“Dio e Famiglia”, di Lorenzo Bertocchi

L’Incontro mondiale delle Famiglie a Milano (30 maggio-3 giugno 1012) ha riportato alla ribalta dell’attualità il ruolo fondamentale che giocano le famiglie nella società italiana.

Per pochi giorni però, oggi sui media nazionali (giornali e televisioni) della famiglia non si parla più, esclusi naturalmente quelli cattolici, per i quali la famiglia è sempre di attualità e non da oggi. E’ strano questo fatto. Tutti riconoscono che la crisi economica in cui è precipitata l’Italia (e l’Europa comunitaria) è in buona parte dovuta al crollo demografico dei nostri paesi, noi italiani diminuiamo di più di 100.000 unità l’anno. Mancando i giovani, la nostra è una società di anziani, di vecchi, di pensionati, che non può crescere perchè in ogni settore della vita nazionale prevalgono la conservazione e il pessimismo. Non ci vuole un genio per capire che senza figli il futuro di un popolo volge al peggio.

Eppure, si parla solo e sempre di finanze, Borse, Spread, Bot, mai o quasi mai di problemi della famiglia, matrimoni, divorzi, separazioni, aborti. Nei giornali si trovano più notizie sugli assurdi “matrimoni gay” dopo la legge di Zapatero (in Spagna sono stati 67!) che non delle “famiglie con molti figli” che riescono a tirare avanti con la solidarietà popolare anche in questa disastrosa situazione in cui tutti ci troviamo. Si veda il sito: www.famiglienumerose.org.

Ecco un volumetto contro corrente: Lorenzo Bertocchi, Dio e Famiglia (Fede e Cultura, Verona 2012, pp. 126).

Poche pagine ma incisive, a partire dalla Prefazione di mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro, dove si legge: “Nella società di oggi non c’è più posto per la Famiglia, come non c’è più posto per la Chiesa.

Perché?… La famiglia rende presente un mondo che la mentalità di oggi non riesce più a sopportare. Nel mondo d’oggi domina la cultura della morte… che vuol dire cultura di una vita senza senso, dove l’uomo non ha ragioni per vivere, non è aiutato a scoprire la sua dignità… Perché la famiglia e la Chiesa mettono in crisi la società? Perché la nostra è una società di individui, ciascuno dei quali ha la convinzione di essere il centro del cosmo e della storia… La sua identità si realizza quanto più possiede. E tanto più possiede quanto più realizza il grande istinto che sostiene l’individuo in questa situazione sociale: l’istinto al suo benessere”.

Nelle due parti del libro, Lorenzo Bertocchi (classe 1973, sposato e padre di famiglia) dimostra quanto mons. Negri afferma nella prefazione.

Nella prima, Analisi di una dissoluzione, esamina come la famiglia tradizionale italiana sia giunta, per vari gradi , ad essere quasi un corpo estraneo nella società d’oggi. L’epicentro di questa lotta culturale e legislativa contro la famiglia, è la “rivoluzione sessuale” del Sessantotto e cita gli autori (erano i “profeti” di allora) i quali sostenevano che “la famiglia è quel sistema repressivo che più di ogni altro costringe la libertà sessuale della persona”; e ancora, “attraverso l’assoluta, illimitata libertà sessuale, l’uomo si libererà dalle nevrosi e diventerà pienamente capace di lavoro e di iniziativa”. E’ successo esattamente il contrario, ma nessuno oggi chiede scusa per i danni che ha causato alla società italiana.

Nella seconda parte, In casa di amici, Bertocchi prende in esame le sei coppie di coniugi che la Chiesa considera esemplari per come nasce e si sviluppa una famiglia cristiana. Le due coppie di Beati, i coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi (beatificati nel 2001), Luigi e Zelia Martin, genitori di Santa Teresa di Lisieux (beatificati nel 2008); e i Servi di Dio Sergio e Domenica Bernardini, Settimio e Licia Manelli, Rosetta e Giovanni Gheddo, Ulisse e Lelia Amendolagine.

Queste sono, nei duemila anni di storia della Chiesa, le prime sei coppie in cammino verso la santità riconosciuta. L’Autore racconta brevemente gli aspetti fondamentali della loro vita: l’incontro e il fidanzamento, il matrimonio e il comune programma di vita, la preghiera in famiglia e la santificazione della festa, il lavoro e i figli: come si accolgono e come si educano trasmettendo la fede nella vita quotidiana. Infine, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa dei loro figli, la loro santa e serena morte. Questa carrellata su come le sei coppie di coniugi hanno vissuto i momenti importanti nella vita di ogni matrimonio dimostra come la famiglia cristiana, che vive fedelmente il Vangelo, è portatrice di unità, di pace, di speranza, di gioia, di impegno nel lavoro e nella società. Nulla è così profondamente umano come la morale evangelica.

ROMA, venerdì, 20 luglio 2012 (ZENIT.org)

Fiuggi family festival 2012… “il bello della famiglia”

25-29 Luglio 2012

Di Famiglia non si può parlare solo in un posto e una volta all’anno. Bisogna essere presenti con eventi Family Festival in tutta Italia e durante tutto l’anno per unire le famiglie in modo continuativo sia nel tempo che nello spazio”.

La presidente della tradizionale kermesse, Antonella Bevere Astrei, nell’annunciare sostanziali anticipazioni della prossima quinta edizione dell’FFF, spiega che

“dal 2012 le attività del Festival si moltiplicheranno in eventi satelliti nei luoghi dove verremo chiamati a realizzare momenti di festa e di incontro per famiglie all’insegna dell’arte audiovisiva. Stiamo vagliando, con soddisfazione, molte richieste che ci gratificano e già sono in corso trattative con diversi comuni e provincie, tra cui anche l Umbria, regione da sempre particolarmente attiva nell’entertainment culturale di livello. Già in programma invece un evento collaterale che si svolgerà a Bergamo”.

L’edizione 2012 del Film Family Fest ha già anche un titolo: Il Bello della Famiglia.

La quinta edizione della tradizionale kermesse a target family, in programma dal 25 al 29 luglio nella suggestiva cornice del Borgo Medievale di Fiuggi alta, si arricchisce quest’anno di una seconda location distaccata dal Family Village e particolarmente dedicata all’intrattenimento dei giovani.

Oltre all’ormai consolidato successo del laboratorio con i nuovi videogames, nell’area prescelta – situata al centro della cittadina, a pochi passi dalle storiche Terme Bonifacio XVIII – anche una discoteca all’aperto, la possibilità di un giro in mongolfiera, un corso di guida sportiva, artisti di strada, musica dal vivo, giochi sportivi, strutture gonfiabili per i più piccoli.“Quest’anno ci siamo rivolti, per la prima volta in modo specifico, ad una fascia adolescenziale –spiega Angelo Astrei, ventenne, coordinatore del nuovo settore comunicazione del FFF, rigorosamente composto da giovani – ma la vera novità è l’apertura al mondo dei giovani 2.0 sul web e nell’interattività.Abbiamo letteralmente rivoluzionato il sito del festival e abbiamo lanciato la nostra applicazione per sistemi iOs (iPhone – iPod e iPad) che fornisce news, informazioni, recensioni e un simpaticissimo quiz con 150 domande su Film Family. Oltre, ovviamente, al presidio dei social network”.

