Il cardinale Scola agli studenti nella trentesima edizione di “Andemm al Domm”

Il 14 aprile Milano si è riempita di famiglie, alunni, docenti e presidi delle scuole paritarie cattoliche di tutta la diocesi in occasione della trentesima Andemm al Domm, la marcia per riunire e fare conoscere le 1.120 scuole a ispirazione cristiana del territorio ambrosiano. Una realtà fatta di quasi 120.000 alunni e dove insegnano 10.000 professori.

Si è trattato di un appuntamento molto importante per una Chiesa, quella milanese, che si prepara ad accogliere Benedetto XVI per il VII Incontro Internazionale delle Famiglie: «Sono due momenti in cui ribadire l’attenzione permanente che la Chiesa nei secoli ha avuto per la famiglia, riconoscendola come prima protagonista dell’educazione», spiega don Michele Di Tolve, responsabile del servizio per la pastorale scolastica della diocesi ambrosiana: «In questo la scuola ha un ruolo fondamentale, e riteniamo profondamente ingiusto che una famiglia non possa scegliere in quale istituto mandare i figli, nonostante questo principio sia sancito dalla nostra Costituzione». Chi sceglie le scuole cattoliche, infatti, paga due volte: le tasse per finanziare la scuola statale, e la retta dell’istituto dove vede meglio rispettata la propria impostazione educativa.

«Significa che una famiglia di operai non può permetterselo», continua don Di Tolve: «Ed è anche per questo che proponiamo la Andemm al Domm. I 5 euro che ogni partecipante versa per l’iscrizione saranno usati per sostenere chi, pur nella difficoltà, vuole educare i propri figli nelle scuole cattoliche. O ancora, per pagare lo stipendio agli insegnanti di sostegno, che nelle scuole paritarie sono a carico dell’istituto e della famiglia, e che pure aiutano 1.100 ragazzi con diversi tipi di problemi. E ancora, per dare una mano agli stranieri che hanno iscritto i propri figli alle scuole cattoliche, e che attualmente sono più di 5.000».

Dopo aver sfilato per la città tutti i partecipanti sono rstati accolti dal cardinale arcivescovo Angelo Scola.

Sono convito — ha detto Scola — che la scuola cattolica come parte della scuola libera è un elemento di grande civiltà per il nostro Paese. È possibile che ci sia educazione senza libertà? Niente nella vita dell’uomo vale se non c’è la libertà. Il grave limite della libertà di educazione del nostro Paese è sicuramente uno dei motivi per cui la transizione e il cambiamento fanno fatica ad affermarsi. E dobbiamo ridircelo anche all’interno delle nostre comunità cristiane perché questo pregiudizio, purtroppo, circola anche al loro interno. Noi siamo per la scuola libera!». E ha continuato: «L’educazione, soprattutto nella minore età, è diritto che tocca innanzitutto alla mamma e al papà che lo condivideranno sin dall’infanzia con i loro figli. Un Paese che non garantisce i diritti primari, come quello di una libertà integrale, compresa l’educazione, è un Paese che ha in sé un “di meno”. Essere per la scuola libera significa che ogni soggetto sociale in grado di garantire la capacità di fare scuola, capacità rigorosamente certificata dagli organismi competenti, deve avere la possibilità di farla. Non stiamo chiedendo favori a nessuno. E le nostre scuole sono così libere che sono aperte a tutti. Hanno il loro volto, esprimono la loro identità, ma alla nostra scuola possono partecipare ragazzi di altre religioni e ragazzi che dicono di non credere. Io sono convinto che questa della libertà di educazione sia uno dei diritti che inesorabilmente un Paese che vuol diventare moderno e guardare al futuro dovrà riconoscere. E questo non è in alternativa in alcun modo alla scuola di Stato».

Web 2.0 Educazione e Comunicazione

Venerdì 20 – Sabato 21 Aprile 2012

presso l’Università Pontificia Salesiana P.zza Ateneo Salesiano, 1 00139 Roma

La Facoltà di Scienze dell’Educazione e la Rivista Orientamenti Pedagogici in collaborazione con la Facoltà di Filosofia e la Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale organizzano il convegno: web 2.0 educazione e comunicazione – nuove sfide personali e collettive

Interverranno esperti Professori sui temi di: filosofia e web 2.0, educazione e web 2.0, pastorale e web 2.0, comunicazione e web 2.0, movimenti sociali e web 2.0, neuroscienze e web 2.0, identità, concetto di sè e web 2.0.

Nella giornata di sabato si terranno workshop tematici su: Google educator, Ipad e Iphone come strumenti didattici, web ed educazione, ipertesto, giornalismo e web 2.0, vita parrocchiale, catechesi e web 2.0, ricerca scientifica e web 2.0.

Scarica la Locandina del Convegno!

Benedetto si racconta…

Benedetto si racconta…

 

 

 

 

 

 

 

di Enzo Romeo

Alla vigilia dell’ottantacinquesimo compleanno di Benedetto XVI le Teche Rai restituiscono rari documenti filmati in cui Joseph Ratzinger racconta se stesso. Tg2 Dossier ne fa lo spunto per tracciare un ritratto ricco di sfaccettature del Papa tedesco, con interviste ad ex compagni di scuola e di seminario e ad autorevoli collaboratori.

Auguri Papa Ratzinger!!!

Ricorre oggi l’ottantacinquesimo compleanno di Joseph Ratzinger.

“Mi trovo di fronte all’ultimo tratto del percorso della mia vita e non so cosa mi aspetta. So, però, che la luce di Dio c’è, che Egli è risorto, che la sua luce è più forte di ogni oscurità, che la bontà di Dio è più forte di ogni male di questo mondo”.

Lo ha confidato Benedetto XVI nell’omelia pronunciata questa mattina in tedesco in occasione del suo 85esimo compleanno, che ha riunito nella Cappella Paolina alcuni cardinali e prelati della Curia Romana e una folta delegazione arrivata dalla Baviera.

“Questa fede – ha affermato il Papa – mi aiuta a procedere con sicurezza. Questo aiuta noi ad andare avanti, e in questa ora ringrazio di cuore tutti coloro che continuamente mi fanno percepire il ‘si” di Dio attraverso la loro fede”.

il Presidente della CEI, Card. Angelo Bagnasco, e il Segretario Generale, mons. Mariano Crociata, in un telegramma rendono grazie al Signore – a nome della Chiesa che è in Italia – per il dono della vita e della fede, mentre riconoscono l’illuminato magistero e l’indefettibile testimonianza del Papa, di cui ricorre giovedì 19 il settimo anniversario dell’elezione.

