SANTISSIMA TRINITA’ Lectio – Anno B

Prima lettura: Deuteronomio 4,32-34.39-40

Mosè parlò al popolo dicendo:  «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».

La pericope conclude il primo dei tre grandi discorsi di Mosè che costituiscono il libro del Deuteronomio, la «seconda Legge». Siamo nella pianura di Moab, alle porte della Terra promessa, e Mosè ricapitola per il popolo sempre riottoso la storia meravigliosa della liberazione dall’Egitto, con l’esortazione ripetuta a osservare la Legge, non per paura dei castighi o per sottomissione a un Dio tiranno, ma per risposta d’amore a un’elezione d’amore. In questi versetti, si ribadisce l’unicità di Dio e del popolo che Egli si è scelto, non per merito degli Israeliti ma per amore gratuito. Il motivo classico dell’elezione di Israele e della sua particolarità (vv. 32-38) è parallelo a quello dell’unicità del Dio di Israele (v. 39).

vv. 32-34 – Una serie di domande retoriche, che si ricollegano a quelle con cui il discorso di Mosè si era aperto (4, 7-8), riassume le grandi opere di Dio, dalla creazione (v. 32) alla teofania di Sinai (v. 33) fino ai prodigi e ai miracoli dell’Esodo (v. 34). Nel confronto con gli altri popoli, che seguono altri dèi, è affermata la grandezza del Dio d’Israele; e insieme la familiarità di Dio con il suo popolo, che può ascoltarne la voce e restare in vita (cf. Es 24,11).

L’espressione «con mano potente e braccio teso» (v. 34), che rappresenta Dio alla guida del popolo nell’attraversamento del mare e del deserto, riprende la tipologia regale egiziana; ve ne è traccia anche nelle lettere di El-Amarna.

vv. 39-40 – Sono espressioni caratteristiche del Deuteronomio. La proclamazione del monoteismo (v. 39) corrisponde allo Shemà Israel (Deut 6,4: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno»); l’incentivo materiale per incoraggiare l’osservanza della Legge (v. 40 «perché sii felice…») riecheggia i motivi della letteratura sapienziale.

Seconda lettura: Romani 8,14-17

Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

Il brano prosegue nella spiegazione dei frutti dello Spirito, iniziata con Rm 8,1-11: lo Spirito non solo da la vita nuova, ma rende figli adottivi e eredi di Dio. Appare qui per la prima volta nella lettera il tema dell’adozione.

«Spirito che rende figli adottivi» (pneuma yiothesì as) è un termine sconosciuto alla traduzione dei LXX, e non proviene quindi a Paolo dall’Antico Testamento, ma piuttosto dal linguaggio giuridico del mondo greco-romano. In Israele infatti l’istituto dell’adozione non era pratica abituale tranne rari casi riguardanti schiavi o mèmbri della famiglia. Il concetto di figliolanza divina è tuttavia uno sviluppo dell’idea veterotestamentaria dell’elezione di Israele (cf. Deut 4,34), che viene chiamato più volte «il mio primogenito» (cf. Es 4,22; Is 1,2; Ger 3.19-22; 31,9; Os 11,1) anche se sempre come entità collettiva di popolo e non come singolo individuo credente.

Per Paolo, il dono dello Spirito inserisce nella famiglia di Dio, è quindi alla base dell’adozione, costituisce propriamente la figliolanza.

v. 14 – «guidati dallo Spirito di Dio»: si tratta di ciò che i teologi chiameranno la «grazia preveniente», l’influenza attiva dello Spirito nella vita cristiana.

vv. 15-16- Introdotti da gar (infatti), questi due versetti spiegano il v 14. I cristiani non hanno ricevuto uno spirito da schiavi, ma da figli: Paolo gioca sul senso della parola pneuma, che indica sia lo Spirito di Dio sia il nostro spirito. L’affermazione fondamentale di questo passo è siamo figli di Dio.

Anche l’espressione aramaica Abbà, come modo di rivolgersi a Dio, è assente dall’Antico Testamento, dove la relazione filiale (cf. Deut 14 1) è sempre corporativa e non individuale, se si eccettua l’invocazione di Sl 89,27 (Sap 2,16 è in un contesto descrittivo). Qui viene subito tradotta (Abbà ho patèr), in quanto Paolo si rivolge a una comunità di cristiani provenienti dai Gentili.

v. 17 – Vengono ora le conseguenze escatologiche di questa condizione, ovvero l’eredità che assimila al Cristo, partecipi della sua passione e della sua gloria. Ritornano qui i verbi caratteristici in Paolo composti con la particella syn (con).

Vangelo: Matteo 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva

loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Esegesi

I versetti conclusivi del Vangelo di Matteo rivolgono lo sguardo alla continuazione dell’opera nella comunità cristiana, rendendo esplicito il mandato missionario all’esterno di Israele, altrove solo accennato.

v. 16 – L’apertura alle genti era già indicata nel v. 7: «vi precede in Galilea». Il ritorno dei discepoli in Gallica, determinato forse anche dalla necessità di allontanarsi da Gerusalemme per non essere arrestati subito dopo la Crocifissione, assume un significato teologico visto come obbedienza all’invito di Gesù, e un valore simbolico in rapporto alla missione. La Galilea infatti, abitata in prevalenza da pagani, rappresenta «i popoli» del v. 19. Già vi si era ritirato Gesù dopo l’arresto di Giovanni, e da lì aveva cominciato la sua predicazione (Mt 4, 12-17; cf. anche Is 8, 23: «la Galilea delle Nazioni», Gelil haggoîm).

Gli Undici si recano dunque all’appuntamento, su un monte che è difficile identificare: il monte delle Beatitudini? il Tabor? Anche qui prevale il valore simbolico del «monte», collegato spesso nell’Antico come nel Nuovo Testamento a teofanie o rivelazioni.

v. 17 – La prostrazione (prosekynesan, latino adoraverunt) manifesta il riconoscimento della divinità di Gesù, una fede post-pasquale matura, che presuppone una comunità già consapevole e strutturata, e probabilmente un’epoca posteriore. L’affermazione infatti è subito mitigata dalla seguente: «alcuni però dubitavano», che ci riporta all’esperienza immediata delle apparizioni del Risorto: cfr. Mc 16, 8.11.13; Lc 24,37; Giov  21,12).

vv. 18-19 – Gesù si identifica con il «Figlio dell’Uomo» del libro di Daniele (Dan 7, 13-14), cui viene attribuito un potere eterno e universale: «tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano». Da questo potere universale discende la missione universale degli Apostoli: limitata a Israele nei giorni del suo ministero terreno (cf. 15, 24), ora la predicazione della parola di Gesù è estesa a tutti i popoli.

Segue il comando specifico di «battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», presente solo qui in forma così definita e completa. Il battesimo indica l’atto di iniziazione nella comunità cristiana, e presuppone significati presenti anche altrove nel Nuovo Testamento: la purificazione con l’acqua e il pentimento (cf. il battesimo di Giovanni Battista), ma anche il perdono e la professione di fede in Gesù come Messia e Signore. Più che una formula liturgica (che si precisa più tardi) si tratta qui di una descrizione di ciò che il battesimo opera nel neofita: l’espressione «nel nome…» descrive l’entrata in comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito. Il concetto di Dio Trinità è antico quanto la comunità cristiana, quale la conosciamo dagli scritti del Nuovo Testamento: cf. 1Cor 12, 4-6; 2Cor 13,13; 1Pt 1,2; 1Giov 3,23-24. Questo naturalmente lascia impregiudicata la delicata questione di quanto si possa retroproiettare alla comunità immediatamente post-pasquale una consapevolezza trinitaria formulata secondo la mentalità post-nicena.

v. 20 – Il comando dato già ai discepoli di proclamare l’avvento del Regno (10,7) e guarire gli infermi (10,1.8) è completato, ora che Gesù non svolge più il suo ministero in mezzo a noi, da quello di «insegnare». Il passo appartiene agli stadi più recenti della tradizione, quando il ritardo della parusia richiedeva anche un’assicurazione e un conforto per i discepoli rimasti in attesa: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (cf. 18,20). La fine tante volte annunciata (cf. 13,39.49; 24,3) non è evidentemente più sentita così vicina.

Meditazione

La Bibbia, pur affermando che Dio è sempre Altro e Oltre il nostro pensiero, si presenta come “rivelazione”, cioè come uno squarcio nel velo di silenzio che nasconde il mistero divino.

La rivelazione cristiana apre ulteriori orizzonti in questa luce invalicabile, che «l’uomo non può vedere continuando a restare in vita», come si ripete spesso nell’Antico Testamento. Appare, così accanto al Padre, il Figlio inviato nel mondo e lo Spirito vivificatore, e nel nome della Trinità noi apriamo questa e ogni altra liturgia, concludiamo ogni preghiera ed è benedetta ogni persona e cosa. Due sono i testi dell’odierna liturgia che esaltano questa rivelazione nuova del mistero divino. Il primo è tratto dal capitolo ottavo della lettera ai Romani, il vertice del pensiero paolino ove con un suggestivo contrappunto l’apostolo presenta due “spiriti”.

C’è innanzitutto lo spirito dell’uomo, cioè il principio del suo esistere, del suo operare, del suo amare e del suo peccare, della sua libertà e della sua schiavitù. Ma c’è anche uno Spirito di Dio, principio del suo amore e della sua comunicazione all’uomo. Ebbene, questo Spirito divino penetra nello spirito dell’uomo, lo invade come un vento che tutto avvolge e permea. La creatura che accoglie e si lascia conquistare da questo Spirito viene trasformata da figlio dell’uomo in figlio di Dio, diventa membro della sua famiglia, è ufficialmente dichiarato coerede del primogenito di Dio, il Cristo.

