Giovani e Media: un incontro sui “nativi digitali”

“Le giovani generazioni sono quelle che posseggono le chiavi d’accesso più dinamiche alla società digitale. La rivoluzione nell’uso dei media da parte dei giovani ha assunto i caratteri della moltiplicazione e dell’integrazione degli strumenti di informazione e comunicazione”;

“queste trasformazioni investono i processi di apprendimento e di istruzione, e hanno importanti ripercussioni sui comportamenti che i più giovani adottano, consapevolmente o meno, nel contatto e nell’utilizzo, spesso intensivo, delle tecnologie digitali”.

Di “Nativi digitali ed emergenza educativa. L’innovazione nell’apprendimento, il cambiamento nell’istruzione” si parlerà nel corso dell’incontro in programma domai, alla Camera dei deputati (ore 9), su iniziativa del Censis.

Interverranno, tra gli altri, il ministro dell’istruzione Francesco Profumo, Tonino Cantelmi, presidente dell’associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici, il linguista Tullio De Mauro, i giornalisti Riccardo Luna e Luca De Biase.

Nel corso del convegno verrà presentata la ricerca Censis promossa dall’Assessorato alla cultura della Regione Calabria, che ha coinvolto 2.300 studenti delle scuole medie e superiori calabresi e 1.800 genitori.

da SIR 3-7-12

STUDI E RICERCHE

I media e la nuova generazione dei nativi digitali
Dalla Francia una ricerca sul rapporto tra informazione mainstream e nativi digitali

Ottobre 2010

Non credono ai politici, sono diffidenti verso i media tradizionali e mal sopportano i brand, considerati, letteralmente, i nemici da abbattere. Sono i cosiddetti i ‘nativi digitali’, ovvero giovani e giovanissimi (in media tra i 18 e i 24 anni) cresciuti a pane e tecnologia, persone che hanno sempre convissuto con il mouse accanto al cuscino e che considerano internet, videogiochi e social network parte integrante della propria vita.

Una nuova generazione, dunque, dalle cui scelte molto dipenderà del futuro del giornalismo e in particolare della carta stampata, considerato che il futuro dei giornali è largamente associato alle dinamiche di consumo dell’informazione da parte delle nuove generazioni. Come afferma Alan Mutter, infatti, il grande problema della stampa è costituito dal fatto che più del 50% dei lettori dei giornali è rappresentato da una popolazione progressivamente più anziana che, da un punto di vista demografico, corrisponde soltanto al 30% della popolazione. E a tale proposito recentemente una ricerca della società francese BVA ha offerto l’occasione per comprendere meglio quale sia il reale rapporto tra giovani e mezzi di comunicazione, come le nuove generazioni differiscono dall’audience tradizionale e quali siano i contenuti e le notizie su cui si focalizzano e le modalità attraverso le quali acquisiscono nuove conoscenze.

Lo studio si è basato su un campione di 100 ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni, ovvero quella fascia generazionale che dovrebbe coincidere appunto con i nativi digitali: ragazzi nati e cresciuti in un ambiente talmente condizionato dalla nuove tecnologie da lasciar presupporre condizionamenti tutt’altro che trascurabili sul piano dei riferimenti simbolici, culturali e,in senso più ampio, politico-sociali. Dalla ricerca, infatti, emerge come i giovani alfabetizzati a Internet abbiano rivisitato i propri modelli valoriali e culturali, lasciandosi definitivamente alle spalle vecchi schemi ideologici, categorie tradizionali così come le istituzioni di riferimento. Sistema politico e sistema dei media innanzitutto. A partire da un disconoscimento delle fonti informative generaliste fino alla messa in discussione dell’autorevolezza dei tradizionali opinion leader, questa nuova generazione digitale inizia a ragionare in termini di comunità, ovvero all’interno di quella network community caratterizzata non solo da specifici interessi e agende tematiche, ma anche da peculiari codici espressivi e linguistici.

Tra gli aspetti più criticati da parte di costoro va ricordato proprio il modello comunicativo sotteso ai media mainstream: un modello di trasmissione verticale, dall’alto verso il basso, nel quale i contenuti – testo scritto, immagini, video – sono trasmessi in modo pressoché immutato dalla fonte al destinatario, senza prevedere alcuna possibilità di feedback. Lo stesso Alan Mutter, infatti, evidenzia l’insofferenza dei giovani digitalizzati verso questo tipo di informazione – che include la stessa pubblicità tradizionale – che viene offerta loro in modo precostituito e non modificabile.

Sfruttando le potenzialità del web, l’interattività e la multimedialità innanzitutto, i media tradizionali dovrebbero invece puntare ad innovare il loro modo di fare comunicazione, coinvolgendo i giovani – nativi digitali ma non solo – e provando ad andare incontro alle loro esigenze. La tesi sostenuta da Mutter, infatti, è che i giornali dovrebbero smettere di considerare soltanto il lettore di riferimento già acquisito, ovvero quel bacino di utenti fidelizzati e affezionati ad una serie di valori e scelte editoriali stabili. E provare a sperimentare strade innovative, utili ad avvicinare il pubblico dei giovani.

Non tutti però sono d’accordo con una posizione, come appunto quella di Mutter, che considera i nativi digitali inesorabilmente distanti dalle precedenti generazioni. Bennett, Maton e Kervin, in un lavoro pubblicato nel 2008 dal British Journal of Educational Technology e titolato: The ‘digital natives’ debate: A critical review of the evidencesostengono che le differenze generazionali in fondo non siano poi così marcate. Prima di tutto perché se è vero che i ragazzi vivono immersi nella tecnologia, il loro reale utilizzo è ancora molto tradizionale (scrittura, e-mail, navigazione web). In secondo luogo perché la produzione di contenuti dal basso, user genereted, è in realtà un fenomeno ancora marginale, limitato e le differenze di skills all’interno della generazione giovanile sono le stesse esistenti tra le diverse generazioni.

Va qui evidenziato che i tre autori si spingono anche oltre, sostenendo come, alla base di queste visioni eccessivamente “avveniristiche”, vi siano gli stessi mezzi di comunicazione: riproponendo il concetto di moral panic (Cohen, 1972) Bennett, Maton e Kervin ritengono come questo fenomeno dei nativi digitali, pur restando in realtà privo di evidenze scientifiche, sia di fatto amplificato ed enfatizzato dai media e persino da parte del mondo accademico.

Il dibattito, come spesso accade in queste circostanze, è in realtà aperto e lontano dall’essere risolto. A conclusione di questa riflessione possiamo osservare che certamente i nativi digitali, sia attuali che futuri, si caratterizzeranno sempre più per un approccio alle fonti informative più rapido, immediato e orizzontale. Se poi tale atteggiamento sia destinato a tradursi in un incremento della superficialità ai danni dell’approfondimento, e in un’accentuazione delle differenze con le generazioni precedenti, molto dipenderà anche dalle risorse di partenza di ciascun soggetto. Risorse legate alla collocazione sociale dei giovani e al loro livello di istruzione innanzitutto: fattori, entrambi, destinati a riflettersi nella competenza all’uso di Internet, e cioè nella capacità di non restare vittime del caos della Rete, riuscendo, per contro, a sfruttarla per ottenere informazioni, conoscenza e relazioni sociali, utili al miglioramento della propria posizione di partenza.

UN VIDEO

I giovani e le nuove tecnologie. Un’indagine sui “nativi digitali”

Come usano Internet? A quanti anni hanno imparato a navigare? Qual è il social network più utilizzato? Preferiscono la televisione o Internet? Sono alcune delle domande dell’indagine che ha coinvolto 852 studenti delle scuole superiori del Trentino realizzata da Silvia Gherardi e Manuela Perrotta dell’Università di Trento nell’ambito del progetto “LiveMemories” coordinato dalla Fondazione Bruno Kessler e finanziato dalla Provincia autonoma di Trento. Nello spotlight di questo mese le risultanze dello studio che ha permesso di indagare abitudini e interessi dei “Native speakers” delle tecnologie digitali.


XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio- Anno B

Prima lettura: Ezechiele 2,2-5

In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».

Nei capp. 1-3 del libro di Ezechiele troviamo raccolte alcune visioni avute dal profeta Ezechiele: la visione del «carro del Signore», che indica la mobilità di Dio che segue il suo popolo dovunque, anche in terra di esilio (1,4-28; 3,12-16) e la visione del libro, che sottolinea come le parole dette dal profeta sono in realtà parole di Dio (2.1-3,11). Si ritiene che la visione del libro fosse quella inaugurale, legata cioè alla visione di Ezechiele (nel 593 a.C.). La nostra breve I Lettura contiene appena gli inizi di questa suggestiva scena programmatica, in cui il Signore ordina al profeta di mangiare e assimilare il libro, ossia la sua Parola.

Questi quattro versetti (vv. 2-5) andrebbero integrati nell’insieme della visione, per meglio coglierne la valenza profetica.

— Nella loro brevità, contengono preziose indicazioni sulle tre fondamentali coordinate di ogni missione: il mandante, il mandato, i destinatari.

a) Mandante, colui che manda Ezechiele («io ti mando», v. 3) è il Signore Dio. Qui il profeta non lo contempla direttamente ma attraverso alcuni segni della sua presenza: uno spirito (= ruah) o forza divina che lo solleva e lo rende capace di ascolto (v. 2), la parola o voce (v. 3), una mano tesa contenente un rotolo (v. 9). Segni che velano la vera identità di Dio e ne sottolineano il mistero, la trascendenza.

b) Mandato è il profeta, caratterizzato frequentemente (più di 90 volte) qui e altrove, come Figlio dell’uomo, figlio di Adamo tratto dalla terra, e pertanto essere debole, fragile, effimero. Nonostante questa sua condizione di estrema debolezza, il profeta è abilitato a parlare in nome di Dio, a riferirne le parole: Dice il Signore Dio (v. 4). Il fatto che il profeta è mandato ed esercita la sua missione («un profeta si trova in mezzo a loro», v. 5) dimostra — di per sé e indipendentemente dall’ascolto che avrà («ascoltino o non ascoltino») che Dio è presente nella storia del suo popolo e veglia sul suo piano salvifico. Il fatto stesso della presenza di un profeta prova l’interesse di Dio per il suo popolo.

c) Destinatari della missione sono gli Israeliti, storicamente gli esuli delle 10 tribù del nord ed il resto del regno di Giuda. La storia lunga della loro infedeltà, considerata sia nel passato («i loro padri») che nel presente («di me fino ad oggi», v. 3) è caratterizzata come storia di ribelli non contro una legge o un patto, ma «contro di me» (cf. v. 5).

Tre espressioni caratterizzano l’infedeltà degli israeliti:

— si sono rivoltati contro di me (v. 3), per la precisione si tratta del gesto arrogante con cui il suddito rifiuta il vassallaggio al proprio sovrano;

— hanno peccato (v. 3), cioè hanno trasgredito precisi obblighi e statuti che avevano con me;

figli testardi e dal cuore indurito (v. 4). Alla lettera: impudenti di faccia e duri di cuore. Il peccato si traduce in un duplice indurimento, interiore (cuore) ed esteriore (faccia), che solo un cuore di carne (cf. Ez 36,26) potrà eliminare.

