XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno B

Prima lettura: Amos 7,12-15

In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».

Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».

Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere. Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena consapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.

Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.

vv. 12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa. Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.

Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi. Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svolge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese. Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa. Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vivere; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.

vv. 14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica. Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina. Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.

È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf. Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.

Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v. 14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini. Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame. Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.

Seconda lettura: Efesini 1,3-14

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.

In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo. In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto,  avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.

La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosiddette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.

Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera. È una benedizione, secondo la prassi liturgica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.

Il v. 3 – la formula di benedizione — è introduttivo. Il verbo benedire (euloghein) è ripetuto due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio). Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.

La prima parte – vv. 4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio:

1. l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv. 4-6a)

2. la grazia della redenzione (vv. 6b-7)

3. la conoscenza del piano salvifico (vv. 8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio. Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvezza, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia. «Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.

La seconda parte – vv. 11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi:

1. il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv. 11-12).

2. il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appropriazione della salvezza (v. 13).

3. il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti. Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v. 14).

È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifica di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.

Vangelo: Marco 6,7-13

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.  E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Esegesi

La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù. Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplicazione dei pani (cap. 6). Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.

Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v. 12 si limita a un generico invito alla conversione.

L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.

v. 7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco. Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf. i discepoli del Battista e Paolo). Il «potere sugli spiriti immondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorcismo (9,18).

vv. 8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi. Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.

Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fiducia in Dio. Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quotidiane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.

vv. 10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione. Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele. Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di accogliere il messaggio evangelico.

L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambiamento del cuore, della mentalità: una conversione. Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».

vv. 12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco. Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i malati, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.

Meditazione

Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci narra l’invio dei Dodici in missione. La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e intensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evangelizzazione. Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.

In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi. Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione. «E prese (lett. cominciò) a mandarli…» (v. 7). Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici. È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione saranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v. 30).

Quando chiama (al v. 7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr. 3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per. Così che la missione fa intrinsecamente parte della vocazione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione. Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio. E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale. Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15). Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…

Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due». Certamente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr. At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr. Dt 19,15). Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare. Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo. Per questo è importante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzitutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama. Due persone formano già una piccola comunità (cfr. Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco. Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12). E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…

Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come devono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un determinato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé. I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male. Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indispensabile. Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, comunque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore). In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.

Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’. Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quotidiana della vita. La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture. «Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.

Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza. «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero. » (v. 11). Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottolineato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione. Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio. Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato. Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.

Preghiere e racconti

Hanno annunciato

“Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza“. (At 4,29)

Hanno annunciato che un sapone fa primavera,

hanno proclamato che un tipo di benzina

t’assicura il coraggio e formidabile potenza.

Hanno gridato per le piazze e sui tetti

le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.

Ma hanno taciuto il Verbo

e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola:

la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.

Hanno annunciato che la pace

è fatta di tante uova di cioccolata,

e della tredicesima, e di molte banconote,

di frigoriferi colmi d’ogni bene,

e di appartamenti in città con bagni di maiolica.

Ma la violenza è esplosa per le strade

e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti

che celano nella coda mitra e bombe molotov.

O uomini e donne del nostro tempo,

noi manchiamo di vero annuncio,

perché manchiamo di conoscenza contemplativa.

Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio

perché abbiamo smarrito il silenzio,

anzi ne abbiamo paura.

E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti

a colpi di radioline e transistor.


Ma invano noi edifichiamo la città

se non è il Signore a costruirla con noi.

Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia

invano attendiamo la pace

da noi e dai nostri fratelli.

(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. «Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né  pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti. […] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).

 

Il mio sì

Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato. Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato. Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro. Io ho la mia missione. In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo. Egli non ha creato me inutilmente. Io farò del bene, farò il suo lavoro. Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.

(John Henry Newman).

Portatrici dell’amore di Cristo

Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.

Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche cooperatrici di Cristo, le portatrici del suo amore. Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo. Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace. Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.

(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed. San Paolo).

Una Chiesa missionaria

«Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si  apre al desiderio di condividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46). «La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

parola del Padre a te ci rivolgiamo.

Custodisci i nostri propositi,

ravviva il nostro servizio ecclesiale,

sorreggi le nostre fatiche,

guida i nostri passi

nella ricerca delle vie più adatte

per annunciare il tuo vangelo.

La nostra povertà è grande,

noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te:

incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.

Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo,

vivi e regni in noi nella tua Chiesa,

per tutti i secoli dei secoli. Amen.

(Paolo VI).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

XV DOM TEMP ORD ANNO B

Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia

 

Dopo la sessione tenutasi a Roma dal 26 marzo al 30 marzo, il Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia – organizzato dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia della CEI in collaborazione con il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia – dall’8 al 21 luglio si sposta in Valle d’Aosta, a La Thuile.