Riportiamo il testo del telegramma:

Beatissimo Padre,nella luce pasquale del Crocifisso Risorto, la Chiesa che è in Italia si stringe attorno a Lei in occasione delle felici ricorrenze del Suo ottantacinquesimo compleanno e del settimo anniversario della Sua elezione pontificale. Il nostro augurio è sostanziato dalla preghiera, con la quale chiediamo al Signore, che l’ha chiamata alla vita e l’ha scelta nell’ordine episcopale, di conservarla alla Chiesa intera quale guida e pastore del popolo santo di Dio. Sostenuti dal Suo illuminato magistero e della Sua indefettibile testimonianza, intendiamo affrontare con rinnovata convinzione il cammino della sequela di Cristo, accogliendo con particolare disponibilità e corale impegno l’Anno della fede. La Sua decisione di valorizzare in questo modo il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e i vent’anni del Catechismo della Chiesa Cattolica ci trova attenti a intensificare la riflessione sulla fede, l’adesione al Vangelo, la responsabilità sociale di un annuncio coraggioso e franco. Santità, possa avvertire tutta la stima e la gratitudine con la quale La circondiamo, mentre invochiamo la Sua paterna benedizione sulle nostre Comunità ecclesiali e sull’intero popolo italiano.

cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e monsignor Mariano Crociata, segretario generale

Riportiamo il discorso del cardinal Bagnasco riportato da Avvenire il 14/04/12:

Lo splendido colonnato di San Pietro esprime il grande abbraccio che la Chiesa cattolica dà a Benedetto XVI per i suoi ottantacinque anni. In quell’abbraccio ideale e forte vi è anche il mondo che riconosce in lui una luce per l’umanità intera: luce mite e chiara che indica, con le parole di Gesù e della universale ragione, la verità e il bene.

È dunque una festa di famiglia, fatta di gratitudine al Signore che lo ha scelto come suo Vicario; al cardinale Joseph Ratzinger che ha accettato la volontà di Cristo sapendo che solo nell’obbedienza d’amore si sta vicini a Gesù; al Santo Padre Benedetto XVI, che con la preghiera e il pensiero, la parola e il governo, guida il popolo di Dio. Fin dall’inizio del supremo ministero, Benedetto XVI ha iniziato la sua “riforma” umile e lieta, consapevole che il problema urgente è quello della fede.

La gioia della fede è il filo d’oro che ispira e raccorda ogni suo intervento. Ed è questa la risposta più importante di cui il mondo ha bisogno nella sua complessità: non tanto di mutazioni organizzative, ma di riforma dei cuori, poiché sono questi che danno anima e fecondità ai programmi e alle strutture. La santità – centro della riforma lieta di Papa Benedetto – non è una astrazione o un ripiego per sfuggire alla modernità ma, al contrario, è scendere al centro dei problemi dell’uomo contemporaneo. È vivere la fede con gioiosa consapevolezza che cambia la vita dei singoli e genera una umanità nuova, rapporti diversi, organismi vitali. Se la fede irrora i modi di pensare e di agire, allora il Signore è reso presente, e le società, le culture, gli Stati, ne sono beneficati. Allora, ovunque vi è una zolla di umanità, lì germoglia la speranza.

È su questa strada di rinnovamento che il Papa conduce la Chiesa, sapendo che il mondo attende di intravvedere l’Invisibile attraverso la gioia dei redenti. E lo fa con mitezza, quasi in punta di piedi, sapendo di dover servire, ma anche con la tenacia del nocchiero in mezzo a venti a volte contrari. In forza di quel “sì” originario a Cristo, egli non porta avanti se stesso, non cerca il successo. Schivo, non vuole dimostrare nulla di personale né alla Chiesa né al mondo. L’unico desiderio è annunciare Gesù, luce delle genti. Qui sta la sua disarmante libertà, e quindi la pace.

Il suo Magistero ricorda la bellezza della fede, una bellezza da riscoprire fresca e operosa pensando al mondo vivace e generoso dei giovani, e alla testimonianza dei cristiani segnati dalla miseria o perseguitati fino al sangue. Ricorda che la libertà riposa sulla verità. Non teme di entrare nelle questioni anche le più delicate: vi entra senza violenza, sempre riconoscendo il lucignolo acceso. Ma anche senza rinunciare a far risplendere la verità: quella di Cristo e quella dell’uomo, che in Cristo scopre il suo vero volto. Mi sembra che qui emerga in modo particolare la “profezia” di Benedetto XVI: egli indica la via della verità e della vita. Nei viaggi apostolici, infatti, ha spesso ricordato che l’umanità rischia di smarrire la strada dell’”umano”, di andare contro se stessa: il Vangelo è svelamento di Dio, offerta della sua vita, libertà dalle illusioni, felicità vera. Il suo stemma rivela qualcosa di quest’uomo, che Cristo sceglie all’improvviso come strumento docile, e che, con la conchiglia del pellegrino, indica la strada alla Chiesa universale verso i pascoli alti di Dio.

Grazie Padre Santo. La Chiesa che è in Italia, insieme ai suoi Pastori, si stringe a Lei desiderosa di essere la prima e la più vicina, per dirLe: ad multos annos, Santità!

cardinale Angelo Bagnasco

Il quotidiano «Avvenire», in un inserto di quattro pagine, ha raccolto una serie di «cartoline» d’auguri, scritte da vari personaggi della cultura: tra essi la storica Anna Foa, che parla del lodevole intento di Benedetto XVI, manifestato in questi primi sette anni di pontificato, di arrivare a una più netta definizione dottrinale dei problemi teologici basilari ancora aperti nell’ambito del rapporto con l’ebraismo, e la parlamentare musulmana Souad Sbai, che ringrazia il Papa per le parole sul “genio” delle donne, «leva del progresso umano e della storia». Gli auguri delle Associazioni cristiane lavoratori italiane (Acli) sono affidate a un videomessaggio del presidente, Andrea Olivero: «Le auguriamo ancora anni di gioventù come quelli che ci ha donato, anni nei quali lei possa spronarci a essere inquieti, di quella santa inquietudine di Cristo che ha manifestato sin dall’inizio del suo pontificato come un elemento fondamentale. Noi cercheremo sempre di essere attenti ai suoi messaggi — continua Olivero — e cercheremo soprattutto di non rassegnarci all’esistente ma di andare a testimoniare la nostra fede nella società, come lei ci insegna». Molte diocesi, in Italia e nel mondo, ricorderanno i due avvenimenti. In Spagna, per esempio, la diocesi di Orihuela-Alicante ha organizzato, a partire da mezzanotte e fino al termine della giornata di oggi, una catena ininterrotta di preghiera: l’adorazione permanente si sta svolgendo in tutte le principali città della diocesi, da Elche ad Alicante, da Benidorm a Elda, a Orihuela. «È un regalo filiale di intimo affetto», ha detto il vescovo di Orihuela-Alicante, monsignor Rafael Palmero Ramos, il quale ha inviato una lettera a tutta la comunità affinché si unisca in questa preghiera che «rafforza i vincoli di comunione e affetto con il successore di Pietro». L’arcivescovo di Parigi, cardinale André Vingt-Trois, ricorderà invece i sette anni di pontificato di Benedetto XVI con una messa che avrà luogo domenica pomeriggio nella cattedrale di Notre-Dame.

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Riflessioni all’apertura del convegno: “Impegno comune per una Irc di qualità”

Si è tenuto oggi a Roma il Convegno nazionale dei direttori e responsabili IRC, sul tema “Impegno comune per un Irc di qualità“organizzato per la prima volta congiuntamente dal citato Servizio e dal Servizio nazionale per gli Studi superiori di teologia e di scienze religiose della Cei.

Riportiamo di seguito le riflessioni di mons. Vincenzo Annicchiarico, responsabile del Servizio nazionale per l’Irc della Cei, che ha aperto i lavori del convegno.

L’ora di religione oggi “è chiamata a fare i conti con i cambiamenti profondi del tessuto sociale in cui si situa, ma anche ad aprirsi a nuove prospettive di collaborazione e di sviluppo”.

Due, ha spiegato il relatore ai circa 340 convegnisti presenti a Roma, le “parole chiave” su cui i due Servizi Cei hanno lavorato: “sinergia e qualità”, prefigurando “la possibilità di un cammino di convergenza che coinvolga più soggetti nella realizzazione di itinerari di formazione che, pur nella diversità degli approcci, pongano al centro la persona e la sua formazione integrale secondo la visione cristiana”.