Tra le anteprime in programma il quarto capitolo della serie d’animazione L’Era Glaciale dal sottotitolo Continenti alla deriva, le nuove avventure degli eroi ‘sottozero’, prodotte da Blue Sky Studios, approderanno nelle sale italiane il prossimo 28 settembre distribuite dalla 20th Century Fox. Tra i film in concorso 33 Postcards di Pauline Chan, con Guy Pearce e Zhu Lin. Proiezione speciale di The Amazing Spiderman, in uscita il 4 luglio nelle sale italiane; e The Avengers, campione d’incassi nel 2012, film distribuito dalla Walt Disney  e Paramount, basato sulle performances dei supereroi dei fumetti Marvel Comics. Inprogramma anche la proiezione di Young Europe alla presenza di Paola Saluzzi e altri attori del film. La telegiornalista Elsa Di Gati è la madrina di quest’anno. Riconfermata la direzione artistica di Mussi Bollini. Il regista Fernando Muraca è il nuovo presidente della giuria selezionatrice dei film in concorso, incarico ricoperto negli anni passati da Pupi Avati, Alessandro D’Alatri, Luca Bernabei, Gennaro Nunziante. Il tema di quest’anno è Il Bello della Famiglia perché, come spiega la presidente del festival, Antonella Bevere Astrei“abbiamo voluto esprimere la positività e l’importanza delle radici che ognuno di noi porta in sé”.

Tra le altre novità, le emittenti televisive nazionali con rilevante programmazione per i bambini, quali ad esempio RaiDeakidsTurner, avranno un’intera giornata dedicata a ciascuna di loro. Tra le case produttrici di videogiochi, anche la Nintendo e la Microsoft che riconfermano  quest’anno la loro collaborazione con il festival. Tra gli ospiti l’attrice Ewa Spadlo (La banda dei Babbi Natale), in giuria con il marito e registaStefano Alleva; l’attore e conduttore tv Flavio InsinnaNicolò Bongiorno, figlio del grande Mike; e la giovane celebrità di AmiciMatteo Macchioni, che sarà la star della giornata di DeaKids. Il canale tematico Rai YoYo sarà presente nei giorni del festival con Gipo Scribantino, personaggio del Fantabosco, che accompagnato da alcuni bambini realizzerà due puntate de Le Storie di Gipo. La Turner con il suo Cartoonito, il canale prescolare free sul digitale terrestre nato dalla joint venture tra Turner e Rti (Mediaset), presenterà ai bambini e alle loro famiglie Lazy Town, show che parla ai più piccini di movimento e di alimentazione sana. Tv2000 sarà presente invece con un proprio stand e iniziative per i più piccoli per tutta la durata del festival. La kermesse – realizzata in collaborazione con il Forum delle Associazioni Familiari e gemellata anche quest’anno con Cartoons on the Bay di Rai Trade diretta da Roberto Genovesi – si caratterizza sempre più come un’interessante vacanza-evento per le famiglie, tra laboratori, convegni e occasioni ludico/sportive, oltre alla ricca proposta cinematografica. Il FFF sarà presente con una serie di iniziative collaterali in altre località italiane come Film Family Fest: a Riva del Garda, ad esempio, il Festival della Famiglia in programma ad ottobre proietterà il film vincitore quest’anno a Fiuggi; e, a Bergamo, sarà parte integrante del format culturale della manifestazione in corso della Provincia di Bergamo sui temi dell’Expo Milano 2015, Bergamo verso l’Expo, organizzata dal Consorzio Wylford. E, in collaborazione con il Forum delle Associazioni Familiari del Lazio, i ragazzi dell’FFF (la cui formazione è sostenuta da Fondazione Roma-terzo Settore) saranno presenti all’evento ‘Lungo il Tevere Roma’ in programma all’Isola Tiberina, con i loro spot e una performance teatrale, in programma il 23 luglio, in favore della raccolta fondi per il Progetto VITA – Gianni Astrei.

L’evento, unico nel suo genere e concepito come una vacanza familiare all’insegna del grande cinema, ingloba in sé, oltre al prestigioso concorso cinematografico internazionale, proiezioni a target family tra cui retrospettive e anteprime, momenti di approfondimento culturale, convegni e attività ludico – ricreative che hanno coinvolto bambini, adulti e ragazzi.

Le caratteristiche che rendono unico il Fiuggi Family Festival  – nato nel 2008 da un’idea del compianto Gianni Astrei – sono la valorizzazione di un tipo di prodotto audio – visivo positivo e la sua presentazione alle famiglie nonché la stessa possibilità data a mamma,papà e figli di trascorrere dei giorni stando insieme.

Inoltre, la particolarità dei programmi proposti rende il Festival un evento sempre più atteso non solo nel mondo delle associazioni e delle famiglie ma anche in quello degli addetti ai lavori, degli appassionati del genere e dei giovani. 
Queste caratteristiche sono state evidenti ancor più nell’ edizione di quest’anno, che vede partecipare, tra protagonisti e spettatori, numerosi personaggi di spicco nel mondo della cultura e dello spettacolo e che ha inoltre dedicato ai giovani gran parte delle attività.

Giunto anch’esso alla sua quinta edizione, il concorso Fiuggi Family Festival è volto alla valorizzazione e premiazione di prodotti cinematografici per la famiglia. Unico nel suo genere, intende quindi promuovere le pellicole, comprese quelle di difficile distribuzione, che rispondano alle esigenze di un pubblico familiare e/o che narrino in modo realistico situazioni di particolare interesse vissute dalle famiglie stesse.

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XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: Geremia 23,1-6

Dice il Signore: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore. Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia».

I nostri versetti stanno tra due requisitorie pronunziate da Dio contro i governanti degeneri, che hanno causato la punizione terribile dell’esilio, e contro i falsi Profeti (cc. 21-24). In essi possiamo distinguere tre diversi oracoli: il primo (vv. 1-2) conclude la requisitoria contro i re e le classi dirigenti, che hanno dissipato il patrimonio di Dio, cioè il suo  popolo; secondo (vv. 3-4) annunzia la restaurazione del popolo di Dio mediante il raduno del resto che sopravviverà alla dispersione tra le genti; il terzo (vv. 5-6) annunzia, col formulario tipico delle profezie messianiche la nascite di un germoglio giusto, cioè di un re che realizzerà un vasto piano di salvezza per Giuda e per Israele. La distinzione dei tre oracoli viene scandita dalla ripetizione dell’espressione «oracolo del Signore»: essa ricorre due volte nel primo oracolo (dopo la frase sintetica iniziale e come sua conclusione), conclude il secondo oracolo e apre il terzo.

Il v. 1 contiene già, in forma sintetica il primo oracolo, espresso in terza persona, che è una minaccia contro i pastori, cioè contro i capi responsabili della nazione.

Il v. 2 contiene lo stesso oracolo in forma diretta, cioè riportando le parole con cui Dio si rivolge ai pastori, che hanno tenuto conto (la versione della CEI traduce: non ve ne siete preoccupati) del popolo che è suo patrimonio, comportandosi come dei dissipatori di ricchezza. L’oracolo si conclude con una minaccia espressa con un gioco di parole: Dio si impegna a tener conto (la versione della CEI dice: io mi occuperò di voi) del loro comportamento malvagio.