Come spiega il direttore dell’Ufficio nazionale, don Paolo Gentili, si offre così alle Chiese locali uno strumento formativo universitario, maggiormente fruibile a chi coltiva la necessità di una preparazione all’altezza delle nuove esigenze della pastorale matrimoniale e familiare.

L’accompagnamento dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia assicura anche, per quanto possibile, lo stile comunitario della convivenza durante i corsi, favorendo le relazioni interpersonali, il confronto con realtà vocazionali diverse e una intensa vita spirituale.

Il Master punta a una formazione accademica interdisciplinare in Scienze del Matrimonio e della Famiglia per sostenere quanti operano da esperti nella pastorale familiare, attraverso una preparazione specifica che li abilita a testimoniare e ad annunciare nelle comunità il “vangelo del matrimonio e della famiglia”.
In particolare, si propone di preparare formatori di formatori nel campo della pastorale familiare; sposi capaci di dare un contributo competente e significativo allo sviluppo della teologia del matrimonio e della famiglia; esperti in tematiche riguardanti la visione integrale della persona, il disegno di Dio sull’amore umano e il valore della vita; animatori che valorizzano l’apporto della teologia, della filosofia e delle scienze umane nell’ambito della cultura e della vita sociale a servizio della famiglia.

 

 

Una “Cristoteca” al servizio dei giovani

Musica tecno, house, hip hop, dance, passata dai migliori dj di estrazione cattolica, per “evangelizzare la notte”.

È una iniziativa della pastorale di evangelizzazione notturna voluta dall’arcidiocesi di Rio de Janeiro, per aiutare i giovani a vivere il divertimento e la festa in modo sano e per prepararsi alla Gmg internazionale che si svolgerà nella città brasiliana dal 23 al 28 luglio 2013.

L’idea di creare questo servizio diocesano nasce nel 2011 sulla spinta di un sacerdote-dj della diocesi di san Paolo, padre Joseph Anthony, meglio conosciuto come Padredj Zeton.

Più che una discoteca, una “Cristoteca”, dove i giovani possono incontrarsi, ascoltare buona musica e ballare, in un luogo, Lounge Fox in Campo Grande, che è diventato un punto di riferimento per tantissimi. A Lounge Fox è possibile anche incontrare dei missionari con i quali parlare delle proprie speranze e aspettative di fede.

La “Cristoteca” si svolge la prima e seconda domenica di ogni mese e il prossimo incontro è fissato il 5 agosto, dalle ore 16 a mezzanotte.

Gli organizzatori hanno attivato anche una pagina Facebook: www.facebook.com/baladajovemafesta.

da SIR del 10/07/12

Minori e social network: il messaggio dell’ultimo rapporto

L’ultimo rapporto del progetto EU Kids on line ha puntato la lente d’ingrandimento su Facebook & C. I filtri funzionano male, accade così che indirizzi e numeri di telefono vengano diffusi con troppa leggerezza.

Nonostante le restrizioni e i divieti i giovanissimi utilizzano liberamente i social network, con tutti i rischi che questo può comportare. E’ questo in sostanza, il messaggio dell’ultimo rapporto stilato da EU Kids Online, il progetto di ricerca europeo, partito nel 2006, che mira a ricostruire e analizzare i dati relativi all’accesso e all’uso di internet fra i minori di 21 Paesi nonché alle opportunità e ai rischi online che essi sperimentano.

Il nodo italiano dell’iniziativa è rappresentato dal centro di ricerca OssCom dell’Università Cattolica di Milano, referente ufficiale Giovanna Mascheroni.

A destare una certa preoccupazione sono alcuni dati emersi dalla ricerca. Secondo l’ultimo report Social network, age e privacy infatti un numero sempre maggiore di ragazzini ha un profilo su Facebook nonostante il sito fissi l’età minima di accesso a 13 anni. La realtà dei fatti presenta invece una realtà ben diversa: tra i ragazzini tra i 9 e i 12 anni circa il 38% è iscritta ad almeno un social network e un quinto di questi utilizza Facebook. Senza prestare troppa attenzione a privacy e sicurezza. Un quarto dei 25mila ragazzi europei intervistati per la ricerca ha un profilo “pubblico” ovvero visibile da tutti e, tra questi, un quinto ha ammesso di aver inserito nella sua pagina il proprio indirizzo e/o numero di telefono. Non molto incoraggiante, dal punto di vista della sicurezza anche il dato riguardante il numero dei contatti: un sesto dei ragazzi tra i 9 e i 12 anni e un terzo di quelli dai 13 ai 16 anni hanno più di cento contatti online e un quinto dei ragazzi della fascia 9-12 sono in contatto con persone conosciute online.