Gli Orientamenti pastorali della Cei, ha sottolineato mons. Annicchiarico,guardano all’Irc con molta attenzione, collocandolo nell’orizzonte dell’educazione ed evidenziando, da una parte, la necessità del suo corretto riferimento alla scuola e alle sue finalità e, dall’altra, sollecitando una speciale attenzione all’Irc come risorsa per l’intera comunità ecclesiale”.


Impegno culturale. “L’Irc – ha proseguito il responsabile del Servizio Cei – non è solo una ‘officina di senso’ come ogni altra disciplina scolastica, ma è anche l’espressione dell’impegno culturale della Chiesa”, grazie allo “statuto” della disciplina stessa, che ha come elementi di fondo “gli interrogativi su Dio, l’interpretazione del mondo, il significato e il valore della vita, le norme dell’agire umano”. In questa prospettiva, l’Irc va proposto “come una delle vie privilegiate per accedere ai significati del patrimonio storico, artistico, culturale e sociale dell’Italia e dell’Europa”, in quanto “ha un suo ruolo specifico nella formazione globale della persona”. Negli Orientamenti, ha ricordato mons. Annicchiarico, si riconosce l’Irc come “una forte espressione dell’impegno educativo della Chiesa”: gli stessi insegnanti di religione cattolica “ricevono la loro formazione iniziale nelle strutture accademiche della Chiesa e possono essere accompagnati nella formazione in servizio con corsi di qualità”, in accordo con gli Uffici o Servizi diocesani e regionali dell’Irc e grazie al “significativo ruolo svolto dalla Santa Sede”.

Risposta di senso. Una risposta di “senso”, nel tempo della “incertezza dell’umano”. È l’identikit dell’Irc fornito da mons. Piero Coccia, arcivescovo di Pesaro e membro della Commissione Cei per l’Educazione, la scuola e l’università. “Voi – l’appello del relatore agli insegnanti di religione – non siete chiamati a formare le persone al ‘consenso’ della convenienza o dell’omologazione, né al ‘dissenso’ del pregiudizio o della irresponsabilità, ma alla vera ricerca di ‘senso’, perché la persona, ogni persona e tutta la persona possa realizzarsi in pienezza”. Oltre alla crisi economica, alla crisi di carattere sociale e alla “conclamata” crisi della politica – ha esordito il presule – oggi siamo in presenza di una crisi antropologica, come scrive il Papa nella Caritas in Veritate, cioè siamo alle prese “con la perdita di un’identità condivisa in merito alla definizione dell’umano”. In una “stagione storica segnata dai progressi della scienza e della tecnica”, il paradosso per mons. Coccia è che tutto ciò “si concretizza non per un aumento di certezze, quanto per una assenza di criteri certi” tramite i quali valutare le conseguenze “etiche, morali e spirituali delle nostre azioni”. “Il Dna del popolo italiano e della sua storia risiede nel cattolicesimo”, ha ricordato il vescovo: di qui la centralità di Irc come disciplina scolastica, particolarmente adatta anche a “sviluppare quel senso critico tanto necessario nella formazione quanto a volte poco curato”, grazie al “confronto con altre religioni ed altre mondovisioni”.

Abitare lo spazio pubblico. Nello spazio pubblico, “coloro che fanno opinione non sono più anzitutto le autorità politiche o religiose e neppure le autorità scientifiche istituzionali, ma sono i giornali e i giornalisti, la tv, la rete Internet, gli autori di libri di successo, gli artisti e i cantanti più in voga, gli stessi personaggi noti dello sport”.

È l’analisi di Giovanni Ferretti, rettore e docente emerito dell’Università di Macerata. “Se non vogliamo che la nostra fede religiosa finisca nel ghetto di ristrette comunità identitarie, con un proprio linguaggio ‘misterico’ ad esclusivo uso interno – l’appello del relatore –, abbiamo il dovere di renderla presente in questo spazio pubblico in modo intelligente, comprensibile, credibile ed anche interessante, agganciandoci ad interrogativi e desideri umani profondamente sentiti”. In particolare, ha ammonito il filosofo, “il nostro linguaggio religioso non dovrebbe mai parlare di Dio o delle verità religiose cristiane come di una ‘cosa in sé’ indifferente alla nostra vita concreta, ma dovrebbe sempre curare di mettere in luce i risvolti esistenziali di promozione dell’umano”, senza rimanere “nelle retrovie” di tali “frontiere”. L’obiettivo: contrastare “tutte le disumanità che ancora opprimono e deformano l’uomo”.

Un progetto condiviso
Per la formazione degi Idr: diocesi, facoltà e istituti

Una “alleanza costruttiva” tra Uffici diocesani e Istituti superiori di scienze religiose, per un progetto diocesano di formazione permanente degli insegnanti di religione. Ad auspicarla è stata Rita Minello, pedagogista dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, intervenuta alla tavola rotonda promossa all’interno del Convegno sull’Irc, e moderata da Paolo Bustaffa, direttore del Sir. Soffermandosi sullo scenario europeo, la relatrice ha richiamato il modello dell’insegnante come “agente morale”, che registra un “rinnovato interesse”. Tale modello, “declinabile secondo posizioni etiche differenti”, richiede una formazione permanente in grado di “seguire lo sviluppo identitario dell’insegnante considerando le sue disposizioni personali insieme a norme professionali, mediante pratiche che facilitino l’incontro con qualità intellettuali e morali, incluse quelle necessarie all’apprendimento disciplinare”, come “sincerità, empatia, chiarezza, obiettività, perseveranza, creatività, precisione e tolleranza”. Di qui la necessità di “concentrare l’attenzione su aspetti sostanziali e contestuali, non solo strutturali, dei programmi di formazione degli insegnanti”, attraverso “una piattaforma comune, una forma di alleanza costruttiva” tra Ufficio diocesani e Issr, per un processo diocesano di formazione permanente.

Comunità educante. Anche se la “tipologia” degli studenti è “varia”, ciò da cui non si può prescindere “è la creazione di una comunità educante, che forma non solo nell’ora di lezione”. Ne è convinto Andrea Toniolo, responsabile del Servizio nazionale per gli Studi superiori di teologia e di scienze religiose e preside della Facoltà teologica del Triveneto. Ciò che le facoltà teologiche dovrebbero offrire a chi li frequenta, secondo Toniolo, è “un clima positivo di relazioni e di fiducia, l’accompagnamento personale e tutoriale dello studente, l’offerta di proposte integrative, la cura dei servizi e delle una proposta didattica articolata”. “Educare vuol dire innanzitutto far fare esperienza, non trasmettere nozioni o informazioni, e il periodo universitario è innanzitutto un’esperienza di vita”, ha puntualizzato il relatore, che ha citato uno scritto di Romano Guardini sull’Università, del 1954, intitolato “La responsabilità dello studente per la cultura”. Quattro, scrive quest’ultimo, sono i motivi che possono spingere uno studente a frequentare l’Università: “l’atmosfera di libertà che vi incontra; la preparazione alla professione, la base della sua vita futura; il desiderio e la volontà di dedicarsi alla ricerca, ‘scintilla di volontà’ che deve mantenersi anche nel lavoro; la ricerca della verità, non solo dell’esattezza delle scienze”.