Nel v. 3 ha inizio il secondo oracolo, che è un oracolo di salvezza. Dio stesso si impegna a far ritornare  dalla dispersione dell’esilio un resto, cioè una porzione del popolo che egli si era scelto, dimostrando così la sua fedeltà alle promesse.

Il v. 4 conclude il secondo oracolo. Dopo che Dio stesso avrà ricostituito il suo popolo, susciterà altri pastori, i quali finalmente svolgeranno bene il compito che a loro spetterà: pascolare il gregge.

I vv. 5-6 contengono il terzo oracolo, anch’esso oracolo di salvezza. Esso viene introdotto con solennità, al modo dei grandi messaggi profetici. Tenendo sullo sfondo la profezia di Natan di 2Sam 7, in espressa antitesi con i re di Giuda distintisi per il loro comportamento contrario alla giustizia (22,3.13.15), il germoglio di David, cioè il re che Dio farà germogliare sul ceppo davidico, si distinguerà per la sua giustizia, con lui Giuda e Israele, i due rami del popolo di Dio, saranno stabiliti nella salvezza e nella sicurezza. Essendo la giustizia il fulcro del suo governo e rivelandosi egli come dono di Dio, il suo nome sarà Signore-nostra giustizia.

Seconda lettura: Efeseni 2,13-18

Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.

Tema centrale della lettera agli Efesini è il misterioso piano salvifico che Dio ha concepito sin dall’eternità ed ha realizzato mediante il suo Figlio Gesù Cristo, che si è sacrificato sulla croce.

Il nostro brano descrive un momento importantissimo dell’attuazione del piano della salvezza, quello della riunificazione del popolo dei Giudei con i popoli pagani, finora vissuti in profondo contrasto tra di loro.

Nel v. 13, lo scrittore sacro si ispira a Is 57,19 (che annunzia la futura pacificazione tra i rimpatriati e gli Ebrei rimasti nella diaspora: «…Pace ai lontani e ai vicini…»), per descrivere quanto è oggi accaduto con la riunione di Ebrei e pagani in una sola comunità di credenti, tutti salvati dal sangue redentore di Gesù Cristo.

Nel vv. 14-16, con slancio lirico, viene celebrata la pace, quale frutto multiforme dell’opera redentrice di Gesù Cristo: è stata abbattuta l’inimicizia che opponeva radicalmente il popolo eletto ai popoli pagani (v. 14); hanno perduto il loro valore le prescrizioni e i precetti della legge mosaica, che facevano da muro invalicabile tra il primo e i secondi (v. 15); l’uno e gli altri si sono trovati uniti nell’abbraccio salvifico di Dio, che li ha accolti entrambi come figli.

Il v. 17 utilizza ancora più integralmente del v. 13 il testo di Is 57,19, che si rivela così come la fonte ispiratrice di tutto il nostro brano, che però spazia in un orizzonte assai più ampio.

Nel v. 18, alla menzione del Padre (al quale possiamo presentarci come figli) e a quella del Figlio Gesù Cristo (che ha fatto da mediatore: «per mezzo di lui») si aggiunge quella dello Spirito: in tal modo il nostro brano celebrativo si conclude quasi con una dossologia trinitaria.

Vangelo: Marco 6,30-34

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Esegesi

Il nostro brano evangelico si può qualificare come un brano di transizione; esso infatti si ricollega direttamente al racconto dell’invio in missione dei Dodici dei vv. 7-13 dello stesso capitolo 6 e non ha alcun legame con il racconto del martirio di Giovanni il Battista, posto prima del nostro brano. Fa invece da introduzione al successivo miracolo della moltiplicazione dei pani ed è ricco di spunti per la riflessione.

v. 30: «Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato». Leggendo questo brano in stretta continuità con 6,7-13, il vocabolo apostoli conserva ancora fortemente il senso etimologico di inviato, messaggero. Il riferimento a Gesù di quanto avevano fatto e insegnato sottolinea il concetto che l’attività iniziata dai Dodici e quella dei loro continuatori, nella Chiesa, non potrà mai interrompere il contatto stretto con Gesù e la sua parola.

v. 31: «Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare». Lo stretto rapporto che gli annunziatori del vangelo debbono conservare con Gesù, qui è ulteriormente sottolineato: l’invito ad andare in un luogo solitario richiama ciò che (secondo Mc 1,35) fece lo stesso per il termine della sua giornata missionaria di Cafarnao; anche l’accenno al fatto che non avevano neanche il tempo di mangiare assimila gli apostoli allo stesso Gesù, come è detto in 3,20.

vv. 32-33: «Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero». Questi due versetti hanno soltanto un valore narrativo generico. Non è data alcuna indicazione circa il luogo dell’approdo. Non ci aiuta neppure a capire come abbia potuto fare la folla a precedere, a piedi, il cammino della barca. Forse si vuole, ancora una volta, sottolineare l’assoluto bisogno che l’umanità intera ha di Gesù.

v. 34: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose». In questo versetto si affollano tre diversi suggerimenti: a) prima di tutto c’è il sentimento della compassione, che nell’Antico Testamento caratterizza l’atteggiamento di Dio nei confronti del suo popolo; b) c’è poi il richiamo della metafora del gregge senza pastore, che serve a qualificare lo stesso Gesù come un pastore e la folla dei suoi seguaci come il nuovo popolo di Dio; c) c’è infine l’accenno all’insegnamento impartito da Gesù alla folla, che per l’evangelista Marco viene al primo posto, anche prima del pane che, al termine della giornata, sarà moltiplicato.

Possiamo anche notare che, in questo brano, sembra esserci più di un richiamo implicito al contenuto del Salmo 23 (22): «Il Signore è il mio pastore…».

Meditazione

La liturgia di questa domenica, nella lectio continua di Marco, ci propone pochi versetti del cap. 6, ma di una intensità sorprendente, quasi una sorta di rivelazione che cattura il nostro sguardo interiore per fissarlo sul volto stesso di Gesù e da esso ricevere quella luce che ci permette di comprendere il significato profondo del nostro essere suoi discepoli. E i tratti del volto di Gesù che emergono in questa pericope sono essenzialmente quelli che ci trasmettono la compassione di Dio per il suo popolo, quella misericordia senza limiti che sgorga dal cuore stesso di Dio e che lo accende di sdegno di fronte ad ogni abuso nei confronti del popolo che si è scelto. Attraverso la forza profetica della parola di Geremia, Dio aveva condannato l’arroganza delle sedicenti guide del popolo le quali, invece di «pascere il suo popolo», lo avevano disperso: «Radunerò io stesso il resto delle mie pecore… e le farò ritornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno» (Ger 23,3). Il pastore che agisce secondo il cuore di Dio, quel «germoglio giusto» che «eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra», suscitato dalla casa di Davide e preannunciato nello stesso oracolo del profeta (cfr. Ger 23,5-6), trova compimento in Gesù, il pastore bello (cfr. Gv 10). E proprio i versetti di Marco, riportati nella liturgia, ce lo rivelano come il vero pastore che dona al popolo smarrito e affamato la parola e il pane, ma che, soprattutto al vedere quella grande folla che lo stava inseguendo «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (v. 34).