Questo perché a mancare è la sensibilità alla tutela della propria privacy. In gran parte dei casi i ragazzi (soprattutto i più piccoli) non sono in grado di comprendere e dunque di utilizzare le possibilità che un sito come Facebook offre per tutelare le informazioni sensibili. Il ruolo dei genitori è dunque molto importante e la ricerca sottolinea che, quando l’esperienza sul social network è monitorata da un adulto, l’utilizzo è decisamente più responsabile.

Secondo Sonia Livingstone, docente della London School of Economics and Political Science e coordinatrice del progetto, «i ragazzi si stanno evidentemente spostando su Facebook, che è il sito più popolare in 17 dei 25 paesi in cui è stata condotta la ricerca. Molti provider cercano di limitare l’accesso ai servizi a ragazzi dai 13 anni in su, ma queste misure non sono efficaci».

Una soluzione per garantire la sicurezza dei ragazzini che navigano sui social network potrebbe essere, paradossalmente, quella di rimuovere i limiti di età: «Dal momento che i ragazzi sono abituati a mentire sulla propria età per accedere a siti ‘proibiti’ – spiegaElisabeth Staksrud, dell’Università di Oslo – sarebbe più utile identificare gli utenti più giovani per indirizzare loro misure protettivead hoc. Tuttavia, siamo consapevoli del fatto che abolire i limiti di età porterebbe a una crescita esponenziale dei giovani che usano questo tipo di siti».

Short Report – “Social Network, Eta e Privacy” [Pdf – ITA]

da: Cattolica.news

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Dal 14 al 24 luglio torna Giffoni Experience, la rassegna cinematografica per giovani, giunta alla 42ª edizione.

Ospiti internazionali e italiani, 8 anteprime in esclusiva e tanti film in concorso, migliaia di ragazzi trasformeranno Giffoni Valle Piana (Sa) in una festa all’insegna del sano divertimento e della gioia di vivere. Undici giorni di cinema, arte, cultura e tanta musica, grazie alla collaborazione del Neapolis Rock Festival, che coinvolgeranno non meno di 180 mila persone, 30 mila in più rispetto al 2011. 168 opere in programma (75 lungometraggi e 84 cortometraggi), 3.300 giovani dai 3 ai 23 anni provenienti da 54 nazioni e 160 città italiane, 50 espositori, 50 spettacoli di strada, musical, teatro e burattini, 70 appuntamenti di giochi e animazioni diffusi in tutto il paese: sono alcuni numeri della kermesse.

La “Felicità” è il tema che farà da filo conduttore all’edizione 2012. Gigliola Alfaro, per il Sir, ha posto alcune domande a Claudio Gubitosi, fondatore e managing director.

Non è difficile parlare di felicità in tempo di crisi?
“Parliamo di felicità in tempo di crisi, seguendo un percorso che parte nel 2010, per i 40 anni del Festival, con il tema dell’amore ed è proseguito l’anno scorso con ‘link’, cioè il mettersi in rete. Adesso la felicità: abbiamo tutti il diritto di essere felici, ma di questi tempi dobbiamo ricercare la felicità partendo dalle piccole cose e dai piccoli gesti. Per esempio, sono felicissime le 1.600 famiglie di Giffoni che adottano i nostri giovani giurati. Il tempo di crisi per me non riguarda solo l’economia e la finanza, ma c’è crisi dentro le persone: le famiglie sono sconvolte, i ragazzi preoccupati perché vedono i genitori in difficoltà e hanno davanti un futuro incerto. In tempo di crisi la felicità allora va scovata nella quotidianità. A me interessa portare questa rivoluzione dentro le coscienze delle persone. La felicità non è solo condividere la vita con chi Dio ci ha dato accanto, ma anche guardare al futuro con più ottimismo, con le risorse che abbiamo dentro. Più i tempi sono duri, più Giffoni si apre”.

Quali sono le novità di Giffoni Experience 2012?
“Oltre al tema dominante sulla felicità, il festival di quest’anno si caratterizza anche per essere ‘diffuso’ e ‘condiviso’. Durante l’anno abbiamo voluto costruire il programma di Giffoni con i ragazzi che non sono più solo giurati: sono i veri protagonisti e anche gli organizzatori del festival in ogni angolo del mondo. Qui torna la felicità: perché i ragazzi sono felici di partecipare a un evento che hanno costruito e condiviso con noi. Ma non solo: la kermesse sarà condivisa a livello territoriale con il paese di Giffoni. Infatti, sono previsti grandi eventi e piccole perle, spettacoli nelle grandi e piccole piazze, artigianato locale e artistico, degustazione di prodotti tipici locali, eccellenza del territorio ma anche di altre Regioni d’Italia”.