Paolo, quindi, proclama una vera e propria ammissione dell’uomo all’interno della vita divina. Questo ingresso avviene attraverso il battesimo, visto come radice dell’intera vicenda cristiana, e attraverso l’ascolto obbediente della Parola.

È ciò che è lapidariamente formulato nella scena finale del Vangelo di Matteo che oggi domina la nostra liturgia. In Gallica non si danno solo appuntamento il Cristo risorto e gli Undici, ma il mistero di Dio e quello della Chiesa.

Da un lato, infatti, il Cristo glorioso appare nello splendore più puro della sua divinità; egli è per eccellenza “superiore” e trascendente rispetto a tutta la realtà creata: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». Davanti a lui l’uomo si prostra in adorazione. La sua presenza non è come quella di una persona terrena. È una presenza che dev’essere scoperta attraverso la via della fede, ed è per questo che conosce anche l’esitazione, l’oscurità, il dubbio.

D’altra parte, però, Cristo è vicino, è «con noi tutti i giorni» e in tutte le epoche storiche. Soprattutto è operante all’interno della Chiesa a cui comunica la sua Parola e la sua grazia salvifica. Infatti alla Chiesa egli affida il compito di annunziare all’umanità «tutto ciò che egli ha comandato», coinvolgendo ogni uomo nella salvezza: l’«ammaestrate» della versione del Vangelo, che oggi leggiamo, nell’originale suona meglio come un «fare discepoli» i popoli.

Per la Bibbia, quindi, il mistero infinito di Dio non respinge ma accoglie in sé i nostri piccoli misteri, immergendoli nella sua luce infinita. Non dobbiamo, perciò, considerare Dio solo come oggetto di discussione filosofica e teologica, non dobbiamo solo parlare in modo distaccato e freddo di Dio e della Trinità. Dobbiamo anche parlare a Dio in un dialogo di intimità e di vita che lui stesso ha inaugurato.

Preghiere e racconti

Trinità

La tradizione cristiana ha interpretato la visita dei tre messaggeri ad Abramo e Sara presso la quercia di Mamre (Gn 18, 1-15) come una rivelazione del Mistero trinitario.

In questa icona, vediamo la premurosa ospitalità di Abramo che imbandisce un banchetto e che offre il vino dell’esultanza ai tre gloriosi pellegrini. Sara, mentre prepara il pane, spia i Tre dall’interno della tenda. Il banchetto di Abramo diventa la tavola eucaristica. La sterilità e la mortalità di Abramo e di Sara, attraverso l’amore dell’ospite accolto, si trasformano nella fecondità e nella vitalità di una generazione che non avrà fine.

Le tre figure angeliche rappresentano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: sono assorti in una santa conversazione che non li rende inaccessibili e lontani, ma che coinvolge Abramo e noi. Dietro le spalle della figura centrale, identificata con il Figlio, sta la quercia di Mamre: è l’albero della vita, l’albero della croce. Dietro le spalle di Abramo sta il monte Moria: è il monte del sacrificio di Isacco, del sacrificio di Cristo.

Tu, o Padre,

sei circondato dal silenzio. La bellezza del tuo volto nascosto

il Figlio e lo Spirito lo rivelano al mondo…

C’è un posto vuoto alla vostra mensa,

un posto su cui sostare, contemplare.

Abramo e Sara, voi li avete visti,

ma noi li possiamo ospitare.

Come Maria, noi possiamo contenere l’Incontenibile.

O dolce Trinità, comunione perfetta di amore,

accoglimi nel tuo grembo e rendimi degno di sedere

alla tua tavola per sempre.

La famiglia, icona della Trinità

Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli. Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia. Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.

Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù. Tutti quanti noi.

Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.

Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità. La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.

Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.

Quando si rompe un’amicizia, si piange. Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.

La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza. Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza. Saremo tutt’uno con te.

Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.

(Don Tonino Bello)

Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).

S. Agostino e il mistero della Santissima Trinità

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso». S. Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo. E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita». E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?». Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

La Trinità, rivelazione della nuova creazione

Sebbene la santa Trinità abbia donato la salvezza al genere umano mediante un solo e unico amore degli uomini, la fede ci dice che ciascuna delle persone divine vi porta il suo contributo particolare. Il Padre si riconcilia con noi, il Figlio opera la riconciliazione e lo Spirito santo fu il dono accordato a quelli che erano divenuti amici di Dio. Il Padre ci ha liberati, il Figlio fu il prezzo del nostro riscatto; quanto allo Spirito è la libertà. Infatti, «dove è lo Spirito del Signore, là è la libertà» (2Cor 3,l7), dice Paolo. Il Padre ci ha creati, il Figlio ci ha riplasmati, e lo Spirito ci fa vivere (cfr. Gv 6,63). Nella creazione iniziale la Trinità era adombrata come in figura: il Padre plasmava, il Figlio era la mano del plasmatore, lo Spirito il soffio che ispirava la vita. Ma perché dico questo? Soltanto nella nuova creazione ci sono rivelate le distinzioni esistenti in Dio. In effetti, in ogni tempo Dio ha riversato i suoi doni sulla creazione, ma non se ne trova nessuno che si riferisca solo al Padre, solo al Figlio o solo allo Spirito, ma tutti sono comuni alla Trinità, poiché con una sola potenza, una sola provvidenza e una sola attività creatrice essa realizza ogni cosa.

Nel disegno di salvezza con il quale ha restaurato il nostro genere umano rinnovandolo, è la Trinità intera che ha voluto la mia salvezza e che provvede alla sua realizzazione, ma non è la Trinità intera che l’ha realizzata. Suo artefice non è né il Padre né lo Spirito santo, ma solo il Figlio. È lui che ha assunto la carne e il sangue, è lui che è stato percosso, ha patito è morto ed è risorto. Per questi misteri la natura umana ha ripreso vita ed è stato istituito il battesimo, nuova nascita e nuova creazione. Ecco perché nel battesimo bisogna invocare Dio distinguendo le persone – il Padre, il Figlio, lo Spirito santo – che solo questa nuova creazione ci ha rivelato.

(NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo 2, PG 150.532C-533A).

Ancora e sempre sul monte di luce

Ancora e sempre sul monte di luce

Cristo ci guidi perché comprendiamo

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D.M. Turoldo).

Preghiera

O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per stabilirmi in te, immobile e tranquilla come se l’anima mia già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da te, o mio Immutabile; ma ogni istante mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero! Pacifica l’anima mia; fanne il tuo cielo, la tua dimora prediletta e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia,  ben desta nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.

O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! […]. Ma sento tutta la mia impotenza; e ti prego di rivestirmi di te, di immedesimare la mia anima a tutti i movimenti dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che una irradiazione della tua Vita vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima a ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.

O Fuoco consumatore, Spirito d’amore, discendi in me, perché faccia dell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io gli sia prolungamento di umanità in cui egli possa rinnovare tutto il suo mistero. E tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze.

O miei ‘Tre’, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso delle vostre grandezze.

(ELISABETTA DELLA TRINITÀ, Scritti spirituali di Elisabetta della Trinità, Brescia 1961, 73s.).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– C.M. MARTINI (card.), Incontro al Signore risorto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

SANTISSIMA TRINITÀ

 

Politica come spazio di costruzione del bene comune

E’ partita la macchina organizzativa del Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del Lavoro presentando stamane a Roma il manifesto La buona politica per tornare a crescere’ in vista di ‘Todi 2‘.

Si tratta del secondo appuntamento delle associazioni cattoliche previsto per ottobre – costituito da Cisl, Confartigianato, Mcl, Acli, Confcooperative, Coldiretti e Compagnia delle Opere – a seguito del seminario di Todi tenuto lo scorso ottobre.

Una politica, quella auspicata, “capace di rafforzare valori popolari condivisi e di mobilitare grandi energie comunitarie”, della quale s’intende occuparsi “nel pieno rispetto della laicità delle istituzioni, ma anche nella serena consapevolezza che l’ispirazione religiosa, lungi dall’essere delimitata alla sfera privata, possa e debba arricchire la qualità della vita politica e delle istituzioni e rendere lo spazio pubblico di tutti e di ciascuno”.

Il contribuito dei cattolici del Forum “al rinnovamento della politica” prevede, “per un verso, la partecipazione alla formazione dei programmi e delle linee di azione di governo; per l’altro verso, il miglioramento della qualità delle classi dirigenti, a partire da un lavoro di condivisione e coesione all’interno del variegato mondo cattolico, su valori, contenuti e modalità di presenza”.

Spazio privilegiato per il bene comune. “Noi pensiamo la politica come spazio privilegiato per la costruzione del bene comune”; “noi sosteniamo la buona politica che promuove la libertà e la giustizia, sa rispettare i valori e interpretare i bisogni del popolo”; “noi difendiamo la democrazia come valore costituente del nostro patto sociale e contrastiamo quelle spinte autoritarie che, mai sopite, possono sempre riaffiorare”. Questo l’incipit del testo, che prosegue avvertendo “l’urgenza di un nuovo impegno e la necessità di preoccuparci e occuparci dei problemi della nostra comunità”, dichiarando la responsabilità di partecipare alla “costruzione di un ambiente favorevole alla libera espressione delle persone”, credendo “nella capacità dell’Italia di avviare una nuova stagione di crescita” e guardando “con speranza all’Europa dei popoli come alla nostra Patria comune perché sappiamo che da essa dipende il futuro dei nostri figli”. Paradigma di riferimento, la Dottrina sociale della Chiesa “che, proponendo a tutti la fecondità di una visione trascendente dell’essere umano, richiama ai principi della fraternità, della promozione del bene comune, della partecipazione, della sussidiarietà e della solidarietà”. 