Seconda lettura: 2 Corinzi 12,7-10

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

Ci troviamo all’interno della terza sezione della 2Cor, rappresentata dai capp.  10-13. È una sezione particolare che si può definire globalmente Apologia di Paolo (come fa la Bibbia di Gerusalemme) dai toni violenti e sferzanti: l’Apostolo difende il suo ministero contro alcuni «falsi apostoli» (11,13) che lo accusano e lo screditano davanti alla comunità di Corinto. L’Apostolo parla anche di se stesso, facendo in certo qual modo il proprio elogio. La lettura odierna rappresenta un momento importante di questa confessione autobiografica (11,22-12,13), riconoscendo che dietro la sua debolezza agisce la potenza di Dio (12,7-10).

Siccome precedentemente ha parlato di favori e rivelazioni, Paolo parla ora di una prova particolare destinato a evitare che egli monti in superbia (v. 7).

Il breve brano presenta alcuni punti, che vanno chiariti. Consideriamo le seguenti espressioni:

a) una spina nella carne, termine enigmatico, variamente interpretato nella storia dell’esegesi: malattia cronica, persecuzioni (padri latini e greci), tentazioni contro la castità (Gregorio Magno), ecc. Oggi si tende a vedere nella «spina» una malattia che poneva intralci e ritardi al ministero di Paolo.

b) un inviato di Satana, inteso in senso metaforico, esprime la convinzione ebraica secondo cui prove, disgrazie, sofferenze, vengono non da Dio, ma da Satana. È la stessa concezione che troviamo nel libro di Giobbe (cf. Gb 2.6).

c) mi vanterò, mi compiaccio (vv. 9.10), sono verbi che dovrebbero avere come oggetto realtà gloriose: vittorie, virtù, imprese, ecc. Paradossalmente qui hanno come oggetto delle condizioni di cui umanamente ci si vergogna: «debolezze», «infermità», «angosce», ecc.

d) quando sono debole, è allora che sono forte (v. 10). Altro noto paradosso.

Questi paradossi esprimono questa convinzione di Paolo: è la potenza salvifica di Cristo che opera in lui quando è debole. Ecco perché non solo accetta le prove, ma addirittura si vanta e si compiace in esse.

Vangelo: Marco 6,1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.  Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Esegesi

Dopo una serie di prodigi culminati nel racconto di una risurrezione (c. 5) si direbbe che Mc comincia a preparare il destino di condanna e di morte, cui Gesù va incontro, narrando le reazioni di scetticismo e di rifiuto che egli affronta nella sua stessa patria (6,1-6), cioè a Nazaret. È questo il brano del Vangelo di questa domenica.

— Lo stupore, in senso scettico, che l’insegnamento di Gesù desta nei suoi compatrioti, si esprime in una serie incalzante di cinque domande (vv. 2-3). Esaminiamone distintamente il senso:

a) Prima domanda: Da dove gli vengono queste cose? (v. 2), «queste cose» sono le cose che insegna. L’insegnamento di Gesù potrebbe avere diverse origini, ed il dove? varie risposte: dal cielo o dagli uomini (cf. Mc 11,30), da Satana (3,22.30), ecc. Il fatto che, pur conoscendone il nome, i suoi compatrioti lo indichino ripetutamente dicendo «costui» esprime distanza e dubbio.

b) Seconda domanda: dietro l’insegnamento c’è un certo tipo di sapienza che secondo gli ascoltatori egli non possiede da sé, ma gli è stata data. Questo passivo esige un completamento, un agente: sapienza data da chi? Le risposte possono essere due: o da Dio (passivo «divino»), o da Satana (passivo «diabolico»). Il fatto che i compatrioti si scandalizzino di lui (v. 3) indica che essi pensino alla seconda, non alla prima, possibilità.

c) Terza domanda, relativa ai prodigi cui si assiste (vedi cap. 5). Se i prodigi avvengono attraverso le mani del taumaturgo, la domanda che ci si pone è: chi opera questi fatti tramite Gesù? Se si esclude che egli sia il Messia, non resta altra risposta che questa: non Dio, ma il diavolo opera questi strani miracoli.

d) Quarta e quinta domanda, partono dall’origine di Gesù, nota a tutti, per affermare che non può essere il Messia, che invece — secondo la tradizione ebraica — non sarebbe stato conosciuto da nessuno, date le sue origini misteriose. Di Gesù si indica prima la nota professione personale, il falegname (non «il figlio del carpentiere» come in Mt 13,55), e poi le persone della sua parentela: figlio di Maria (probabilmente è avvenuta già la morte di Giuseppe), con «fratelli» e «sorelle» (congiunti) a tutti noti.

Ed era per loro motivo di scandalo (v. 3). «Scandalizzarsi» propriamente designa una caduta provocata da un inciampo (skándalon). Nel Nuovo Testamento spesso questo termine lo si indica in senso religioso, un’occasione di peccato, una seduzione all’apostasia e all’incredulità. Gesù diventa occasione di scandalo per i suoi compaesani, perché in certo senso ne provoca la caduta (peccato di incredulità) con il suo insegnamento e le sue azioni.

Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria (v. 4). Indirettamente e senza grosse polemiche, Gesù reagisce enunciando il principio del profeta disprezzato in patria; e non solo nel suo paese natio, ma anche tra i suoi parenti e nella sua stessa famiglia. Marco accentua questi due ultimi termini (parentela, famiglia) radicalizzando così il rifiuto che Gesù ha trovato tra i suoi (vedi 3,21). Dicendo «un profeta» e attribuendo a sè tale detto, in qualche modo Gesù rivendica la dignità e le prerogative del profeta escatologico rifiutato dagli altri.

E lì non poteva compiere nessun prodigio (5a). Frase apparentemente in contrasto con quella che segue: impose le mani a pochi malati e li guarì (5b). In realtà, l’evangelista non vuole assolutizzare il principio che l’incredulità escluda del tutto i miracoli e paralizzi la compassione di Gesù. Con il v. 5b vuole lasciarci un’impressione positiva.

Si meravigliava della loro incredulità (v. 6). Anche se ha enunciato il principio del v. 4 (un profeta non è disprezzato che…). Gesù prova un certo stupore verso l’incredulità dei suoi. Questo vuol dire che, benché sia di regola così, l’incredulità non è, per lui un fatto scontato, da accogliere con supina rassegnazione.

Meditazione

La pagina evangelica di questa domenica ci narra la visita di Gesù alla sua città natale. È la prima volta che Gesù, dall’inizio del suo ministero pubblico, fa ritorno nella sua patria. A Nazaret «era stato allevato» (Lc 4,16) e aveva trascorso i primi trent’anni della sua vita (cfr. Lc 3,23), conducendo un’esistenza segnata dall’ordinarietà e dalla condivisione del comune destino dei suoi abitanti. Gli evangelisti non ci dicono pressoché nulla di questi anni di vita ‘nascosta’ e noi non possiamo far altro che prendere atto di questo riserbo rispettando un silenzio che, forse, la dice lunga sulla ‘serietà’ di quel mistero che noi chiamiamo incarnazione.

Possiamo immaginare la curiosità e l’animazione dei nazaretani nel rivedere un loro concittadino diventato tanto ‘famoso’ negli ultimi tempi (già dopo il primo miracolo a Cafàrnao si dice che «la sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea»: Mc 1,28). Una curiosità che si tramuta in stupore appena cominciano a sentirlo parlare nella loro sinagoga, nella consueta celebrazione liturgica sabbatica. «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?…» (vv. 2-3). L’evangelista accumula qui una serie di ben cinque domande per dare corpo a tutta la meraviglia degli abitanti di Nàzaret: come è possibile che quest’uomo parla in questo modo e compie tali cose? Lo conosciamo bene tutti: è uno di noi…! E così lo stupore iniziale cede subito il passo a un atteggiamento di scetticismo e di incredulità: «Ed era per loro motivo di scandalo» (v. 3b). È lo sconcerto di chi non riesce a mettere insieme una sapienza e una potenza che si reputa non possano venire altro che da Dio con le modeste e umili origini di colui che è conosciuto come «il falegname, il figlio di Maria» (v. 3a). Come può il divino conciliarsi con un umano così ‘umano’? Come può Dio manifestarsi in una realtà così quotidiana e familiare? La presunta conoscenza di Gesù da parte dei nazaretani è l’ostacolo più grande alla loro apertura di fede, a una fede che si apre a un ‘oltre’ che travalica l’immediatezza della propria esperienza quotidiana, pur non negandola. «La meraviglia è un pochino sempre a doppio esito: c’è la meraviglia che vuol capire, che si lascia educare a capire. […] E c’è invece la meraviglia che non nasce dall’intelligenza, cioè dalla volontà dell’uomo di capire, di piegarsi e di incontrare la verità o comunque ciò che gli si manifesta: ma è la meraviglia della ragione, che conduce a misurare questa cosa secondo il metro che sono io. Questa meraviglia conduce all’incredulità e al rifiuto, mentre la prima conduce all’ammirazione, si lascia educare dall’avvenimento, si lascia piegare» (G. Moioli).

È  significativo che a questa meraviglia incredula faccia eco l’amara meraviglia di Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (v. 6a). Gesù non riesce a capacitarsi che si possa arrivare a un tale livello di incredulità. E proprio tra i suoi parenti, nella sua casa, nella sua patria… Sembra una costante nella storia della salvezza, ma proprio i più vicini, coloro che dovrebbero conoscere meglio l’inviato di Dio, che vantano con lui una certa familiarità, sono quelli che meno accolgono il suo messaggio, che più si chiudono alla sua azione. Ne sono testimonianza le parole disincantate che il profeta Ezechiele riceve da parte del Signore: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli… Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito…» (Ez 2,3-4; prima lettura). Il detto popolare, citato da Gesù, sul profeta disprezzato tra i suoi (cfr. Mc 6,4) è una conferma di questo atteggiamento di ‘ribellione’ del popolo al quale Dio manda i suoi messaggeri. Si potrebbe dire che Gesù è sì stupito e sorpreso di questo rifiuto, ma non impreparato: conosce, infatti, la sorte di tutti i profeti che lo hanno preceduto.

In questo clima di incredulità Gesù non può compiere alcun miracolo. La non-fede degli abitanti di Nàzaret ha il triste effetto di ridurre all’impotenza Gesù («E lì non poteva compiere nessun prodigio»: v. 5a); al contrario della fede della donna emorroissa e del capo della sinagoga Giairo (cfr. Mc 5,21-43), che permettono a Gesù di sprigionare tutta la sua potenza salvifica, capace persino di risuscitare i morti! La fede può tutto (cfr. Mc 9,23), l’incredulità invece rende impossibile ogni opera di Dio. I gesti e i prodigi che Gesù compie sono sempre in vista della fede e in risposta a essa; per questo non ha alcun senso un miracolo fuori dall’’ambito vitale’ in cui solamente esso può avvenire.

Tuttavia, prima di lasciare la sua città, Gesù riesce a compiere qualche guarigione (cfr. v. 5b), segno che il rifiuto non è stato totale: qualche barlume di fede si è trovato anche lì, tra i suoi compatrioti. L’insuccesso sperimentato non ferma la ‘corsa’ del vangelo: a dispetto di tutto, Gesù continua a percorrere i villaggi della Galilea portando a tutti la sua parola di vita. Anche da profeta inascoltato e disprezzato continua a diffondere con fiducia il seme del vangelo.

Un’ultima osservazione circa la ‘parentela’ di Gesù. Già in Mc 3,33 Gesù chiedeva ai suoi ascoltatori: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Conosciamo la risposta che lo stesso Gesù da subito senza aspettare la reazione dei suoi interlocutori. Qui a Nàzaret, dove Gesù giunge con i suoi discepoli (la sua ‘nuova famiglia’), si fa ancora più acuto il contrasto tra parentela ‘carnale’ e parentela ‘di fede’. La prima non è negata, né  disprezzata, ma, ai fini della comunione con il Signore, deve sfociare nella seconda. Perché il solo legame che rende ‘familiari’ del Figlio dell’uomo è l’obbedienza della fede e l’ascolto sincero della parola di Dio.