Sarà una manifestazione per tutti?
“Sì, abbiamo scelto di operare una politica di ‘ammortizzatori sociali’. Il 90% delle nostre attività è gratuito; per permettere, poi, a tutte le famiglie di partecipare ai grandi concerti, ci saranno biglietti d’ingresso con un prezzo veramente irrisorio. Come sempre diamo fiducia ai ragazzi, ma abbiamo voluto fare di Giffoni anche una sorta di family festival. Una kermesse, la nostra, che guarda al futuro, ma anche al passato: nella giornata di apertura, il 14 luglio, riproponiamo la festa dei Gigli di Nola, che, con 1400 anni di storia, è una delle manifestazioni popolari più note e più importanti del nostro Paese, candidata nel 2013 come patrimonio dell’Unesco. Inizieremo così con una carica di energia e felicità che segneranno tutto il percorso 2012 di Giffoni. Solo da Nola attendiamo 3 mila persone. Quest’anno vogliamo sperimentare una nuova formula: sobrietà e niente tappeti rossi, qualità dell’offerta culturale, ma estremamente popolare. Ci auguriamo che questa formula sia gradita a tutti”.

Giffoni non è solo cinema, musica, spettacolo: grande è l’impegno sociale…
“Proprio oggi ‘inauguriamo’ il festival con una nostra presenza all’Ospedale Bambin Gesù di Roma. La Disney ha accolto la nostra idea di proporre i suoi film ai piccoli pazienti del nosocomio. Sempre sulla spinta di Giffoni la città di Salerno ha siglato un protocollo con l’Ospedale Bambin Gesù per un primo centro per bambini autistici. Come sempre, poi, realizziamo una campagna contro l’uso di droghe e a favore della sicurezza stradale. Quest’anno 12 vigili urbani di Milano faranno lezioni di scuola guida e sicurezza ai ragazzi. Con il Cai (Club alpino italiano) e il Trento Film Festival organizzeremo arrampicate ed escursioni. Ci saranno gli studenti del liceo scientifico Raffaele Piria di Rosarno che presenteranno in esclusiva a Giffoni il musical Jesus Christ Superstar. Ancora: la campagna per la corretta alimentazione, il rispetto dell’ambiente, momenti di gioco con l’Associazione nazionale San Paolo Italia (Anspi) o di riflessione su diritti umani, solidarietà e impegno sociale con i progetti di Aura (l’associazione del Giffoni per il sociale), Amnesty, Actionaid, Telefono Azzurro, Anffas e con l’assessorato alla Sanità della regione Campania il progetto ‘Lavoro, non bevo’”.

da: SIR 10/07/12

Il ruolo dei luoghi educativi

“L’argomento religione è stato piuttosto trascurato o minimalizzato nelle ricerche e nella letteratura sull’immigrazione”, invece “l’aspetto religioso acquista oggi dimensioni ed interesse crescenti”. Infatti, “attraverso nuove immigrazioni, la costituzione di nuovi nuclei familiari, le conversioni (collegate soprattutto alla celebrazione di matrimoni interreligiosi) aumenta il numero dei centri religiosi non cattolici (moschee, chiese, pagode…) e cambiano riti e sensibilità fra i cattolici”.

Lo ha detto ieri mons. Giancarlo Perego, direttore generale Migrantes, durante la presentazione, a Roma, del volume “Asia-Italia. Scenari migratori” promosso e finanziato dalla Caritas Italiana e dalla Fondazione Migrantes. Il volume focalizza l’attenzione sulle migrazioni che dall’Asia si dirigono verso l’Italia.

Nuovi scenari. “Guardare alle appartenenze religiose dei migranti – ha precisato mons. Perego – significa porre l’attenzione alla complessità delle storie personali e collettive, arricchire le facce del prisma che ci restituisce l’immagine del migrante non solo come lavoratore o lavoratrice, non solo come clandestino o irregolare, non solo come alunno o studente, non solo come utente dei servizi, ma come persona”. In realtà, “il fenomeno della mobilità crescente mentre favorisce nuove possibilità di scambio tra i popoli, crea identità meticcie, alimenta anche pesanti conflittualità”. Di fronte a questa situazione, in cui “è forte la tentazione della chiusura”, “sono fondamentali atteggiamenti ispirati all’ascolto, all’accoglienza e alla ospitalità nei confronti dello ‘straniero’, superando tanto il modello dell’assimilazione che nega la differenza, quanto quello della tolleranza che mantiene la distanza, e promuovendo una forma di integrazione, che si sforzi di trasformare la multiculturalità e la multireligiosità in interculturalità e in interreligiosità”.

