto con il rito del «battesimo», che anche simbolicamente significa la rinascita a vita nuova, come un autentico «lavaggio» dalle sozzure della vita precedente. Dunque «fede» e «battesimo», intimamente congiunti e vissuti dai cristiani, sono le «vie» che portano alla salvezza.

E se così sarà e i cristiani vivranno in tal modo, potranno compiere anche «gesti» straordinari, così come capiterà agli Apostoli che parlano «nuove lingue» il giorno di Pentecoste, proprio in ordine all’annuncio del Vangelo (At 2,4,11); oppure a Paolo che, morso da una vipera, la getta a terra senza riceverne alcun male (At 28,3-5), e altri fatti simili che si sono verificati, e continuano a verificarsi, lungo la storia. Ed effettivamente il Vangelo di Marco si chiude con l’affermazione che tutto questo è avvenuto: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (16,20).

Ma si tratterà solo di «segni» che possono solo testimoniare che la «salvezza» procurata dal Vangelo è «totale», includente, oltre l’anima, anche il nostro corpo sofferente.

Per l’autore però è importante affermare che tutto ciò avviene come frutto della «perdurante» azione di Cristo che, pur salendo al cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo, ma «opera insieme a loro» proprio in virtù del «potere» che gli deriva dall’essersi assiso «alla destra» del Padre: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (16,19).

Meditazione

La festa dell’Ascensione di Gesù ci rende più presente, quasi più attuale, la visione del «cielo». Una volta un monaco di un monastero copto nel deserto egiziano chiese: gli uomini di oggi pensano a suffi­cienza alla loro dimora permanente? E continuò dicendo che per la maggior parte dei cristiani la vita nel cielo non è altro che un’appen­dice, un supplemento alla vita terrena che è invece ritenuta la vera vita stabile e permanente. La vita del cielo è considerata una specie di post-scriptum, l’appendice di un libro di cui la vita terrena è, appun­to, il vero testo. La verità — concludeva il monaco — è esattamente il contrario. La vita sulla terra è solo la prefazione di quel libro il cui testo è la vita del cielo.

Questa riflessione del monaco è molto saggia. Tuttavia potrebbe suo­nare un po’ semplicistico dire che si pensa troppo a questa vita terrena e poco a quella celeste. Il problema è forse un altro e riguarda il modo in cui pensiamo alla vita sulla terra. E c’è da dire che purtroppo è un modo depauperato, depotenziato e perciò sbagliato. Tutti pensiamo che la vita terrena è una cosa e quella del cielo totalmente un’altra. In realtà, la Scrittura ci suggerisce una continuità della vita, sebbene ci sarà una cesura alla fine dei tempi. Ed è in questa prospettiva che nel Credo si parla di «vita eterna» e non semplicemente di vita futura o dell’aldilà. È come dire che questa vita già da ora deve essere impastata di eternità; e lo è sia nel bene che nel male. Il paradiso e l’inferno iniziamo a viverli da questa terra e su questa nostra terra e in questo nostro tempo. In tal senso, la nostra vita terrena sarebbe trasformata di molto se avessimo lo sguardo rivolto verso il futuro, verso l’alto, verso il cielo. L’Ascensione viene a mostrarci qual è il futuro che Dio ha riservato ai suoi figli. E il futuro è quello raggiunto da Gesù. Ecco perché abbiamo bisogno di «vedere» già questo cielo, sebbene «in speculum et in enigmate» come dice l’apostolo Paolo, per poter vivere bene già su questa terra.

Il mistero dell’Ascensione, appena accennato dal Vangelo di Marco, è narrato con maggiore ampiezza dagli Atti degli Apostoli.

Gesù, scrive Luca, al termine dei suoi giorni, dopo aver parlato ai discepoli, «mentre lo guardavano fu elevato in alto e una nube lo sot­trasse ai loro occhi». Fu un’esperienza straordinaria per quel piccolo gruppo di discepoli. Possiamo immaginare il misto di stupore e di tristezza per la separazione; tanto che rimasero a guardare il cielo. Mentre erano fissi in questa posizione, «ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù… verrà allo stesso modo in cui l’ave­te visto andare in cielo”». Normalmente si interpreta questo testo come una sorta di dolce ma fermo rimprovero ai discepoli perché non si fermino a guardare le nubi del cielo, ma ritornino con il loro sguardo e soprattutto con il loro impegno nell’orizzonte della vita di tutti i giorni. Del resto è stato Gesù stesso ad esortare gli apostoli, proprio un momento prima di lasciarli, dicendo: «andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15-20). Tutt’altro quindi che restare a guardare il cielo.

Ma c’è anche una verità nel tenere gli occhi fissi al cielo. Non che i cristiani debbano formare un gruppo di esoterici fermi a contemplare dottrine astratte, magari per evadere la complessa e talora durissima vita quotidiana. Tenere gli occhi fissi verso il cielo vuol dire tenere ben ferma la meta ove dobbiamo condurre noi stessi e il mondo, le nostre comunità e l’intera storia umana. Scriveva il profeta Isaia: «Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui» (Is 64,3). L’ignoranza del cielo che Dio ci ha rivelato rende senza senso e quindi amara e triste, violenta e crudele, la vita sulla terra. L’apostolo Paolo sembra insistere perché i credenti guardino oltre il presente: «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fa 3,20). Del resto, chi non vede quanto sia necessario far salire più in alto, appunto verso quel cielo che Gesù ha riaperto, questo nostro mondo spesso sbattuto così tragicamente in basso? Siamo entrati nel nuovo secolo senza utopie, senza sogni, a testa bassa e con gli occhi ripiegati solo su noi stessi. E le guerre e le violenze continuano ad avere un predominio incontrastato. E per di più sembra affermarsi più facilmente la ragione della forza che quella del diritto, del dialogo e del confronto pacifico.

In tal senso, la festa della Ascensione è sommamente opportuna, è una grazia concessa agli uomini perché alzino gli occhi un po’ più in alto del loro orizzonte abituale. E vedranno, come attraverso uno spira­glio, il futuro della storia umana anzi dell’intera creazione; non un futuro generico, più o meno ideologico e astratto, ma concreto: fatto di «carne ed ossa come vedete che ho io», potremmo dire parafrasando una affermazione di Gesù. Egli per primo, infatti, inaugura il nuovo futuro di Dio entrandovi con tutto il suo corpo, con la sua carne e la sua vita, che sono carne e vita di questo nostro mondo. Da quel giorno, il cielo inizia a popolarsi della terra, o, con il linguaggio dell’Apocalisse, iniziano i nuovi cieli e la nuova terra. Il Signore li inaugura e li apre perché tutti possano prendervi parte. Già la sua madre, Maria, lo ha raggiunto, assunta anch’essa con il suo corpo. L’Ascensione è il mistero della Pasqua visto nel suo compimento, scorto dalla fine della storia. L’Ascensione non è solo l’ingresso di un giusto nel regno di Dio, ma la gloriosa intronizzazione del Figlio «seduto alla destra» del Padre. Questa raffigurazione, presa dal linguaggio biblico, esprime simbolica­mente il potere di governo e di giudizio sulla storia umana del Cristo risorto: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra», dice Gesù ai discepoli dopo la Pasqua (Mt 28,18).