Una nuova stagione. Il documento vede il “tangibile indebolimento dei valori che hanno storicamente consentito alla nostra comunità nazionale di risollevarsi dalle macerie di una guerra perduta, d’imboccare la strada delle riforme e di assurgere al ruolo di grande Paese sviluppato”. “Solo a partire da questi valori”, annota, “è possibile aprire una nuova stagione di sviluppo e d’innovazione”. Guarda quindi a “una stagione di grande innovazione istituzionale”, “possibile e sostenibile solo attraverso il cambiamento dei comportamenti e degli stili di vita e il forte rilancio di un comune senso morale”. “Le istituzioni di cui abbiamo bisogno – enuncia – devono saper manifestare tutta la propria autorevolezza senza divenire invasive. Alla luce del principio di sussidiarietà, il loro compito è quello di favorire la libera iniziativa economica e sociale delle persone, della famiglia, delle imprese e delle associazioni, creando le condizioni più adatte alla loro piena espressione nel quadro della globalizzazione contemporanea”. Tra le priorità individuate, riformare il “sistema fiscale”, “sostenere l’impresa”, favorire la “partecipazione democratica” e abbandonare “la logica del conflitto” nelle “relazioni industriali”, “rimuovere gli ostacoli che impediscono un ingresso adeguato dei giovani e delle donne nel mercato del lavoro”, “rilanciare l’impegno per il Mezzogiorno”. E ancora, “mettere al centro la famiglia, come motore valoriale, relazionale ed economico della società”, “migliorare il sistema d’istruzione”, “costruire un welfare moderno e sussidiario”, promuovere “una pluralità d’imprese e di organizzazioni” per sviluppare l’“economia civile”.

Apertura all’Europa e riforme. Il Forum rivolge poi un pensiero agli “Stati Uniti d’Europa” e ne sostiene la costruzione, “dotando l’Unione di forti istituzioni politiche, elette democraticamente, che completino il tortuoso processo d’integrazione iniziato con l’apertura dei mercati e con l’adozione della moneta unica”. Il testo manifesta l’intenzione, a tal riguardo, di “contribuire alla costruzione di un Movimento popolare europeo transnazionale che sostenga questo progetto di coesione continentale”. Infine, per quanto riguarda le riforme da attuare in Italia, il manifesto evidenzia tra l’altro l’esigenza di “attuare il federalismo fiscale”, superare il “bicameralismo perfetto” e varare “una nuova legge elettorale” per garantire “maggiore rappresentatività e una solida stabilità”, “restituire alla responsabilità legale gli ambiti dell’attività che riguardano il finanziamento pubblico e le forme di salvaguardia della democrazia interna ai partiti”, “ripristinare il voto di preferenza degli elettori”.

Testo completo del Manifesto

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Main La casa della Felicità

Un film realizzato con tutti i canoni della grande cinematografia, che ha cercato location giuste per un’ambientazione tipica, che ha realizzato costumi che ricalcano l’epoca, che ha fatto un’accurata ricerca di oggetti, di utensili, di materiali e accessori che lo collocano nella tradizione più fedele del film in costume.
La sapiente regia di SIMONE SPADA, la brillante fotografia di ALESSANDRO PESCI, nastro d’argento 2011, la sceneggiatura – di famiglia –  stesa da una Figlia di Maria Ausiliatrice (Suor Caterina Cangià) sono i tre elementi portanti sui quali si fonda quest’opera filmica di grande respiro.

Un film che raccoglie numerosi elementi storici dalle biografie di Santa Maria Domenica Mazzarello, dagli Atti dei processi di beatificazione e canonizzazione e dalla Cronistoria dell’Istituto, nonché dalle Lettere della Santa, tutti quegli elementi, citazioni e riflessioni leggibili e comprensibili dai giovani e dalla gente di oggi.
Sì, perché il film vuole soprattutto parlare al cuore di tutti, al cuore della grande Famiglia Salesiana. Vuol dire che la santità è possibile, è quotidiana, che la possiamo vivere e far risplendere attorno a noi camminando nel solco di un carisma.

Il film racconta dell’infanzia di Maìn perché si rivolge anche ai piccoli. A loro vuol far capire che non si nasce santi, ma che lo si diventa rispondendo alla grazia di Dio, ascoltando le persone che Lui ci ha messo accanto e parlando, soprattutto a Dio, con la preghiera, nella semplicità del cuore e della vita.

Il film dà un grande rilievo alla famiglia, perché nella famiglia si assorbe l’amore alla vita e si assorbono i valori. L’intesa di Maìn con il Papà è messa in rilievo da inquadrature illuminate dagli sguardi che si scambiano Padre e Figlia, sguardi, da parte del Padre, che invitano la bambina a rivolgersi a Gesù (scena della prima comunione nella Parrocchia di Mornese).

Il film si conclude con una veloce carrellata di elementi grafici e fotografici che raccontano l’espansione dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice nel mondo. Le nazioni e gli anni di fondazione s’intrecciano e si susseguono con le fotografie d’epoca che, man mano, diventano fotografie di attualità. Tutto sulla bellissima musica del maestro e compositore ROBERTO GORI.
Luminose inquadrature accompagnano le riflessioni di Maìn lungo tutto lo scorrere del film e creano un contrappunto allo scorrere dei fatti storici.

La chiave di lettura del film consiste di tre parole che sono altrettanti impegni di vita: AMORE – RELAZIONI – PASSIONE EDUCATIVA.

L’amore per Gesù, per la propria famiglia, per le amiche, per la natura, caratterizza Maìn bambina e Maìn giovane e adulta. Tutto viene fatto per amore, tutto viene vissuto nell’amore. Nel film lo si sente spesso dire e soprattutto lo si vede vivere.
Le relazioni si costruiscono con il dialogo, la comprensione, l’attenzione amorevole all’altro, al piccolo. Ecco allora Maìn che accudisce una mamma ammalata, che accarezza i suoi bambini, che se ne occupa concretamente portando qualcosa da mangiare e portandosi via la biancheria da lavare. Le relazioni sono vissute nella semplicità, sono il tessuto quotidiano sul quale viene costruita la formazione e l’educazione, sono, soprattutto, il risultato di una grande, festosa relazione: quella con Gesù. Maìn gli promette che non passerà mai più un quarto d’ora senza pensarlo.
La passione educativa si manifesta nell’avere le “figliette” sempre presenti, nel fare tutto per loro, perché imparino un mestiere, perché non incorrano nei pericoli, perché si divertano, cantino e ballino. Perché crescano sotto lo sguardo di Maria, Madre che le ha a cuore più di ogni altra cosa.

Maìn supera delle prove nel film, come viene raccontato anche nella biografia. Supera la malattia del tifo e l’impossibilità a lavorare come faceva in precedenza, supera la prova dell’esilio alla Valponasca, dove viene confinata dalle incomprensioni e gelosie di gente del paese, supera fatiche e sofferenze. E questo perché vuole il bene delle ragazze.

Il film si presta a riflessioni, alla nostra contemplazione, a una funzione piena e gioiosa. Aspettiamolo comunicando a tutte le persone che circondano le nostre case e le nostre opere di aspettarlo con noi.

Intervista a suor Caterina Cangià
tratta da www.cgfmanet.org

Infonline: La Madre e il Consiglio generale ti hanno affidato il progetto di un nuovo film su Maria Domenica Mazzarello. Che cosa hai provato di fronte a questa proposta?

Suor Caterina Cangià: Al tempo stesso riconoscenza, emozione e… mi sono sentita invasa da un grande senso di responsabilità per il compito affidato. Il capolavoro di Sr Maria Pia Giudici: “Tralci di una terra forte” è stata ed è tuttora un’opera di notevole spessore contenutistico e stilistico e doverne preparare un’altra di altrettanto spessore, anche se con un linguaggio più rispondente all’oggi è, per me, una “prova”. Per questo confido molto nella presenza e nell’aiuto della stessa Maria Domenica e del Consiglio generale come confido anche nell’aiuto di chi, tra le FMA, ha studiato e ha scritto di Maria Domenica.

Infonline: Puoi dirci i passi previsti per la sua realizzazione?

Suor Caterina Cangià: I passi seguono la classica falsariga che precede, accompagna e segue la realizzazione di un film o di una fiction. Il primo è stato la ricerca di un regista; il secondo è stata la ricerca di una metafora che accompagnerà il film che per ora tengo segreta; il terzo è stata la stesura di un preventivo di spesa di massima, presentato al Consiglio generale durante il plenum di dicembre 2009 e approvato agli inizi del mese di gennaio 2010; seguirà la stesura della sceneggiatura da sottoporre per approvazione al Consiglio generale durante il plenum di luglio 2010. Si svolgerà immediatamente dopo la ricerca dei protagonisti, degli attori principali e secondari e del “comparsato”; si visiteranno e/o si cercheranno le location per girare il film. La ricerca degli attori protagonisti e non protagonisti verrà seguita dai provini e dai contratti. Si contatterà la film commission di Torino. Questa fase ci terrà occupati da luglio a dicembre 2010. A dicembre, durante il pleunum, si sottoporrà per approvazione la scelta del cast e seguirà la stesura del découpage tecnico, operazione che dettaglia, scena per scena, il fabbisogno tecnico dall’illuminazione alla recitazione. Intanto si lavorerà ai costumi, all’adattamento delle location e alla ricerca del fabbisogno in oggetti, mobili e quant’altro. Si pensa di girare il film nei mesi di giugno/luglio 2011, anche se si saranno fatte alcune riprese che occorrono, a Mornese e Nizza durante lo svolgersi delle stagioni. Dopo aver girato, da settembre 2011 a febbraio 2012 verranno fatti il montaggio e il mixaggio. Si pensa, con l’aiuto di Maria Domenica, di essere pronti con il film per la primavera del 2012.