Preghiere e racconti

Viveva di fede come noi

«Quanto avrei voluto essere sacerdote per poter predicare sulla Madonna! Una sola volta sarebbe stata sufficiente per dire tutto quello che penso a questo proposito. Prima avrei fatto capire quanto poco conosciamo la sua vita. Non occorre dire cose inverosimili o che non sappiamo; per esempio che, da piccola, a tre anni, la Madonna ha offerto se stessa a Dio nel Tempio con sentimenti ardenti di amore e del tutto straordinari ; mentre forse ci é andata semplicemente per obbedire ai suoi genitori… Perché una omelia sulla Madonna possa piacermi e farmi del bene, occorre che io veda la sua vita reale, non la sua vita supposta ; e sono certa che la sua vita reale era molto semplice. Ce la mostrano inabbordabile, mentre bisognerebbe mostracela imitabile, fare vedere le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, dare delle prove di questo per mezzo del Vangelo in cui leggiamo : « Non compresero le sue parole » (Lc 2,50). E questa parola molto misteriosa : « I suoi genitori si stupivano delle cose che si dicevano di lui » (Lc 2,33). Questo stupirsi suppone un certo meravigliarsi, non è vero? Sappiamo bene che la Madonna è Regina del Cielo e della terra, eppure è più madre che regina, e non occorre dire a motivo delle sue prerogative, che lei eclissi la gloria di tutti i santi, come il sole al suo sorgere fa scomparire le stelle. Mio Dio! quanto questo mi appare strano! Una madre che fa scomparire la gloria dei suoi figli! Io penso tutto il contrario, ritengo che essa farà crescere molto lo splendore degli eletti. È bene parlare delle sue prerogative, ma non occorre dire soltanto questo… Forse qualche anima andrà fino al punto di sentire allora una certa lontananza con una tale creatura talmente superiore e dirà : « Se le cose stanno così, ci accontenteremo di andare a brillare in un angolino».Ciò che la Madonna aveva in più rispetto a noi, era il fatto che non poteva peccare, che era esente dalla macchia originale, ma d’altra parte, è stata meno fortunata di noi, poiché non ha avuto la Madonna da amare, e questa è una tale dolcezza per noi».

(Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), carmelitana, dottore della Chiesa, in Ultimi colloqui, 21/08/1897).

Secondo la fede

Così la multiforme sapienza di Dio distribuisce la salvezza degli uomini con una molteplice e insondabile compassione e accorda il dono della sua generosità secondo la capacità di ciascuno. Per le guarigioni stesse che opera non vuole regolarsi sull’uniforme potenza della sua maestà, ma sulla fede che trova in ciascuno di noi o che egli stesso ha distribuito. L’uno crede che per essere purificato dalla lebbra basti la sola volontà di Cristo; Cristo lo guarisce con il solo assenso della sua volontà dicendo: «Lo voglio, sii guarito» (Mt 8,3). Un altro lo supplica di venire da lui e di resuscitare sua figlia imponendole le mani; entra a casa sua e gli concede l’oggetto della richiesta nella maniera sperata (cfr. Mt 9,18). Un terzo crede che la salvezza risieda nell’ordine dato con parole: «Dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito» (Mt 8,8); con il comando della sua parola restituisce alle membra illanguidite il loro vigore primitivo: «Va’ e ti sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13). Altri sperano di trovare guarigione toccando la frangia del suo vestito; egli dona loro con generosità il dono della salute (cfr. Mt 9,20). Accorda agli uni la guarigione delle loro malattie su loro richiesta, ad altri offre un rimedio spontaneo, altri li esorta alla speranza dicendo: «Vuoi essere guarito?» (Gv 5,6); porta il suo aiuto ad altri che non speravano più. Sonda i desideri degli uni, prima di soddisfare la loro volontà: «Che volete che vi faccia?» (Mt 20,32). A un altro che non sa per quale via ottenere quello che desidera, dice con bontà: «Se credi, vedrai la gloria di Dio» (Gv 11,40). Su altri effuse abbondantemente la sua potenza di guarigione al punto che l’evangelista riferendosi a essa concluse: «Egli guarì tutti i loro malati» (Mt 14,14); presso altri, però, l’abisso senza limiti dei suoi benefici venne bloccato tanto che si disse: Gesù non poteva operare nessun miracolo a causa dell’incredulità (cfr. Mc 6,5-6). E così la generosità di Dio si conforma alla capacità di fede dell’uomo, al punto di dire a uno: «Ti avvenga secondo la tua fede» (Mt 9,29); a un altro: «Va’ e ti sia fatto come hai creduto» (Mt 8,13); e a un altro: «Ti sia fatto come tu vuoi» (Mt 15,28); e a un altro ancora: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34).

(GIOVANNI CASSIANO, Conferenze 13,15, SC 54, pp. 175-176).

I sepolcri imbiancati

II maestro sembrava non essere assolutamente toccato da ciò che la gente pensava di lui, pur non essendo sempre un rigorosissimo osservante. Quando i discepoli gli chiesero come avessero raggiunto questo grado di libertà interiore, egli rise forte e disse: «Fino a 20 anni non mi è importato nulla di che cosa la gente pensasse di me; dopo i 20 anni mi preoccupavo immensamente di che cosa pensassero i miei vicini; poi un giorno, dopo i 50 anni, capii improvvisamente che essi non pensavano minimamente a me».

(Racconto ebraico).

Questi è davvero il profeta

Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: Beati quelli che non vedono e credono (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: Susciterò per loro un profeta simile a te (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: Un profeta non riceve onore nella sua patria (Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (cfr. Is 9,6). E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.

(AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni 24,6-7, in Opere di sant’Agostino, pp. 564-566).

Ogni giorno è da vivere

Ogni mattina

è una giornata intera

che riceviamo dalle mani di Dio.

Dio ci dà una giornata da Lui stesso preparata per noi.

Non vi è nulla di troppo e nulla di «non abbastanza»,

nulla di indifferente e nulla di inutile.

È un capolavoro di giornata

che viene a chiederci

di essere vissuto.

Noi la guardiamo come una pagina d’agenda,

segnata d’una cifra e d’un mese.

La trattiamo alla leggera

come un foglio di carta.

Se potessimo frugare il mondo

e vedere questo giorno elaborarsi

e nascere dal fondo dei secoli,

comprenderemmo il valore di un solo giorno umano.

(M. Delbrêl).

Bramo la tua voce, o Dio

Quando mi fermo stanco sulla lunga strada

e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera

e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio,

sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare per il peso del cuore

carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte,

la voglio riempire di carezze,

tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore

segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

XIV DOM TEMP ORD ANNO B

La Cemcs organizza due corsi sulla progettazione nella comunicazione sociale

La Commissione episcopale per i mezzi di comunicazione sociale (Cemcs) della Conferenza episcopale spagnola propone due corsi estivi in comunicazione sociale, organizzati in collaborazione con l‘Università Pontificia di Salamanca (Upsa).

I corsi offrono un sostegno formativo in materia di comunicazione a sacerdoti, insegnanti, catechisti e operatori pastorali affinché a loro volta formino altri.

“Identità, comunicazione e interazione nelle reti sociali” è il tema del primo corso estivo che la Cemcs ha organizzato questa settimana. Il programma del corso fornisce le conoscenze di base della comunicazione e dell’interazione in un ambiente on line. Si affrontano anche le caratteristiche principali e gli strumenti di social network, blog e microblogging. E rende più facile progettare un progetto di comunicazione sui social network.

La prossima settimana il corso estivo proposto è “Progettazione e sviluppo di progetti on line con WordPress”. Con quest’iniziativa la Cemcs spera che “si acquisiscano le basi concettuali e tecniche per elaborare progetti professionali di comunicazione on line in modo efficace”.

L’obiettivo dei due corsi è anche “arricchire la formazione degli studenti delle facoltà di comunicazione, teologia, sociologia e scienze umane”.

SIR del  3/7/12

Per una testimonianza pubblica della fede

La nuova evangelizzazione al centro del 40° incontro dei segretari generali delle conferenze episcopali

Edimburgo, Scozia, 29 giugno – 2 luglio 2012

 

Prosegue la riflessione dei segretari generali delle Conferenze episcopali in Europa sul tema della “nuova” evangelizzazione. Al centro del loro 40° incontro che si svolgerà quest’anno presso il Dynamic Earth di Edimburgo, i segretari generali rifletteranno sulla testimonianza della fede nel mondo della politica, della cultura, nella legge e nell’opinione pubblica.  Gli altri temi dell’agenda dei segretari generali prevedono discussioni su: i sistemi di finanziamento della Chiesa; l’ecumenismo in Europa e la traduzione dei testi liturgici della Chiesa cattolica.

Ad aprire i lavori nei locali del Dynamic Earth di Edimburgo (Holyrood Road, Edimburgo, EH8 8AU) del quarantesimo incontro dei segretari generali delle Conferenze episcopali d’Europa, sarà il cardinale Keith Patrick O’Brien, arcivescovo di St. Andrews ed Edimburgo, presidente della Conferenza episcopale scozzese.

L’anno scorso, a Vilnius, i segretari generali avevano riflettuto su alcuni aspetti specifici della nuova evangelizzazione quali: il rapporto cultura e qualità della fede; la vita spirituale e l’appartenenza ecclesiale; e, infine, strutture e carismi della Chiesa (vedi comunicato 22/06/2011). Quest’anno, a pochi mesi dall’apertura del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione convocato da Papa Benedetto XVI e in agenda per l’ottobre 2012 in Vaticano, la questione della testimonianza pubblica della fede nella società europea sarà affrontata attorno ai temi della politica, della cultura, delle leggi e dell’opinione pubblica. La riflessione sarà articolata su tre livelli: il livello nazionale, quello della Scozia, sarà affidato al professore John Haldane, direttore del Centro di Etica, Filosofia e Attualità dell’Università di St. Andrews (Scozia); il livello europeo, da mons. Piotr Marzurkiewicz, segretario generale della ComECE (Commissione degli Episcopati della Comunità Europea) e da mons. Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo; e infine, con una testimonianza d’oltreoceano, quella di mons. Ronnie Jenkins, segretario generale della Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti, che presenterà la situazione americana.

Nei giorni successivi, i segretari focalizzeranno la loro attenzione sui temi del finanziamento della Chiesa in Europa, dell’ecumenismo e della traduzione di alcuni testi liturgici della Chiesa cattolica.

I risultati di un’indagine condotta presso le Conferenze episcopali sui vari sistemi di finanziamento delle Chiese in Europa saranno presentati da dr Erwin Tanner, segretario generale della Conferenza episcopale svizzera.

La situazione ecumenica in Scozia e in Europa sarà affidata invece a fr. Stephen Smyth, segretario generale dell’ACTS (Action of Churches Together in Scotland) e al canonico della Chiesa Episcopale di Scozia, Bob  Fyffe, segretario generale del CTBI (Churches Together in Britain and Ireland).

Infine, il tema della traduzione del messale e del lezionario sarà affrontato da Mons. Bruce Harbert, già direttore esecutivo del Comitato Internazionale sull’Inglese nella Liturgia (ICEL).

Prenderanno parte all’incontro anche mons. Antonio Mennini, nunzio apostolico in Gran Bretagna, mons Mario Conti, arcivescovo di Glaskow e mons. Peter Moran, vescovo emerito di Aberdeen.