Alcuni dati. In questi nuovi scenari l’Italia, ha sottolineato il direttore generale di Migrantes, “sta diventando differente anche sul piano della cattolicità” e al tempo stesso “sta diventando diversamente religiosa”. Facendo riferimento in particolare al Continente asiatico, mons. Perego ha snocciolato alcuni numeri: “Dei 766.000 immigrati, 205.000 sono mussulmani, 158.000 cristiani, 114.000 induisti, 88.000 buddisti, 60.000 appartenenti ad altre religioni orientali. I cattolici sono originari soprattutto dalle Filippine (109.000); sempre dalle Filippine sono 7.000 cristiani riformati. I musulmani sono soprattutto originari del Pakistan (73.000), Bangladesh (71.000). Gli induisti e gli appartenenti alle religioni orientali provengono soprattutto dall’India e dalla Cina”. Secondo il direttore di Migrantes, “è un mondo cristiano e religioso straordinario, un laboratorio di esperienze religiose che chiede un dialogo ecumenico e religioso rinnovato nella quotidianità, costruito su esperienze di studio, di ricerca, di incontro e di dialogo con i nostri ‘fratelli’, come ha invitato a fare il Concilio Vaticano II”. 

Guardare al futuro. In questa nuova realtà “la Chiesa italiana è invitata dalle migrazioni” a “ripensare i luoghi educativi (gli oratori e le scuole e le università cattoliche in particolare), la liturgia, che è stata arricchita da tradizioni diverse (bizantina, siro-malabarese…), gli itinerari di fede e di iniziazione cristiana, il presbiterio diocesano (ricco di 2300 sacerdoti immigrati), il mondo delle religiose (oltre 3000 provenienti da altri Paesi del mondo), lo stile e gli strumenti di accoglienza, i mezzi di comunicazione sociale”. L’esperienza di una Chiesa Cattolica italiana differente invita, pertanto, “a un percorso educativo, non unilaterale, che dalle relazioni personali e sociali passa alle relazioni ecclesiali”. Non solo: “La presenza in Italia di quasi 2 milioni e 500 mila immigrati provenienti da tradizioni e comunità religiose cristiane, in particolare dal mondo ortodosso, chiede un ritorno a un dialogo ecumenico che da una parte è costruita sulla conoscenza, ma dall’altra costruita sulle relazioni, di cui la preghiera costituisce l’elemento centrale”. Nelle diocesi italiane “si moltiplicano le iniziative nel segno del dialogo ecumenico: celebrazioni comuni, libri per la preghiera comune, la concessione di edifici sacri a comunità ortodosse, centri di ascolto e servizi di carità in comune con il mondo protestante…”. Per mons. Perego, “sono segni che s’inseriscono dentro un cammino ecumenico e, in particolare, di dialogo con la Chiesa orientale ortodossa”. Quanto al futuro, “la stabilità di questo quadro delle appartenenze religiose dipende dall’incidenza dei flussi. Se nel futuro – come è probabile – prevarranno i flussi dall’Africa, in particolare da quella Subsahariana, e dall’Asia (Cina e India da sole raggiungeranno a breve i 3 miliardi di abitanti), si determinerà una maggiore presenza islamica e atea, anche se da questi Paesi arrivano – come la ricerca evidenzia – pure numerosi cattolici e oltre che induisti e buddisti”. “Il domani – ha concluso il direttore generale di Migrantes – si prepara nel dialogo che oggi si costruisce”.

Da SIR del 5/7/12

Un nuovo modello per l’Italia e i cattolici

Il mondo cattolico dà il meglio in ambito locale, ma rischia il provincialismo e il rifiuto della politica”; questo il dibattito suscitato dall’articolo di Ernesto Galli sul silenzio dei cattolici in Italia rispetto alla politica italiana.