Non solo “Bibbia e giornale”. “Pensare tutti con la propria testa. È questo il lavoro che voglio fare con voi”. Don Ciro Marcello Alabrese, direttore dell’Irc della diocesi di Taranto e responsabile regionale dell’Irc per la Regione Puglia, ha iniziato il suo intervento con questa citazione del film “Alla luce del sole” di Roberto Faenza, che racconta la storia di don Pino Puglisi. Per il relatore, risultano ancora attuali le parole pronunciate da don “Tre P”, insegnante di religione cattolica, entrando in una classe secondaria di 2° grado per presentare il suo programma. “Ritengo che tutti i direttori qui presenti vorrebbero tra i propri insegnanti di religione cattolica don Pino Puglisi”, ha detto don Alabrese. Ma “senza una formazione adeguata”, oggi neanche la metodologia “affascinante e vincente” della “Bibbia e giornale” è più sufficiente: di qui la necessità, per il relatore, di valorizzare il tirocinio degli insegnanti di religione cattolica, che “diventa un’occasione privilegiata non solo per una verifica dell’apprendimento realizzato ma anche per una propedeutica alla selezione dei futuri insegnanti di religione”, ha assicurato don Alabrese forte dell’esperienza decennale nella sua diocesi in questo campo.

Lavorare in sinergia. “Lavorare in sinergia per realizzare la formazione permanente significa orientare le proprie iniziative verso la crescita in umanità con pieno inserimento e valorizzazione della cultura; maturare l’unità della persona integrando i valori di vita con l’esperienza professionale; aprirsi alla relazionalità con i docenti e con gli alunni; incrementare la didattica imparando a gestire il rapporto teoria e pratica per crescere nelle competenze disciplinari e relazionali richieste dalla professionalità docente”. Con queste parole suor Maria Luisa Mazzarello, docente emerito alla Pontificia facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium” di Roma e direttore dell’Irc della diocesi di porto Santa Rufina, ha illustrato lo stile della collaborazione tra l’Ufficio Irc della diocesi di Porto Santa Rufina e l’Auxilium , che da 13 anni si impegnano insieme per la formazione permanente e l’aggiornamento degli insegnanti di religione, con 150 insegnanti coinvolti. L’offerta formativa – ha spiegato la religiosa – “media conoscenze biblico-teologiche, abilità educative e didattiche, esercitazioni di teoria e pratica che maturano abilità all’accoglienza, al dialogo, alla collaborazione e alla ricerca”. Dal 2007-2008, un gruppo di insegnanti di religione, formato da referenti dei diversi gradi scolastici, svolge opera di “supporto alla formazione”.

Inclusione scolastica dei bambini disabili.. un progetto in Libano

Proponiamo la visione di una iniziativa formativa interessante…

 

Un progetto pilota per l’inclusione dei bambini disabili nel sistema scolastico libanese. Finanziato dal ministero degli Affari esteri, vuole migliorare le capacità di inclusione dei bambini disabili nelle scuole del Libano, aumentandone il rendimento generale e favorendo una maggiore capacità di integrazione sociale. Le aree di intervento saranno la Regione del Nord, il Distretto di Beirut e la Regione del Sud. Sarà l’ong italiana Gvc, in accordo con le istituzioni scolastiche, ad occuparsi della preparazione tecnica (capacity building) dei soggetti che si rapportano con i bambini disabili attraverso la formazione di formatori, all’inizio, e la formazione professionale, in una seconda fase. Il percorso prevede la elaborazione di una figura professionale altamente qualificata, l’educatore speciale, fulcro dell’inserimento del bambino disabile. Le scuole interessate dagli interventi saranno fornite di equipaggiamenti e materiali didattici e specialistici d’avanguardia, con l’acquisto di attrezzature specifiche per ipovedenti, in particolare di 3 software Supernova e di 6 tastiere Perkins Braille; saranno inoltre acquistati computer e diversi materiali didattici. Sono inoltre previste opere murarie, ove necessario, per l’abbattimento delle barriere architettoniche esistenti. Ad usufruire dell’intervento 6 scuole pubbliche primarie.

 

II DOMENICA DI PASQUA Lectio Anno B

Prima lettura: Atti 4,32-35 

 La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune.  Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore.  Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.

La pericope degli Atti ci presenta una comunità cristiana che si raduna attorno agli apostoli con compattezza e spirito di servizio. Si tratta di uno dei tre celebri sommari (gli altri si trovano in At 2,42-47; 5,12-16), con cui l’evangelista Luca tratteggia in modo ideale la vita della comunità apostolica. La prima grande caratteristica messa in evidenza dal brano è

il forte senso dell’unità: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (4,32). In effetti, si vede realizzato quello che fu l’auspicio stesso di Gesù, il quale chiese al Padre, pronunciando la «preghiera sacerdotale», che tutti siano «uno» (cf. Gv 17,11.21).

     L’unità però sollecita ad avere maggiore considerazione delle eventuali sperequazioni all’interno della comunità. Coerentemente, Luca sottolinea che non vi era la presenza di «bisognosi». «Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (4,34-35).                                                    

     Questo dato non deve far pensare a una forma di «comunismo» ante litteram, in quanto l’obiettivo degli apostoli e di quelli che li seguivano era già stato indicato dalla tradizione giudaica, che conosceva bene il testo di Dt 15,4: «Del resto, non vi sarà alcun bisogno in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nel paese che il Signore tuo Dio ti da in possesso ereditario». Ciò vuol dire che la benedizione del Signore è per tutti, senza preferenze.

     Ma il senso ultimo di questa forma di testimonianza nella carità è immancabilmente la potenza della risurrezione che sostiene e guida l’opera degli apostoli: «Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore» (4,33). La potenza della Pasqua, della risurrezione di Gesù Cristo, riesce a compiere persino il miracolo di rendere gli esseri umani solidali, pronti a condividere con chi, per vari motivi, non è stato toccato dalla benedizione divina, rendendosi così benedizione per il fratello. È questa forza, che si sprigiona dal Risorto, a concretizzare il segno della comunione, per cui mentalità diverse, personalità a volte contrastanti, riescono a diventare «un cuor solo e un’anima», per servire il Regno e far risplendere sulla terra la gloria del Padre attraverso le opere che compiono.

 Seconda lettura: 1Giovanni 5,1-6

 Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi.  Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità.

 Quella «moltitudine di coloro che erano venuti alla fede» (At 4,32), al tempo degli apostoli come in tutte le epoche della chiesa, sono da definire in modo più chiaro quali «figli di Dio». È ciò che afferma la prima lettera di Giovanni: «Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato» (5,1). Amare cioè il prossimo implica conseguentemente amare chi da Dio è stato generato perché crede che Gesù è l’unico a cui può essere attribuita la qualifica di Cristo. Si tratta, dunque, del credente, del cristiano che professa una fede che — a giudicare dall’insistenza dell’autore del testo biblico — dev’essere “ortodossa”. Infatti, quest’esigenza dell’ortodossia viene confermata successivamente quando leggiamo: «Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (5,4-5).

     Il rapporto tra fede ortodossa e figliolanza divina appare decisamente molto stretto e, secondo una logica coerente, chi è figlio di Dio non può che amare gli altri figli di Dio. Nel linguaggio tipico della Prima lettera di Giovanni, l’amore viene identificato con l’osservanza dei comandamenti: «Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, perché in questo consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi» (5,2-3). Riportiamo i testi per far capire che, nella loro semplicità, parlano «da soli».