I lavori saranno scanditi da momenti di preghiera e dalla celebrazione quotidiana dell’eucarestia. Domenica 1 luglio, i segretari celebreranno insieme al cardinale Keith O’Brien, la Santa Messa nella cattedrale di Edimburgo alle ore 13.15.

Si allega il programma dell’incontro e la lista dei partecipanti. I lavori sono a porte chiuse, ad eccezione della sessione di apertura, venerdì 29 giugno 2012 alle ore 20.30 presso il Dynamic Earth. Un comunicato finale sarà rilasciato al termine dell’incontro.

Una conferenza stampa si svolgerà lunedì 2 luglio alle ore 11.00 a Edimburgo presso il Macdonald Holyrood Hotel – 81, Holyrood Road, Edinburgh, EH8 8AU

L’incontro promosso dal Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) si svolge a Edimburgo su invito del segretario generale della Conferenza episcopale scozzese, mons. Paul Conroy e grazie all’ospitalità del cardinale Keith Patrick O’Brien, arcivescovo di St. Andrews ed Edimburgo, presidente della Conferenza episcopale scozzese.

Il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) include le attuali 33 Conferenze Episcopali Europee, rappresentate dai loro Presidenti, dagli Arcivescovi del Lussemburgo e del Principato di Monaco, dall’Arcivescovo di Cipro dei Maroniti, dal Vescovo di Chişinău (Rep. Moldova) e dal Vescovo eparchiale di Mukachevo. L’attuale presidente è il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest, Primate d’Ungheria, i Vicepresidenti sono il Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova, e Mons. Józef Michalik, Arcivescovo di Przemyśl, Polonia. Il Segretario Generale del CCEE è Mons. Duarte da Cunha. Il Segretariato ha sede a San Gallo (Svizzera). www.ccee.ch

CEI-MIUR: intesa sull’insegnamento della religione cattolica

Ridefinire il profilo di qualificazione professionale dei futuri insegnanti di religione cattolica, armonizzando il percorso formativo richiesto per l’insegnamento della religione cattolica con quanto previsto, oggi, per l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado in Italia.

Definire una nuova versione delle indicazioni per l’insegnamento della religione cattolica nel secondo ciclo, sulla base dei rinnovati documenti che il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha elaborato in un quadro di riforma dell’intero sistema educativo di istruzione e formazione (licei, istituti tecnici, istituti professionali, percorsi di istruzione e formazione professionale).

Sono questi, in sintesi, gli obiettivi della duplice intesa che è stata firmata giovedì 28 giugno a Roma, presso la sede della Conferenza Episcopale Italiana, dal Card. Angelo Bagnasco, per la CEI, e dal Ministro Francesco Profumo, per il MIUR. L’accordo, raggiunto al termine di un percorso all’insegna del dialogo e della collaborazione, consolida ulteriormente l’armonioso inserimento dell’insegnamento della religione cattolica nei percorsi formativi della scuola italiana.

“Nella consapevolezza che, come ha sottolineato Benedetto XVI, «la dimensione religiosa è intrinseca al fatto culturale, concorre alla formazione globale della persona e permette di trasformare la conoscenza in sapienza di vita» (Discorso agli insegnanti di religione cattolica, 25 aprile 2009), auspico – ha affermato il Card. Bagnasco – di vedere quanto prima i frutti di bene che scaturiranno da questo rinnovato accordo, conscio dell’impegno delicato in vista della maturazione integrale delle persone degli alunni e grato per il lavoro costante e professionale di tutta la comunità educante della scuola, ivi compreso l’impegno professionale degli insegnanti di religione cattolica”.

Il saluto del Cardinale Bagnasco

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La scuola nel cuore

Il significato della firma delle due intese tra Chiesa e Governo sull’Irc

Alberto Campoleoni

Una nuova intesa, anzi due, sull’insegnamento della religione cattolica (Irc). Ieri, 28 giugno, le hanno firmate, come previsto dalle procedure di derivazione concordataria, il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, e il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco.

I due testi riguardano questioni differenti ma ugualmente importanti. Il primo, una vera modifica dell’Intesa Cei-Mpi del 1985, seguita al “Nuovo concordato” del 1984, aggiorna i profili di qualificazione professionale dei docenti di religione. Una modifica che si è resa necessaria negli ultimi anni per armonizzare il percorso formativo richiesto agli Idr con quanto previsto, oggi, per l’insegnamento nelle scuole italiane.

La logica di fondo, già ben presente nel 1984 e 1985, è quella di garantire docenti preparati, veri professionisti della scuola, che possano operare con competenza e qualità all’interno dell’istituzione pubblica. È, questo, un portato proprio del Nuovo Concordato, che a suo tempo, ridefinì l’insegnamento cattolico in senso propriamente scolastico e permise di indicare titoli di studio precisi per i docenti. Una logica che è proseguita fino al riconoscimento del ruolo giuridico dei docenti di religione: professionisti della scuola, come i colleghi delle altre materie. Una logica, ancora, che sostiene il capillare e continuo impegno di formazione in servizio organizzato sia a livello nazionale, sia locale, per gli Idr. Ora i titoli di accesso alla professione (si partirà del 2017) sono aggiornati ai cambiamenti avvenuti nei percorsi formativi universitari e in linea con le nuove istruzioni sugli Istituti superiori di scienze religiose.

La seconda intesa appena firmata riguarda, invece, le nuove indicazioni per l’insegnamento della religione cattolica nel secondo ciclo, sulla base dei rinnovati documenti che il Miur ha elaborato in un quadro di riforma dell’intero sistema educativo d’istruzione e formazione. Sono, attesissimi, i “nuovi programmi” per le scuole superiori che in questi anni hanno sofferto un periodo di “vacanza” dovuto anche al continuo mutare degli orientamenti circa la riforma scolastica.

Il cardinale Bagnasco ha spiegato come le indicazioni si sono rese necessarie tenuto conto “del nuovo assetto dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali, nonché dei percorsi d’istruzione e formazione professionale”. Per questo le nuove indicazioni sono state differenziate “in modo tale da rispecchiare al meglio il carattere e l’impostazione culturale di ciascuna tipologia di scuola e del particolare ordinamento dell’istruzione e formazione professionale”.
Toccherà ora ai docenti mettere alla prova i nuovi testi, esaminandoli con attenzione e traducendo in concreto, nella prassi didattica, quanto proposto dalle indicazioni. Magari anche suggerendo a loro volta percorsi e strade di rinnovamento. È, questo, peraltro, il dinamismo continuo di una materia scolastica che voglia davvero qualificarsi come tale.

E qui sta il nodo di fondo: l’Irc, anche attraverso questi ultimi passaggi, si conferma attento alla scuola, al suo servizio, come ha ricordato ancora al momento della firma il cardinale Bagnasco. E lo ha sottolineato anche il ministro Profumo, in un inciso, ricordando come anche molti alunni stranieri (in questi anni aumentati in modo esponenziale) scelgano di avvalersi dell’insegnamento cattolico. Sono persone di culture diverse, che tuttavia decidono (“circa la metà”) di frequentare l’Irc, “confermando – dice il ministro – la natura scolastica di questa disciplina, a prescindere dall’appartenenza religiosa personale”. Davvero non è poco.

III Corso interdisciplinare Bibbia – Arte – Comunicazione

Matera 4-8 Luglio 2012

Presentazione del Corso

Il Settore per l’Apostolato Biblico dell’UCN offre, durante l’estate, corsi qualificati per Animatori biblici e della comunicazione diocesani e parrocchiali. Il Corso di Matera, promosso insieme all’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della CEI, vuole aprire una finestra sul vasto mondo del rapporto Bibbia, Arte, Catechesi e Comunicazione. Tema:PORTAE FIDEI La Bibbia, l’Arte e la Comunicazionea confronto sugli inizi della fede N.B.: Si richiede la presentazione del Responsabile del Settore AB o dell’UCD o dell’UCS che dovrà apporre il suo visto sulla scheda.

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LOCANDINA
INFORMAZIONI LOGISTICHESCHEDA ADESIONE

Non c’è futuro senza famiglia

L’Italia sta scoprendo in grave ritardo che i dati sulla situazione delle famiglie sono allarmanti. A emergere non è soltanto la difficile situazione economica che molti nuclei familiari stanno affrontando in questi ultimi anni; ancora più compromessa è la dinamica relazionale che vede sempre più confusi i più giovani e sempre più disillusi gli adulti.

Che cosa sta succedendo? Succede che quasi metà dei giovani italiani, tra i 25 e i 34 anni, vive  ancora con i genitori. Succede che solo 1 coppia su 3 in Italia ha figli (vent’anni fa era 1 coppia su 2). Succede che diminuiscono i matrimoni, aumentano i divorzi e si diffondono forme “nuove” di convivenza: single con single, single con figli, nuclei allargati.

La questione economica è certamente importante. Molti commentatori la usano diffusamente per spiegare questi dati. Ma c’è molto di più: a causare queste condizioni è una distorsione del senso stesso di famiglia, che è tutta antropologica. L’emancipazione della donna è diventata lotta contro il maschio ed emancipazione della maternità.

Quale miglior modo per emanciparsi dalla maternità che equiparare rapporti aperti alla vita e fecondi a rapporti infecondi? L’indifferenza sessuale (teoria del gender) è il nuovo nome dell’infecondità. In tempi difficili le famiglie numerose erano per i padri e le madri una chiara risposta comunitaria alla crisi, una risposta di fiducia nella propria forza di generare ed educare una prole in grado di lavorare, migliorare la qualità della vita, “risollevare” la famiglia nell’ascensore sociale. Un figlio era come messaggio di salvezza e di riconciliazione del mondo.

Oggi i dati dell’Istat ci dicono che l’ascensore sociale è bloccato, anzi, volge inevitabilmente verso il basso. Le coppie sono scoraggiate a fare figli perché non credono di poter garantire loro una vita “dignitosa”. La poca fiducia in se stessi, un certo egoismo che si sviluppa nei momenti di difficoltà e tensione, l’incapacità di reagire e pensare ad un futuro diverso: ecco i veri fattori che scoraggiano a “fare famiglia”. I figli, quelli da fare o quelli già fatti, sono le prime vittime di tutto questo.

Un Paese a crescita zero che non sa più dialogare con i giovani e sacrifica sull’altare del relativismo le nuove forze che rinnovano una società e la fanno crescere. Si diffonde la cultura “gender” che nega la differenza sessuale e promuove nei dibattiti televisivi, nelle telenovelas, nelle sit-com, nelle fiction e nelle pubblicità l’indifferenza sessuale.

Allo stesso tempo sempre più spesso i media ci fanno assistere a vere e proprie parodie delle famiglie “tradizionali”, mostrando contesti familiari plastificati e senza tensioni, da sogno, che sono in contrasto con le fisiologiche difficoltà che tutte le famiglie normali vivono nel loro contesto quotidiano. È una sorta di “anti-genesi”, una vera “ferita antropologica”.

In questo contesto diventa necessario anteporre l’ecologia delle relazioni umane a tutte le nostre priorità. Per salvare l’uomo stesso e il senso del suo stare nel mondo. È un lavoro lungo che trova un valido supporto nella Dottrina Sociale della Chiesa. Basta ricordare il beato Giuseppe Toniolo, a cui la sezione di Agorà di questo numero è interamente dedicata. Infatti, vi si  riportano le relazioni svolte nel Laboratorio DSC dedicato alla beatificazione di questo straordinario protagonista del cattolicesimo sociale.