Noi non siamo più immersi in una storia senza orientamento, vitti­me del caso o degli astri o di forze oscure e incontrollabili. E fanno tristezza coloro che scrutano i cieli (come quella folla di persone che ogni giorno scruta gli oroscopi…) in cerca di segni di protezione per fuggire la paura e l’insicurezza della vita. Il Signore asceso è lui stesso il nostro cielo e la nostra sicurezza. Egli ci attrae verso il futuro che Lui ha già raggiunto in pienezza. E ai discepoli di ogni tempo conferisce il potere di sviluppare la storia e il creato verso questa meta: essi possono scacciare i dèmoni e parlare la lingua nuova dell’amore; possono neu­tralizzare i serpenti tentatori e vincere le insidie velenose della vita; possono guarire i malati e confortare chiunque ha bisogno di consola­zione. Questa forza sostiene e guida i discepoli sino ai confini della terra e verso il futuro della storia. Il Vangelo di Marco conclude: «par­tirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro». Così sia per ciascuno di noi e per tutte le nostre comunità cristia­ne, ognuno secondo il dono e il ministero ricevuto, come dice Paolo nella Lettera agli Efesini, «finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a rag­giungere la misura della pienezza di Cristo».

Preghiere e racconti

Il cielo

Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.

(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione

Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», rispondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista. Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua ascensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.

Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi posseduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali. La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo. Non possono innalzare a lui i cuori. Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo. […] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima. Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tumulto della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.

(John Henry Newman).

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Abbiamo creduto in lui e ne aspettiamo il ritorno

Fratelli, noi crediamo in quel Gesù che non hanno creduto i nostri occhi. A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che lo hanno veduto, l’hanno stretto con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca. Essi, affinché tutti gli uomini accettassero le sue parole, furono inviati da lui; non osarono andare di loro iniziativa. Dove furono mandati? L’avete sentito dalla lettura del Vangelo: «Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura che è sotto il cielo» (Mc 16,15). I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero che essi riferivano cose da loro stessi viste. Noi abbiamo creduto in colui che non abbiamo visto con i nostri occhi e ne aspettiamo il ritorno. Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando ritornerà. […] Restiamo dunque fedeli alla sua parola, perché non proviamo confusione quando ritornerà. Egli infatti nel vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: «Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli» (Gv8,31). E quasi gli chiedessero: Con quale vantaggio? «Voi conoscete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non è stata realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso e tuttavia ne speriamo la futura realizza-zione. Colui che ha fatto questa promessa è fedele; egli non ti inganna: tocca a te unicamente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse. La verità non conosce inganni. Non voler esser tu il bugiardo, altra cosa professando e altra facendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa. Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento all’epistola di san Giovanni 4,2, NBA XXIV, pp. 1708-1709).

Sii un vero amico

Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno. L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale. Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio. L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte. In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte. Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami. È questo il centro del messaggio di Gesù.

Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata. Al contrario, è cresciuta.

È questo il significato dell’invio dello Spirito. Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’amicizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte. È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro. Sai dall’esperienza quanto questo sia reale. Coloro che hai amato profondamente e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze reali.

Osa amare ed essere un vero amico. L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condurrà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo»(At 1,11).

[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando  in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– C.M. MARTINI (card.), Incontro al Signore risorto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

PASQUA ASCENSIONE DEL SIGNORE (B)

Forum Europeo per l’Insegnamento Scolastico della Religione

MADRID 11-15 Aprile 2012

Il Forum europeo sull’insegnamento della religione nella scuola EUFRES, nella sua quindicesima edizione, ha esaminato i vari scenari sulla presenza della religione nello spazio pubblico delle società europee e la sua presenza come disciplina scolastica all’interno dei diversi sistemi educativi. Speciale attenzione è stata prestata al contributo dell’insegnamento della religione alla coesione sociale e alle implicazioni che ciò comporta in vista della formazione degli insegnanti di religione.

Qualche informazione sul Forum …

Il Forum Europeo per l’insegnamento scolastico della religione EUFRES è costituito da un gruppo di esperti di vari paesi europei, che si riuniscono periodicamente allo scopo di analizzare situazioni, problemi e ipotesi inerenti all’istruzione religiosa nelle scuole, sia pubbliche che private.

L’EUFRES persegue esclusivamente attività di studio e di informazione. Non ha competenze dirette in ordine alla gestione istituzionale dell’insegnamento della religione. Pertanto i suoi obiettivi principali sono:

a) favorire la comunicazione e il confronto di idee e di progetti tra esperti operanti in centri accademici di chiesa e di stato, e provenienti da diversi sistemi scolastici del continente europeo;

b) trattare in ogni sessione biennale un tema specifico, che risulti di interesse comune ai partecipanti, di riconosciuta pertinenza scientifica oltre che di attualità, e che possa essere affrontato in termini comparativi rispetto alle diverse situazioni culturali e scolastiche dei vari paesi;

c) conoscere più direttamente natura, funzionamento, risorse, problemi, evoluzione recente dell’istruzione religiosa nelle scuole del paese che, a turno, ospita le sessioni dell’EUFRES;

d) contribuire, mediante appropriate ricerche e proposte, a promuovere in Europa un profilo culturale, giuridico, educativo di un insegnamento religioso scolastico, che sia garante della libertà di coscienza di insegnanti, alunni e genitori, che sia rispettoso del pluralismo culturale della società civile e delle scuole, e aperto al dialogo ecumenico e interreligioso.

IL TEMA DEL FORUM

L’insegnamento della religione e la coesione sociale in Europa. Proposte per la formazione degli insegnanti

Qualsiasi analisi delle società europee mostra una presenza della religione nei diversi settori culturali ed educativi. Tuttavia questa presenza ha una diversa considerazione nello spazio pubblico nei diversi paesi europei. Così incontriamo scenari in cui la religione è presente nella società e svolge un ruolo attivo nel suo sviluppo culturale e per la coesione sociale. Si registrano altresì scenari ove la religione, pur essendo presente nello spazio pubblico in condizioni ottimali, esprime un ruolo meno rilevanti nell’istruzione e nella cultura. Non mancano situazioni in cui la religione è soggetta ad una pressione laicista ed escludente, nonostante le condizioni democrati¬che stabilite per l’esercizio della libertà religiosa. Tutti questi scenari hanno il loro impatto sui sistemi educativi e sull’insegnamento della religione, generando situazioni diversificate sia riguardo la legislazione scolastica in materia di religione, sia nella normativa che regola il lavoro degli insegnati. Siamo convinti che l’insegnamento della religione contribuisca significativamente all’educazione dei cittadini, suggerendo valori e risposte che danno un senso alla vita, contribuendo in questo modo alla promozione della dignità di tutti gli esseri umani ed al riconoscimento dei loro diritti fondamentali, migliorando l’inclusione educativa e la coesione sociale; cioè, in breve, proponendo un’umanizzante visione della vita che trascende la materialità e raggiunge l’incontro con Dio. Tutto questo nell’ambito dei sistemi educativi in cui i nostri respettivi Stati democratici hanno una responsabilità insostituibile, che, però, non deve invadere il diritto fondamentale dei cittadini di scegliere il tipo di educazione che preferiscono per i propri figli.