Infonline: Certamente la produzione di un film implica un lavoro di squadra. Con chi lavorerai e con quali compiti precisi?

Suor Caterina Cangià: In primis ho individuato nella persona di Simone Spada, il regista. Mi occuperò personalmente della sceneggiatura per quanto si riferisce ai contenuti e alla parte creativa del film e verrò coadiuvata da uno sceneggiatore di professione per tutto ciò che riguarda invece l’aspetto tecnico. Ci sarà un aiuto-regista, un direttore della fotografia, uno o più fonici, i costumisti, gli scenografi e tutta la squadra di tecnici indispensabili quando si gira un film. Last, but not least, la stretta collaborazione con il Centro, con Suor Giuseppina Teruggi che ci affiancherà in questa grande impresa.

Infonline: Che cosa comporta affrontare questo tipo di progetto oggi, da parte di un Istituto religioso, a fronte di altre priorità urgenti?

Suor Caterina Cangià: Grande domanda questa. La decisione della Madre con il Consiglio generale è stata una scelta coraggiosa, fondata in primo luogo sull’amore per Maria Domenica e poi sul desiderio grande di farla conoscere e… amare da moltissime persone. La domanda, la richiesta di un film, sembra sia arrivata dalla gente che vive a contatto con noi, che condivide la nostra missione educativa, che ama Maria Domenica. Oggi è urgente comunicare ed è urgente far vedere, con il linguaggio più capito dalla gente, quello del cinema appunto, che custodiamo un carisma straordinario che va declinato nell’oggi.

Infonline: A quali destinatari si rivolge di preferenza il film?

Suor Caterina Cangià: A tutti. Semplice. E proprio perché si rivolge a tutti deve costruirsi con chiarezza, immediatezza di lettura, informazione, formazione ed emozione!

Infonline: Che cosa ci puoi dire sui tempi di realizzazione e di consegna?

Suor Caterina Cangià: I tempi sono intrecciati all’interno di quanto ho detto a proposito dei passi da seguire. La “prima” la deciderà il Consiglio generale. Forse il 13 maggio? Chissà. Comunque, la diffusione avverrà prima del 5 agosto 2012, data che segna il 140° di fondazione dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Infonline: Quale la tipologia del nuovo film?

Suor Caterina Cangià: Il film sarà una fiction in costume. Non può essere che una fiction in costume perché si desidera “narrare” Maria Domenica, il suo tempo, la sua terra, la sua vita, il suo carisma. Forse ci sarà una scena di prologo o di epilogo calata nell’oggi. Chissà.

Infonline: Le difficoltà più grandi che prevedi e … i sogni che tieni nel cassetto

Suor Caterina Cangià: Le difficoltà? Preferisco non prevederle ma attrezzarmi per superarle. Come? Con la preghiera, con la meditazione sulla figura e sulla vita di Maria Domenica, con il parlare di lei e del film a chi mi circonda. I sogni? Che sia un bel film, bello in tutti i sensi che questa parola nasconde. E solo se bello potrà raggiunger il cuore di molti.

Ho da aggiungere piccole cose che stanno succedendo già. Ho parlato ai bambini della mia Bottega d’Europa del film che faremo. Una sera trovo, sotto alla porta dello studio, un foglio A4 con su scritto: “Sister, ho finito di leggere un libro su Maria Mazzarello ed è pure a disegni. Te lo presto.” Smack! Firmato Sofia Nicolai (9 anni). 
L’indomani mi porta il libro illustrato e nel consegnarmelo mi dice: “Ti piacerà, parla di suore e poi tu sei una discendente di Santa Mazzarello”. Dopo il coro, prima di andare a casa mi chiede: “Quando lo cominci a leggere?” E io: “Questa sera. Non vedo l’ora”.

Giornalismo e Religione

 

Lo scorso 22 maggio, presso la sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana di Roma, si è svolta la presentazione ufficiale del nuovo volume del prof. Giuseppe Costa, curato insieme a Giuseppe Merola e a Luca Caruso, dal titolo Giornalismo e Religione. Storia, Metodo e Testi, edito dalla Libreria Editrice Vaticana. 
Sono intervenuti il Segretario e il Vicesegretario generale della Federazione Nazionale della Stampa, Franco SiddiLuigi Roncisvalle, il Segretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, Angelo Scelzo, e la Presidente dell’UCSI Lazio e giornalista di RaiNews 24 Vania De Luca.
Rivivono in questo volume oltre sessant’anni di informazione sul fatto religioso in Italia.
“Una articolata lettura storica delle vicende, non soltanto ecclesiali, del nostro Paese e del mondo […], un quadro dei temi, problemi e argomenti che interessano l’insieme dell’informazione detta religiosa, i personaggi, le cronache, le tensioni, le emozioni, gli interrogativi” (dalla Prefazione al volume, di Angelo Paoluzi).

Il volume ha inizio con un ampio saggio introduttivo sulla notizia in generale e religiosa in particolare, cui segue una dettagliata ricostruzione storica dal 1950 a oggi attraverso iprincipali avvenimenti della Chiesa. Si apre quindi l’antologia di interviste e articoli, firmati da 63 giornalisti, vaticanisti ma non solo, che in un arco temporale di oltre sei decenni si sono misurati con i temi della fede, della spiritualità, del mondo vaticano. 152 articoli dai quali emerge una profonda varietà stilistica e di pensiero che denota la ricchezza di prospettive e l’interesse suscitato da questo settore del giornalismo, fornendo una cronaca particolareggiata e avvincente di personaggi ed eventi.

Giornalismo e Religione è un’opera destinata a tutti coloro che operano nella comunicazione o si interessano di informazione, che diviene testimonianza del percorso non certo lineare della notizia religiosa e stimolo “a migliorare il servizio alla Verità di quanti sono chiamati a occuparsi di questo genere giornalistico” (dalla Premessa degli Autori).

 

 

VII INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE

Congresso internazionale teologico pastorale

Milano 30 maggio-1 giugno

Cuore del VII Incontro mondiale delle Famiglie, il Congresso rappresenta il momento di sintesi più alto e qualificato della riflessione ecclesiale sulla famiglia. Un grande cantiere di elaborazione del pensiero e valorizzazione delle esperienze che a Milano, in modo più accentuato che nelle edizioni precedenti, avrà anche un sapore laico, perché sceglie di affrontare due temi che interpellano non esclusivamente i credenti: il lavoro e la festa, i due ambiti in cui la famiglia si apre alla società e la società s’innesta nella vita delle famiglie.

31 gli eventi in programma, 27 i paesi rappresentati, 104 i relatori scelti fra gli esponenti più significativi del panorama culturale, politico, associativo internazionale. Tra costoro 4 cardinali, 7 vescovi, 24 professori universitari, tra cui sociologi, psicologi, demografi, economisti, teologi, giuristi, agronomi. 5 mila i partecipanti attesi. Questi sono i numeri che possono aiutare a dare la proporzione dei tre giorni di studio che si appresta a vivere il capoluogo lombardo in attesa dell’arrivo del Papa insieme alle altre sette città scelte come sedi decentrate.

Diversi gli argomenti che saranno toccati attraverso le relazioni sapienziali dei principali rappresentanti dell’episcopato mondiale, gli interventi degli esperti e le testimonianze: la conciliazione dei tempi tra famiglia e lavoro, il rapporto tra festa e tempo libero, la famiglia di fronte alle sfide della comunicazione globale, dell’immigrazione, dell’educazione. Si parlerà della condizione delle donne che lavorano. E anche di separazioni, divorzi e nuove unioni.

Il congresso è aperto a tutti, obbligatoria l’iscrizione entro il 31 marzo (clicca qui per iscriverti).

in allegato trovi il programma congresso_internazionale_teologico_pastorale

Al Life-day è “uno di noi”

Per ricordare l’anniversario della legge 194, per festeggiare i vincitori del Concorso scolastico europeo, per lanciare l’iniziativa cittadina che parlerà al cuore dell’Europa, ieri 20 maggio nell’aula Paolo VI si è svolta l’iniziativa “Life-day”in Vaticano.

“Uno di noi” è il titolo della manifestazione che coincide con il titolo della “iniziativa cittadina”. Ma il senso del titolo è reso più esplicito dal l’esortazione di Giovanni Paolo II, proposta come argomento per il 25° Concorso europeo: “L’Europa di domani è nelle vostre mani. Non vi spaventi la difficoltà del compito. Voi lavorate per restituire all’Europa la sua vera dignità: quella di essere il luogo dove la persona, ogni persona, è accolta nella sua incomparabile dignità”.

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È uno di noi
Movimento per la Vita: l’incontro oggi in Aula Paolo VI
Un incoraggiamento “ad essere sempre testimoni e costruttori della cultura della vita”. Lo ha rivolto, stamattina al Regina Caeli, Benedetto XVI, rivolgendo un “cordiale saluto alle migliaia di aderenti al Movimento per la vita italiano”, riuniti nell’Aula Paolo VI e in Piazza San Pietro per il LifeDay. Sono stati in 18mila, da tutta Italia, a voler manifestare la scelta di difendere la vita, fin dal concepimento. Durante l’incontro c’è stata anche la premiazione del XXV concorso scolastico europeo “L’Europa di domani è nelle vostre mani” ed è stata lanciata l’iniziativa cittadina europea “Uno di noi”. A conclusione, il presidente del Movimento per la vita, Carlo Casini, ha annunciato che il LifeDay “si svolgerà nuovamente nel maggio del 2013”.