Toniolo esprime bene la sintesi tra famiglia, lavoro e festa nel essere insieme padre, docente universitario, autentico campione di solidarietà sociale. Aspetti tutti riassunti in una tenera lettera mandata ad un suo allievo, nel 1879, in cui Toniolo così scriveva: “Ci sono degli amori che deprimono e che dissipano; altri che sospingono all’operosità buona e proficua. Le auguro quei conforti veri e inestimabili, che accompagnano sempre il connubio cristiano, e di cui io (contro i miei meriti) feci e faccio esperimento”.

Unire dunque: famiglia, lavoro e impegno sociale. Ancora oggi ci sono moltissime strozzature alla capacità lavorativa delle famiglie, soprattutto delle donne. Basti pensare al grave ritardo in cui ci troviamo, rispetto alle economie più avanzate, nella presenza capillare e diffusa di asili nido che possano permettere alle madri di armonizzare la vita lavorativa e quella familiare (ad oggi quasi una madre su tre abbandona il lavoro dopo la nascita del primo figlio).

Come avvertiva, nel 2004, l’allora Presidente Ciampi: “una società evoluta non può rinunciare né all’impegno pubblico della donna, né al suo ruolo di madre. Le culle vuote sono il vero problema della società italiana”.

Proposte concrete possono trovarsi, così come è stato fatto nel recente rapporto “La famiglia in Italia” dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia. Il rapporto individua diversi strumenti per mettere insieme famiglia e lavoro: locali e spazi dei luoghi di lavoro dedicati ai figli, l’uso dei congedi genitoriali, gli aiuti alle famiglie che si prendono cura degli anziani non autosufficienti, i sostegni alle famiglie fragili (con minori in tutela o a rischio di allontanamento, in cui i genitori sono separati/divorziati, famiglie migranti).

A questi vanno aggiunti il rilancio del modello economico-sociale che è l’impresa familiare e di quello cooperativo tra più famiglie che lo stesso Toniolo amava richiamare nei suoi studi. Sono punti essenziali, se si vuole parlare di “politiche familiari” così come intese nella letteratura scientifica utilizzata nelle rilevazioni OCSE: politiche destinate a creare e ricollocare risorse per i nuclei famigliari e per i figli a carico.

Bisogna rendere amici della famiglia il lavoro, la scuola, l’ospedale, il negozio, i centri per gli anziani. Bisogna tornare al family mainstreaming contro le pressioni della cultura gender. Bisogna ritornare ad un pensiero globale sulla famiglia e abbandonare definitivamente l’attuale pensiero frammentato sulle “famiglie” che, incapace di fare sintesi, crea divisioni e trincee.

Se i tentativi di eliminare l’aut-aut lavoro o famiglia sono primi passi utili a risolvere alcune criticità nel breve periodo, non si deve trascurare l’aspetto spirituale e relazionale delle famiglie, aspetto ben più complesso, almeno in apparenza. Ad essere trascurata è l’importanza di strumenti molto semplici che sanno mettere insieme famiglie e comunità e che necessitano di un urgente ritorno nel panorama sociale.

Il primo e più immediato modo per stare insieme è la festa. Festa è stata il VII Incontro delle Famiglie, tenutosi a Milano dal 30 maggio al 3 giugno, che ha visto partecipare famiglie da tutto il pianeta in un contesto di gioia, dialogo e spiritualità che non si vedeva da molto tempo.

Famiglie, lavoro e festa. Tutto insieme, senza nessuna scelta di priorità che esclude il resto. Lo stesso Benedetto XVI, nella lettera di introduzione a questo grande evento, così si è espresso: “Il lavoro e la festa sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra i coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr Gen 1-2) ci dice che famiglia, lavoro e giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana.”

L’aver visto molte famiglie insieme ha ridato un forte rinnovamento di speranza. Si fanno così avanti nuove forme di collaborazioni: famiglie giovani che si danno una mano e fanno comunità, comunità parrocchiali che organizzano corsi post-matrimoniali per supportare e aiutare le coppie nei loro momenti più critici, la riscoperta del racconto, della testimonianza di vita nell’educazione dei figli. La rinascita della fratellanza e del rispetto, il ritorno alla dimensione sociale del nucleo familiare che scopre, piano piano, di non essere più un’isola.

La festa è un fattore di reciproca riconciliazione che non va più messo in secondo piano. Attualissima è la lezione del Vangelo nella parabola del figliol prodigo, in cui la festa diventa il momento che sancisce il ritorno del figlio “perduto” nella casa del padre che, nel rispetto di quella che è la sussidiarietà, lo aveva lasciato partire. Ammazzare il vitello grasso, vestirsi dell’abito più bello, l’anello più prezioso. Onorare, santificare le feste e stare insieme.

Stare in famiglia, in fondo, non è altro che riscoprire e ritrovare la capacità di amare: se stessi, i propri familiari, gli altri. La famiglia quale segno d’amore per la società. La Dottrina Sociale ce lo ricorda a chiare lettere: “La famiglia, comunità naturale in cui si esperimenta la socialità umana, contribuisce in modo unico e insostituibile al bene della società.

La comunità familiare, infatti, nasce dalla comunione delle persone: La “comunione” riguarda la relazione personale tra l’“io” e il “tu”. La “comunità” invece supera questo schema nella direzione di una “società”, di un “noi”. La famiglia, comunità di persone, è pertanto la prima “società” umana.”(Compendio DSC, 213).

A Milano, davanti a oltre un milione di persone, il Papa ha incoraggiato e sostenuto non il paradigma della famiglia da cartolina, ma quella che vive concretamente la realtà sociale e subisce tutti i drammi della crisi, delle incomprensioni, delle separazioni. Va letta così l’attenzione particolare dedicata ai divorziati, di cui Benedetto XVI coglie tutta la sofferenza.

Nella sua Omelia di Domenica 3 giugno, davanti ad una folla oceanica, il Papa ha ricordato alle famiglie: “Nella misura in cui vivrete l’amore reciproco e verso tutti, diventerete un Vangelo vivo, una vera Chiesa domestica”. Immancabile anche un richiamo alla necessità di “armonizzare i tempi del lavoro e le esigenze della famiglia, la professione e la maternità, il lavoro e la festa.”

La festa milanese ha mostrato che il cuore della società sono le relazioni tra persone e non l’individualismo né lo statalismo. Lo ha mostrato concretamente in variegate forme e senza stare sulla difensiva. Il Vangelo e la DSC ci salvano dagli “svuotamenti sociali”, dal consumismo che diventa illusoria ragione escatologica e da un assistenzialismo che annulla la partecipazione democratica.

Oltre un secolo fa Giuseppe Toniolo ricordava ai cattolici il loro ruolo di protagonisti per costruire una società migliore. Nel 1886 Toniolo così diceva: “I cattolici dovranno combattere da una parte l’economia individualista e liberista e dall’altra l’economia panteista o il socialismo di Stato. Solo per virtù di tali principi essi riusciranno a salvare ad un tempo le ragioni della libertà individuale privata e quelle del progresso del corpo sociale: ragioni oggidì alternamente compromesse da un liberalismo che dissolve e da una statolatria che soffoca e uccide.”

Durante la festa delle Famiglie, Benedetto XVI si è rivolto ai politici per riscoprire, insieme, il senso di uno Stato per i cittadini. Egli ha ricordato, nel suo incontro con le autorità, che per lo Stato “appare preziosa una costruttiva collaborazione con la Chiesa, senza dubbio non per una confusione delle finalità e dei ruoli diversi e distinti del potere civile e della stessa Chiesa, ma per l’apporto che questa ha offerto e tuttora può offrire alla società con la sua esperienza, la sua dottrina, la sua tradizione, le sue istituzioni e le sue opere con cui si è posta al servizio del popolo.”

Ancora una volta si ribadisce che la tradizione della Chiesa e la DSC possono guidarci nella riscoperta di quello che è il senso del nostro stare insieme con gli altri. Non ci dà ricette, né semplici liste di priorità. Ci fornisce una bussola, dei principi su cui fondare l’agire del cristiano e degli uomini di buona volontà.

Una bussola i cui punti cardinali sono principio-persona, sussidiarietà, solidarietà, bene comune. La famiglia è la sintesi più potente di questi cardini, l’orizzonte verso cui politica, impegno sociale, lavoro culturale, devono tornare a guardare se il futuro lo si vuole costruire e non soltanto declamare.

di Claudio Gentili, Direttore de “La Società”

ROMA, martedì, 26 giugno 2012 (ZENIT.org) –

Messaggio per la 7° Giornata per la salvaguardia del creato

Messaggio della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) per la 7ª Giornata per la salvaguardia del creato, in programma il 1 settembre prossimo. Il documento, che è stato diffuso oggi, porta le firme della Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, e della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo.

“Educare alla custodia del creato per sanare le ferite della terra”

1. La Giornata per la salvaguardia del creato: lode e riconciliazione

Celebrare la Giornata per la salvaguardia del creato significa, in primo luogo, rendere grazie al Creatore, al Dio Trino che dona ai suoi figli di vivere su una terra feconda e meravigliosa.

La nostra celebrazione non può, però, dimenticare le ferite di cui soffre la nostra terra, che possono essere guarite solo da coscienze animate dalla giustizia e da mani solidali. Guarire è voce del verbo amare, e chi desidera guarire sente che quel gesto ha in sé una valenza che lo vorrebbe perenne, come perenne e fedele è l’Amore che sgorga dal cuore di Dio e si manifesta nella bellezza nel creato, a noi affidato come dono e responsabilità. Con esso, proprio perché gratuitamente donato, è necessario anche riconciliarsi quando ci accorgiamo di averlo violato.

La riconciliazione parte da un cuore che riconosce innanzi tutto le proprie ferite e vuole sanarle, con la grazia del Signore, nella conversione e nel gesto gratuito della confessione sacramentale. Quindi si fa anche riconciliazione con il creato, perché il mondo in cui viviamo porta segni strazianti di peccato e di male causati anche dalle nostre mani, chiamate ora a ricostituire mediante gesti efficaci un’alleanza troppe volte infranta.

Questo è lo scopo del messaggio che vi inviamo, carissimi fratelli e sorelle, come Vescovi incaricati di promuovere la pastorale nei contesti sociali e il cammino ecumenico, in un fecondo intreccio che ci vede vicini e ci impegna tutti. Nella condivisione della lode e della responsabilità per la custodia del creato, il mese di settembre sta diventando per tutte le Confessioni cristiane una rinnovata occasione di grazia e di purificazione. Anche di questo rendiamo grazie al Signore.

La nostra riflessione raccoglie le tante sofferenze sperimentate, in questo anno, da numerose comunità, segnate da eventi luttuosi. Pensiamo alle immense ferite inflitte dal terremoto nella Pianura Padana. Mentre riconosciamo la nostra fragilità, cogliamo anche la forza della nostra gente, nel voler ad ogni costo rinascere dalle macerie e ricostruire con nuovi criteri di sicurezza. Pensiamo alle alluvioni che hanno recato lutti e distruzioni a Genova, nelle Cinque Terre, in Lunigiana e in vaste zone del Messinese. Nel pianto di tutti questi fratelli e sorelle sentiamo il lutto della terra, cui la stessa Sacra Scrittura fa riferimento, e che coinvolge tristemente anche gli animali selvatici, gli uccelli del cielo e i pesci del mare (cfr Os 4,3). È significativo, in proposito, che il 9 ottobre sia stato dichiarato dallo Stato italiano “Giornata in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo”.