I CONTRIBUTI PIU’ SIGNIFICATIVI …

Bert Roebben Religione, Scuola e Società: Elementi per un’innovazione necessaria nella formazione dei professori di Religione in Europa

Francesc Torralba Contributi dell’insegnamento della religione alla coesione sociale

Venerando Marano La presenza della religione  nello spazio pubblico europeo: dalla libertà al dialogo

Rudi Palos FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI DI RELIGIONE IN CROAZIA. L’APPORTO DELLE RIVISTE SPECIALIZZATE IN LINGUA CROATA

Filipovic GLI INSEGNANTI/LE INSEGNANTI DI RELIGIONE IN CROAZIA FRA L’APPARTENENZA AD UNA CHIESA TRADIZIONALE E UNA SOCIETA’ IN PROGRESSIVA SECOLARIZZAZIONE

Kazimierz Misiaszek L’insegnamento della religione cattolica in Polonia in riferimento alle questioni sociali

 

PER VISUALIZZARE  IL PROGRAMMA: Programa EuFRES-2012

Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA 46° GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI

DOMENICA 20 MAGGIO 2012

“Quando parola e silenzio si escludono a vicenda, la comunicazione si deteriora (...) Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto. Nel silenzio ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi, nasce e si approfondisce il pensiero, comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro, scegliamo come esprimerci. Tacendo si permette all’altra persona di parlare, di esprimere se stessa, e a noi di non rimanere legati, senza un opportuno confronto, soltanto alle nostre parole o alle nostre idee. Si apre così uno spazio di ascolto reciproco e diventa possibile una relazione umana più piena”…

 

COMMENTO di Antonio Spadaro Cyberteologia

Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione. Il titolo del messaggio per XLVI Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 2012 tiene unite due parole che nella accezione comune sono opposte: quando non si parla c’è silenzio; appena si parla sparisce il silenzio. Sembra ovvio, chiaro, banale persino. Spesso, quando si parla dei media, si dice come per un automatismo, che essi fanno “rumore”, frastuono dal quale ripararsi, “ritirarsi”.

Il Papa in questo suo messaggio capovolge la prospettiva e ci propone un modo differente di vedere le cose e di leggere il significato del silenzio e della parola.

1. Parola e silenzio si integrano e non si oppongono –– Il messaggio del Papa scardina l’opposizione tra silenzio e parola, che ha la sua verità, ma solamente in casi estremi. Il Papa in questo suo messaggio chiaramente che il silenzio è parte integrante della comunicazione, parte della parola, della capacità dell’uomo di parlare, non il suo opposto. Parola e Silenzio sono due elementi imprescindibili e integranti del processo comunicativo. E tra di loro si integrano e non si oppongono. Si deve sperare che da oggi in poi non si debba più assistere ad elogi del silenzio in sé e per sé, al di fuori dii un tessuto comunicativo. Chi prega sta in silenzio, ma in realtà non è di per sé vero. Chi prega elabora un linguaggio di comunicazione con Dio ed è proprio per elaborare questa parola, questo discorso, che tace esteriormente.

2. Comunicare non significa trasmettere messaggi –– Il messaggio del Papa scardina anche un’altra errata convinzione. Infatti noi, bombardati da messaggi, pensiamo troppo spesso che comunicare significhi semplicemente trasmettere, parlare, riversare contenuti e informazioni. Invece il Papa ci ricorda che oggi si fa troppa attenzione a chi parla e si dimentica che la comunicazione vera è fatta di ascolto, di dialogo, che è fatto di ritmi di parola e silenzio. IL silenzio inoltre non è solamente ascolto degli altri, ma anche ascolto di sé. Non è una semplice “pausa” perché gli altri possano parlare, ma anche pausa perché la mia stessa comunicazione sia comprensibile: senza virgole, punti, punti e virgole (cioè silenzi) nel discorso non c’è vera espressione, non si creano le condizioni per intendersi. Il silenzio è “ordinato” alla comunicazione.

3. Il silenzio non è un “vuoto” –– Il messaggio del Papa scardina il pregiudizio per il quale il silenzio significa assenza di linguaggio, cioè “assenza”, vuoto puro. Il silenzio in realtà non è “nulla”, ma è uno spazio aperto, una dimensione di vita, un ambiente nel quale la parola può fiorire. Il silenzio permette alla parola di diventare davvero luogo di esperienza e luogo di incontro, al di là del meccanisimo della information overload.

4. Il silenzio è parte di un ecosistema comunicativo –– Ma c’è un passo avanti ulteriore: acutamente il Papa scrive: “è necessario creare un ambiente propizio, quasi una sorta di “ecosistema” che sappia equilibrare silenzio, parola, immagini e suoni”.Attenzione! Il Papa non dice che il silenzio è l’ecosistema della parola, ma che la comunicazione è questo ecosistema nel quale l’ecologia implica un equilibrio tra silenzio e parola. E aggiunge anche immagini e suoni. In questo modo il binomio tra silenzio e parola veine infranto dalla presenza dell’immagine e del suono, parte integrante della comunicazione umana.

5. La comunicazione oggi è guidata da risposte che cercando buone domande –– Il Papa, quindi passa a enucleare il nocciolo duro della comunicazione contemporanea, soprattutto legata alla Rete, considerando ciò che la muove come motore interno. Il Papa riconosce questo motore nel fatto che l’uomo è bombardato da risposte delle quali però non conosce le domande. Spesso sono risposte a domande che lui non si è mai posto. Il silenzio dunque permette di fare un discernimento tra le tante risposte che noi riceviamo per riconoscere le domande veramente importanti. Il capovolgimento di prospettiva operato dalle parole del Papa consiste nel fatto che in genere si dice che l’uomo si pone domande e poi cerca risposte. Oggi è invece vero il contrario. E in questo senso l’uomo di conferma come assetato di senso.

6. L’uomo esprime anche in Rete il suo bisogno di silenzio –– Cade un altro pregiudizio: che in Rete ci sia solo rumore. Il Papa nota che “sono da considerare con interesse le varie forme di siti, applicazioni e reti sociali che possono aiutare l’uomo di oggi a […] trovare spazi di silenzio, occasioni di preghiera, meditazione o condivisione della Parola di Dio”. L’uomo in Rete esprime il bisogno di silenzio e in Rete si aprono spazi di silenzio comunicativo. Senza citare nessuna piattaforma o applicazione particolare, il Papa parla di “essenzialità di brevi messaggi, spesso non più lunghi di un versetto biblico” capaci di esprimere “pensieri profondi”. Come non pensare a Twitter o alla dimensione concentrata dei “messaggi di stato”? Come non pensare alle tante “apps dello spirito” che possono aiutare a pregare “se ciascuno non trascura di coltivare la propria interiorità”, scrive il Papa.