La pericope di Marco colloca significativamente la persona di Gesù al centro della scena, o meglio, al centro di due movimenti che vedono Gesù in relazione con i discepoli e con la folla.

Il primo movimento vede i discepoli ritornare da Gesù, dopo essere stati inviati in missione (cfr. Mc 6,7-13). La relazione tra Gesù e i discepoli in Marco è fortemente accentuata: Gesù stesso, ci dice Marco, «chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui» e «ne costituì Dodici… perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni» (3,13-15). Ora, dopo aver faticato nell’annuncio, i discepoli «si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato» (v. 6,30). Il ‘riunirsi attorno a Gesù’ (in greco è usata la particella pros che indica lo stare vicino a e davanti a una persona, particella usata anche in Mc 3,13) si trasforma, per i discepoli, in un ritorno alla motivazione radicale della loro chiamata, alle fonti della loro missione, quasi un chiarire a se stessi la propria identità di discepoli e inviati (apostoli) a partire da un confronto e da una comunione con Gesù. Ma questa rinnovata consapevolezza è possibile solo se il discepolo impara da Gesù stesso un ritmo interiore che permette di staccarsi dalla fatica e dagli impegni della missione per trovare un autentico riposo. È questo il senso dell’invito di Gesù: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto e riposatevi un po’» (v. 31). Il discepolo deve fare come Gesù: stare in mezzo alle folle, ma anche sapersi staccare e ritirarsi in solitudine immergendosi nella preghiera (è il vero riposo di Gesù, il riposare pros tou theou come Marco ci testimonia in 1,35; 6,46; 9,2 e infine, prima della passione, in 14,32ss.).

Dunque, il discepolo che fatica per il Regno deve comprendere che tutto ciò che fa, tutto ciò che dice, ha una radice profonda, una unica motivazione che può sostenerlo passo a passo nel suo cammino: quell’amore per Gesù che diventa il riposo nella sua fatica quotidiana e che gli permette una libertà interiore che gli da pace e gioia. Gesù ha scelto quel gruppo di discepoli «perché stessero con lui»; ora vuole che essi imparino a riposare con lui, a ritornare alla fonte della loro scelta, ad immergersi in quell’ascolto che li rende veramente discepoli, attenti alla parola del loro Maestro, capaci di contemplare il suo volto, gioiosi di stare con lui.

Ma sorprendentemente un secondo movimento sembra interrompere questo risposo: Gesù ritorna a quella folla che sembra assorbire totalmente il tempo e le forze di questo piccolo gruppo di missionari: «erano molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare» (v. 31). E inaspettatamente di fronte a questa folla che lo insegue, Gesù non si sottrae; anzi,«ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (v. 34). Gesù «si commosse»: nello sguardo di Gesù si riflette la compassione di Dio, quelle ‘viscere di misericordia’ che custodiscono il nome stesso di Dio e ne manifestano al sua infinita gratuità e tenerezza. E ciò che commuove Gesù non è tanto il vedere una folla affamata oppure segnata da sofferenza (questo è presente nei racconti paralleli di Mt 14,14 e di Lc 10,1), ma il vedere lo smarrimento: gente abbandonata a se stessa, senza punti di riferimento, affaticata, in cerca di qualcosa che dia senso alla vita (è l’immagine della folla che ritorna nel testo di Geremia e in 1Re 22,17). Di fronte a questa folla Gesù «si mise ad insegnar loro molte cose» (v. 34). Nel racconto di Matteo e di Luca, Gesù guarisce e sfama; in Marco invece insegna. La sua compassione si rivela nel donare la Parola, quella parola che solo lui insegna con autorità (cfr. l’insistenza su questo aspetto in Mc 1). E ciò che realmente raduna dalla dispersione quel gregge che erra nel deserto è la Parola di Dio: come attraverso Mosè, Dio aveva nutrito e istruito le folle nel deserto, così è in Gesù che viene donato ciò che nutre la vita dell’uomo, quella Parola «che esce dalla bocca di Dio» (cfr. Dt 8,3).

Due movimenti in profonda continuità: dai discepoli a Gesù e da Gesù alla folla. Ma non si può non rimanere colpiti dal contrasto tra questi due movimenti così come sono vissuti da Gesù: da una parte lui stesso invita i discepoli a stare con lui in un luogo appartato, ad una pausa riposante dopo una faticosa missione che li ha visti annunciatori del Regno in condizioni non sempre facili ed entusiasmanti; d’altra parte sembra abbandonarli e disinteressarsi di loro per immergersi nuovamente nelle folle che lo stanno cercando e inseguendo. E ci lascia, d’altronde, stupiti il modo libero, quasi spontaneo, con cui Gesù passa dalla solitudine alla folla e dalla folla ritorna alla solitudine della preghiera (infatti dopo aver sfamato le folle, Gesù si ritira sul monte a pregare). È un movimento che appare faticoso per noi: l’armonizzare due scelte apparentemente contraddittorie (stare in silenzio, in preghiera oppure stare in mezzo ai fratelli in un servizio) crea sempre in noi una rottura interiore e il passaggio da una scelta all’altra è sempre percepito come una sorta di tradimento di ciò che sentiamo fondamentale per la nostra vita. E allora potremmo domandarci: perché Gesù riesce a fare questo passaggio in modo così libero e pacificante? Che cosa deve imparare il discepolo da Gesù?

Tra le folle che lo inseguono e lo cercano e nella solitudine del monte, Gesù non abbandona mai quel luogo nel quale incessantemente ritrova se stesso e il senso della sua missione: non abbandona mai quella comunione con il Padre che è il pane della sua vita: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34. Cfr. anche Mc 14,36). Ecco il segreto di Gesù, ecco perché Gesù può passare dalla solitudine alle folle e dalle folle ritornare in una preghiera silenziosa senza rottura interiore, in una libertà pacificante: il suo cuore rimane sempre uno perché è sempre radicato nell’ascolto e nella ricerca della volontà del Padre.

Stando con Gesù, il discepolo deve proprio imparare da lui questo cammino interiore. Il discepolo deve comprendere che ciò che permette di superare questo scarto tra il desiderio di riposarsi e la fatica di essere immersi nella folla, tra la preghiera e il servizio, è la consapevolezza di esser stato chiamato per ‘stare con Gesù’. Ed è questo ‘stare’, questa intimità profonda che da pace e gioia alla propria vita, che crea una continuità nel faticoso cammino del discepolo, pur nella diversità degli impegni, spesso frammentari ed in apparente contraddizione tra di loro. Lo ‘stare con Gesù’ è il vero riposo a cui è chiamato il discepolo.

Preghiere e racconti

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Ognuno di noi è un originale fatto da Dio

C’ è una vecchia trazione giudeo-cristiana secondo la quale Dio manda ognuno di noi in questo mondo con un messaggio speciale da consegnare, con uno speciale atto d’amore da compiere. Il tuo messaggio e il tuo atto d’amore sono affidati soltanto a te, il mio è affidato soltanto a me. Se questo messaggio debba raggiungere solo poche persone o tutti gli abitanti di una città o il mondo intero dipende esclusivamente dalla scelta di Dio. L’unica cosa importante è essere convinti che ognuno di noi è adeguatamente equipaggiato: tu hai i doni giusti per consegnate il tuo messaggio ed io ho i doni appositamente scelti per consegnare il mio.