L’attentato e il terremoto. L’attentato alla scuola di Brindisi che ha provocato la morte di Melissa e il ferimento di altre cinque ragazze e il terremoto che nella notte ha mietuto sei vittime nella Val Padana sono stati al centro della riflessione e della preghiera del LifeDay che si è svolto questa mattina in Vaticano. Erano numerosissimi i giovani provenienti dalla Puglia e dalle Regioni padane tra i vincitori del Concorso scolastico europeo che sono stati premiati nell’aula Paolo VI. Gli studenti pugliesi hanno voluto ricordare la giovane uccisa a Brindisi con uno striscione che hanno portato anche in piazza San Pietro al Regina Coeli del Papa. I giovani che hanno partecipato a queste 25 edizioni del Concorso scolastico europeo organizzato dal Movimento per la vita sono stati oltre un milione. Di questi più di ottomila sono stati premiati con una settimana premio a Strasburgo, cuore dell’Europa unitaria. I vincitori di quest’anno sono stati 253: alla proclamazione di questa mattina seguirà il viaggio, sempre a Strasburgo, in autunno.

Non rassegnarsi mai. “Oggi vogliamo chiamarti ‘uno di noi’ – ha detto idealmente Casini a un essere umano concepito -, qualcuno che ci appartiene perché è un figlio, qualcuno che è proprio come noi perché ciascuno di noi siamo stati esattamente come lui. Poiché non hai voce per dirlo, vogliamo gridarlo noi a gran voce: sei uno di noi. A gran voce per farti sentire nei luoghi che contano e ti ignorano e non vogliono sentirti”. Il presidente del Mpv ha chiarito: “È solo per questo, perché sei uno di noi, che non possiamo rassegnarci di fronte ad una legge che ti nega questo elementare primario riconoscimento e che perciò accetta che la tua vita milioni di volte sia frantumata e dispersa”. Con l’attività del Mpv “nel solo 2011 sono nati 10.078 bambini che hanno fatto sentire la loro voce, hanno avuto un nome, hanno fatto gioire le loro madri. E sono solo quelli di cui abbiamo avuto notizia perché solo 195 Cav, il 60% del totale, ce lo hanno comunicato. E sono circa 140.000 i bambini che dall’inizio della nostra non rassegnazione abbiamo aiutato a nascere insieme alle loro madri”.

Per i diritti del concepito. Per il presidente del Mpv, “è giunto il momento che l’Italia e l’Europa ascoltino la voce di chi non ha voce. Nella crisi attuale che genera delusione, sfiducia e rassegnazione, occorre un risveglio dei popoli europei. Occorre ricollocare la dignità umana alla base di un complessivo rinnovamento, che, prima di tutto, deve essere morale e civile. Bisogna che le istituzioni europee riconoscano che l’uomo, per quanto piccolo e debole, è sempre uno di noi”. Casini ha quindi spiegato l’iniziativa cittadina “Uno di noi”: “Il recente Trattato di Lisbona prevede che un milione di cittadini appartenenti ad almeno 7 Paesi dell’Unione possano chiedere una legge che essi ritengono necessaria per attuare i trattati. In essi vi è scritto che il fondamento dell’Europa è la dignità umana, ma i bambini prima della nascita sono dimenticati”. Perciò, con l’iniziativa cittadina si raccoglieranno firme in tutta Europa fino al 10 maggio 2013, per chiedere il riconoscimento dei diritti umani al concepito.

Iniziativa di tutti. Motivo di orgoglio per Casini è stata la condivisione dell’iniziativa cittadina da parte dell’associazionismo cattolico. “Rinnovamento nello Spirito da sempre sta con il popolo della vita ed in particolare con il Movimento per la vita”, ha detto il presidente Salvatore Martinez. “L’Europa deve difendere il diritto alla vita fin dal concepimento se non vuole che tutti gli altri diritti diventino deboli. Chi si impegna sociale non può non esserci anche in questa iniziativa”, ha osservato Andrea Olivero, presidente delle Acli. Per Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari, “il Polo della vita è anche il popolo della famiglia”. Secondo Lucio Romano, presidente di Scienza&Vita, “la battaglia perché vincano la condivisione e l’accoglienza si combatte a tutti i livelli, politico, sociale, culturale. Il terreno europeo è un campo privilegiato nel quale impegnarci insieme al Movimento”. Per Luca Pezzi, segretario del Centro internazionale di Cl, “sarà una gioia condividere un altro tratto di strada con il Movimento per la vita”. Adesioni all’iniziativa anche da Gigi Borgiani, segretario generale di Azione cattolica, da Tonino Inchingoli, segretario generale di Mcl, da Eli Folonari del Movimento dei Focolari e da Giovanni Stirati del Cammino neocatecumenale.

Valore assoluto della persona e della vita umana. Il card. Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, ha concluso la manifestazione, invitando i presenti a rispettare sempre la dignità della vita umana: “La deriva etica – ha avvertito – va sempre più lontano. Non ci si limita a tollerare l’aborto come un male, ma si rivendica il diritto all’aborto. Si autorizza la sperimentazione sugli embrioni umani, mentre si cerca di evitarla sugli animali”. Perciò, “l’impegno del Movimento per la vita è più necessario e urgente che mai. Esso trova incoraggiamento anche in alcuni segnali positivi che provengono dalla politica, come le iniziative di prevenzione dell’aborto, che cominciano ad essere prese dalle istituzioni, e il divieto della Corte di giustizia europea riguardo alla brevettabilità di embrioni e derivati”. Ma, ha concluso il cardinale, “per i cristiani il decisivo incoraggiamento viene dal Signore Gesù, che proprio oggi con il mistero dell’Ascensione al cielo ci indica la meta definitiva e il valore assoluto della vita umana. È Lui che ci chiama e ci manda a difendere la vita umana quando è più fragile”.

 

L’ecosistema dell’ascolto

Messaggio del Cardinal Bagnasco in occasione della 46° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, celebrata ieri a Roma nella basilica di Santa Maria sopra Minerva.

Il silenzio è ‘‘il grembo fecondo da cui soltanto può sbocciare la parola”

“Il silenzio non è il contrario della parola, ma ne costituisce l’altro volto, è il grembo fecondo da cui soltanto può sbocciare la parola”. Così il card.Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, si è rivolto questa mattina ai presenti nell’omelia della messa per la 46ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, celebrata a Roma nella basilica di Santa Maria sopra Minerva. Dopo l’omelia, nella preghiera dei fedeli, sono stati ricordati l’attentato alla scuola “Morvillo-Falcone” di Brindisi e il terremoto di questa notte in Emilia, di cui al momento si contano 6 morti e circa 50 feriti.

Il dovere dell’evangelizzazione. Partendo dall’“apparente contraddizione” di Cristo che “viene sottratto ai nostri occhi” e al tempo stesso “comincia a essere annunciato a ogni creatura, sino ai confini del mondo”, nel giorno in cui la Chiesa celebra l’Ascensione del Signore, il cardinale ha osservato che “Gesù non cessa di essere in mezzo a noi, anzi per mezzo di noi vuol essere ancor più presente nella storia. Di qui il dovere della missione, della testimonianza, della predicazione”. In una parola, “evangelizzazione”, “forma che rende possibile l’esperienza della salvezza che cambia radicalmente l’esperienza dell’uomo”. “Si tratta di un dovere”, ha aggiunto, “ma ancor più di un bisogno dell’anima, che non può trattenere la gioia solo per sé, ma desidera condividerla con il mondo. Ciò esige che ciascun discepolo senta rivolta soprattutto a sé la domanda radicale della fede”; “diversamente non si avranno degli annunciatori, ma solo dei propagandisti, che non suscitano interesse per nessuno”. 

Continua vigilanza. “L’evangelizzazione – ha annotato il presidente della Cei – è una forma di comunicazione, dove s’impara ad ascoltare prima anche che a parlare, e dove si tratta di trovare sempre un nuovo equilibrio tra silenzio, parola, immagini, suoni, come suggerisce il Santo Padre Benedetto XVI nel suo messaggio”. Anche nella comunicazione sociale, ha precisato, “è necessario rinvenire un tale ecosistema: il silenzio infatti è condizione dell’ascolto di sé, della contemplazione, del discernimento, senza i quali non esiste libertà vera, ma si resta risucchiati dall’ambiente e quasi anestetizzati dalle sue sollecitazioni caotiche”. Il card. Bagnasco ha riconosciuto che “soprattutto oggi il flusso informativo sempre più incalzante rischia di disorientare e di creare una sorta di saturazione del giudizio critico, che è come sopraffatto dalla mole di dati in nostro possesso”. Il problema, ha ammesso, “non è l’informazione, ma la capacità di rielaborare un senso e quindi cogliere una direzione di marcia rispetto a quello che sta accadendo. Per questo si chiede un esercizio continuo di vigilanza e di critica che non abdichi alla nostra libertà, che sappia farsi carico della complessità del reale. A ciò si aggiunga un altro elemento, che è la capacità del silenzio di rendere corposa la parola che utilizziamo”. 

Un desiderio e un’esigenza. Rivolto ai comunicatori – giornalisti, webmaster, ma non solo – presenti alla celebrazione eucaristica, il porporato ha riconosciuto “i ritmi obbligati e incalzanti del vostro lavoro, che certamente non favoriscono tempi prolungati di silenzio e di meditazione”. Silenzio e meditazione, però, “restano comunque un’esigenza, e sono certo un desiderio per ciascuno di noi”. Senza di essi “sappiamo tutti quanto sia difficile mantenere diritta la barra del nostro agire senza cedere alla dittatura delle opinioni”. “La capacità di esercitare un sano discernimento, la libertà interiore rispetto ai condizionamenti esterni, nonché l’amore alla verità, rispettosa di tutti nell’orizzonte deontologico che vi specifica, sono fra le qualità più necessarie per una comunicazione – ha concluso – che sia un vero servizio alla crescita della comunità e dell’anima di un popolo”.