***

Ma forse c’è una pagina di Romano Guardini che può aiutare a meditare le parole di Benedetto XVI: “E’ proprio dell’essenza di ogni forma di linguaggio l’essere rapportata al silenzio. Solo dal confluire di queste due componenti risulta il fenomeno nella sua interezza. Esse si determinano reciprocamente, poiché solo chi sa tacere può veramente parlare nello stesso modo che l’autentico silenzio è possibile solamente a chi sa parlare. Il vero silenzio non significa una mera entità negativa, tale da rimanere inespressa, ma un comportamento attivo, una commozione fervida della vita interiore, commozione nella quale tale silenzio diviene padrone di sé stesso. Solo da questa commossa serenità proviene alla parola quella forza silenziosa che la rende compiuta.

Il silenzio, inoltre, è un manifestarsi di quell’immagine percepita dai sensi che si rivela allo sguardo interiore. Solo in tale manifestarsi se ne può esperimentare la potenza di significato, e solo da questa esperienza la parola trae tutta la sua energia di espressione. Priva di questo rapporto col silenzio, la parola diviene vaniloquio; senza questo rapporto con la parola, il silenzio diviene mutismo. Questi due elementi – insieme – formano un tutto, ed è un fatto che induce a riflettere la circostanza che per questo tutto non esista alcun concetto. In esso esiste l’uomo” (da Linguaggio – Poesia – Interpretazione, Brescia, Morcelliana, 2000, 15).

Giornata Nazionale dei beni culturali ecclesiastici

Alle 10 di questa mattina, la relazione di S.E. Mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, sul tema “La conoscenza del patrimonio ecclesiastico”, apre la XIX Giornata Nazionale dei beni culturali ecclesiastici, in programma a Roma presso il Centro Congressi di via Aurelia 796.

“Il restauro di un luogo di culto può essere come una porta che si schiude su un mondo affascinante e tutto da scoprire. Per i sacerdoti, perché scoprono cose nuove, alle quali forse non erano stati sufficientemente preparati negli anni della loro formazione. Per gli architetti, perché ogni restauro è un’esperienza nuova, una lezione nel corso della quale c’è sempre da imparare, sia sul piano tecnico che sul piano umano, ad esempio nel cogliere le aspettative della comunità committente. Per i funzionari delle Soprintendenze, perché possono cogliere meglio la ricchezza della teologia. Per i fedeli, perché vengono aiutati dai lavori di restauro a rintracciare, nelle consuete mura entro cui pregano da anni, le vestigia di quanti li hanno preceduti nella proclamazione della lode a Dio e nell’esercizio della carità cristiana.

Non va poi dimenticato che la presenza di una chiesa fa riferimento a una quantità di persone che interagiscono profondamente fra di loro e che si riconoscono nell’appartenenza all’unico Dio in Cristo. Queste persone si identificano come comunità cristiana. Un edificio di culto, quindi, non è mai un fatto privato o la conseguenza di un’azione individuale, bensì è generato da presupposti di carattere ecclesiale e va ad arricchire le dinamiche relazionali sociali nel territorio in cui si situa”.

Scarica il : testo dell’intervento


”I giovani domandano senso. L’Insegnamento della Religione cattolica risponde”

Promosso in collaborazione con il Servizio nazionale per la Pastorale Giovanile, si svolge oggi e domani a Roma il Seminario di studio: «I giovani domandano senso. L’Insegnamento della Religione cattolica risponde».

L’Insegnamento della Religione Cattolica, oltre che essere una risorsa culturale, è uno spazio privilegiato per riflettere sulle questioni fondamentali che interpellano l’uomo, e in questo senso, in particolare per i giovani tra i 15 e i 18 anni, una singolare  opportunità educativa per mettere a fuoco domande di senso e cercare possibili risposte. Chi, nel mondo della pastorale, si dedica ai giovani e lavora per la loro autentica maturazione umana e cristiana, non può non cogliere la portata determinante dell’Irc.

«L’insegnamento della religione cattolica (Irc) – spiega Mons. Vincenzo Annicchiarico, responsabile del Servizio Nazionale per l’Irc , oltre che essere una risorsa culturale, è uno spazio privilegiato per riflettere sulle questioni fondamentali che interpellano l’uomo, e in questo senso, in particolare per i giovani tra i 15 e i 18 anni, una singolare  opportunità educativa per mettere a fuoco domande di senso e cercare possibili risposte. Chi, nel mondo della pastorale, si dedica ai giovani e lavora per la loro autentica maturazione umana e cristiana, non può non cogliere la portata determinante dell’Irc».

I lavori, iniziati alle 10.00 di questa mattina, terminano con il pranzo di giovedì 17, viene aperto e chiuso dagli interventi di Mons. Annicchiarico e Mons. Nicolò Anselmi, responsabile del Servizio Nazionale per la pastorale giovanile.

Questa mattina sono ci sono stati gli interventi del Dott. Alessandro Castegnaro, Presidente dell’Osservatorio Socio-Religioso del Triveneto (“Fenomenologia dell’esperienza religiosa nei giovani”) e del Prof. Riccardo Tonelli, docente emerito di Teologia pastorale presso l’Università Pontificia Salesiana (“Il rapporto giovani e fede: estraneità, rifiuto o familiarità?”).

Questo pomeriggio è prevista la presentazione di alcune esperienze e un’ampia condivisione, in dibattito con i relatori. Giovedì mattina, infine, il contributo della Dott.ssa Maria Grazia Pau, docente di Metodologia e didattica dell’Irc presso l’ISSR di Cagliari (“Criteri e modalità di risposta dell’Irc alla domanda di senso dei giovani”).

Scarica intervento: Annicchiarico – Introduzione 16-05-12

Informazioni ulteriori sono disponibili nel sito www.chiesacattolica.it/irc.

E’ possibile scaricare il programma e la circolare di esonero del MIUR.



“È POSSIBILE UN’ALLEANZA ITALIANA PER LA FAMIGLIA?”

Presentazione del rapporto biennale dell’osservatorio nazionale sulla famiglia

in occasione della GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA FAMIGLIA

“È possibile un’alleanza italiana per la famiglia?”. Questo l’interrogativo sul quale si è imperniata, oggi a Roma, la celebrazione della Giornata internazionale della famiglia, in occasione della quale è stato anche presentato il Rapporto biennale sulla condizione della famiglia in Italia, a cura dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia.


Una bussola per tutti. “La famiglia è la chiave di volta per la ricostruzione del tessuto sociale”, in un momento “dominato dalla crisi economica ma soprattutto da una crisi relazionale”. Lo ha detto il ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione, Andrea Riccardi, definendo la famiglia “un tema cruciale” e “non facile per il Paese”. Sottolineando “l’importanza sempre crescente delle famiglie degli immigrati” presenti in Italia, il ministro ha auspicato “una grande alleanza per la famiglia”, che non è solo un “fatto privato ma una risorsa per la vita dell’intera società”. La famiglia, ha aggiunto il ministro, “rappresenta una bussola per chi vuole fare politica” ma anche per i cittadini: “Da soli gli individui realizzano meno le proprie potenzialità. Perciò bisogna fare il massimo anche in un momento di ristrettezza economica”.