Un aspetto particolare della verità di Dio è stato messo nelle tue mani, e Dio ti ha chiesto di condividerlo con ognuno di noi, e lo stesso vale per me. Proprio perché tu sei unico, la tua verità è data soltanto a te e nessun altro può dire al mondo la tua verità, o compiere per gli altri il tuo atto d’amore. Solo tu hai tutti i requisiti per essere e fare ciò che devi essere e fare. Solo io ho tutto ciò che è necessario per portare a termine il compito per cui sono stato inviato in questo mondo.

Sarebbe inutile e anche sciocco confrontare me stesso con te. Ognuno di noi è unico, non esistono fotocopie o cloni di nessuno di noi. Un simile confronto significherebbe la morte dell’accettazione di sé. Guarda la tua mano: le dita non sono di uguale lunghezza. Se lo fossero, tu non potresti di fatto afferrare una mazza da baseball o lavorare ai ferri. Allo stesso modo, alcuni sono alti e altri bassi, alcuni hanno un talento e altri un dono diverso. Tu sei fatto su misura per realizzare il tuo compito, e così tu non sei me e io non sono te. E questo è bene, è meraviglioso. Noi dobbiamo non solo accettare, ma anche esaltare le nostre differenze. Il mondo custodisce gelosamente gli originali, e ognuno di noi è un originale fatto da Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 23-24).

Rese grazie per insegnarci a rendere grazie

Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui. E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui. Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6). […] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi. Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr. Lc 24,44-45). I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20). […] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie. Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale. […] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti. «Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr. Mc 6,43). Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere. Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale. Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.

(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp. 195-198)

La casa della Parola

Nella sua Parola è Dio stesso a raggiungere e trasformare il cuore di chi crede: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di di­visione dell’anima e dello spirito, fino alle giun­ture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4,12). Affidiamoci, al­lora, alla Parola: essa è fedele in eterno, come il Dio che la dice e la abita. Perciò, chi accoglie con fede la Parola, non sarà mai solo: in vita, come in morte, entrerà attraverso di essa nel cuore di Dio: “Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio” (San Gregorio Magno).

Alla Parola del Signore corrisponde veramente chi accetta di entrare in quell’ascolto accoglien­te che è l’obbedienza della fede. Il Dio, che si comunica al nostro cuore, ci chiama ad offrirgli non qualcosa di nostro, ma noi stessi. Questo ascolto accogliente rende liberi: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,31-32).

Per renderci capaci di accogliere fedelmente la Parola di Dio, il Signore Gesù ha voluto lasciarci – insieme con il dono dello Spirito – anche il do­no della Chiesa, fondata sugli apostoli. Essi hanno accolto la parola di salvezza e l’hanno tramandata ai loro successori come un gioiello prezioso, custodito nello scrigno sicuro del po­polo di Dio pellegrino nel tempo. La Chiesa è la casa della Parola, la comunità dell’interpreta­zione, garantita dalla guida dei pastori a cui Dio ha voluto affidare il suo gregge. La lettura fedele della Scrittura non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro.

(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 63-64).

Preghiera

Concedimi, Gesù benignissimo, la tua grazia, la quale sia con me e con me lavori e con me sino alla fine perseveri. Dammi di desiderare e volere solo quello che è a te più accetto e più caramente piace a te. Fa’ che la tua volontà sia la mia, e la mia volontà segua sempre la tua e concordi con essa a perfezione. Che io abbia un unico volere e non volere con te; e che possa volere o non volere se non ciò che tu vuoi o non vuoi.

Dammi di morire a tutte le cose che sono nel mondo, e per te d’essere sprezzato e ignorato in questa vita. Dammi sopra ogni cosa desiderata, di riposare in te e pacificare in te il mio cuore. Te, vera pace del cuore, solo riposo, fuor di te ogni cosa è dura e inquieta. In questa pace – cioè in te solo, sommo, eterno bene – dormirò e riposerò. Così sia.

(L’imitazione di Cristo, III, 15).

PER L’APPROFONDIMENTO PERSONALE:

XVI DOM TEMP ORD ANNO B

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

IRC: i testi dell’intesa tra CEI e MIUR

Ecco in allegato i testi della duplice Intesa – firmata giovedì 28 giugno a Roma dal Card. Angelo Bagnasco, per la Conferenza Episcopale Italiana, e dal Ministro Francesco Profumo, per il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – con cui viene ridefinito il profilo professionale dei futuri insegnanti di religione cattolica e vengono aggiornate le indicazioni per l’insegnamento nel II ciclo, adeguandole al nuovo ordinamento scolastico.

Ridefinire il profilo professionale dei futuri insegnanti di religione cattolica e aggiornare le indicazioni per l’insegnamento nel II ciclo, adeguandole al nuovo ordinamento scolastico: questo l’oggetto della duplice Intesa che è stata firmata giovedì 28 giugno alle ore 12.30 a Roma, presso la sede CEI di Circonvallazione Aurelia 50.

L’intesa, che aggiorna un precedente accordo del 1985, corona un lungo percorso di dialogo e collaborazione.

Intesa MIUR-CEI religione scuole pubbliche.pdf


Intesa MIUR-CEI Indicazioni secondo ciclo.pdf

 

da: www.chiesacattolica.it del 20/7/12

 

Le Indicazioni per l’Irc nel Sistema Educativo di Istruzione e Formazione

Anche quest’anno si è svolto il laboratorio riservato ai Direttori/Responsabili diocesani dell’Irc, nominati nell’arco dell’ultimo quinquennio. Mercoledì 13 giugno 2012, a Roma presso il “Centro Congressi” della CEI sito in via Aurelia 796, dalle ore 10,00 alle ore 17.00, sul tema “Le Indicazioni per l’Irc nel Sistema Educativo di Istruzione e Formazione”.

Oltre alla gestione quotidiana del lavoro d’ufficio, legata spesso a questioni di tipo istituzionale, ci si trova impegnati anche nella progettazione della proposta formativa al fine di offrire un’Irc sempre di qualità. Naturalmente, per far questo, bisogna puntare su insegnanti di religione cattolica davvero preparati, che possano essere una risorsa culturale non solo per la scuola, ma anche per la stessa diocesi. Questi insegnanti, per i contenuti che affrontano e per la modalità d’approccio alle domande di tipo religioso, sono oggi, nella scuola, espressione di quell’attenzione culturale della Chiesa che si vorrebbe maggiormente evidente.

Curare la formazione in servizio degli Idr significa, da una parte, cogliere le esigenze formative dei docenti e, dall’altra, progettare consci del nuovo assetto scolastico e delle indicazioni dell’Irc.Lo stile laboratoriale adottato negli ultimi incontri si è rivelato molto vantaggioso, di fatto ha consentito ai partecipanti non solo di confrontarsi su temi all’ordine del giorno in un ufficio/servizio diocesano, ma anche di esercitarsi a costruirne l’impegno secondo alcune coordinate di riferimento.

E’ possibile scaricare il programmal’esonero del MIUR.