2. Una storia di guarigione e responsabilità

La guarigione nasce da un cuore che ama, che si fa vicino all’altro per essere insieme liberati nella verità e condividere la vita. È la logica dell’educazione alla “vita buona del Vangelo” che le nostre Chiese stanno percorrendo in questo decennio.

Ce lo ricorda anche la storia biblica di Giuseppe (cfr Gen 37-49), venduto dai fratelli per rivalità e gelosia. La sua vicenda contiene un concreto itinerario di guarigione da parte di Dio delle ferite, sia quelle del cuore che quelle della terra. Giuseppe è gettato nel pozzo, gridando la sua innocenza, ma non è ascoltato dai fratelli. A prestare ascolto al suo gemito sarà Dio stesso, che ha cuore di padre. Giuseppe diventerà il viceré d’Egitto, attuando una intelligente politica agraria. Nella precarietà della crisi che si abbatte sul paese, resa visibile dalle vacche magre e dalle spighe vuote, immagini di forte suggestione anche per il momento attuale, la relazione del popolo con la terra sarà sanata proprio grazie alla lungimiranza e alla responsabilità per il bene comune dimostrata da Giuseppe, figura emblematica della Sapienza donata da Dio a Israele.

Egli, inoltre, pensa in termini di riconciliazione e non di vendetta quando si vede davanti i suoi fratelli, che lo hanno tradito e venduto. Se li mette alla prova con severità, è per cogliere l’autenticità del legame che li unisce al padre Giacobbe, verificando così la radice di ogni guarigione, interiore ed esteriore. Dopo aver constatato che il padre resta il premuroso e insostituibile punto di riferimento, egli rivela la sua identità, in un pianto liberatorio che diviene accoglienza fraterna e futuro di benessere in una terra e in un cuore riconciliati in saggezza e verità. Giuseppe stesso esce trasformato da questo perdono: egli diviene consapevole dell’agire misericordioso di Dio verso gli uomini.

Quello di Giuseppe, dunque, è l’itinerario biblico che proponiamo, perché possa essere di luce e di speranza, durante questo faticoso ma liberante cammino di benedizione.

3. Educare all’alleanza tra l’uomo e la terra

A noi, come Chiese in Italia, in sintonia con tante Chiese nel mondo, spetta proprio questo compito: riportare il cuore della nostra gente dentro il cuore stesso di Dio, Padre di tutti, che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). Solo se diventerà primaria la coscienza di una universale fraternità, potremo edificare un mondo in cui condividere le risorse della terra e tutelarne le ricchezze. Ciò si accompagna alla comprensione che la creazione ci è donata da Dio, che essa stessa si fa percorso verso Dio e ci fa sperimentare il dialogo tra di noi nella verità, come fratelli che hanno riconosciuto la paternità gratuita di Dio.

Si legge, infatti, nel messaggio scaturito dall’ultimo Forum Europeo Cattolico-Ortodosso, tenutosi a Lisbona nello scorso giugno: «Non è più possibile dilapidare le risorse del creato, inquinare l’ambiente in cui viviamo come stiamo facendo. La vocazione dell’uomo è di essere il custode e non il predatore del creato. Oggi si deve essere consapevoli del debito che abbiamo verso le generazioni future alle quali non dobbiamo trasmettere un ambiente degradato e invivibile» (n. 11).

È nella Bibbia che incontriamo la grande prospettiva dell’alleanza tra Dio e la sua creazione, in una reciprocità da riconoscere davanti a luoghi dove la bellezza esteriore si è fatta segno di una bellezza interiore – pensiamo, ad esempio, ai tanti siti dove i monaci custodiscono il creato – ma anche davanti ai tristi scempi dell’ambiente naturale, provocati dal peccato degli uomini, evidente soprattutto nelle azioni della criminalità mafiosa.

Tra ecologia del cuore ed ecologia del creato vi è infatti un nesso inscindibile, come ricorda Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: «L’uomo interpreta e modella l’ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale» (n. 48). L’ambiente naturale non è una materia di cui disporre a piacimento, «ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario. Oggi molti danni allo sviluppo provengono proprio da queste concezioni distorte» (ivi), come quelle che riducono la natura a un semplice dato di fatto o, all’opposto, la considerano più importante della stessa persona umana.

Ci viene chiesto, perciò, di annunciare queste verità con crescente consapevolezza, perché da esse potrà sgorgare un concreto e fedele impegno di guarigione dell’ambiente calpestato. Si tratta di un compito che appartiene alla sollecitudine educativa delle comunità cristiane e offre l’occasione per catechesi bibliche, momenti di preghiera, attività di pastorale giovanile, incontri culturali. È  una responsabilità che appartiene anche ai docenti, in particolare agli insegnanti di religione: essa potrà essere intensivamente richiamata nel mese di settembre, dedicato in modo speciale al creato e tempo di ripresa della scuola.

Ritessere l’alleanza tra l’uomo e il creato significa anche affrontare con decisione i problemi aperti e i nodi particolarmente delicati, che mostrano quanto ampie e complesse siano le questioni legate all’intreccio tra realtà ambientale e comunità umana. Accanto all’annuncio, infatti, è necessaria anche la denuncia di ciò che viola per avidità la sacralità della vita e il dono della terra. Proprio in questi mesi è venuta all’attenzione dei media la questione dell’eternit a Casale Monferrato, con i gravi impatti sulla salute di tanti uomini e donne, che continueranno a manifestarsi ancora per parecchi anni. Un caso emblematico, che evidenzia lo stretto rapporto che intercorre tra lavoro, qualità ambientale e salute degli esseri umani. L’attenzione vigilante per tale drammatica situazione e per i suoi sviluppi deve accompagnarsi alla chiara percezione che l’amianto è solo uno dei fattori inquinanti presenti sul territorio. Vi sono anzi aree nelle quali purtroppo la gestione dei rifiuti e delle sostanze nocive sembra avvenire nel più totale spregio della legalità, avvelenando la terra, l’aria e le falde acquifere e ponendo una grave ipoteca sulla vita di chi oggi vi abita e delle future generazioni.

Mentre esprimiamo una volta di più quella solidarietà partecipe, che si è già manifestata in numerosi gesti di condivisione, desideriamo proporre una riflessione tesa a cogliere in tali accadimenti alcuni elementi che la stessa forza dell’emergenza rischia di lasciare sullo sfondo, impedendo di percepirne tutta la rilevanza. Occorre invece saper leggere i segni dei tempi, scoprendo – nella luce della fede – quegli inviti a riorientare responsabilmente il nostro cammino che essi portano in sé.

Annunciare la verità sull’uomo e sul creato e denunciare le gravi forme di abuso si accompagna alla messa in atto di scelte e gesti quali stili di vita intessuti di sobrietà e condivisione, un’informazione corretta e approfondita, l’educazione al gusto del bello, l’impegno nella raccolta differenziata dei rifiuti, contro gli incendi devastatori e nell’apprendistato della custodia del creato, anche come occasioni di nuova occupazione giovanile.

4. Per una Chiesa custode della terra

Vivere il territorio come un bene comune è un’esigenza di vasta portata, che richiama anche le comunità ecclesiali a una presenza vigilante. Il territorio, infatti, è davvero tale quando abitato da un soggetto comunitario che se ne prenda realmente cura e la presenza capillare del tessuto ecclesiale deve esprimere anche un impegno in tal senso. Abbiamo bisogno di una pastorale che ci faccia recuperare il senso del “noi” nella sua relazione alla terra, in una saggia azione educativa, secondo le prospettive degli Orientamenti pastorali Educare alla vita buona del Vangelo. Prendersi cura del territorio, del resto, significa anche permettere che esso continui a produrre il pane e il vino per nutrire ogni uomo e che ogni domenica offriamo come “frutti della terra e del nostro lavoro” a Dio, Padre e Creatore, perché diventino per noi il Corpo e il Sangue del Suo amatissimo Figlio.

Per questo invitiamo con forza a tornare a riflettere sul nostro legame con la terra e, in particolare, sul rapporto che le comunità umane intrattengono col territorio in cui sono radicate. Si tratta di una realtà complessa e ricca di significati, che spesso rimanda a storie di relazioni e di crescita comune, in cui la città degli uomini e delle donne rivela il suo profondo inserimento in un luogo e in un ambiente. Il territorio è sempre una realtà naturale, con una dimensione biologica ed ecologica, ma è anche inscindibilmente cultura, bellezza, radicamento comunitario, incontro di volti: una densa realtà antropologica, in cui prende corpo anche il vissuto di fede.

I santi ci insegnano con chiarezza la strada da seguire, come san Bernardino da Siena, che mentre poneva al vertice della sua opera pastorale il nome di Gesù, davanti al quale tutti i ginocchi si piegano in adorazione, si adoperava per rafforzare i Monti di pietà e i Monti frumentari, segni di una rinascita che dà al denaro il giusto valore, diventando anche precursore di quella “economia di fiducia” che sola può guarire le ferite della nostra crisi, causata da avidità e insipienza.

Le stesse mani dell’uomo, sostenute e guidate dalla forza dello Spirito, potranno così guarire e risanare, in piena riconciliazione, il creato ferito, a noi affidato dalle mani paterne di Dio, guardando con responsabilità educativa alle generazioni future, verso cui siamo debitori di parole di verità e opere di pace.

Roma, 24 giugno 2012

Seminiamo la speranza. Una catechesi con gli adulti

Riflessioni e schede per i gruppi

di Carmelo Sciuto

Il sussidio intende contribuire al rilancio della formazione degli adulti, così come è stato richiesto dagli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 Educare alla vita buona del Vangelo e dal motu proprio Porta Fidei con il quale Benedetto XVI ha indetto l‘Anno della fede, con lo scopo di intensificare la riflessione sulla fede per aiutare tutti i credenti in Cristo a rendere più consapevole e a rinvigorire la loro adesione al Vangelo.

Il testo si propone di aiutare gli adulti a riappropriarsi del dono della loro fede per poterla adeguatamente trasmettere, anche attraverso l’approfondimento diretto dei temi tratti dal Catechismo della Chiesa Cattolica, accompagnato dal Catechismo CEI degli adulti la Verità vi farà liberi e dalle quattro grandi costituzioni del Concilio Vaticano II, di cui celebriamo il cinquantesimo anniversario dall’apertura.

Il tutto, in un orizzonte di speranza: in un tempo di incertezze e di preoccupazioni come il nostro, infatti, il cristiano è chiamato a riscoprire nel Cristo risorto la sorgente della propria “grande speranza” che riassume in sè tutte le piccole speranze quotidiane.

L’itinerario proposto in questo sussidio intende proprio condurre l’adulto a ri-partire nell’avventura della fede cristiana da questa speranza affidabile, che chiede di essere seminata abbondantemente nei solchi dei nostri ambiti di vita quotidiana.



XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio-Anno B

Prima lettura: Sapienza 1,13-15;2,23-24

Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.

Un Gesù sinceramente turbato dalla morte, specialmente dei piccoli e degli innocenti, ci suggerisce l’immagine vera di Dio Padre, anch’egli non contento della soggezione dell’uomo alla morte. Tale percezione, che ci fa accorgere che Dio è molto più solidale con noi di quanto si possa immaginare, viene ripresa con parole intense dall’autore del libro della Sapienza, il quale, alludendo in maniera più o meno esplicita ai primi tre capitoli della Genesi, si esprime così: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale» (1,13-15).