L’importanza delle “buone pratiche”. A riprendere il tema dell’“alleanza per la famiglia”, al centro del Rapporto, dal titolo “La famiglia in Italia. Sfide sociali e innovazioni nei servizi”, è stato il curatore, il sociologo Pierpaolo Donati, secondo il quale “è l’analisi della famiglia che ci dice quanto il tessuto sociale si stia spappolando, e quanto ci sia necessità di una convergenza, dall’alto e dal basso, su un orizzonte comune”. Due le priorità, ha spiegato Donati: “Le giovani coppie e la solidarietà tra le generazioni, mediata dalla famiglia”. Per il sociologo, nel dettaglio “occorre una grande convergenza delle forze politiche, sociali e culturali, partendo dalla consapevolezza che la famiglia è un soggetto a cui si può dare attenzione solo sacrificando gli interessi immediati della politica”. Il Rapporto, ha aggiunto Donati, “vuole essere anche un contributo importante al dibattito europeo, in cui c’è una grande difficoltà ad affrontare il tema della famiglia”. Nel Rapporto – diviso in due volumi, il primo dei quali affronta gli aspetti demografici, sociali e legislativi, mentre il secondo tratta delle “buone pratiche” in atto – si auspicano “politiche familiari relazionali, sussidiarie e societarie, che non siano la riedizione del vecchio assistenzialismo”.

“Salvare il cuore del Paese”. Per Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari, è urgente un’“alleanza per la famiglia” come “partita di sistema, non tema di nicchia, in cui sono coinvolti tutti gli attori sociali”, dal momento che non “bisogna salvare solo banche e aziende, ma anche e soprattutto il cuore del Paese”. Belletti, che ha chiesto alla politica di “restituire alle famiglie quello che hanno dato finora”, ha poi auspicato che, grazie ai “pilastri” rappresentati da “fisco, welfare e lavoro”, si stabiliscano “misure più eque”, “accordi tra territori”, per far sì che “la famiglia sia luogo generativo e motore di sviluppo” e non “un ammortizzatore sociale”. Di una “fortissima esigenza di riequilibrio del sistema fiscale in Italia”, per scongiurare “l’aumento delle disuguaglianze”, ha parlato Luca Antonini, del comitato scientifico dell’Osservatorio, secondo il quale quello fiscale “è un problema anche culturale”, che per quanto riguarda la famiglia comporta la capacità di “riconoscere il valore del legame, che non può essere considerato alla stregua di altri legami”. “Sempre più famiglie, ma più piccole; anziani soli in aumento; forte riduzione delle coppie con figli”: questo, in sintesi, l’identikit delle 23 milioni di famiglie censite dal Rapporto, ha riferito il demografo Gian Carlo Blangiardo.

“Rafforzare il tessuto connettivo sociale”. “È necessario valorizzare la soggettività della famiglia per rafforzare il tessuto connettivo sociale. Con il piano nazionale per le famiglie per la prima volta la politica crea un quadro organico e unitario, superando la logica della frammentarietà degli interventi”. Così si è espresso il presidente della Camera, Gianfranco Fini, mentre sull’importanza di “favorire il lavoro delle donne, fattore fondamentale per l’equilibrio delle famiglie” ha insistito il ministro per le Pari opportunità, Elsa Fornero, che ha sottolineato come la famiglia viva “una crisi che è nel contempo economica, d’identità e valori”. Le istituzioni, ha affermato il ministro “devono aiutare i genitori nel loro ruolo” e “attuare politiche di conciliazione perché gli uomini facciano i padri e non portino solo il pane a casa”. Fabrizio Barca, ministro per la Coesione territoriale, ha ribadito in chiusura che è necessario investire sulla famiglia “anche togliendo soldi a cose meno vitali” perché solo con la famiglia, “grumo fertile di relazioni”, è possibile rispondere “con coraggio e fiducia alla fase difficile che attraversiamo”.


Scheda: il Rapporto biennale 2011-2012

“Essere d’aiuto a studiosi e operatori per perseguire nuovi orizzonti di interventi a favore delle famiglie italiane in una fase storica di crescenti incertezze”. Questo l’obiettivo del Rapporto biennale 2011-2012 curato dall’Osservatorio nazionale sulla famiglia. 
“Il Rapporto – si legge nell’introduzione a firma di Pierpaolo Donati, direttore scientifico dell’Osservatorio – intende fornire informazioni socio-economico-demografiche utili per comprendere la condizione familiare in Italia e, nello stesso tempo, suggerire linee d’intervento per le politiche sociali da mettere in campo”. Bisogna, quindi, “riconoscere il ruolo sociale della famiglia non già mediante misure di tipo caritativo o di mera assistenza passivizzante, bensì nei termini di una piena valorizzazione della soggettività sociale della famiglia. Se un Paese non ha un forte tessuto connettivo costituito da famiglie solide che generano beni relazionali, non v’è rimedio economico che possa funzionare, perché il problema giace nel fatto di consumare il capitale umano e sociale delle famiglie, e nel non riuscire a rigenerarlo”.
Strutturato in due volumi, il Rapporto “parla di alleanza italiana per la famiglia non solo perché risponde alle linee-guida dell’Unione europea, ma anche e soprattutto perché prevede il coinvolgimento di tutti gli attori istituzionali e della società civile che sono chiamati a realizzare il family mainstreaming”. Nel primo tomo viene delineato “lo scenario generale dei mutamenti nel corso di vita delle famiglie e le esigenze di una legislazione sociale più avanzata, tenendo conto del nuovo assetto federalistico del Paese”, con particolare attenzione “ai problemi della povertà e delle famiglie immigrate”. Nel secondo volume vengono, invece, riportati “i risultati di ricerche originali sul campo, che riguardano le buone pratiche e i nuovi strumenti per la conciliazione tra famiglia e lavoro, come l’audit, e i buoni servizio, l’uso dei congedi genitoriali, gli aiuti alle famiglie che si prendono cura degli anziani non autosufficienti, i sostegni alle famiglie fragili (con minori in tutela o a rischio di allontanamento, in cui i genitori sono separati/divorziati, famiglie migranti), la governance delle politiche familiari a livello locale”. In appendice si trova il Piano nazionale per la famiglia, “una sintesi del programma d’interventi concreti che, se implementati, potrebbero portare il Paese a realizzare le più moderne ed efficaci politiche familiari”.
Sono “note da tempo – si legge ancora – le difficoltà che il sistema-Italia ha di dare un adeguato riconoscimento alle famiglie per il ruolo economico, sociale, culturale che esse svolgono in quanto famiglia, e non come semplici aggregati d’individui. Qualche recente segnale fa ben sperare in una possibile svolta. Penso al riconoscimento del ‘settore famiglia’ come criterio equitativo nella distribuzione delle risorse pubbliche e/o viceversa, nella richiesta ai cittadini di contribuire agli sforzi di ripresa e sviluppo del Paese”. La speranza, conclude Donati, è che il Rapporto “contribuisca ad accrescere una conoscenza più approfondita della problematica e stimoli l’adozione degli interventi strutturali di politica familiare necessari per dare al Paese un futuro di sviluppo equo e sostenibile”.