Le Relazioni

Introduzione ai lavori , Mons. Vincenzo Annicchiarico 

1. Lo statuto epistemologico dell’Irc, Prof. Sergio Cicatelli                       

2. Lettura in verticale delle Indicazioni per l’Irc: progressivo approfondimento dei contenuti fondanti, Don Cesare Bissoli

3. Introduzione all’attività laboratoriale: “Progettare per competenze a partire dalle Indicazioni per l’Irc e dalle esigenze formative degli Idr”, Prof.ssa Rita Minello

Nel terzo millennio una teologia militante al servizio della carità

La trasformazione del pianeta in “villaggio globale”, accelerata dall’esperienza della realtà virtuale consentita dall’universo multimediale e dal “web”, incide anche sulla sfera religiosa e spirituale.

Fenomeni come il New Age o Era dell’Acquario, dall’impatto vastissimo soprattutto nella cultura nord- e sud-americana sembrano rispondere al bisogno di rassicurazione prodotto dall’accelerazione dei cambiamenti attraverso una sorta di “gnosi” per il popolo, in cui le sub-culture prodotte dalla dipendenza mediatica trovano garanzie psicologiche e consolazioni a buon mercato, convenienti alle finalità delle grandi agenzie di consenso economico e politico del pianeta.

Ecco perché diventa urgente individuare come il cristianesimo – nella varietà dei contesti e delle sue tradizioni confessionali e specialmente nella pienezza della sua espressione cattolica – debba contribuire a costruire in rapporto ad esse un’umanità più giusta e felice, più unita e conforme al progetto divino di salvezza.

Tre ambiti di impegno si lasciano riconoscere come ineludibili per tutte le Chiese e per il loro cammino comune: la risposta da dare al nuovo bisogno di spiritualità, l’urgenza emergente della cattolicità e l’impegno al servizio della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato.

Si può dire che la riflessione della fede del terzo millennio si giocherà intorno alla martyrìa allakoinonìa e alla diakonìa, vissute dai cristiani. La via della martyrìa corrisponde a una ritrovata esigenza di spiritualità emersa dalla parabola dell’epoca moderna: c’è bisogno di una teologia più teologica, più collegata al vissuto spirituale.

La modernità aveva separato, se non addirittura contrapposto, il momento razionale e il momento esperienziale della vita, producendo quel divorzio fra riflessione e spiritualità, che aveva reso anche la teologia piuttosto arida e intellettualistica e la spiritualità piuttosto sentimentale e intimistica.

L’epoca post-moderna spinge a saldare nuovamente questi due ambiti: l’alternativa della fede all’astrattezza dell’ideologia sta nella possibilità di sperimentare un rapporto personale con la Verità, nutrito di ascolto e dialogo con il Dio vivo. La Verità non è qualcosa che si possiede, ma Qualcuno dal quale lasciarsi possedere.

Secondo la critica di moda negli anni dell’ideologia rampante, la dimensione contemplativa della vita sembra offrirsi come riserva di integralità umana e di autentica socialità. Si può quindi supporre che il futuro del cristianesimo o sarà più spirituale e mistico, e ricco di esperienze del Mistero divino, o potrà ben poco contribuire alla crisi e al cambiamento in atto nel mondo. La ricerca di un nuovo consenso intorno alle evidenze etiche domanda ai cristiani una risposta a partire dalla testimonianza specifica della loro fede nel Dio di Gesù Cristo, anche per evitare il rischio non indifferente di “riduzione al minimo comun denominatore”, che sembra emergere in alcuni approcci interreligiosi alla questione etica.

Accanto alla via della martyrìa, quella della koinonìa corrisponde alla nostalgia di unità che si affaccia nella “globalizzazione” del pianeta. In particolare, in Europa – culla delle divisioni fra i cristiani – la disgregazione seguita al crollo del muro di Berlino e l’emergere violento di regionalismi e nazionalismi sfidano le Chiese a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra loro e al servizio dei loro popoli.

Sul piano teologico è significativo che la riflessione ecumenica, dopo aver dedicato una privilegiata attenzione alle forme sacramentali, si concentri sul tema della koinonìa, che esprime non solo un’esigenza di ripensamento ecclesiologico riguardo alla struttura e alla vita interna delle Chiese, ma anche un’attenzione alla sfida che il bisogno di unità emergente dalle nuove divisioni pone alle comunità cristiane.

Emerge una nuova, diffusa attenzione alla “cattolicità”, intesa sia secondo il suo significato di universalismo geografico, reso più che mai attuale proprio dai processi di “globalizzazione” del pianeta, sia secondo il senso di pienezza e totalità, che rimanda all’integralità della fede e della attualizzazione della memoria del Cristo.

Non sorprende allora che in ambito ecumenico si dedichi nuova attenzione all’unità universale nella Chiesa. Un contributo notevole alla riscoperta della cattolicità, come esigenza e condizione della missione cristiana, viene da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: il loro pontificato, caratterizzato da un’itineranza apostolica, ha evidenziato la ricchezza della “regionalizzazione” della Chiesa e ha ribadito le esigenze dell’unità dottrinale e pastorale sul piano universale.

La rilevanza di quest’azione è stata palese in alcuni cambiamenti storico-politici, come quello della crisi del “socialismo reale”, ma va considerata soprattutto nella sua specificità spirituale di riproposizione del Vangelo come messaggio di vita e salvezza per le singole situazioni culturali e per la crescita nell’unità e nella pace della famiglia umana. La prima decade del Terzo Millennio indica questa direzione proponendola come un itinerario di conversione e rinnovamento per tutti i credenti, chiamati a far memoria dei doni di Dio, ma anche a riconoscere le proprie colpe, personali e collettive, e a ripensare la propria identità e missione di fronte alle sfide del nuovo millennio cristiano, specialmente in chiave ecumenica e nell’ottica del dialogo interreligioso. Una teologia ecclesialmente responsabile e aperta alle esigenze della cattolicità sembra più che mai necessaria.

Infine, la testimonianza evangelica della carità come diakonìa, nell’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato, appare come il terzo grande campo di azione per il cristianesimo degli inizi del Terzo Millennio in tutte le sue espressioni confessionali: le sfide della giustizia sociale sono oggi interconnesse con i rapporti internazionali di dipendenza e con la questione ecologica.
Lo stretto intreccio appare con grande chiarezza quando si considerino i processi in atto nella “globalizzazione”, superando visuali regionalistiche, a volte troppo chiuse: il cristianesimo, religione universale diffusa nei contesti storici e culturali più diversi, appare qui soggetto privilegiato per tener desta una coscienza critica attenta a difendere la qualità della vita per tutti e capace di farsi voce specialmente di chi non ha voce e fronteggiare, con un impatto morale e spirituale di grande portata, le logiche esclusive ed egoistiche delle grandi agenzie mondiali di potere economico e politico.

Di fronte alla crisi mondiale e all’avidità da cui essa è stata generata la testimonianza del primato della carità è una sfida e una promessa. I credenti devono contare solo sulla vitalità della loro fede e l’operosità evangelica: tuttavia, il patrimonio spirituale che si esprime nella vastissima rete di opere di volontariato e di solidarietà che la Chiesa ha espresso con creatività, anche nel nostro tempo di mutamenti rapidi e spesso drammatici, costituisce al tempo stesso un contributo e una proposta all’umanità intera per l’edificazione di un “villaggio globale” che sia più a misura umana.