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Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali.

In silenzio, per capire ciò che vale. La comunicazione, secondo mons. Celli, spesso è “ostacolata dall’impostazione del contesto comunicativo, costretto nella griglia domanda/risposta: a volte facciamo fatica a trovare una risposta, altre siamo sommersi da risposte a domande che non ci poniamo. Così come siamo sommersi da una valanga di messaggi e informazioni”. In quest’ottica, spiega, “dimentichiamo il silenzio. Dobbiamo, invece, abituarci al discernimento: serve a capire ciò che realmente vale, e a trovare momenti per scoprire il senso delle cose. Il silenzio non è la parte negativa della comunicazione, ne è un momento non solo integrante ma necessario. Le parole acquisiscono spessore solo se viene dato valore al silenzio”. 

Dire “parole che pesano”. Con i Social Network e Internet, osserva ancora mons. Celli, “pensiamo di ‘esserci’ solo quando mandiamo messaggi e siamo connessi. Invece servono contenuti che diano autenticità alle parole, non forme. E non dobbiamo dimenticare che, quando comunichiamo, anche nella Rete, comunichiamo noi stessi”. “Non è nella valanga delle parole che dite, che risiede la ricchezza di quello che state trasmettendo”, spiega l’arcivescovo rivolgendosi agli operatori della comunicazione. E aggiunge: “Solo la ricerca della verità eleva la dignità dell’uomo. Cercate quindi di pronunziare e scrivere parole che pesano. E non dimenticate che la comunicazione è da uomo a uomo, sempre. Non producete solo parole, ma comunicate idee e pensieri rivolti al cuore e all’intelligenza di un altro uomo”.

La bella rivincita

L’esperienza del silenzio davanti al dolore oppure alla gioia

La riflessione di Benedetto XVI è magnifica. Se non si trattasse del Santo Padre, si potrebbe dire provocatoria. Nel caos delle voci che si sovrappongono, nell’ansia delle pause e in un flusso continuo, inarrestabile, l’invito a comunicare con i silenzi ha una carica dirompente. Non quel silenzio ispirato dalla rinuncia o dall’omertà, ma la nuvola dei pensieri, che vuole cercare il suo senso, come nelle tags cloud virtuali, contro la banalità delle parole-comunque. Prima il bisogno di capire, con il tempo che serve, senza paura del vuoto, poi la scelta di comunicare. Certo, se si applicasse al sistema della multimedialità quanto il Papa suggerisce, sarebbe quasi il black out. Si svuoterebbero i social network, ci sarebbe il problema di riempire la pagina politica, i talk show sarebbero cancellati, i tabloid chiuderebbero, la radio continuerebbe a trasmettere musica classica. In tanti, perderebbero il posto di lavoro. Vale per il mondo dei media, dove oramai impera la bulimia della parola, scritta o orale che sia, ma è uguale nella vita quotidiana di ciascuno. Se non parli è come se non esisti; se non replichi, hai torto; se sei un affabulatore, vinci. Il fatto è che non se ne esce, che non c’è una via di mezzo, dovrebbe cambiare tutto. Eppure, quando scoppia la tragedia o prevalgono il dolore oppure la gioia, il silenzio si prende la rivincita. Anche la bellezza porta il silenzio. È lo stupore, in sostanza, che fa la differenza. Per l’immensità e per i sentimenti non si trovano le parole. Che vita viviamo, allora? Se si ripercorre una qualsiasi giornata, se ne può buttare via una gran parte, se non cancellarla del tutto, a volte. Sono pochi i momenti nell’arco delle 24 ore, che restano per la vita. Dovremmo probabilmente soffermarci più spesso su questo: sul valore del nostro tempo per noi e per gli altri. E viverlo in modo consapevole, maturo. Seguendo l’invito del Papa, forse così potremmo avvicinarci a un maggiore equilibrio tra la parola e il silenzio: cominciando dall’ascolto di noi stessi. 

Carmen Lasorella – direttore generale di “San Marino Rtv”


L’intelligenza del cuore

Il mare di Internet come il lago di Tiberiade in burrasca

Nel silenzio nasce l’intelligenza del cuore e da questa nascita prendono respiro l’intelligenza delle parole e l’intelligenza delle immagini. Benedetto XVI consegna un pensiero di fiducia e di responsabilità con il messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali 2012. L’intelligenza del cuore, impercettibile palpito di ogni essere umano, si nutre di silenzio per diventare comunicazione tra volti. Nel silenzio prende sostanza l’ascolto di se stessi, degli altri, dell’Altro. È la scuola dell’essenziale dove si apprende a “discernere ciò che è importante da ciò che è inutile o accessorio”. È la passione educativa che ama anche le antiche e nuove strade del comunicare dove, nonostante i rumori, risuonano i passi della Parola attesa. Nella Rete che “sta diventando sempre di più il luogo delle domande e delle risposte”, è importante e bello fare del silenzio il momento aurorale dell’ascolto. 
Non è un’impresa facile. “L’educazione – ricorda il teologo e mistico svizzero Maurice Zundel – passa da anima ad anima con l’aiuto del silenzio. Prosegue tutta la vita, attraverso le conversazioni di ogni giorno benché gli uomini che han qualcosa da dire siano pochi e quelli che sanno ascoltare ancor meno”. Quanta verità in questa battuta di Zundel! Le conversazioni, tuttavia, corrono nelle connessioni e così nel mare di Internet la fede, con le parole e le immagini dei testimoni digitali, è lieta di prendere il largo con i moderni navigatori. Come sul lago di Tiberiade in burrasca, diventa domanda e risposta “nell’essenzialità di brevi messaggi spesso non più lunghi di un versetto biblico”. Si apre una grande avventura dove, tra l’altro, si sperimenta che la solitudine non è l’isolamento. Il silenzio, anche nel digitale, nutre un “essere soli” che accoglie gli altri e li ascolta. L’isolamento, al contrario, è un “essere staccati” che diffida degli altri e, alla fine, di se stessi: rimane acceso il video e si spegne il volto. All’intelligenza del cuore il compito di scegliere. 

Paolo Bustaffa

 

Festival biblico… “sperare con arte”

“Perchè avete paura?” La speranza dalle Scritture. Un nuovo modo per incontrare la Bibbia

Sono ben 14 le mostre che il Festival Biblico offre nelle sue diverse sedi, disseminate tra Vicenza, Verona, Bassano del Grappa e Chiampo.

Dal 18 maggio 4 di queste aprono i battenti a Vicenza.

Alle ore 17 a ViArt (Palazzo del Monte di Pietà) si tiene l’inaugurazione dell’esposizione di opere di artisti contemporanei della ceramica organizzata dal Museo Civico della Ceramica del Comune di Nove in collaborazione con Vi.Art. e il sostegno del Credito Valtellinese. «Di chi avrò timore?» (Sal 27,1) Dare volto alle paure per plasmare speranza è il titolo di questa rassegna artistica a cura di Katia Brugnolo. Vengono presentate opere inedite di 20 artisti della ceramica provenienti da ben 5 regioni d’Italia.

«Le interpretazioni proposte dagli artisti in taluni casi recuperano i simboli inclusi nel passo evangelico che ispira il titolo del Festival, ovvero la tempesta sul lago di Tiberiade: la barca, i pesci, elementi che hanno assunto un ricorrente valore simbolico – spiega Katia Brugnolo -. In molteplici casi, invece, l’opera diventa metafora ed è importante riconoscervi i temi della Paura e della Speranza dalle Scritture, dando voce agli artisti stessi, alle loro personali spiegazioni».

La mostra delle opere di ceramiche resterà aperta fino al 10 giugno.

Sempre il 18 maggio alle ore 18.30 nel complesso monumentale di San Silvestro (Contrà San Silvestro) taglio del nastro per un’altra esposizione: Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo (Ct 8,7), collezione di opere di pittura sacra di Giustina De Toni.

Infine sono altre due le esposizioni che aprono le porte ai visitatori dal 18 maggio: Sabastyia. I frutti della storia e la memoria di Giovanni Battista. Un progetto di archeologia, conservazione e comunità locale in Palestina, curata da Carla Benelli, visitabile nella Loggia del Capitaniato, in piazza dei Signori. Quindi Non abbiate paura. Dal buio alla luce, rassegna d’arte di pittura e scultura di artisti aderenti all’Unione cattolica artisti italiani (Ucai) di Vicenza «Fra’ Claudio Granzotto».

Tutte queste esposizioni sono a ingresso libero e gratuito.

 

ARTICOLO CORRELATO

da: SIR Giovedì 17 maggio 2012

Perché avere paura?

“La prossima edizione del Festival biblico prenderà ispirazione dall’Anno della fede indetto da papa Benedetto XVI, per riflettere sul tema del rapporto tra il credente e la libertà, e far comprendere che la fede non è contraria alla libertà, anzi genera rinnovamento e incontro”. Ad anticiparlo è mons.Roberto Tommasi, presidente del Festival biblico (www.festivalbiblico.it), che inizia domani, 18 maggio, a Verona – sul tema “‘Perché avete paura? (Mc 4,40)’. La speranza dalle Scritture” – per “trasferirsi” poi a Vicenza, sede storica dell’iniziativa, dove resterà fino al 27. Maria Michela Nicolais, per il Sir, ha intervistato mons. Tommasi”… (visualizza l’articolo)

Il card. Angelo Scola su crisi economica e dottrina sociale della Chiesa

Di fronte alla grave crisi dell’occupazione e alla necessità di rilanciare lo sviluppo, è ancora adeguato quel caposaldo della dottrina sociale della Chiesa che parla della centralità del soggetto del lavoro come fondamento del primato del lavoro sul capitale?

con questa domanda, ieri (17 maggio), ha aperto il suo intervento il card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano, nell’ultima serata del ciclo “Dalla crisi economica alla speranza affidabile”, organizzato da Fondazione “Milano Famiglie 2012” e “Gruppo 24 Ore” in preparazione al VII Incontro mondiale delle famiglie (www.family2012.com).