 

 

 

VI DOMENICA DI PASQUA Lectio – Anno B

Prima lettura: Atti 10,25-27.34-35.44-48

Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!». Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.

Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

Il brano che leggiamo risulta da tre piccoli ritagli di quel grande affresco che è il cap. 10 degli Atti. Consigliamo di rileggere tutto il cap. 10 nella sua interezza. Siamo ad un momento decisivo del cammino missionario della Chiesa primitiva: la conversione di Cornelio assume dimensione emblematica dell’apertura della predicazione al mondo pagano.

— «Si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio» (v. 25). Di fronte ai prodigi e ad un essere superiore che si ritiene celeste, il mondo pagano reagisce con atteggiamento di adorazione. Così capita anche a Paolo e Barnaba, a seguito di un miracolo, a Listra (At 14,11-15).

— «Alzati…» (v. 26). La predicazione cristiana è sempre attenta ad evitare l’equivoco che si può creare sulla persona degli apostoli, chiarendo che non sono esseri celesti e superiori, ma uomini come gli altri. Coerente con tale chiarimento, Pietro conversa con il centurione con familiarità, allargando l’incontro con le molte persone che sono in quella casa (v. 27).

— «Dio non fa preferenze di persone» (vv. 34-35). È l’inizio del discorso di Pietro: non è soltanto citazione dell’AT (vedi Dt 10,17; Sp 6,8; Sir 35,5), ma ammirata constatazione che trova riscontro nei fatti che Pietro sta vivendo: il privilegio di ricevere la parola di Dio non appartiene più esclusivamente al popolo ebraico. È l’inizio del cammino universale della predicazione cristiana, dell’annuncio della salvezza.

— «Accoglie chi lo teme e pratica la giustizia» (v. 35). Allargata a tutti i popoli, la misericordia di Dio non esige che due disposizioni negli uomini ai quali si rivolge: a) timore e rispetto intimo di Dio riconosciuto come unico e onorato nella propria coscienza; b) pratica della giustizia, ossia di una profonda onestà nei doveri naturali.

— «Lo Spirito Santo discese sopra tutti…» (vv. 44-48). Il racconto che segue è indicato come la «pentecoste dei pagani». Lo stesso Pietro sottolinea che «questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo» (v. 47). Questi pagani, senza seguire le usanze giudaiche, e senza alcuna particolare preparazione, ricevono lo Spirito Santo: ciò dimostra — come rileva l’apostolo Pietro — che sono già pronti per ricevere il battesimo (v. 47). L’effetto carismatico, prodotto nei pagani dalla discesa dello Spirito Santo, è simile a quello ricevuto dagli apostoli nella prima pentecoste: consiste nel fatto di esprimersi in lingue nuove e nel lodare Dio in modo estatico (v. 46). In entrambi gli aspetti è da vedere la unificazione della famiglia umana nel dono delle lingue e della preghiera, questa volta anche nel mondo pagano.

Seconda lettura: 1Giovanni 4,7-10

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

In uno sviluppo parenetico (cioè di carattere prevalentemente esortativo) pressocché parallelo a quello della II Lett. di domenica scorsa, la Prima Epistola di Giovanni insiste sulla necessità, per i cristiani, di avere una fede autentica ed un vero amore (4,7;5,4), con la

probabile intenzione di stigmatizzare l’insorgere di alcune eresie nella chiesa primitiva. Senza vero amore non c’è vera fede, e viceversa. Il brano di oggi si colloca esattamente all’inizio di tale sviluppo.

Tre le affermazioni fondamentali contenute nella nostra lettura:

Prima: Dio non è conoscibile se non attraverso la via dell’amore (vv. 7-8). Perché? Dio è amore, in senso operativo, cioè ogni sua attività è mossa da amore. Ne derivano due conseguenze che si possono esprimere in termini positivi e negativi: solo chi ama è nato da Dio (v. 7), solo chi ama i fratelli «conosce», cioè mostra di avere un’esperienza vera e pro-fonda di Dio. Di fatto, l’assenza di amore rende impossibile ogni comunicazione e comunione con Dio (v. 8). Per S. Agostino la conoscenza dello stesso mistero trinitario non avviene se non attraverso un movimento di amore.

Seconda: non c’è prova più evidente che Dio è mosso da amore, che il fatto della venuta del Figlio Unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui (v. 9). «Unigenito»: questo titolo attribuito al Figlio ha due valenze: a) è sinonimo di amato, diletto, oggetto di amore unico, e in tal caso sottolinea la grandezza del dono di Dio, mandandolo nel mondo; b) sottolinea l’unicità del Figlio di Dio come rivelatore del Padre; egli è l’unico che veramente possa rivelarci il volto del Padre: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio…» (Mt 11,27).

Terza: caratteristica dell’amore divino è che previene l’amore dell’uomo; non aspetta di essere amato per amore. Non siamo stati noi ad amare Dio, (v. 10) anzi noi abbiamo tradito il suo amore col peccato. Ma egli ha preso per prima l’iniziativa e ha mandato il suo Figlio in funzione di espiare, cioè offrire il sacrificio, per i nostri peccati.

Vangelo: Giovanni 15,9-17

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Esegesi

Il brano evangelico odierno costituisce l’immediato seguito del vangelo di domenica scorsa (vv. 1-8), ed in certo senso ne è l’illustrazione in termini parenetici. Il brano è costituito grosso modo da due sezioni che fanno capo a due parole-chiave: la parola «amore» e la parola «amici».

Chiariamo il senso di queste due parole fondamentali su cui il nostro brano è costruito: «amore» e «amico»:

amore (in gr. agapō) a differenza di altri verbi che implicano reciprocità e scambio, se si applica a Dio, indica un movimento di amore assolutamente gratuito e illimitato (vedi II Lettura). La fonte è divina e eterna: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi (v. 9), comunicandosi agli uomini nel tempo. Abbiamo così una serie di anelli che costituiscono tutti essenzialmente il senso dell’agape cristiano: Padre-Figlio-discepoli e discepoli tra loro. La comparazione: rimanete nel mio amore, come io rimango nell’amore del Padre (cf. v. 10) non indica solo un rapporto esemplare o di imitazione. Il come indica la natura e il fondamento stesso dell’amore cristiano, che sgorga ed è alimentato dall’amore trinitario. Perciò l’espressione «nel mio amore», pur potendosi intendere nel senso dell’amore dei discepoli per Gesù, è però più coerente intenderlo come amore di Gesù per i discepoli. Concepito così, tale amore va fino al sacrificio di sé, come lo è stato per quello di Gesù (v. 13);

amicizia, amico (in gr. philos). Nei rapporti umani, l’amicizia si stabilisce tra due persone che sono sullo stesso piano. Questo è vero per l’amicizia di Gesù per i discepoli, se si tiene però conto che è lui ad elevarci dal livello di schiavi (doulos) a quello di amici. La differenza, come spiega il Signore, va capita nella prospettiva della comunicazione: tra servo e padrone non c’è comunicazione, perché abitualmente il padrone non fa sapere, e quindi non comunica al servo quello che fa e perché lo fa (v. 15). Gesù invece comunica e rivela ai discepoli quello che ha «udito» dal Padre, cioè li rende partecipi della sua relazione intima e filiale col Padre (v. 15).