È significativo che la Chiesa sia intervenuta in termini inequivoci con l’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritatesull’attuale forma in cui si presenta la questione sociale. I cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni del secolo richiedono però a tutte le Chiese di far propria la denuncia del sistema di dipendenze che regge i rapporti specialmente fra il Nord e il Sud del mondo. A tutti è domandato di contribuire a individuare una via economico-politica che superi le rigidità del collettivismo e dei suoi fallimenti storici, e gli egoismi miopi di un capitalismo assolutista e accentratore. Una teologia “militante” nel servizio della carità e della ricerca di una più grande giustizia appare qui come compito e sfida ineludibile.

di Bruno Forte

da AVVENIRE 10/7/12

Matrimoni italiani in crisi… secondo l’Istat durano 15 anni!

Alcuni dati inquietanti dall’ISTAT sui matrimoni italiani sono segnalati dall’indagine ISTAT…

Nel 2010 le separazioni sono state 88.191 e i divorzi 54.160. Rispetto all’anno precedente le separazioni hanno registrato un incremento del 2,6% mentre i divorzi un decremento pari allo 0,5%.

L’età media alla separazione è di circa 45 anni per i mariti e di 42 per le mogli; in caso di divorzio raggiunge, rispettivamente, 47 e 44 anni. Questi valori sono in aumento – dice l’Istat – per effetto della posticipazione delle nozze verso età più mature e per l’aumento delle separazioni con almeno uno sposo ultrasessantenne.

La tipologia di procedimento maggiormente scelta dai coniugi è quella consensuale: nel 2010 si sono concluse in questo modo l’85,5% delle separazioni e il 72,4% dei divorzi.

La quota di separazioni giudiziali (14,5%) è più alta nel Mezzogiorno (21,5%) e nel caso in cui entrambi i coniugi abbiano un basso livello di istruzione (20,7%). Il 68,7% delle separazioni e il 58,5% dei divorzi hanno riguardato coppie con figli avuti durante il matrimonio.

L’89,8% delle separazioni di coppie con figli ha previsto l’affido condiviso, modalità ampiamente prevalente dopo l’introduzione della Legge 54/2006.


Se l’amore dura tre anni, parafrasando il romanzo di Beigbeder, dal quale è stato tratto un film, i matrimoni durano in media 15 anni. Le famiglie italiane sono quindi sempre più in crisi, i tassi di separazione e di divorzio totale mostrano per entrambi i fenomeni una continua crescita: se nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni erano 158 le separazioni e 80 i divorzi, nel 2010 si arriva a 307 separazioni e 182 divorzi. Lo rileva il report Istat “Separazioni e divorzi in Italia”. Ma anche se la coppia scoppia, secondo i dati emerge che la scelta, nell’85 dei casi è consensuale.

Nel 20,6% delle separazioni è previsto un assegno mensile per il coniuge (nel 98% dei casi corrisposto dal marito). Tale quota è più alta nelle Isole (24,9%) e nel Sud (24,1%), mentre nel Nord si assesta sul 17%. Gli importi medi, invece, sono più elevati al Nord (520,4 euro) che nel resto del Paese (447,4 euro). Nel 56,2% delle separazioni la casa è stata assegnata alla moglie, mentre appaiono quasi paritarie le quote di assegnazioni al marito (21,5%) e quelle che prevedono due abitazioni autonome e distinte, ma diverse da
quella coniugale (19,8%).

Incontro annuale tra UE e comunità religiose

Sostegno alle famiglie, solidarietà tra le generazioni, lotta alle sfide demografiche, questione-immigrazione, problema occupazionale, conciliazione tra lavoro e vita privata: sono molteplici gli argomenti affrontati durante l’incontro annuale tra istituzioni dell’Ue e comunità religiose presenti in Europa, svoltosi oggi presso la Commissione europea a Bruxelles.


L’appuntamento, inquadrato all’articolo 17 del Trattato di Lisbona, è definito come un dialogo regolare, aperto e trasparente, che intende far risuonare nelle sedi comunitarie la voce delle Chiese, in rappresentanza delle fedi religiose del continente e del loro impegno a livello pubblico, sul piano sociale, culturale, educativo, della solidarietà e della convivenza pacifica tra i popoli.

Istituzioni e Chiese. L’incontro di quest’anno aveva per tema “Solidarietà intergenerazionale: verso un quadro per la società di domani in Europa”, anche in relazione al 2012 che la stessa Ue ha dichiarato Anno dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni. José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha fatto gli onori di casa; il vertice è stato co-presieduto da Laszlo Surjan, per il Parlamento europeo, e da Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio Ue. Hanno partecipato oltre venti rappresentanti di comunità credenti, tra cristiani (cattolici, evangelici, ortodossi, anglicani), musulmani, esponenti della religione ebraica, indù e delle comunità bahá’í, provenienti da tutta Europa. Per la delegazione cattolica erano presenti: mons. André-Joseph Léonard, arcivescovo di Malines-Bruxelles; mons. Giovanni Ambrosio, vescovo di Piacenza-Bobbio (Italia), vice presidente della Comece, Commissione degli episcopati della Comunità europea; mons. Virgil Bercea, vescovo di Oradea Mare (Romania), anch’egli vice presidente della Comece; mons. Adolfo Gonzales Montes, vescovo di Almeria (Spagna). La delegazione cattolica arrivava particolarmente preparata all’incontro: infatti l’assemblea Comece della scorsa primavera si era concentrata esattamente su questi argomenti, affermando che il reciproco sostegno tra giovani, adulti e anziani “resta il fondamento dello sviluppo umano e delle nostre società”.

Per un futuro prospero. Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ha affermato al termine del confronto: “Nell’affrontare la crisi economica stiamo facendo il massimo per garantire il giusto equilibrio tra la solidarietà e il senso di responsabilità fra gli Stati membri. Dobbiamo però rivolgere un’attenzione perlomeno equivalente alla solidarietà e al senso di responsabilità tra giovani e anziani. Solo mantenendo la solidarietà fra i popoli e le generazioni al centro dei nostri interventi riusciremo a sormontare la crisi e a porre le basi di un futuro prospero”. Questo “è il collante che tiene unite le nostre comunità. E la posizione delle Chiese e delle comunità religiose permette loro di promuovere la coesione nelle nostre società”. Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, ha dichiarato: “Una generazione persa è una cosa che non possiamo permetterci né a livello socioeconomico né, soprattutto, a livello umano, così come non possiamo permetterci l’esclusione dei più anziani per minore produttività”. “Le Chiese, le sinagoghe, le moschee, i templi, così come le ong, scuole e associazioni ad essi collegate, sono luoghi di aggregazione a livello locale, che possono quindi dare un contributo importante al miglioramento della comprensione e della conoscenza reciproca fra le generazioni”.