Occorre però chiarire che l’autore di Sapienza non intende la morte puramente in senso biologico, bensì soprattutto in senso «escatologico». La morte biologica non dipende infatti da una nostra scelta. Eppure essa può segnare la completa disfatta dell’esistenza qualora la si accompagni alla «rovina», o meglio, alla perdizione, che si rivela quale diretta conseguenza di errate scelte morali: «Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani» (1,12). Dio, dunque, ha creato tutto per il bene, come il racconto sacerdotale della creazione ci ricorda (Gen 1,31: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona»); suo obiettivo era l’affermazione della vita, dell’armonia, del benessere, perché tutto era orientato positivamente alla salvezza, come la frase «le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte» testimonia. Alla stessa umanità egli ha voluto dare piena fiducia e libertà, infatti era essa a governare, mentre il regno della morte non aveva alcun diritto di cittadinanza (2,23: «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura»).

Purtroppo, «la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (2,24): il diavolo, quindi, invidioso di un uomo reso da Dio immortale (ossia sempre in comunione con Dio), suo luogotenente sulla terra e felice, cerca il modo di introdurre un «cuneo» di separazione, agendo ovviamente sulla parte più debole, che è appunto l’uomo. A quest’ultimo è però possibile sottrarsi alla morte «seconda», come direbbe Francesco d’Assisi, testimoniando nella propria esistenza la vicinanza a Dio con l’operare la giustizia e il bene.

Seconda lettura: 2 Corinzi 8,7.9.13-15

Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».

Il brano paolino è, invece, un forte invito alla solidarietà e alla generosità, sulla scorta dell’esempio del Maestro Gesù Cristo: «come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (8,7.9). Paolo, infatti, era impegnato a coinvolgere tutte le comunità ecclesiali da lui fondate in una colletta a favore della chiesa-madre di Gerusalemme, che versava in condizioni poco floride. Ai corinzi, probabilmente non molto propensi a collaborare nonostante la loro migliore situazione economica, viene ricordato con discrezione che persino chi è più povero di loro (ossia le comunità della Macedonia) ha insistito per partecipare. Colpisce, però, il profondo motivo della «ricchezza» di Cristo, che nella lettera ai Filippesi Paolo esprime così: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (2.5-7). In realtà. Gesù non si è mai risparmiato per coloro che Dio Padre gli ha affidato in quanto fratelli, poiché è stato generoso e disponibile durante la sua missione e, nel momento supremo della croce, ha rivelato la ricchezza della grazia, ossia l’incommensurabile abbondanza della salvezza ponendola a disposizione di chiunque creda, senza alcuna distinzione in base all’età, al censo, alla nazionalità.

Se quindi tale ricchezza costituisce una grazia per l’umanità, questa allora non si vede trattata in modo disuguale da Dio. Proprio per sottolineare l’«imparzialità» divina che non vuole creare sperequazioni, l’Apostolo richiama esplicitamente in 8,13-15 il caso della raccolta della manna nel deserto da parte degli ebrei: «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: “Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno”» (precisiamo che il testo prodotto da Paolo si trova in Es 16,18 secondo la versione greca dei Settanta).

Vangelo: Marco 5,21-43

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

Esegesi

A conclusione della giornata delle parabole (4,1-34), il vangelo di Marco ci presenta Gesù che prosegue la sua opera di formazione dei discepoli attraverso la realizzazione di miracoli. Il primo è quello della tempesta sedata, alla fine del quale i discepoli si chiedono chi sia realmente Gesù, che domina persino le forze della natura (cf. 4,41). Segue poi la liberazione dell’indemoniato di Gerasa (5,1-20) e, infine, il brano di questa domenica. Rientra nel piano di tale formazione anche la difficoltà e l’insuccesso: in 5,17, nonostante Gesù avesse guarito un pericoloso indemoniato, i Geraseni «si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio»; in 6,1-6 si riporta che Gesù, pur trovandosi a Nazaret, la propria patria, «non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità».

I due “casi” che la liturgia oggi ci propone, invece, costituiscono un esempio positivo della stima e dell’attenzione di cui godeva Gesù in terra di Galilea. Infatti, partito dalla sponda gadarena del lago di Tiberiade, egli si vide immediatamente circondato da molta folla appena giunse sulle rive galilaiche. Qui incontrò un uomo molto autorevole, uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo (che in ebraico significherebbe “l’illuminato”). Il vangelo ce lo presenta esplicitamente come un padre disperato: «E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (5,22-23).

Possiamo immaginare la partecipazione emotiva di Gesù a questo dramma, al quale si associa la folla accompagnando fisicamente il Maestro e il padre. Al v. 25 si incastra un’altra storia, quella di una donna che ormai ha tentato in ogni modo, ma senza successo, di guarire dalla malattia che l’affliggeva: «Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando» (5,25-26). Il ragionamento della donna è lineare: il solo toccare Gesù può procurarmi la guarigione. Ed è ciò che avviene. Ci possiamo meravigliare del fatto che Gesù abbia quasi “preteso” che chi aveva ricevuto la guarigione testimo-niasse pubblicamente: non doveva egli avere fretta di recarsi a casa di Giairo? Eppure egli ha da dire qualcosa alla donna che ha nutrito una fede tanto grande: «E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (5,33-34).

Queste parole di sollievo e liberazione in fondo servono anche a Giairo, che a sua volta riceverà un segno ancora più strepitoso. Benché infatti fosse stato annunciato che la bambina era morta, «Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!» (5,36), perché ciò che costituisce la sorte irreparabile e irrimediabile per l’uomo, per il Figlio di Dio non è un ostacolo al dispiegamento della propria potenza. La bambina viene quindi risuscitata e, con grande senso di delicatezza umana e far certificare meglio la realtà della risurrezione. Gesù «raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare» (5,43).

In questi due segni emerge con chiarezza un elemento che potremmo definire “discriminante”, ossia la fede. In primo luogo la donna, la quale aveva ormai sperimentato ampiamente la limitatezza dei mezzi della scienza umana, incapace di guarirla ma non di impoverirla. Perciò, piena di speranza, ella fa quello che tanti altri malati prima di lei hanno fatto, secondo la stessa testimonianza di Marco: «Infatti ne aveva curati molti, così che quanti avevano qualche male gli si gettavano addosso per toccarlo» (Mc 3.10). La sua non è fiducia in eventuali virtù magiche detenute da Gesù, bensì vera e propria fede che addirittura suscita quel tremore tipico di chi ha compiuto una forte esperienza dell’ingresso di Dio nella sua vita. A Giairo, poi, viene chiesto qualcosa di autenticamente eroico: aver fede che Gesù è in grado di «risvegliare» sua figlia, per la quale era già pronto il funerale.

Gesù parla in realtà come figlio di Dio, per il quale la morte è solamente sonno; il suo scopo è rivelare ai genitori della fanciulla e ai tre apostoli, in quanto testimoni qualificati, che la mano potente di Dio, unita all’efficacia della sua parola, è in grado di restituire la vita. Perciò Gesù prende la fanciulla per mano e le dice «Talità kum», frase che i genitori suoi forse tante volte avranno adoperato per destare la propria figlia dal sonno. Quanta gioia avrà investito il cuore di Giairo e della moglie! Ma è lo sconcerto a prendere il sopravvento. Non è difficile da comprendere che anch’essi, «toccato con mano» l’intervento rivelatore e salvatore di Dio nella propria vita, siano rimasti spiazzati. Come è suo solito nel vangelo di Marco, Gesù raccomanda vivamente di non far sapere niente ad alcuno, perché questo miracolo sarebbe frainteso al di fuori del contesto che gli è proprio: la rivelazione del Figlio di Dio sulla croce.

Meditazione

La vita! La vita risanata, risuscitata, esaltata. Dio ama e vuole la vita. Come recita la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Ha creato tutto per l’esistenza» (1,13-14). La vita: ecco il tema che prepotentemente emerge dalla liturgia della Parola odierna.

Nonostante le genealogie che Matteo (1,1-17) e Luca (3,23-38) riportano nei loro vangeli sembrino attribuire ai maschi la dimensione generativa, tutti sanno che è la donna a partorire. Il lungo brano evangelico, insolito per l’evangelista Marco che ci ha abituato a brevi schizzi vivaci, ci trasmette quest’oggi l’esperienza di due figure femminili: l’una fisicamente segnata dalla malattia proprio nella sua femminilità, l’altra ‘ritornata alla vita’ a dodici anni, età ‘ufficiale’ della maturità riproduttiva. Tre quadri: al centro, quasi pietra preziosa incastonata, la vicenda della donna emorroissa; ai bordi, in due tempi, la narrazione della risurrezione della figlia di Giairo.

Un primo elemento che stupisce nel nostro brano è la presenza della folla, avvolgente e pervasiva come un mantello: accompagna Gesù e i suoi discepoli nel tragitto verso la casa del capo della sinagoga, funge da inconsapevole schermo tra l’emorroissa e Gesù stesso, tenta di bloccare il cammino del maestro, ne irride le parole; non può che essere «cacciata fuori» (v. 40) ne deve essere messa a conoscenza (cfr. v. 43) di quanto successo all’interno della casa. Malgrado – o forse proprio grazie a questo tratto, per cui ognuno di noi può riconoscersi nei soggetti del racconto – delle due donne ‘protagoniste’ non venga riportato il nome, bisogna prendere posizione personalmente ed uscire allo scoperto (cfr. vv. 22-23.33), senza paura della propria storia e senza vergogna di Gesù. La relazione con il Signore non può mai essere anonima ed indistinta, non può accontentarsi di fare da spettatore esterno, dentro una folla: è chiamata ad una sequela consapevole, libera e matura.

Ma cosa può spingere una figura pubblica come Giairo ed una donna legalmente impura (cfr. Lv 15,25) a gettarsi a piedi di Gesù, dinanzi a tutti, se non un pericolo ‘mortale’, una situazione in cui la morte sta tentando di inghiottire la vita? Ne nasce allora una lotta tra la paura (cfr. vv. 33.36) e la fede, nella speranza che Gesù possa operare qualcosa e comprendere il dramma di chi lo supplica. Costoro chiedono una vicinanza ‘fisica’ ai loro cari o alla loro persona: «Vieni a imporle le mani» (v. 23), «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello» (v. 28). La guarigione, e la salvezza che ne segue, in quanto riapre ad una relazione nuova con la vita, passa attraverso un contatto. Se questa dimensione è stata assunta con serietà dalla comunità dei discepoli attraverso le forme sacramentali, non deve essere intesa magicamente, superstiziosamente: l’incontro con Gesù è anche sempre mediato dalla parola, dallo sguardo ed è tra persone, non è incontro con un oggetto o un talismano!

Gesù cerca l’incontro personale ma non ha paura di agire e di compromettersi dinanzi a tutti. Se lascia fuori dalla casa di Giairo folla e parenti in trambusto per evitare ogni possibile spettacolarizzazione del suo operato, non si lascia distogliere dall’obiezione dei discepoli (cfr. v. 31) per porre invece dinanzi alla folla la donna che ha sentito «nel suo corpo che era stata guarita da quel male» (v. 29): vuole che tutti ne attestino la guarigione, così da reintrodurla nella comunità dei ‘viventi’! Ma la lotta tra la vita e la morte non lascia attimo di requie: per una figlia risanata e riconsegnata alla vita, un’altra muore a dodici anni (cfr. vv. 34-35). Non si è ancora avuto modo di rendersi conto della meraviglia operata che – sembra di sentire l’opprimente ed incalzante serie di sciagure riportate all’inizio del libro di Giobbe (cfr. 1,16-18) – subito subentra la temuta notizia della dipartita della figlioletta di Giairo. Se Gesù è riuscito a ridare all’emorroissa la capacità di generare vita, potrà fare qualcosa anche in questa situazione limite, disperata, dove la vita sembra aver capitolato per sempre? Qualcuno suggerisce addirittura di non disturbare ulteriormente Gesù… «Soltanto abbi fede!» (v. 36). Un gesto semplice e discreto, accompagnato dalla parola più importante di tutto il vocabolario cristiano – «Alzati!» (v. 41): è il verbo della risurrezione – producono il contatto vivificante anche con questa fanciulla, riportandola letteralmente in vita.