Inoltre, sul piano dell’amicizia umana, ognuno è e si sente autore delle scelte che fa, e non stabilisce le finalità che l’altro deve raggiungere. Nell’amicizia con Gesù non è così: non i discepoli hanno scelto lui, ma lui ha scelto loro — elevandoli al suo livello — con iniziativa gratuita e sovrana (v. 16), e li ha scelti con un preciso scopo: assegnare loro una missione (portare frutto) stabile e duratura (v. 16).

Meditazione

«Amiamoci gli uni gli altri». È l’imperativo che l’apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l’amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un’esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l’esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l’ampiezza che giungeva sino all’amore per i nemici, anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natu­ra e indicarne la fonte: «Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio; chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» (1Gv 4,7). L’apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L’amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il ter­mine greco «eros». L’apostolo usa, invece, la parola «agape» per con­notare l’amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.

Per comprendere l’amore di Dio (l’agape) non bisogna perciò par­tire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri senti­menti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infat­ti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell’amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgia­mo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell’uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant’Agostino applicava all’uomo: «Inquietum est cor meum…». Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del «cuore inquieto di Dio»: Egli è venuto sulla terra per cercare e salvare ciò che era per­duto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. È un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l’amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l’amato.

Sì, Dio è inquieto finché non trova l’uomo. E lo è a tal punto «da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). L’amore di Dio, potremmo dire, «è in discesa», si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, «sino a dare la vita per i propri amici, come Gesù stesso dice. Si legge ancora nella prima lettera di Giovanni: «In questo sta l’amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4, 10). È Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. È, in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (1Cor 1, 28). Questo è il Dio dei Vangeli: un Dio che è mosso da un amore che non si fa indietro neppure davanti alla mancanza di vita, alla negazione dell’amore. Dio si fa piccolo pur di raggiungere il più disgraziato degli uomini e arricchirlo della sua amicizia. La storia stessa di Gesù è racchiusa in tale amore. Dio, infatti, non è l’Essere in sé, alla maniera del pensiero aristotelico, ma è l’Essere per noi, è apertura infinita, è amore appassionato per noi.

Se l’intera Scrittura è la storia dell’amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell’amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l’amore è Gesù. L’amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito… L’amore è cercare i malati, è avere per amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. Infatti «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». L’amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito… Questo è l’amore di Dio. Davvero altra cosa dall’eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori… Per questo per la Bibbia e per Gesù l’amore, l’agape, non è un sentimento in balia delle circostanze o dei sentimenti, ma un «comandamento», qualcosa a cui rispondere e che si deve costruire: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi». Forse è proprio quel «come» la novità dell’amore cristiano. Siamo chiamati ad amare nella stessa misura di Gesù.

Il vuoto d’amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L’egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomi­ni basati sull’attrazione «naturale» sono labili, basta poco per rovesciar­li e distruggerli. È diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire i rapporti definitivi e fedeli. L’eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d’essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l’agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell’io c’è l’altro. Gesù ce ne ha dato l’esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9).

Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell’amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore; possiamo però riceverlo da Dio; se accolto, ha una forza dirom­pente: fa crollare i muri, cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l’amore di Dio si incrocia, quasi sino all’identificazione, con l’amore vicendevole. L’uno infatti è causa dell’altro. Un noto teologo russo amava dire: «Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!». Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L’amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera dì razza, di cultura, di nazio­ne, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L’agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l’amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11).

Preghiere e racconti

Abitare nella casa dell’amore

Questa è una singolare metafora dell’amore. L’amore non è soltanto un sentimento passeggero. È uno spazio in cui si può rimanere. Gesù, tuttavia, indica anche la condizione per rimanere nell’amore: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). Non possiamo godere da soli dell’amore di Dio. Dobbiamo continuare a farlo scorrere verso gli altri. Altrimenti ristagna. E allora lo spazio d’amore, in cui si può abitare tanto bene, crolla.

L’amore di Gesù non prende, come fa spesso il nostro, ma dà. È puro dono. A un amore del genere, che lascia liberi e si dona, che muore per noi e scorre senza confini per noi, aneliamo nel profondo del nostro cuore.

Di fronte al Cristo crocifisso percepiamo che siamo incapaci di vero amore. Il nostro amore si mescola spesso al desiderio di avere l’altro tutto per noi, di riuscire a possederlo. Vogliamo tenerlo stretto, in modo che non ci lasci mai più. E non ci accorgiamo di come gli togliamo la possibilità di evolversi, di diventare interamente se stesso. Spesso vogliamo essere noi a plasmare la persona amata e comprimerla nella forma che ci sembra amabile. Il gesto della croce esprime il contrario: ci lascia liberi, ci invita a farci abbracciare, ma ci lascia anche andare, affinché possiamo percorrere in libertà il nostro cammino.

(Anselm Grün, Apri il tuo cuore all’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 19-20).

Rimanete nel mio amore

«Rimanete nel mio amore» (Gv 15,10). In che modo ci rimarremo? Ascolta quanto segue: «Se osservate i miei comandamenti», dice il Signore, «rimarrete nel mio amore» (ibi). È l’amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l’osservare i comandamenti che fa nascere l’amore? Ma chi può mettere in dubbio che l’amore precede l’osservare i comandamenti? Chi non ama non ha motivo di osservare i comandamenti. Dicendo: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», il Signore non vuole indicare l’origine dell’amore, ma la prova. Come se dicesse: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti; potrete rimanervi solo se li osserverete. Questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti. Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti, perché lo amiamo in quanto osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo. Anche se dalle parole: «Rimanete nel mio amore» non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente. Egli aveva detto: «Anch’io ho amato voi», e subito dopo ha aggiunto: «Rimanete nel mio amore». Si tratta dunque dell’amore che egli nutre per noi. E allora che cosa significa: «Rimanete nel mio amore», se non: rimanete nella mia grazia? E che cosa significa: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell’amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osserviamo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci amasse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili, mentre è rimasta nascosta ai superbi.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 82,3, NBA XXIV, p. 1248).

Credo

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero

che non mi seduce con un miracolo

e che non mi opprime con la sua autorità.

Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,

che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,

che non accetta compromessi,

ma che benedice la follia di chi lo segue.

Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,

che non rimette a posto le cose dall’alto,

che non esercita la giustizia degli uomini.

Credo in un Dio che si lascia tradire,

che al mio no risponde con un bacio silenzioso,

credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.

Credo in un Dio che non ho inventato io,

che non soddisfa i miei bisogni,

che non dice e fa quello che voglio io,

un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.

Credo in un Dio vero,

che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,

che si fa piccolo, debole indifeso

perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.

Credo in un Dio che gioca a nascondino

perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,

credo in un Dio che mi si fa vicino,

che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.

Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.

(Ester Battista).

Da’ gratuitamente

«Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente. Puoi reclamare il carattere permanente del tuo amore come un dono di Dio. E puoi dare questo amore permanente agli altri. Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli. A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.

Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio. Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito. Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci. Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di riceverlo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.

Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi bisogni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia. 2005, 27-28).

L’amore

Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi. Non pensiamo che l’amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consuma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compiere grandi azioni. D’altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti. Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande. Questo ci rende tranquilli di fronte all’azione. Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo. Non c’è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire. Poiché troviamo nell’amore un’occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in preghiere e in azioni. Troviamo che la preghiera è un’azione e l’azione una preghiera; ci sembra che l’azione veramente amorosa è tutta piena di luce. Ci sembra che di fronte ad essa l’anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire. E quando la luce si fa – il volere di Dio chiaramente compreso – ecco l’anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa. Ci sembra che l’azione sia anche una preghiera d’implorazione. Non ci sembra che l’azione c’inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita. Al contrario, ci sembra che l’azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa. I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero. E’ per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l’amore di Dio e l’amore dei nostri fratelli. Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia. Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spirito. Allora la vita è una festa. Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un’informazione? …eccola: è Dio che viene ad amarci. E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare.

(Madeleine Delbrêl).

Parlami d’Amore

Amore supera l’amore, mio caro. L’amore è volo d’uccello nel cielo infinito. Ma il volo dell’uccello è più che il volteggiare in aria di un esserino di carne, più che le sue ali innamorate, corteggiate dal vento, è più che l’indicibile gioia quando muoiono i battiti delle ali e il corpo in pace plana nella luce. L’amore è canto di violino che canta il canto del mondo. Ma il canto del violino è più che il legno e l’archetto, inerti e solitari, più che le note in abito da sera che danzano sulla partitura, e più che le dita dell’artista che corrono sulle corde. L’amore è luce, per le strade umane. Ma la luce che si dà è più che carezza mattutina che apre gli occhi notturni, più che raggi di fuoco che riscaldano i corpi, e più che mille pennelli d seta che colorano i volti. L’amore è fiume d’argento che scorre verso il mare. Ma il fiume vivo, che indugia o che si affretta, è più che il suo letto accogliente, scrigno che non trattiene, più che l’acqua che si arrossa allo sguardo del tramonto, e più che l’uomo sulla riva che getta l’esca e ne estrae i frutti. L’amore è veliero che sulle acque fende le onde. Ma la corsa del veliero è più che la prora sedotta che penetra il mare, che si offre o i dibatte, più che le vele frementi sotto il tocco della brezza o gli schiaffi del vento, è più che le mani del marinaio afferrate al timone, mentre instancabile insegue la sua selvaggina. …l’Amore supera l’amore. L’Amore è soffio infinito, che viene da un altrove e vola verso l’altrove. L’amore è mente d’uomo che conosce e riconosce il soffio, è libertà d’uomo che tutto si volge verso di Lui. L’amore è consenso dell’uomo al soffio che invita, è cuore dell’uomo che si apre per accoglierlo e donarLo, è corpo dell’uomo che si raccoglie, disponibile, perché da Lui abitato, da Lui invaso prenda il volo verso gli altri, verso… l’altro, e perché infine ciò che era lontano si ricongiunga e si accordi ciò che era separato diventi uno e che dall’uno sgorghi una nuova vita. 

(Michel Quoist).

La mia vocazione

Nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore… la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore.

( Santa Teresa di Gesù Bambino).

Una luce splende alla mia anima

Che ti amo Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo.

Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti.

Ma che cosa amo amandoti?

Non una bellezza corporea né una grazia transitoria;

non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi;

non dolci melodie di svariate cantilene;

non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi;

non manna né miele, non membra invitanti ad amplessi carnali.

Amando il mio Dio, non amo queste cose.

E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce,

una voce, un profumo, un cibo ed un amplesso

che sono la luce, la voce, il profumo,

l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce

che nessun fluire di secoli può portar via,

dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere,

dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire,

dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare.

Tutto questo io amo quando amo il mio Dio.

(S. Agostino)


* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– C.M. MARTINI (card.), Incontro al Signore risorto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

PASQUA VI DOMENICA DI PASQUA (B)

Simposio: “Maria Domenica Mazzarello e Giovanni Bosco: un incontro, un carisma condiviso”

 

 

In occasione del 140º dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e cogliendo l’opportunità dell’anteprima del film scritto e prodotto da Sr. Caterina Cangià, «Maìn. La casa della felicità», l’Istituto di Teologia spiritualedella Facoltà di Teologia dell’UPS, in  collaborazione con Sr. Anita Deleidi, docente del corso su Maria Domenica Mazzarello, oggi si è tenuto un incontro di studio sul rapporto tra la Santa e Don Bosco in vista dell’educazione delle giovani.

Il simposio, dal titolo “Maria Domenica Mazzarello e Giovanni Bosco: un incontro, un carisma condiviso” è stato strutturato in due parti. Nella prima, Sr. Anita Deleidi è stata messa in evidenza «la relazione di reciprocità per l’educazione delle giovani tra Maria Domenica Mazzarello e Giovanni Bosco» e Sr. Grazia Loparcomostrerà «l’influsso del modello religioso donboschiano sull’Istituto delle FMA». Nella seconda parte, Sr. Caterina Cangià ha presentato il nuovo film su Maria Domenica Mazzarello, Confondatrice dell’Istituto FMA e ne mostrerà il promo e alcuni stralci. L’incontro si colloca nel cammino di preparazione al Bicentenario della nascita di Don Bosco (2015) e in prossimità della festa di madre Mazzarello (13 maggio).

Maria Domenica Mazzarello è nata a Mornese (Alessandria) il 9 maggio 1837 da una famiglia di con-tadini, prima di sette figli. A quindici anni si offrì a Dio con voto di verginità. Poco dopo entrò nell’associazione delle Figlie di Maria Immacolata, impegnandosi più a fondo in servizi di apostolato e di carità. L’incontro con Don Bosco, invitato a Mornese da don Pestarino (1864), segnò per lei una tappa de-cisiva. Il Santo, che andava maturando un progetto apostolico per le ragazze, rimase colpito dalla spiritua-lità delle Figlie dell’Immacolata e intravide in Maria Domenica colei che Dio aveva scelto per estendere l’opera di salvezza della gioventù. Nell’incontro tra i due santi – cha non si erano mai visti precedente-mente – si verificò una straordinaria vicinanza di azione e spirito, di ideali e stile educativo. Dalla loro collaborazione nacque l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e prese avvio una via di santificazione improntata su un forte realismo e una sapiente concretezza di vita. Il 5 agosto 1872 Maria Domenica fece, con altre quindici ragazze, la prima professione religiosa. Nello stesso anno venne eletta superiora, ruolo nel quale rivelò insospettati talenti di madre e animatrice.

Si spense all’età di 44 anni (14 maggio 1881) nella Casa madre di Nizza Monferrato (Asti). Fucanonizzata da Pio XII il 24 giugno 1951. Alla sua morte l’Istituto, che aveva solo 9 anni di storia, era diffuso in quattro nazioni (Italia, Francia, Uruguay, Argentina), con 26 case e 200 consorelle. Oggi, a 140 anni della Fondazione, l’Istituto è diffuso in tutti i continenti e conta circa 17.000 membri.