     In questo caso, potremmo addirittura parlare di una proposta di unità della vita cristiana: perché scindere la fede dalla carità? Perché non capire che chi crede «bene» e rettamente è in grado di amare secondo il cuore di Dio? Perché non ammettere che credere in Gesù significa essere coinvolti nella vita secondo lo Spirito, dalla forza rigenerante del Battesimo che promana dalla Pasqua?

     La vittoria sul mondo, quindi, si ottiene rendendo la propria esistenza partecipe della Pasqua di Gesù Cristo, adoperando quei veri strumenti di testimonianza dello Spirito che sono i sacramenti vissuti all’interno della comunione della chiesa.

Vangelo: Giovanni 20,19-31

 La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

       Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Esegesi

     Il giorno della risurrezione di Gesù dovette essere senz’altro traumatico per i discepoli, che faticarono molto a convincersi che ciò che avevano udito dire al Maestro, ma che non avevano mai del tutto compreso, era finalmente avvenuto. Quel giorno fu anche contrassegnato dalla paura, poiché «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!» (20,19). Il testo sembra esplicito: i discepoli, per non attirare l’attenzione, o per non essere accusati di aver trafugato il corpo di Gesù dal sepolcro, si rintanarono in un luogo, sbarrando le porte per non avere la sorpresa di vedersi raggiunti dalla polizia del Tempio. Non è ben chiaro quale fosse il luogo in cui essi si rifugiarono (una casa di Gerusalemme?), ma è sicuro che comunque ebbero la sorpresa gradita di vedere Gesù in mezzo a loro per «sciogliere» il timore che gravava nel loro animo e procurare, quindi, la gioia.

     Siamo di fronte al primo elemento importante di questo brano: il saluto di pace. Esso non è, come si sarebbe forse tentati di pensare, un semplice saluto di «buonasera», perché possiede una pregnanza particolare: in primo luogo, è pronunciato in un contesto solenne quale la sera del giorno della risurrezione; indica poi uno stato di fatto che Gesù viene a instaurare tra i discepoli; infine, Gesù che dona la pace manifesta tutta la potenza di «Signore» che gli compete.

     Tale saluto, reiterato dopo che i discepoli hanno constatato i segni della passione e hanno gioito nel riconoscere il Signore, viene completato dal mandato missionario: «Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (20,21).

     Per chi ha un minimo di dimestichezza con il Vangelo di Giovanni, questa frase non risulta nuova, poiché tante volte Gesù aveva parlato, durante la vita pubblica, del fatto che era stato mandato dal Padre a rivelarne la volontà salvifica. Ora è il momento di associare nell’adempimento del suo compito coloro che sono stati scelti (cf. 17,18). Essi dovranno prolungare l’azione di Gesù nello spazio e nel tempo, assistiti dallo Spirito Santo. Perciò, «Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (20,22-23). Il gesto dell’alitare, molto suggestivo, suggerisce un rapporto con Gen 2,7, quando Dio «alitò» per dare la vita all’uomo (in greco Giovanni usa lo stesso verbo adoperato dalla versione dei Settanta). In un certo senso, Gesù «ricrea» i discepoli, costituendoli testimoni efficaci dell’amore di Dio in mezzo all’umanità. Infatti, costoro ricevono lo Spirito Santo insieme al preciso mandato di rimettere i peccati. 

     Insieme alla gioia di chi vede il Signore, il brano ci presenta anche la figura problematica di Tommaso, il cui nome significa «gemello», ma anche «doppio», «ambiguo». L’affermazione di costui è lapidaria: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (20,25). Anche Tommaso, dunque, intende essere fatto partecipe di ciò che hanno vissuto i suoi compagni. Il racconto dell’evangelista Giovanni ci riferisce che ciò si verificò otto giorni dopo. Gesù si rivolse direttamente a Tommaso, rispondendogli: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!» (20,27).

     Per questo fatto, Tommaso è diventato un po’ il capofila di coloro che non sono creduloni. Ma ritengo che per tale motivo ci sia anche un po’ più simpatico: con la sua obiezione, “obbliga” Gesù a rivelare di nuovo il suo corpo di risorto che conserva i segni della passione. È senz’altro vero che sono beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno, però noi che leggiamo a due millenni di distanza queste testimonianze abbiamo bisogno di sapere che tra gli apostoli c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di porre la stessa obiezione che avremmo posto noi. Tuttavia, siamo invitati dal finale del brano a credere «che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio» e ad avere la vita credendo nel suo nome, come è avvenuto a tanti che ci hanno preceduto nella fede e hanno lasciato segni concreti del loro passaggio sulla terra.

Meditazione

 Il Vangelo di questa domenica ci fa rivivere la prima settimana cristiana. L’evangelista infatti ci presenta l’apparizione del Risorto ai discepoli la sera della Pasqua e poi quella della domenica successiva. Da allora sino ad oggi, ininterrottamente, i discepoli di Gesù continuano a radunarsi assieme nel ‘cenacolo’, di domenica in domenica, per rivivere quella medesima Pasqua, quel medesimo incontro. Questo appuntamento settimanale divenne a tal punto determinante che soppiantò la centralità del Sabato e fece della Domenica il giorno dei cristiani. «Non possiamo vivere senza la domenica», affermavano i martiri cristiani nei primi secoli.

In quella prima Pasqua i discepoli sono radunati nel cenacolo. La porta della casa è chiusa per paura ‘dei giudei’; in verità più che le porte del cenacolo sono chiuse quelle del cuore. Ma il Signore risorto irrompe ugualmente nella sala e si ferma in mezzo a loro: subito li saluta, e poi mostra loro il suo corpo segnato dalle ferite. Sembra volerli assicurare che è il Gesù di sempre, il loro amico, e che continuerà a stare con loro. Soffia quindi su di loro il suo Spirito e li invia per il mondo come testimoni del Vangelo. Manca Tommaso, quella sera. E quando gli altri discepoli gli raccontano l’accaduto egli mostra tutto il suo scetticismo: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, non credo». È una pagina evangelica davvero molto ricca di significato spirituale. Subito viene alla mente una prima considerazio-ne. Perché l’evangelista, nel narrare il momento centrale del Vangelo e della vita della comunità cristiana quale è la Pasqua, si sofferma con una qualche ostinazione a sottolineare l’incredulità di Tommaso? Perché mettere in evidenza questo ‘peccato’ così radicale? L’apostolo non fa certo una bella figura; e il suo atteggiamento è tutt’altro che esemplare.

L’evangelista vuole sottolineare che non mancano difficoltà e problemi nel credere; essi sono presenti fin dalle prime generazioni, anzi fin dalle prime ore di vita della comunità cristiana. Ma non siamo sul piano delle questioni e dei dibattici teorici. Tommaso non è l’uomo razionalista o del fatto concreto, e neppure l’uomo positivo che non si lascia andare all’emozione o al sentimento, insomma un duro ed essen­ziale. Il Tommaso dei Vangeli, infatti, era capace di sentimenti vigorosi, forti, energici. Quando, ad esempio, Gesù decise di andare a trovare Lazzaro morto, nonostante il pericolo che correva, egli fu il primo a prendere la parola: «andiamo anche noi a morire con lui» (Gv 11,16). E ancora, quando Gesù parlava ai discepoli della sua prossima parten­za, fu sempre lui, Tommaso, a chiedere: «Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conosce la via» (Gv 14,4). Non voleva insomma allontanarsi dal Maestro. E tutti avremmo voluto essere accanto a lui in quei momenti.