Stare lontani da Gesù apre la strada alla morte, toccarlo con la fede strappa da ogni vincolo di morte e sveglia la vita deposta in noi. Accogliamo la testimonianza di queste donne anonime che non si lasciano morire ma sperano in colui che è «venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

Preghiere e racconti

Che significato ha una malattia?

Sono molti i fattori che fanno ammalare gli alberi, ancora di più quelli che debilitano gli uomini.

Quando, in un albero, la malattia va troppo in là è difficile salvarlo: marciscono le radici, si gonfia il tronco, il ricambio si interrompe e le foglie cadono private della linfa.

Quando si ammala un uomo si pensa subito a un virus o a un batterio, che probabilmente c’è, ma nessuno si chiede da dove viene, come mai si e insinuato là dentro, perché proprio oggi e non un mese fa, in quella persona e non in quell’altra che magari era molto più esposta al rischio di un contagio? Perché, a parità di cure, uno guarisce e un altro soccombe?

Basta che un fulmine sfiori la corteccia di una quercia secolare per innescarne la distruzione, in quel varco si insinuano batteri, funghi e coleotteri destinati in breve a propagarsi a discapito della sua vita.

Gli alberi da frutto diventano fragili quando perdono la verticalità: un pino può crescere anche se è piegato dal vento ma non un albicocco: è la perpendicolarità perfetta al suolo a permettergli di vivere e fruttificare.

Per distruggere un uomo, per farlo ammalare, invece, cosa ci vuole? E per guarirlo? Che significato ha una malattia nel corso di una vita? Dannazione? sfortuna? o forse un’occasione improvvisa, un dono prezioso che il cielo ci offre?

(Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130).

La vita umana, “prezioso scrigno da custodire e curare”

“[…] Oggi ci è data l’opportunità di riflettere sull’esperienza della malattia, del dolore, e più in generale sul senso della vita da realizzare pienamente anche quando è sofferente. Nel messaggio per l’odierna ricorrenza ho voluto porre in primo piano i bambini ammalati, che sono le creature più deboli e indifese. E’ vero! Se già si resta senza parole davanti a un adulto che soffre, che dire quando il male colpisce un piccolo innocente? Come percepire anche in situazioni così difficili l’amore misericordioso di Dio, che mai abbandona i suoi figli nella prova? Sono frequenti e talora inquietanti tali interrogativi, che in verità sul piano semplicemente umano non trovano adeguate risposte, poiché il dolore, la malattia e la morte restano, nel loro significato, insondabili per la nostra mente. Ci viene però in aiuto la luce della fede. La Parola di Dio ci svela che anche questi mali sono misteriosamente “abbracciati” dal disegno divino di salvezza; la fede ci aiuta a ritenere la vita umana bella e degna di essere vissuta in pienezza pur quando è fiaccata dal male. Dio ha creato l’uomo per la felicità e per la vita, mentre la malattia e la morte sono entrate nel mondo come conseguenza del peccato. Ma il Signore non ci ha abbandonati a noi stessi; Lui, il Padre della vita, è il medico per eccellenza dell’uomo e non cessa di chinarsi amorevolmente sull’umanità sofferente. Il Vangelo mostra Gesù che “scaccia gli spiriti con la sua parola e guarisce coloro che sono ammalati” (Mt 8, 16), indicando la strada della conversione e della fede come condizioni per ottenere la guarigione del corpo e dello spirito, è la guarigione voluta dal Signore sempre. È la guarigione, d’amore integrale, di corpo e anima, perciò scaccia gli spiriti con la parola. La sua parola è parola d’amore, parola purificatrice: scaccia gli spiriti del timore, della solitudine, dell’opposizione a Dio, perché così purifica la nostra anima e dà pace interiore. Così ci dà lo spirito dell’amore e la guarigione che comincia dall’interno. Ma Gesù non ha solo parlato: è Parola incarnata. Ha sofferto con noi, è morto. Con la sua passione e morte Egli ha assunto e trasformato fino in fondo la nostra debolezza. Ecco perché – secondo quanto ha scritto il Servo di Dio Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Salvifici doloris – “soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all’umanità in Cristo” (n. 23).

Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto sempre più che la vita dell’uomo non è un bene disponibile, ma un prezioso scrigno da custodire e curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento. La vita è mistero che di per se stesso chiede responsabilità, amore, pazienza, carità, da parte di tutti e di ciascuno. Ancor più è necessario circondare di premure e rispetto chi è ammalato e sofferente. Questo non è sempre facile; sappiamo però dove poter attingere il coraggio e la pazienza per affrontare le vicissitudini dell’esistenza terrena, in particolare le malattie e ogni genere di sofferenza. Per noi cristiani è in Cristo che si trova la risposta all’enigma del dolore e della morte. La partecipazione alla Santa Messa, come voi avete appena fatto, ci immerge nel mistero della sua morte e della sua risurrezione. Ogni Celebrazione eucaristica è il memoriale perenne di Cristo crocifisso e risorto, che ha sconfitto il potere del male con l’onnipotenza del suo amore. E’ dunque alla “scuola” del Cristo eucaristico che ci è dato di imparare ad amare la vita sempre e ad accettare la nostra apparente impotenza davanti alla malattia e alla morte […]”.

(Benedetto XVI, Intervento in occasione della Giornata Mondiale del Malato, 11.02.2009).

Per Dio la morte è un sonno

Ogni testo del vangelo ci è molto utile sia per la vita presente che per la futura, ma il testo di oggi ancora di più perché contiene la totalità della nostra speranza e bandisce ogni motivo di disperazione. […] Ma parliamo del capo della sinagoga che, mentre conduce Cristo presso sua figlia, offre a una donna l’occasione di venire a Gesù. Così comincia la lettura di questo giorno: «Ecco che un capo si avvicinò, si prosternò davanti a Gesù dicendo: “Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà”» (Mt 9,18). Cristo conosceva l’avvenire e non ignorava che questa donna le sarebbe venuta incontro. È lei che farà capire al capo dei giudei che Dio non ha bisogno di spostarsi, che non è necessario mostrargli il cammino né sollecitare la sua presenza fisica. Bisogna credere, invece, che Dio è presente ovunque, con tutto il suo essere, sempre; e ancora che lui può fare tutto senza fatica, donando un ordine, che invia la sua potenza senza trasportarla, che mette in fuga la morte con un ordine senza muovere la mano, che rende la vita per sua decisione, senza far ricorso alla medicina.

«Mia figlia è morta proprio ora, ma vieni». Questo significa: «Il suo corpo conserva ancora il calore della vita, vi sono ancora dei segni della sua anima, il suo spirito non l’ha ancora lasciata. La famiglia ha ancora la figlia, il regno dei morti non la riconosce ancora come sua. Vieni presto a trattenere la sua anima pronta a partire».

Insensato! Non credeva che Cristo poteva resuscitare una morta, ma soltanto trattenerla. Così, come Cristo giunse nella casa e vide che la gente piangeva la fanciulla come una morta, volle condurre alla fede i loro cuori increduli e disse che la figlia del capo dormiva, non era morta poiché essi pensavano che risorgere dai morti non fosse più facile che levarsi dal sonno. «La fanciulla non è morta, ma dorme» (Mt 9,23). E, in verità, per Dio la morte è un sonno. […] Ascolta ciò che dice l’Apostolo: «All’istante, in un batter d’occhio i morti resusciteranno» (2Cor 15,52).

(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 34,1.5, CCL 24, pp. 193.197-199).

Cerca qualcuno che ti faccia sorridere

Quando la porta della felicità si chiude,

un’altra si apre, ma tante volte guardiamo

così a lungo a quella chiusa,

che non vediamo quella che è stata aperta per noi.

Cerca qualcuno che ti faccia sorridere

perché ci vuole solo un sorriso

per far sembrare brillante una giornataccia.

Trova quello che fa sorridere il tuo cuore.

L’amore comincia con un sorriso.

Quando sei nato, piangevi

e tutti intorno a te sorridevano.

Vivi la vita in modo che quando morirai,

tu sia l’unico che sorride

e tutti intorno a te piangano.

(Paulo Coelho).

«Sei un pellegrino in viaggio, ma prova a goderti il viaggio»

Una mia ex-studentessa, una ragazza tranquilla e riservata, venne a trovarmi. Chiacchierammo per un po’, quindi le domandai se stava utilizzando il suo diploma di infermiera. «No», rispose. «Vede, sto morendo. Ho la leucemia e sono in fase terminale». Naturalmente, rimasi senza fiato. Quando mi ripresi dall’emozione, chiesi a Betty che cosa provasse: «Che cosa si prova a ventiquattro anni, quando pensi che hai davanti tutta la vita e all’improvviso ti metti a contare i giorni che ti restano?». Col suo solito atteggiamento riservato e sereno, mi rispose: «Forse non riuscirò a spiegarmi, ma questi sono i giorni più felici della mia vita. Quando pensi di avere tanti anni davanti è facile rimandare le cose. Uno dice a se stesso: «Mi fermerò e annuserò il profumo dei fiori la prossima primavera». Ma quando sai che i giorni della tua vita sono limitati, ti fermi ad annusare il profumo dei fiori e a sentire il calore dei raggi solari proprio oggi. A causa della malattia di cui soffro, ho subìto numerosi prelievi del midollo spinale. E’ un procedimento doloroso, ma il mio ragazzo mi stava vicino e mi teneva la mano. Credo che fossi più consapevole del conforto della sua mano nella mia che dell’ago inserito nel mio midollo spinale».

Parlammo a lungo della morte e delle prospettive che essa apre. Avevo sempre sentito dire che non si potrebbe vivere in pienezza se non si sapesse che la vita un giorno o l’altro finirà. Betty mi aiutò a capire questa verità. Adesso è morta, la leucemia se l’ è presa. Grazie a lei ho capito che è indispensabile godere di tutte le cose buone di questa vita. Era come se Dio mi stesse dicendo attraverso di lei: «Sei un pellegrino in viaggio, ma prova a goderti il viaggio».

(John Powell, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 41997, 134-135).

La vita eterna  che cos’è?

«Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo.

Continuare a vivere in eterno  senza fine  appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine –  questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.

È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: “È vero che la morte non faceva  parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio […] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non illumina la grazia”. Già prima Ambrogio aveva detto: “Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…”».

(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, 24-25).

Signore, fa di me uno strumento della tua pace

Signore, fa di me uno strumento della tua pace,

dove c’ è l’odio che io porti l’amore,

dove c’è l’offesa che io porti il perdono,

dove c’ è la discordia che io porti l’unione,

dove c’ è l’errore che io porti la verità,

dove c’ è il dubbio che io porti la fede,

dove c’ è la disperazione che io porti la speranza,

dove c’ è il buio che io porti la luce,

dove c’ è la tristezza che io porti la gioia.

Fa’, o Signore, che io non cerchi tanto

di essere consolato quanto di consolare,

di essere compreso quanto di comprendere,

di essere amato quanto di amare.

Perché è dimenticando se stesso che ci si trova,

è morendo che si risuscita

alla vita eterna”.

(Preghiera Semplice, attribuita a S. Francesco).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

XIII DOM TEMP ORD ANNO B