L’irrilevanza dei cattolici” di Ernesto Galli della Loggia del 24 giugno 2012

La questione cattolica costituisce uno dei nodi più profondi attorno a cui si annoda e si snoda la vicenda nazionale. Prima e dopo la costruzione dello stato unitario. Per questo, essa riemerge, con regolarità impressionante, in tutti i passaggi storici nei quali cambiano gli equilibri di potere. Era accaduto così al momento della formazione dello stato, prima e dopo la seconda guerra mondiale, alla nascita della repubblica fino a tangentopoli. E così ancora oggi, nel mezzo di una gravissima crisi economica e finanziaria. Non è un caso. Comunque la si giri, il paese non sta in piedi a prescindere da questa radice. Per questo, è prima di tutto a questa radice che il paese guarda nei momenti più delicati. Per i cattolici, essere all’altezza del loro compito non è sempre stato facile, soprattutto a causa di alcune inclinazioni involutive che, quando non sono contrastate, ne deprimono le potenzialità.

La prima di queste tendenze ha a che fare con il provincialismo a cui è esposta (per paradosso) la cultura cattolica italiana. Forti di un’influenza che altrove non ritrovano e qualche volta sospettosi nei confronti di molti dei processi che si producono con la modernità, molti cattolici – accademici, imprenditori, banchieri, politici – cedono, anche alla tentazione di rimanere nel piccolo stagno nazionale, guadagnando posizioni eminenti, ma finendo così per soffrire di un provincialismo che li rende marginali alle più importanti dinamiche storiche. In questo modo, l’originale punto di vista che il cattolicesimo ha elaborato sui temi sociali, economici e antropologici finisce per svilirsi e perdere il suo potenziale propositivo.

La seconda è che i cattolici impegnati nel mondo danno il meglio di sé lontano dalle complicate vicende e altrettanto complicate preoccupazioni dei Palazzi (qualunque natura abbiano), nelle tante forme del loro concretissimo radicamento locale che, a onor del vero, ne costituiscono anche il più autentico punto di forza. Laddove, cioè, l’assunzione di responsabilità sociale, economica, istituzionale si misura direttamente con la vita delle persone e delle comunità, rendendo evidente il nesso che, per un cattolico rimane centrale, tra potere e servizio. Tremendamente generativa, una tale postura ha però il limite di tradursi facilmente in disinteresse o addirittura in diffidenza nei confronti della politica, specie di livello nazionale, vista per lo più come intrigo e mera lotta di potere.

Queste due fragilità latenti tra i cattolici – associate alle pulsioni più identitarie che, come è naturale che sia, attraversano talvolta anche la Chiesa – attivano dinamiche “uguali e contrarie” nel mondo laico: insofferenti a molti aspetti dell’italia cattolica, accade spesso che siano i laici ad avere maggiori esperienze e collegamenti internazionali e, nel contempo, a considerare il governo centrale la leva di cui servirsi per potere finalmente modernizzare il paese.

Dal combinato disposto di questi due atteggiamenti, è l’Italia che ne esce con le ossa rotte, finendo schiacciata tra forme di provincialismo moralista da un lato e progetti di modernizzazione astratta dall’altro. Attorno a questo nodo, l’Italia vive o muore. Da questa diagnosi mi pare derivino diverse indicazioni per leggere anche la delicata fase storica che stiamo attraversando in questi anni.

Cominciamo col dire che il problema è lo stesso, tanto per i “cattolici” quanto per i “laici”: trovare il codice di ricomposizione tra le sfide del tempo e la particolarissima matrice culturale, economica e sociale di questo paese. Senza fughe in avanti, ma anche senza un’eccessiva accondiscendenza. A questo sforzo di tutti – che tradurrebbe il citatissimo ma spesso misconosciuto bene comune – i cattolici possono contribuire in modo specialissimo nella misura in cui sono capaci di ripartire dalla realtà di un paese che mantiene delle peculiarità indiscutibilmente “cattoliche” – la piccola impresa, la famiglia, il territorio, il senso della bellezza e dell’infinito – non per riaffermarla in modo identitario, ma per porla in relazione alle sfide del tempo (globalizzazione, tecnicizzazione, pluralismo), liberandola così dalle derive involutive in cui rischia sempre di rimanere avviluppata. Ai laici è chiesto per converso di riconoscere la peculiarità dell’Italia, amando il paese per quello che è e rifuggendo la ricorrente tentazione di volerne uno del tutto diverso (possibilmente non cattolico).

Se si rileggono così gli ultimi 150anni si vedrà che il paese ha respirato ed è cresciuto quando si è stati capaci di questo doppio movimento. Oggi, ci troviamo in una nuova, delicatissima fase di passaggio. Un modello di crescita economica è in fase di profonda ristrutturazione a livello planetario e ciò spezza gli equilibri di marginalità su cui il paese si è retto negli ultimi decenni. Come ci insegna la storia, le crisi hanno sempre una doppia natura: mentre distruggono, creano e, al di là dei rischi, esse offrono sempre nuove opportunità. Abbiamo chiamato “seconda repubblica” il sistema politico che ha gestito il modo in cui il nostro paese è stato dentro l’ultima fase storica. Al suo interno hanno prevalso due progetti di modernizzazione molto diversi tra loro, ma accomunati da un approccio fondamentalmente “a-cattolico” (postura che, politicamente, si è tradotta in opposte strategie di “gestione” della questione cattolica).