Tuttavia, quella sera del primo giorno dopo il sabato, Tommaso ha di fatto accettato che la resurrezione di Gesù, annunciatagli con gioia dagli altri apostoli, è solo un discorso, solo una parola vuota, anche se desiderabile e bella. E risponde subito con il suo discorso, con il suo credo: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, non credo». E il credo di un uomo non catti­vo; anzi, generoso. È il credo di tante persone, le quali più che razionaliste sono egocentriche, prigioniere di sé e delle proprie sensazioni. È il credo di chi pensa sia vero solo quello che tocca, anche se falso; o di chi crede sia falso quello che non riesce a toccare, sebbene sappia che è vero. Insomma, è il «non credo» di un mondo di egocentrici, che facilmente diventa un mondo pigro, ingiusto e persino violento. L’egocentrismo porta sempre ad essere increduli, perché si resta sem­pre e comunque prigionieri delle proprie sensazioni, di quello che si vede e di quello che si tocca. Non si crede a null’altro.

Gesù, tuttavia, sembra accettare la sfida di Tommaso. La domenica seguente torna di nuovo tra i discepoli. Questa volta è presente anche Tommaso. E con lui siamo presenti anche noi. Gesù entra ancora una volta, a porte chiuse, e si rivolge subito al discepolo invitandolo a tocca­re con le mani le sue ferite. E aggiunge: «Non essere incredulo, ma credente!». L’evangelista sembra suggerire che Tommaso, in realtà, non abbia toccato le ferite di Gesù; gli sono bastate le parole rivoltegli dal Maestro. Esse lo hanno colto nella sua verità di incredulo, come accadde al pozzo di Giacobbe quando Gesù con le sue parole svelò alla samaritana la verità della sua vita. La Parola del Signore, il Vangelo, distrugge la presunzione, l’orgoglio e la fiducia smisurata che Tommaso ha in se stesso e nelle sue convinzioni, e con lui anche noi. Oggi il Vangelo chiede di umiliarsi un poco, di guardare oltre se stessi. Sì, assie­me a Tommaso, dobbiamo inginocchiarci anche noi davanti al risorto ed esclamare: «Mio Signore e mio Dio!» Non si tratta di un Dio o di un Signore qualunque, bensì del «mio» Dio e «mio» Signore. Il mio «Tu». La fede è proprio questo rapporto particolarissimo: dare del «tu» a Dio riconosciuto come Padre. La fede non è allora la professione dei momenti solenni, anche! È piuttosto la fede di ogni giorno, della scon­fitta dell’egocentrismo e dell’orgoglio, dell’autosufficienza e dell’arro­ganza, per sentire vicina ed indispensabile la compagnia forte e tenera di Gesù risorto. Il calore di questa amicizia scioglie la durezza e sconfig­ge l’incredulità. Gesù, parlando a Tommaso, aggiunge: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». È la beatitudine della fede. Una beatitudine decisiva per noi che veniamo dopo. Tommaso ci viene incontro in questa domenica e ci parla della beatitudine di accogliere il Vangelo, della gioia di inginocchiarci davanti al Signore e dirgli con il cuore: «Mio Signore e mio Dio!».

Il brano degli Atti degli Apostoli, ove si descrive la vita della prima comunità cristiana, mostra la beatitudine concreta che scaturisce dalla fede nel Signore risorto. La fede non è un atto intellettivo semplice­mente, non è l’adesione a delle verità astratte; è piuttosto uno stile di vivere, un atteggiamento che compenetra tutta la vita. La fede è la comunione con Dio e i fratelli. Scrivono gli Atti: «la moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune». La vittoria della vita sulla morte iniziava nel giorno di Pasqua il suo itinerario storico: la comunione sconfiggeva la solitudine, l’amore distruggeva la distanza, la fraternità bruciava l’in­differenza. Il seme della resurrezione era stato gettato e iniziava a ger­mogliare. Di domenica in domenica noi cristiani siamo convocati per rivivere e far crescere in noi e nel mondo la Pasqua di resurrezione.

Preghiere e racconti

Beati quelli che non hanno visto e credono

    Gesù entra a porte chiuse. Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta. […] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio. […] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo. Egli entra a porte chiuse. Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo. Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri di-scepoli. Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi. L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25). Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito. «I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice. Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.

    Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi. Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò. Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito. Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco. Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui. I vostri racconti esasperano la mia impazienza. La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento. Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce». Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo. Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa. Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione. Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso. «Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice. Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora. Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio. Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi. Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza. «Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente». Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto. Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29). Tommaso, porta la buona notizia della mia resurrezione a quelli che non hanno veduto. Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola. Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi. Annunciami: crederanno e mi adoreranno. Non esigeranno altre prove. Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede. In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».

(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).

 L’ho cercato, ma non l’ho trovato          

  “Così dice la sposa: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato nel mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: avete visto l’amato del mio cuore? Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l’amato del mio cuore” (Ct 3,1-4).

    Mi colpisce anzitutto la duplice ripetizione: “L’ho cercato ma non l’ho trovato”. Che cosa concluderebbe l’animus, cioè quella parte di noi che è calcolatrice ed efficientista? Se non l’hai trovato, vuol dire che non è per te, che forse è troppo alto, che non sei fatto per lui, che sei sulla strada sbagliata.

    Invece l’anima, più profonda, intuisce.

    Ricordo il titolo di un libro scritto da un ateo, che riporta le parole del Cantico, in latino: “Quaesivi et non inveni”. E l’autore racconta la sua ricerca di Dio affermando di non essere riuscito razionalmente a trovarlo.

    Si è evidentemente fermano all’animus, lo ha cercato attraverso i ragionamenti esteriori e, a un certo punto, si è stancato. La personalità completa è quella che dice: “L’ho cercato e, dal momento che non l’ho trovato, lo cerco ancora di più, lo cerco con maggiore amore”.

    Non l’ho trovato vicino a me, e allora: “Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore” (Ct 3,2). Qui leggiamo l’estasi interiore, la presenza già nascosta di Dio che opera.

    Questo è importante per capire a fondo noi stessi. In noi c’è un dinamismo della ricerca di Dio, che opera anche quando non lo troviamo, e opera di più. Se diamo voce a tale dinamismo, che è già la grazia dello Spirito santo, il dito dello Spirito santo che scrive la lettera di Dio in noi, noi entriamo nella totalità della nostra persona, che è ricerca razionale e logica, ma poi ricerca affettiva, amorosa. Ed entriamo anche a conoscere meglio il mistero di Dio che è amore. Amore non significa soltanto efficienza, produzione di beni in serie; amore è libertà di Dio, capacità di amare ciascuno in modo diverso, gusto di nascondersi per farsi trovare. Quando arriviamo a comprendere qualcosa di questo mistero di Dio che è Trinità di amore, gioco di amore perenne in sé, che è dono, non ci stupiamo più scoprendo che Dio talora si nasconde a noi per acuire nel nostro cuore il desiderio di cercarlo e per darci la gioia di ritrovarlo.

    Dio è vitalità infinita, inventività continua nell’amore, libertà assoluta.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 52-53).

Mio Signore e mio Dio!