La voce dei vescovi cattolici. Mons. André-Joseph Leonard ha affermato che, fra le diverse possibili opzioni (ricorso alle migrazioni, sostegno alle famiglie), per dare un futuro alla società europea “è da preferire l’aiuto alle famiglie, favorendone la stabilità, che è la sola opzione di lungo respiro per uscire dalla crisi”. Ciò implica “decisioni coraggiose in materia di politica fiscale, di aiuti ai nuclei numerosi e altre misure sociali per preservare l’equilibrio tra vita famigliare e lavoro”. In tale contesto, mons. Gianni Ambrosio ha ribadito “la necessità di proteggere la domenica come giorno di riposo settimanale comune in tutta Europa”. “Esso è di importanza fondamentale” per le relazioni tra le persone, per la vita sociale e spirituale di ogni persona, per la comunità locale. Mons. Adolfo Gonzales-Montes, facendo riferimento alla situazione nel suo Paese, la Spagna, ha chiesto “politiche solide e veramente efficaci per contrastare la disoccupazione giovanile” e ha indicato il ruolo-chiave che possono svolgere i fondi europei. Mons. Virgil Bercea, romeno, ha invece posto l’accento sul fatto che molte famiglie dell’est vivono situazioni difficili in quanto molte persone devono emigrare per poter lavorare, e i figli crescono in tal caso senza la vicinanza e il ruolo essenziale dei genitori. In tal senso ha invitato le istituzioni comunitarie “a mettere in opera iniziative che favoriscano lo sviluppo economico e il mercato del lavoro” nei Paesi dell’est.

da: SIR del 12/07/12

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno B

Prima lettura: Amos 7,12-15

In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».

Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».

Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere. Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena consapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.

Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.

vv. 12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa. Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.

Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi. Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svolge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese. Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa. Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vivere; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.

vv. 14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica. Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina. Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.

È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf. Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.

Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v. 14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini. Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame. Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.

Seconda lettura: Efesini 1,3-14

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.

In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo. In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto,  avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.

La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosiddette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.

Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera. È una benedizione, secondo la prassi liturgica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.

Il v. 3 – la formula di benedizione — è introduttivo. Il verbo benedire (euloghein) è ripetuto due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio). Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.

La prima parte – vv. 4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio:

1. l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv. 4-6a)

2. la grazia della redenzione (vv. 6b-7)

3. la conoscenza del piano salvifico (vv. 8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio. Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvezza, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia. «Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.

La seconda parte – vv. 11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi:

1. il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv. 11-12).

2. il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appropriazione della salvezza (v. 13).

3. il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti. Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v. 14).

È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifica di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.

Vangelo: Marco 6,7-13

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.  E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Esegesi

La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù. Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplicazione dei pani (cap. 6). Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.

Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v. 12 si limita a un generico invito alla conversione.

L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.

v. 7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco. Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf. i discepoli del Battista e Paolo). Il «potere sugli spiriti immondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorcismo (9,18).

vv. 8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi. Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.

Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fiducia in Dio. Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quotidiane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.

vv. 10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione. Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele. Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di accogliere il messaggio evangelico.

L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambiamento del cuore, della mentalità: una conversione. Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».

vv. 12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco. Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i malati, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.

Meditazione

Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci narra l’invio dei Dodici in missione. La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e intensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evangelizzazione. Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.

In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi. Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione. «E prese (lett. cominciò) a mandarli…» (v. 7). Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici. È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione saranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v. 30).

Quando chiama (al v. 7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr. 3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per. Così che la missione fa intrinsecamente parte della vocazione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione. Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio. E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale. Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15). Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…

Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due». Certamente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr. At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr. Dt 19,15). Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare. Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo. Per questo è importante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzitutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama. Due persone formano già una piccola comunità (cfr. Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco. Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12). E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…

Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come devono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un determinato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé. I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male. Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indispensabile. Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, comunque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore). In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.

Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’. Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quotidiana della vita. La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture. «Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.

Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza. «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero. » (v. 11). Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottolineato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione. Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio. Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato. Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.

Preghiere e racconti

Hanno annunciato

“Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza“. (At 4,29)

Hanno annunciato che un sapone fa primavera,

hanno proclamato che un tipo di benzina

t’assicura il coraggio e formidabile potenza.

Hanno gridato per le piazze e sui tetti

le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.

Ma hanno taciuto il Verbo

e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola:

la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.

Hanno annunciato che la pace

è fatta di tante uova di cioccolata,

e della tredicesima, e di molte banconote,

di frigoriferi colmi d’ogni bene,

e di appartamenti in città con bagni di maiolica.

Ma la violenza è esplosa per le strade

e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti

che celano nella coda mitra e bombe molotov.

O uomini e donne del nostro tempo,

noi manchiamo di vero annuncio,

perché manchiamo di conoscenza contemplativa.

Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio

perché abbiamo smarrito il silenzio,

anzi ne abbiamo paura.

E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti

a colpi di radioline e transistor.


Ma invano noi edifichiamo la città

se non è il Signore a costruirla con noi.

Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia

invano attendiamo la pace

da noi e dai nostri fratelli.

(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. «Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né  pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti. […] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).

 

Il mio sì

Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato. Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato. Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro. Io ho la mia missione. In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo. Egli non ha creato me inutilmente. Io farò del bene, farò il suo lavoro. Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.

(John Henry Newman).

Portatrici dell’amore di Cristo

Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.

Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche cooperatrici di Cristo, le portatrici del suo amore. Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo. Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace. Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.

(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed. San Paolo).

Una Chiesa missionaria

«Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si  apre al desiderio di condividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46). «La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

parola del Padre a te ci rivolgiamo.

Custodisci i nostri propositi,

ravviva il nostro servizio ecclesiale,

sorreggi le nostre fatiche,

guida i nostri passi

nella ricerca delle vie più adatte

per annunciare il tuo vangelo.

La nostra povertà è grande,

noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te:

incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.

Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo,

vivi e regni in noi nella tua Chiesa,

per tutti i secoli dei secoli. Amen.

(Paolo VI).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

XV DOM TEMP ORD ANNO B

Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia

 

Dopo la sessione tenutasi a Roma dal 26 marzo al 30 marzo, il Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia – organizzato dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia della CEI in collaborazione con il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia – dall’8 al 21 luglio si sposta in Valle d’Aosta, a La Thuile.

Come spiega il direttore dell’Ufficio nazionale, don Paolo Gentili, si offre così alle Chiese locali uno strumento formativo universitario, maggiormente fruibile a chi coltiva la necessità di una preparazione all’altezza delle nuove esigenze della pastorale matrimoniale e familiare.

L’accompagnamento dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia assicura anche, per quanto possibile, lo stile comunitario della convivenza durante i corsi, favorendo le relazioni interpersonali, il confronto con realtà vocazionali diverse e una intensa vita spirituale.

Il Master punta a una formazione accademica interdisciplinare in Scienze del Matrimonio e della Famiglia per sostenere quanti operano da esperti nella pastorale familiare, attraverso una preparazione specifica che li abilita a testimoniare e ad annunciare nelle comunità il “vangelo del matrimonio e della famiglia”.
In particolare, si propone di preparare formatori di formatori nel campo della pastorale familiare; sposi capaci di dare un contributo competente e significativo allo sviluppo della teologia del matrimonio e della famiglia; esperti in tematiche riguardanti la visione integrale della persona, il disegno di Dio sull’amore umano e il valore della vita; animatori che valorizzano l’apporto della teologia, della filosofia e delle scienze umane nell’ambito della cultura e della vita sociale a servizio della famiglia.