La storia ci dice che i risultati non sono stati propriamente brillanti, forse proprio perché quel lavoro di rilettura e reinterpretazione del paese di cui parlavo prima si è interrotto. È probabile che, nata sulle ceneri della DC, questa fase non poteva che essere così. Ma adesso, ecco riaffiorare il nodo dei cattolici, nodo che non può e non deve essere ridotto alla questione della creazione di un partito. Forse lungo la strada si porrà anche tale questione. Ma, per il momento, i cattolici sono chiamati dalla storia a dire come leggono la crisi del paese e come intendono uscirne.

Per chi ha occhi per vedere il paese reale e orecchie per sentire i suoi interpreti più originali la strada, a dire il vero, appare già sufficientemente tracciata: passare da un modello di crescita dissipativo – che non solo non ci possiamo più permettere, ma che anche ha corroso profondamente il nostro tessuto sociale e umano – ad uno più generativo, capace di “produrre valore condiviso”. Che concretamente significa: ripensamento del welfare al di là della dicotomia pubblico-privato nella prospettiva dei beni comuni e di una ricucitura di un tessuto sociale gravemente lacerato; centralità dell’impresa (con le sue molteplici forme) e della creazione di ricchezza, mediante la valorizzazione del lavoro, della educazione, della ricerca; riconoscimento della vita e della famiglia dal punto di vista culturale, fiscale e sociale; europeismo vigoroso secondo una visione poliarchica e sussidiaria della forme istituzionali. Nella prospettiva di una rilettura profonda del paese che i cattolici ritengono di saper fare e di dover offrire, ancora una volta, all’Italia e ai suoi figli.

*preside di sociologia all’Università Cattolicadi Milano

di  MAURO MAGATTI Corriere della sera 6/7/12

“Lascia perdere chi ti porta a mala strada” documentario su Don Puglisi

Martedì 3 luglio Rai1 trasmette un documentario con testimonianze inedite – tra cui quella del killer – su don Pino Puglisi, per il quale Be­nedetto XVI ha approvato il 28 giugno il decreto di riconoscimento del marti­rio in odio alla fede.

Un martire che parla in tv, che con pacatezza e fermezza chiede la scuola per il quartiere, s’indigna perché ci sono adolescenti che non sanno nemmeno mettere la firma e nel rione Brancaccio mancano i servizi es­senziali.
Fa un certo effetto sentir parlare don Pino Puglisi con la sua voce, in un video dei primi anni ’90. Lui, così allergico ai riflettori, lavorava nel silenzio del quo­tidiano, in una parrocchia di periferia, dove «in appena tre anni di attività ha innescato una rivoluzione culturale» ri­corda il cardinale Paolo Romeo, arcive­scovo di Palermo. Per questo è stato uc­ciso, racconta con un passamontagna sul viso Salvatore Grigoli, il killer reo­confesso del parroco di San Gaetano, ucciso a Brancaccio il 15 settembre 1993 e prossimo alla beatificazione.

La vitti­ma e il carnefice parlano con la loro vo­ce nel documentario Lascia perdere chi ti porta a mala strada , firmato dai regi­sti Pino Nano e Filippo Di Giacomo, che sarà trasmesso oggi su Rai1 alle 23.10 e che è stato presentato ieri a Palazzo del­le Aquile dal sindaco Leoluca Orlando, dal cardinale Romeo, dal suo ausiliare monsignor Carmelo Cuttitta, dal pro­curatore generale di Catanzaro, il pa­lermitano Santi Consolo, da Marco Si­meon, responsabile di Rai Vaticano, e A­lessandro Casarin, direttore della Tgr.
Una presentazione che cade proprio nell’anniversario di ordinazione sacer­dotale di don Puglisi, per il quale Be­nedetto XVI ha approvato il 28 giugno il decreto di riconoscimento del marti­rio in odio alla fede.