Tema della serata: “Nuove politiche sociali e di lavoro per la sostenibilità della famiglia”. All’incontro hanno partecipato anche Donatella Treu, amministratore delegato del “Gruppo 24 Ore”, e Tiziano Treu, vicepresidente XI Commissione Lavoro del Senato.

È seguita la tavola rotonda “Nuovi modelli di lavoro nella famiglia oggi”, con Michele Tito Boeri del Dipartimento economia dell’Università Bocconi di Milano, Alberto Quadrio Curzio, docente emerito di economia politica all’Università Cattolica di Milano, Giovanni Maria Vian, direttore de “L’Osservatore Romano”, e Marco Vitale, economista.

Scarica gli interventi:

VII-Inc-Mondiale-Famiglie-Card-Scola

ASCENSIONE DEL SIGNORE Lectio – Anno B

Prima lettura: Atti 1,1-11

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

Se il Vangelo di Marco è molto rapido ed essenziale nel parlarci dell’ascensione di Gesù al cielo, il libro degli Atti tenta di «descrivercela» quasi visivamente nella seconda parte del brano oggi propostoci (At 1,6-11).

Stando al racconto di Luca, sembra che si tratti dell’ultima «cristofania», concessa da Gesù agli Apostoli, i quali peraltro si dimostrano ancora impreparati alla comprensione del mistero di Cristo: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v. 6). Pur dopo la risurrezione, essi pensano terrenisticamente! Gesù supera la loro incomprensione, rimandando alla discesa dello Spirito la piena illuminazione del suo mistero ed anche della loro missione in ordine a quel mistero: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (1,7-8).

Come si vede, anche qui siamo davanti ad un mandato «missionario»,di tipo universalistico: si parte, com’era ovvio e doveroso, dalla patria stessa di Gesù, per arrivare «fino agli estremi confini della terra». Il libro degli Atti, conforme a questo comando di Gesù ci illustrerà successivamente le varie tappe di questa evangelizzazione, che Paolo porterà perfino a Roma, nel cuore cioè dell’immenso impero che dominava tutto il mondo allora conosciuto.

Anche qui la «forza» per adempiere questo compito immane non viene garantita dalle deboli ed impari risorse umane dei discepoli, ma dalla irruzione e dalla continua assistenza dello Spirito. Nel capitolo 2 del libro degli Atti, infatti, Luca ci descriverà la impetuosa discesa dello Spirito e la sua potenza di «trasformazione» dell’anima e dei sentimenti degli Apostoli: da timidi ed impauriti com’erano, diventeranno intrepidi e inarrestabili annunciatori e testimoni del Risorto. È ancora Cristo che «opera insieme a loro»: non direttamente, ma mediante lo Spirito che egli invierà da parte del Padre (cf. At 2,32-33).

Dopo aver dato loro il suo «mandato» missionario, Gesù «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9). Abbiamo già detto della tristezza degli Apostoli nel vedersi «sottrarre» il Risorto. Quello che conta, però, non è la sua presenza fisica, ma la convinzione di fede che egli sarà sempre con i suoi, con la potenza dello Spirito, sino al momento del suo «ritorno» glorioso, come proclamano i due misteriosi personaggi «in vesti candide»: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

In questo intervallo di tempo, che è già durato più da 2000 anni e non sappiamo per niente quanto durerà ancora, tocca ai suoi discepoli, cioè alla sua Chiesa, allargare gli «spazi» della sua signoria, rendergli testimonianza, facendolo conoscere ed amare da tutti gli uomini.

È così che il suo «regno» si stabilisce anche lungo la storia, fra gli uomini, per mezzo di altri uomini.

È a livello di queste considerazioni che possiamo comprendere la «indispensabilità» della Chiesa nel mondo, in attesa del «ritorno» glorioso di Cristo: anzi, proprio per «preparare» e predisporre tutti e tutto, anche il convivere sociale, a quell’incontro con il Signore dell’universo, essa è destinata!

Seconda lettura: Efesini 4,1-13

Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

A proposito della Chiesa, perché compia la sua missione di testimonianza nel mondo, anzi di rappresentanza «vicaria» di Cristo, e in tal modo anticipare addirittura la venuta del «regno», dice delle cose stupende il brano della lettera agli Efesini, oggi proposta alla nostra considerazione.

Due mi sembrano le idee di fondo che guidano il testo, troppo ricco per entrare nei suoi dettagli esegetici.

La prima è quella della «unità» di quel «corpo» meraviglioso che è la Chiesa: in essa, proprio per questa esigenza fondamentale, ci deve essere circolazione di «amore», che si manifesta nell’umiltà e nella capacità di «sopportazione» reciproca, allo scopo di «conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).

Ci sono troppi motivi di «unione» che obbligano i cristiani a fare «comunione» fra di loro. Una Chiesa «divisa» non rende buona testimonianza né a Cristo, né allo Spirito, che è essenzialmente «Spirito di amore»! E perciò è destinata ad essere fatalmente inerte, se non controproducente. «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo...» (4,4-5).

La seconda idea, che viene espressa in questo testo e non è per niente antitetica alla prima, è che nella Chiesa, pur nella più rigorosa «unità», c’è una «molteplicità» di «doni», di «carismi» o di «ministeri» che dir si voglia, che permettono, anzi esigono, che tutti diano il loro contributo per la crescita armonica di quell’unico «corpo», di cui tutti siamo «membra».

E la cosa che più sorprende è che proprio il Cristo, «asceso al di sopra di tutti i cieli» (4,10), ha voluto concedere questi «doni» alla sua Chiesa: essi, pertanto, non sono tanto delle acquisizioni nostre, che nascono da «prediposizioni» di natura e perciò da rivendicare a tutti i costi, quanto «doni» che vengono dall’alto, da esercitare perciò con grande senso di «responsabilità» per il bene di tutti. «A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» (4,7). Si noti l’espressione «a ciascuno di noi»: perciò ogni battezzato non può non avere uno spazio nella Chiesa!

A modo di esemplificazione, vengono poi ricordati alcuni «ministeri» tra i più fondamentali nella Chiesa: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,11-13).

Come si vede, i «ministeri» qui ricordati non sono dati per esercitare un «dominio» nella Chiesa, come talvolta, da qualcuno si è pensato o si potrebbe pensare, ma un «servizio» di crescita comune. Il traguardo per tutti, siano essi apostoli, o profeti, o pastori, o qualsiasi altra cosa, è quello di «crescere» e far «crescere» fino a raggiungere «la misura della pienezza di Cristo» (4,13). Il che è tremendamente impegnativo per tutti.

Vangelo: Marco 16,15-20

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

Esegesi

Come è risaputo da tutti, questa parte «conclusiva» del Vangelo di Marco (16,9-20) è stata aggiunta successivamente da qualche autore che non conosciamo. Non è che Marco ignorasse questi eventi: è che egli ha voluto chiudere il suo Vangelo con lo «stupore» delle donne davanti al sepolcro vuoto e all’annuncio che Gesù è stato risuscitato da morte (Mc 16,6-8). Ed è proprio questo «stupore» che dovrà accompagnare sempre i credenti nel Signore risorto!

Comunque, tutto questo non crea per noi alcun problema, perché siamo davanti ad un testo egualmente «ispirato» e come tale riconosciuto dalla Chiesa. Cerchiamo perciò di metterne in evidenza il ricco e molteplice contenuto.

Si tratta dell’ultima «cristofania» del Risorto ai suoi Apostoli ai quali viene affidato un mandato «missionario» universale.

Abbiamo detto sopra che l’ascensione al cielo non era l’abbondono di Gesù, ma solo un suo «momentaneo» allontanamento. Nel frattempo gli Apostoli avrebbero dovuto prolungarne l’opera di salvezza, annunciando il suo «Vangelo» ad ogni creatura. Perciò essi vengono rivestiti di un compito di rappresentanza «vicaria» del Cristo, da realizzare ed estendere per tutto l’arco della storia. È attraverso degli uomini che Cristo verrà ormai «annunciato» ad altri uomini! È questo il suo mandato «testamentario»: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (16,15-16).

Due cose sono da sottolineare in questo «comando» del Signore. Prima di tutto la sua «universalità»: è «in tutto il mondo» che vengono inviati gli Apostoli; il Vangelo deve essere predicato «ad ogni creatura», senza escludere nessuna razza umana, in qualunque parte della terra essa abiti. In secondo luogo, si esige l’accoglienza, per «fede», del dono del «Vangelo», congiunto con il rito del «battesimo», che anche simbolicamente significa la rinascita a vita nuova, come un autentico «lavaggio» dalle sozzure della vita precedente. Dunque «fede» e «battesimo», intimamente congiunti e vissuti dai cristiani, sono le «vie» che portano alla salvezza.

E se così sarà e i cristiani vivranno in tal modo, potranno compiere anche «gesti» straordinari, così come capiterà agli Apostoli che parlano «nuove lingue» il giorno di Pentecoste, proprio in ordine all’annuncio del Vangelo (At 2,4,11); oppure a Paolo che, morso da una vipera, la getta a terra senza riceverne alcun male (At 28,3-5), e altri fatti simili che si sono verificati, e continuano a verificarsi, lungo la storia. Ed effettivamente il Vangelo di Marco si chiude con l’affermazione che tutto questo è avvenuto: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (16,20).