Tommaso, uno dei discepoli, non era forse un uomo, uno come tanti? Gli altri discepoli gli dicevano: Abbiamo visto il Signore, ma lui ribatteva: Se non lo toccherò, se non metterò il dito nel suo fianco, non crederò (Gv 20,25). Te lo annunziano dei messaggeri dell’evangelo e tu non credi? A loro ha creduto il mondo e il discepolo non crede. Di loro è stato detto: II loro messaggio si è diffuso su tutta la terra e le loro parole fino ai confini del mondo [Sal 18 (19),5]. Dalla loro bocca escono parole che giungono fino ai confini del mondo e tutto il mondo crede; tutti insieme annunciano la buona notizia a uno solo e questi non crede. Non era ancora il giorno fatto dal Signore [Sal 117 (118),24]; le tenebre erano ancora sull’abisso; nelle profondità del cuore umano c’erano le tenebre. Ma venga lui, il capo di quel giorno e gli dica con pazienza e mitezza, non con ira, perché egli è medico: «Vieni, vieni, tocca, e credi. Tu hai detto: Se non toccherò, se non metterò il mio dito, non crederò. Vieni, tocca, metti il dito. E non essere incredulo, ma credente. Vieni, metti il dito. Conoscevo le tue ferite; per te ho conservato la mia cicatrice». E Tommaso mettendo la mano raggiunse la pienezza della fede. E qual è questa pienezza? Che Cristo non venga creduto soltanto uomo, né soltanto Dio, ma uomo e Dio. Questa è la pienezza della fede, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi (Gv 1,14). E quel discepolo, dopo che gli furono presentate le cicatrici e le membra del suo Salvatore perché le toccasse, non appena le ebbe toccate, esclamò: Mio Signore e mio Dio (Gv 20,28). Toccò l’umanità, riconobbe la divinità; toccò la carne, volse gli occhi al Verbo, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi. Il Verbo ha sopportato che la sua carne fosse appesa al legno, che fosse fissata coi chiodi, che venisse trafitta dalla lancia, che fosse deposta nel sepolcro. Lo stesso Verbo risuscitò la sua carne, la presentò agli occhi dei discepoli perché la vedessero, la fece toccare con mani. Toccano ed esclamano: Mio Signore e mio Dio!

(AGOSTINO, Discorsi 258, 3, in Opere di sant’Agostino 32/2, pp. 826-828).

 L’inquietudine della notte della fede

      Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’au­rora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’in­quietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così an­che noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tut­to quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.

    Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che vie­ne incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.

      Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dal­la fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contrad­dirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciar­si afferrare e toccare da noi. Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chie­sa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre doman­de non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.

          (Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).

Il dubbio che porta al tramonto

Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione. Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.

Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa. Ben presto fu buio.

La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicchè non si poteva vedere assolutamente nulla. Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.

Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa. Nella caduta, l’alpinista poteva  appena vedere  delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità. Continuava a cadere…e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.

Rifletteva, ormai vicino alla morte. D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.

In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare:

”Dio mio, aiutami!”

Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò:

”Cosa vuoi che io faccia?”

“Mio Dio, salvami!”

“Credi realmente che io possa salvarti?”

“Sì, mio Signore. Lo credo”

Allora, recidi la corda che ti sostiene!”

Ci fu un momento di silenzio;

poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla cord

Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che  l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda…  A soli due metri dal suolo…

 Tu sai Tommaso…

Pure per noi sia Pasqua, Signore:

vieni ed entra nei nostri cenacoli,

abbiamo tutti e di tutto paura,

paura di credere, paura a non credere…

 

Paura di essere liberi e grandi!

Vieni ed abbatti le porte dei cuori,

le diffidenze, i molti sospetti:

tutti cintati in antichi steccati!

 

Entra e ripeti ancora il saluto:

«Pace a tutti», perché sei risorto;

e più nessuno ti fermi: tu libero

di apparire a chi vuoi e ti crede!

 

Torna e alita ancora il tuo spirito

come il Padre alitò su Adamo:

e dal peccato sia sciolta la terra,

che tutti vedono in noi il Risorto.

 

Credere senza l’orgoglio di credere,

credere senza vedere e toccare!…

Tu sai, Tommaso, il dramma degli atei,

tu il più difficile a dirsi beato!

(D. M. Turoldo)

 Ma io credo!

Signore, non ho visto,

come Pietro e Giovanni,

le bende per terra e il sudario

che ricopriva il tuo volto,

ma io credo!

Non ho visto la tua tomba vuota,

ma io credo!

Non ho messo, come Tommaso,

le mie dita nel posto dei chiodi,

né la mia mano nel tuo costato,

ma io credo!

Non ho condiviso il pane con te

nel villaggio di Emmaus,

ma io credo!

Non ho partecipato alla pesca miracolosa

sul lago di Tiberiade,

ma io credo!

Sono contento, Signore,

di non avere visto,

perché io credo!

(Credo Signore! Professioni di fede per ragazzi e giovani, Leumann, Elle Di Ci, 2001, 52).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

Comunità monastica Ss. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– C.M. MARTINI (card.), Incontro al Signore risorto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

 

Giovani e Sport 3: le figure educative

Roma 14 Aprile 2012

La comunità cristiana offre il suo contributo e sollecita quello di tutti perché la società diventi sempre più terreno favorevole all’educazione. Favorendo condizioni e stili di vita sani e rispettosi dei valori, è possibile promuovere lo sviluppo integrale della persona, educare all’accoglienza dell’altro e al discernimento della verità, alla solidarietà e al senso della festa, alla sobrietà e alla custodia del creato, alla mondialità e alla pace, alla legalità, alla responsabilità etica nell’economia e all’uso saggio delle tecnologie.Ciò richiede il coinvolgimento non solo dei genitori e degli insegnanti, ma anche degli uomini politici, degli imprenditori, degli artisti, degli sportivi, degli esperti della comunicazione e dello spettacolo. (dagli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020)

La partecipazione al Cantiere è gratuita.

Sono a perte le iscrizioni online

Bozza di Programma

da: Servizio nazionale per la pastorale giovanile

15° Forum europeo per l’insegnamento della religione

 

L’insegnamento della religione e la coesione sociale in Europa. Proposte per la formazione degli insegnanti”. È il tema del 15° Forum europeo per l’insegnamento scolastico della religione in Europa, organizzato a Madrid da domani al 15 aprile.

Un incontro proposto dall’Eufres (European forum for religious education in schools) che prosegue una riflessione continua, in questi anni, sul ruolo e l’importanza dell’insegnamento religioso nelle scuole europee, nella diversità di organizzazione e “peso” tipica dei diversi Stati. E all’interno proprio delle diversità è attenta a cogliere gli elementi che fanno dell’insegnamento scolastico un contributo importante all’educazione dei cittadini e alla costruzione dell’Europa.
Qui sta il punto. L’analisi delle società europee presenta molte diversità a proposito della considerazione della religione nello spazio pubblico europeo e in particolare per quanto riguarda la presenza dell’insegnamento religioso nelle scuole. La ricerca svolta negli anni scorsi dal Ccee (Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa) insieme alla Cei (Conferenza episcopale italiana), unitamente a tanti altri percorsi di studio sulla situazione del Continente, ha messo in luce come l’insegnamento della religione contribuisca efficacemente allo sviluppo delle giovani generazioni in Europa e svolga un interessante compito sia per il riconoscimenti dei diritti fondamentali delle persone, sia per la crescita delle società nella direzione della libertà e dell’inclusione sociale. Il tutto in scenari non sempre omogenei, talvolta attraversati da pressioni che contrastano la presenza della religione e delle Chiese negli spazi pubblici o, in altre situazioni, tendono ad estendere la dimensione confessionale, configgendo con esigenze di laicità che pure in Europa sono ben evidenziate.
In questi scenari acquista particolare importanza la consapevolezza dei protagonisti del mondo della scuola e in particolare dell’insegnamento della religione, a cominciare – poiché è la realtà più diffusa – dalle stesse Chiese che in molti Stati garantiscono un’offerta di insegnamento confessionale. La tensione educativa, il rispetto della laicità, la qualità dell’insegnamento hanno ripercussioni forti e inevitabili sulla problematica della formazione dei docenti. È questo, ad esempio, una delle “sfide” evidenziate proprio dalla recente ricerca Ccee-Cei, che invitava, anche nel documento finale, le Chiese ad una particolare e attenta considerazione degli insegnanti di religione, raccogliendo le sempre nuove esigenze di formazione.
Di questo, tra l’altro, si parlerà a Madrid. Ed è importante che vi sia l’occasione di raccogliere, attraverso la testimonianza di studiosi di diverse parti d’Europa, se non lo “stato dell’arte”, quantomeno le linee di tendenza. Un passo avanti per una scuola e una società europea sempre più attenta alle persone, a tutte le dimensioni dell’uomo.