Filmati di reperto­rio, foto di famiglia, immagini girate da parrocchiani, testimonianze inedite, partendo dal lungo racconto che fa di quella sera l’assassino. Tra le testimo­nianze che lo speciale ripropone, quella di uno dei fratelli di don Pi­no, Francesco Puglisi («anche se lo faranno santo…a me manca da vent’anni il mio dolce fratello…») e di suor Carolina Iavazzo, braccio destro del sacerdote per tre anni. E ancora il filosofo Massimo Caccia­ri, il postulatore della causa di bea­tificazione, monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanza­ro, che definisce l’impegno pastorale e umano di padre Puglisi «un monu­mento alla libertà». Uno speciale che il sindaco Orlando si impegna a diffondere nelle scuole pa­lermitane «perché possa raggiungere il maggior numero di persone. Ricorda­re don Pino Puglisi è un invito a guar­dare oltre le apparenze e a cogliere la meravigliosa normalità di un martire».

Avvenire, martedì 3 luglio 2012

Festival internazionale del cinema cattolico

“Un’occasione privilegiata per accogliere una domanda antropologica di senso che sale dal cuore di ogni uomo”.

Questa la definizione che mons. Franco Perazzolo, del Pontificio Consiglio della cultura, offre di “Mirabile dictu”, il festival internazionale del cinema cattolico la cui terza edizione (Roma, 2/5 luglio) .

Un festival, ha precisato mons. Perazzolo, che “offre la possibilità, in un momento così difficile, di una sosta per riflettere”. Nel corso del festival, indipendente e patrocinato dal Pontificio Consiglio della cultura, sarà scelto dalla giuria, presenziata dal card. Gianfranco Ravasi, il film vincitore tra i 1.124 che hanno concorso.

Obiettivo dell’iniziativa è “dare spazio a chi ha lo slancio di fare film che sviluppano storie e personaggi con valori positivi”, ha sottolineato Liana Marabini, presidente del festival. “I film cattolici – ha aggiunto – hanno vita molto dura nell’industria del cinema”: per questo “il festival si propone come un palcoscenico privilegiato”, ha detto Marabini.

La manifestazione è stata inaugurata lunedì 2 luglio col congresso internazionale “Cinema e nuova evangelizzazione”, patrocinato dal Pontificio Consiglio della cultura, che per 18 mesi toccherà, dopo Roma, dieci città in tutto il mondo.

Info: www.mirabiledictu-icff.com (Fonte: Sir)

La missione del Festival
del Cinema International Catholic Festival è indipendente, ideato e realizzato da Liana Marabini, sotto l’alto patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura, e mira a mostrare la Chiesa da una nuova prospettiva:. glamour e tradizione allo stesso tempo, mirabile dictu (meraviglioso per Relate, in latino) è un luogo privilegiato di incontro per attori, registi e cineasti, raccolte dalla preoccupazione che possono avere per la storia ei valori del Chiesa. Il Presidente del Festival, Liana Marabini, è regista, produttore ed editore. Si consacra il suo lavoro alla storia della Chiesa, ed è particolarmente preoccupato per il linguaggio religioso e della comunicazione, qualcosa che emerge nei film che produce e dei 

libri che pubblica. Premi Il premio del festival, ” Il Pesce d’Argento ” (Il pesce d’argento, in italiano), si ispira al primo simbolo cristiano.

L’evento di apertura del Festival
di quest’anno, l’evento di apertura straordinaria del Festival sarà la prima italiana di un film notevole: Una donna di nome Maria
di Robert Hossein

Selezione Nazionale. Progetti di formazione diocesana per catechisti

Anno pastorale 2013 – Anno della Fede

Presentazione del Regolamento

L’Ufficio Catechistico Nazionale (UCN) della CEI e in collaborazione con il Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica (SPSE) della CEI, indice una Selezione Nazionale di Progetti di Formazione Diocesana per Catechisti.

Alla luce degli orientamenti pastorali 2010-2020 dell’Episcopato Italiano Educare alla vita buona del Vangelo, annunciare Cristo significa portare a pienezza l’umanità e quindi seminare cultura e civiltà.

Non c’è nulla, nella nostra azione, che non abbia una significativa valenza educativa. Così anche i temi legati al sostegno economico alla Chiesa possono affiancarsi a pieno titolo a tutti gli altri aspetti pastorali che concorrono ad educare alla vita buona del Vangelo.

Perciò il titolo della selezione è “Non di solo pane. Formazione catechistica, corresponsabilità economica e partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa”.

La selezione coinvolge gli Uffici Catechistici Diocesani (UCD) nella formazione dei catechisti e tra gli obiettivi si pone anche quello di valorizzare il precetto di “sovvenire alle necessità della Chiesa”, diffondendo i valori alla base del suo sostegno economico ed educando i fedeli ad una loro effettiva corresponsabilità e partecipazione alla vita della Chiesa.

Scarica il Regolamento completo