Ma si tratterà solo di «segni» che possono solo testimoniare che la «salvezza» procurata dal Vangelo è «totale», includente, oltre l’anima, anche il nostro corpo sofferente.

Per l’autore però è importante affermare che tutto ciò avviene come frutto della «perdurante» azione di Cristo che, pur salendo al cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo, ma «opera insieme a loro» proprio in virtù del «potere» che gli deriva dall’essersi assiso «alla destra» del Padre: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (16,19).

Meditazione

La festa dell’Ascensione di Gesù ci rende più presente, quasi più attuale, la visione del «cielo». Una volta un monaco di un monastero copto nel deserto egiziano chiese: gli uomini di oggi pensano a suffi­cienza alla loro dimora permanente? E continuò dicendo che per la maggior parte dei cristiani la vita nel cielo non è altro che un’appen­dice, un supplemento alla vita terrena che è invece ritenuta la vera vita stabile e permanente. La vita del cielo è considerata una specie di post-scriptum, l’appendice di un libro di cui la vita terrena è, appun­to, il vero testo. La verità — concludeva il monaco — è esattamente il contrario. La vita sulla terra è solo la prefazione di quel libro il cui testo è la vita del cielo.

Questa riflessione del monaco è molto saggia. Tuttavia potrebbe suo­nare un po’ semplicistico dire che si pensa troppo a questa vita terrena e poco a quella celeste. Il problema è forse un altro e riguarda il modo in cui pensiamo alla vita sulla terra. E c’è da dire che purtroppo è un modo depauperato, depotenziato e perciò sbagliato. Tutti pensiamo che la vita terrena è una cosa e quella del cielo totalmente un’altra. In realtà, la Scrittura ci suggerisce una continuità della vita, sebbene ci sarà una cesura alla fine dei tempi. Ed è in questa prospettiva che nel Credo si parla di «vita eterna» e non semplicemente di vita futura o dell’aldilà. È come dire che questa vita già da ora deve essere impastata di eternità; e lo è sia nel bene che nel male. Il paradiso e l’inferno iniziamo a viverli da questa terra e su questa nostra terra e in questo nostro tempo. In tal senso, la nostra vita terrena sarebbe trasformata di molto se avessimo lo sguardo rivolto verso il futuro, verso l’alto, verso il cielo. L’Ascensione viene a mostrarci qual è il futuro che Dio ha riservato ai suoi figli. E il futuro è quello raggiunto da Gesù. Ecco perché abbiamo bisogno di «vedere» già questo cielo, sebbene «in speculum et in enigmate» come dice l’apostolo Paolo, per poter vivere bene già su questa terra.

Il mistero dell’Ascensione, appena accennato dal Vangelo di Marco, è narrato con maggiore ampiezza dagli Atti degli Apostoli.

Gesù, scrive Luca, al termine dei suoi giorni, dopo aver parlato ai discepoli, «mentre lo guardavano fu elevato in alto e una nube lo sot­trasse ai loro occhi». Fu un’esperienza straordinaria per quel piccolo gruppo di discepoli. Possiamo immaginare il misto di stupore e di tristezza per la separazione; tanto che rimasero a guardare il cielo. Mentre erano fissi in questa posizione, «ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù… verrà allo stesso modo in cui l’ave­te visto andare in cielo”». Normalmente si interpreta questo testo come una sorta di dolce ma fermo rimprovero ai discepoli perché non si fermino a guardare le nubi del cielo, ma ritornino con il loro sguardo e soprattutto con il loro impegno nell’orizzonte della vita di tutti i giorni. Del resto è stato Gesù stesso ad esortare gli apostoli, proprio un momento prima di lasciarli, dicendo: «andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15-20). Tutt’altro quindi che restare a guardare il cielo.

Ma c’è anche una verità nel tenere gli occhi fissi al cielo. Non che i cristiani debbano formare un gruppo di esoterici fermi a contemplare dottrine astratte, magari per evadere la complessa e talora durissima vita quotidiana. Tenere gli occhi fissi verso il cielo vuol dire tenere ben ferma la meta ove dobbiamo condurre noi stessi e il mondo, le nostre comunità e l’intera storia umana. Scriveva il profeta Isaia: «Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui» (Is 64,3). L’ignoranza del cielo che Dio ci ha rivelato rende senza senso e quindi amara e triste, violenta e crudele, la vita sulla terra. L’apostolo Paolo sembra insistere perché i credenti guardino oltre il presente: «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fa 3,20). Del resto, chi non vede quanto sia necessario far salire più in alto, appunto verso quel cielo che Gesù ha riaperto, questo nostro mondo spesso sbattuto così tragicamente in basso? Siamo entrati nel nuovo secolo senza utopie, senza sogni, a testa bassa e con gli occhi ripiegati solo su noi stessi. E le guerre e le violenze continuano ad avere un predominio incontrastato. E per di più sembra affermarsi più facilmente la ragione della forza che quella del diritto, del dialogo e del confronto pacifico.

In tal senso, la festa della Ascensione è sommamente opportuna, è una grazia concessa agli uomini perché alzino gli occhi un po’ più in alto del loro orizzonte abituale. E vedranno, come attraverso uno spira­glio, il futuro della storia umana anzi dell’intera creazione; non un futuro generico, più o meno ideologico e astratto, ma concreto: fatto di «carne ed ossa come vedete che ho io», potremmo dire parafrasando una affermazione di Gesù. Egli per primo, infatti, inaugura il nuovo futuro di Dio entrandovi con tutto il suo corpo, con la sua carne e la sua vita, che sono carne e vita di questo nostro mondo. Da quel giorno, il cielo inizia a popolarsi della terra, o, con il linguaggio dell’Apocalisse, iniziano i nuovi cieli e la nuova terra. Il Signore li inaugura e li apre perché tutti possano prendervi parte. Già la sua madre, Maria, lo ha raggiunto, assunta anch’essa con il suo corpo. L’Ascensione è il mistero della Pasqua visto nel suo compimento, scorto dalla fine della storia. L’Ascensione non è solo l’ingresso di un giusto nel regno di Dio, ma la gloriosa intronizzazione del Figlio «seduto alla destra» del Padre. Questa raffigurazione, presa dal linguaggio biblico, esprime simbolica­mente il potere di governo e di giudizio sulla storia umana del Cristo risorto: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra», dice Gesù ai discepoli dopo la Pasqua (Mt 28,18).

Noi non siamo più immersi in una storia senza orientamento, vitti­me del caso o degli astri o di forze oscure e incontrollabili. E fanno tristezza coloro che scrutano i cieli (come quella folla di persone che ogni giorno scruta gli oroscopi…) in cerca di segni di protezione per fuggire la paura e l’insicurezza della vita. Il Signore asceso è lui stesso il nostro cielo e la nostra sicurezza. Egli ci attrae verso il futuro che Lui ha già raggiunto in pienezza. E ai discepoli di ogni tempo conferisce il potere di sviluppare la storia e il creato verso questa meta: essi possono scacciare i dèmoni e parlare la lingua nuova dell’amore; possono neu­tralizzare i serpenti tentatori e vincere le insidie velenose della vita; possono guarire i malati e confortare chiunque ha bisogno di consola­zione. Questa forza sostiene e guida i discepoli sino ai confini della terra e verso il futuro della storia. Il Vangelo di Marco conclude: «par­tirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro». Così sia per ciascuno di noi e per tutte le nostre comunità cristia­ne, ognuno secondo il dono e il ministero ricevuto, come dice Paolo nella Lettera agli Efesini, «finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a rag­giungere la misura della pienezza di Cristo».

Preghiere e racconti

Il cielo

Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.

(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione

Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», rispondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista. Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua ascensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.

Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi posseduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali. La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo. Non possono innalzare a lui i cuori. Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo. […] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima. Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tumulto della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.

(John Henry Newman).

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Abbiamo creduto in lui e ne aspettiamo il ritorno

Fratelli, noi crediamo in quel Gesù che non hanno creduto i nostri occhi. A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che lo hanno veduto, l’hanno stretto con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca. Essi, affinché tutti gli uomini accettassero le sue parole, furono inviati da lui; non osarono andare di loro iniziativa. Dove furono mandati? L’avete sentito dalla lettura del Vangelo: «Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura che è sotto il cielo» (Mc 16,15). I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero che essi riferivano cose da loro stessi viste. Noi abbiamo creduto in colui che non abbiamo visto con i nostri occhi e ne aspettiamo il ritorno. Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando ritornerà. […] Restiamo dunque fedeli alla sua parola, perché non proviamo confusione quando ritornerà. Egli infatti nel vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: «Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli» (Gv8,31). E quasi gli chiedessero: Con quale vantaggio? «Voi conoscete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non è stata realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso e tuttavia ne speriamo la futura realizza-zione. Colui che ha fatto questa promessa è fedele; egli non ti inganna: tocca a te unicamente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse. La verità non conosce inganni. Non voler esser tu il bugiardo, altra cosa professando e altra facendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa. Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento all’epistola di san Giovanni 4,2, NBA XXIV, pp. 1708-1709).

Sii un vero amico

Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno. L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale. Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio. L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte. In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte. Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami. È questo il centro del messaggio di Gesù.

Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata. Al contrario, è cresciuta.

È questo il significato dell’invio dello Spirito. Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’amicizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte. È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro. Sai dall’esperienza quanto questo sia reale. Coloro che hai amato profondamente e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze reali.

Osa amare ed essere un vero amico. L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condurrà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo»(At 1,11).

[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando  in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– C.M. MARTINI (card.), Incontro al Signore risorto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

PASQUA ASCENSIONE DEL SIGNORE (B)