Alberto Campoleoni, inviato Sir Europa a Madrid

Omelia di Benedetto XVI nella notte di Pasqua

L’omelia di Benedetto XVI nella notte di Pasqua 2012, un capolavoro del magistero di questo grande maestro. «Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna…».

 Cari fratelli e sorelle!

Pasqua è la festa della nuova creazione. Gesù è risorto e non muore più. Ha sfondato la porta verso una nuova vita che non conosce più né malattia né morte. Ha assunto l’uomo in Dio stesso. “Carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio”, aveva detto Paolo nella prima lettera ai Corinzi (15, 50). Lo scrittore ecclesiastico Tertulliano, nel secolo III, in riferimento alla risurrezione di Cristo e alla nostra risurrezione aveva l’audacia di scrivere: “Abbiate fiducia, carne e sangue, grazie a Cristo avete acquistato un posto nel Cielo e nel regno di Dio” (CCL II 994). Si è aperta una nuova dimensione per l’uomo. La creazione è diventata più grande e più vasta. La Pasqua è il giorno di una nuova creazione, ma proprio per questo la Chiesa comincia in tale giorno la liturgia con l’antica creazione, affinché impariamo a capire bene quella nuova. Perciò all’inizio della Liturgia della Parola nella Veglia pasquale c’è il racconto della creazione del mondo.

In relazione a questo, due cose sono particolarmente importanti nel contesto della liturgia di questo giorno. In primo luogo, la creazione viene presentata come una totalità della quale fa parte il fenomeno del tempo. I sette giorni sono un’immagine di una totalità che si sviluppa nel tempo. Sono ordinati in vista del settimo giorno, il giorno della libertà di tutte le creature per Dio e delle une per le altre. La creazione è quindi orientata verso la comunione tra Dio e creatura; essa esiste affinché ci sia uno spazio di risposta alla grande gloria di Dio, un incontro di amore e di libertà. In secondo luogo, del racconto della creazione la Chiesa, nella Veglia pasquale, ascolta soprattutto la prima frase: “Dio disse: Sia la luce!” (Gen 1,3). Il racconto della creazione, in modo simbolico, inizia con la creazione della luce. Il sole e la luna vengono creati solo nel quarto giorno. Il racconto della creazione li chiama fonti di luce, che Dio ha posto nel firmamento del cielo. Con ciò toglie consapevolmente ad esse il carattere divino che le grandi religioni avevano loro attribuito. No, non sono affatto dei. Sono corpi luminosi, creati dall’unico Dio. Sono però preceduti dalla luce, mediante la quale la gloria di Dio si riflette nella natura dell’essere che è creato.

Che cosa intende dire con ciò il racconto della creazione? La luce rende possibile la vita. Rende possibile l’incontro. Rende possibile la comunicazione. Rende possibile la conoscenza, l’accesso alla realtà, alla verità. E rendendo possibile la conoscenza, rende possibile la libertà e il progresso. Il male si nasconde. La luce pertanto è anche espressione del bene che è luminosità e crea luminosità. È giorno in cui possiamo operare. Il fatto che Dio abbia creato la luce significa che Dio ha creato il mondo come spazio di conoscenza e di verità, spazio di incontro e di libertà, spazio del bene e dell’amore. La materia prima del mondo è buona, l’essere stesso è buono. E il male non proviene dall’essere che è creato da Dio, ma esiste in virtù della negazione. È il “no”.

A Pasqua, al mattino del primo giorno della settimana, Dio ha detto nuovamente: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclissi solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno, la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”. Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi.

Ma come può avvenire questo? Come può tutto questo giungere fino a noi così che non rimanga solo parola, ma diventi una realtà in cui siamo coinvolti? Mediante il Sacramento del battesimo e la professione della fede, il Signore ha costruito un ponte verso di noi, attraverso il quale il nuovo giorno viene a noi. Nel Battesimo, il Signore dice a colui che lo riceve: “Fiat lux”, sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D’ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera. Per questo, la Chiesa antica ha chiamato il Battesimo “photismos”, illuminazione.

Perché? Il buio veramente minaccioso per l’uomo è il fatto che egli, in verità, è capace di vedere ed indagare le cose tangibili, materiali, ma non vede dove vada il mondo e da dove venga. Dove vada la stessa nostra vita. Che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale. Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo. Oggi possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo, un’apertura dei nostri occhi per la vera luce.

Cari amici, vorrei aggiungere, infine, ancora un pensiero sulla luce e sull’illuminazione. Nella Veglia pasquale, la notte della nuova creazione, la Chiesa presenta il mistero della luce con un simbolo del tutto particolare e molto umile: con il cero pasquale. Questa è una luce che vive in virtù del sacrificio. La candela illumina consumando se stessa. Dà luce dando se stessa. Così rappresenta in modo meraviglioso il mistero pasquale di Cristo che dona se stesso e così dona la grande luce. Come seconda cosa possiamo riflettere sul fatto che la luce della candela è fuoco. Il fuoco è forza che plasma il mondo, potere che trasforma. E il fuoco dona calore. Anche qui si rende nuovamente visibile il mistero di Cristo. Cristo, la luce, è fuoco, è fiamma che brucia il male trasformando così il mondo e noi stessi. “Chi è vicino a me è vicino al fuoco”, suona una parola di Gesù trasmessa a noi da Origene. E questo fuoco è al tempo stesso calore, non una luce fredda, ma una luce in cui ci vengono incontro il calore e la bontà di Dio.

Il grande inno dell’Exsultet, che il diacono canta all’inizio della liturgia pasquale, ci fa notare in modo molto sommesso un altro aspetto ancora. Richiama alla memoria che questo prodotto, il cero, è dovuto in primo luogo al lavoro delle api. Così entra in gioco l’intera creazione. Nel cero, la creazione diventa portatrice di luce. Ma, secondo il pensiero dei Padri, c’è anche un implicito accenno alla Chiesa. La cooperazione della comunità viva dei fedeli nella Chiesa è quasi come l’operare delle api. Costruisce la comunità della luce. Possiamo così vedere nel cero anche un richiamo a noi stessi e alla nostra comunione nella comunità della Chiesa, che esiste affinché la luce di Cristo possa illuminare il mondo.

Preghiamo il Signore in quest’ora di farci sperimentare la gioia della sua luce, e preghiamolo, affinché noi stessi diventiamo portatori della sua luce, affinché attraverso la Chiesa lo splendore del volto di Cristo entri nel mondo. Amen