Comunicazione, il quinto talento

La convinzione del cardinale Martini: educarsi ed educare all’uso dei mezzi di comunicazione è un irrinunciabile compito della comunità cristiana

di Gilberto DONNINIPrevosto di Varese
Collaboratore del cardinale Martini quale responsabile dell’Ufficio diocesano

2.09.2012

In questo momento siamo un po’ tutti sotto choc: si sapeva da tempo che il cardinale Martini era malato di un male incurabile e non reversibile e che, pur conservando intatte tutte le sue grandi facoltà intellettuali, trovava sempre più difficile esercitare quella straordinaria capacità di comunicare che l’ha sempre accompagnato.

Però non ci si aspettava un esito così repentino: ormai la sua figura – se anche non appariva più con frequenza – era rimasta nella mente e nel cuore della gente, se non altro per aver insegnato alla Diocesi di Milano e a tutta la Chiesa la necessità di rimettere al centro la Parola di Dio. La sua seconda lettera pastorale, infatti, si intitolava proprio così: In principio la Parola. Ora che non è più tra noi ci sentiamo un po’ più soli.

Ma veniamo allo scopo di queste righe che “in pillole”vogliono accennare al grande interesse del cardinale Martini per la comunicazione e i mass media e che fanno parte della mia esperienza diretta perché per sei anni sono stato collaboratore dell’Arcivescovo come responsabile dell’Ufficio diocesano delle Comunicazioni Sociali.

Il tema della comunicazione è stato da subito all’attenzione dell’Arcivescovo all’interno di un percorso pastorale molto lucido che lo ha portato a delineare i pilastri sui quali deve reggersi l’edificio della comunità cristiana. Dopo il richiamo alla dimensione contemplativa della vita e aver messo al centro la Parola, l’Arcivescovo ha parlato dell’Eucaristia, della testimonianza che da essa deriva come per i due discepoli di Emmaus, e della Carità. Ma a questi pilastri ha subito aggiunto due dimensioni fondamentali: quella dell’educazione e quella, appunto, della comunicazione.

Sul tema della comunicazione ha scritto due lettere pastorali: Effatà- Apriti nel 1990 e Il lembo del mantello nel 1991. Il discorso prendeva avvio dal bene positivo della comunicazione, considerando la Trinità come primo processo comunicativo e fonte di comunicazione umana e interumana. Quindi un flusso comunicativo divino, capace di risanare molti blocchi di comunicazione tra persone e tale da gettare buona luce anche sul problema dei mass media.

In un intervento sulla comunicazione nella parrocchia di Osnago il 1° ottobre 1997, lo stesso cardinale Martini ha ricapitolato il suo itinerario nel mondo della comunicazione sottolineando anche qualche significativo cambiamento. Come sempre, la partenza è da un’icona biblica capace di riassumere il senso del discorso.

Nel 1991, appunto, ha scelto l’icona del lembo del mantello: «Come il lembo del mantello di Gesù, alla donna che lo tocca con fede, trasmette qualcosa della forza stessa di Gesù, pur senza essere il Signore, così il sistema comunicativo mass-mediale può trasmettere qualcosa del mistero di Dio pur senza essere il Mistero. L’immagine evocava in positivo le grandi possibilità e le grandi responsabilità della comunicazione mass-mediale».

Qualche anno dopo, tuttavia, il 13 settembre 1995, il cardinale tenne a Graz la prolusione al Congresso dell’Unione Cattolica Internazionale della Stampa e lui stesso, confessava nell’intervento di Osnago, «tenendo conto di quanto era avvenuto nel frattempo (guerra in Iraq) e di un certo deteriorarsi della comunicazione, visibile specialmente nei grandi quotidiani e nel linguaggio televisivo, ho cambiato immagine. Mi sono servito di un’icona di tipo negativo: i mercanti cacciati dal Tempio». «Ho usato quella immagine con forza per indicare – diceva – che chi pretendesse di introdurre nel tempio della comunicazione la moneta falsa o il falso commercio di notizie atte a creare violenza o diffidenza o comunque contrasto tra la gente, meriterebbe di essere cacciato dal tempio, come Gesù ha cacciato i mercanti. Intendevo, perciò, segnalare gli aspetti pericolosi, deleteri che può assumere un’informazione allorché si pone al servizio della violenza, degli odi razziali, etnici, della guerra e comunque della non intesa tra i popoli; in ogni caso il pericolo della notizia drogata, falsificata, avvelenata».

Ma infine si è chiesto il card. Martini: quale icona usare per l’oggi? Parlando a una comunità cristiana, come quella di Osnago, che si interroga sui mass media e sulla comunicazione, «desidero evocare l’immagine dei cinque talenti», quei cinque talenti che il servo a cui erano stati affidati, ha fatto fruttare ricavandone altri cinque.

Il primo talento è, ovviamente, il Vangelo, la Parola di Dio. Il secondo talento di cui vive la comunità cristiana è la liturgia, i sacramenti, specialmente l’Eucaristia. Il terzo talento è la carità, tipico della comunità cristiana. Il quarto talento è quello della comunione, dello stare insieme.

Ma il quinto talento è la comunicazione. Non solo la comunicazione all’interno della comunità, ma anche a livello di Chiesa. «Intendo – aggiungeva – tutte le forme di comunicazione attraverso i mass-media. Non parlo qui dell’etica generale dei media, parlo invece dei talenti della comunità cristiana che ha un duplice compito: quello di educarsi e di educare all’uso dei media». «Il servo della parabola – concludeva e concludo anch’io, che da sempre ho condiviso queste idee – ha restituito cinque talenti perché allora le nostre comunità pensano che il quinto può essere lasciato a qualche specialista? È chiaro che il quinto non è il solo talento, perché la comunità non ha senso, non esiste senza la Parola di Dio, l’Eucaristia, la carità. Tuttavia la carità la catechesi, la liturgia, la Parola, la comunione non sono incisive se manca l’attenzione alla comunicazione: si rinchiudono in se stesse e alla fine sbiadiscono. Dunque, benché sia l’ultimo e non il primo, è necessario e il servo viene lodato proprio perché ha fatto fruttare tutti e cinque i talenti». (Agenzia Sir)

XXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio-Anno B

Prima lettura: Deuteronomio 4,1-2.6-8

 Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo. Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”.  Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?». 

 La prima lettura ci presenta Mosè che parla al popolo e lo esorta a mettere in pratica la legge del Signore: esortazione, che costituisce il tema fondamentale del Deuteronomio (Dt 4,l; cf. 5,1; 6,1; 8,1; 11. 8-9).

     I versetti iniziali del capitolo quattro sono costruiti con termini e forme linguistiche tipiche dello stile deuteronomistico: «Ora, Israele (Shemá Israel); «Signore, Dio dei vostri padri»; «i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo». Questi versetti sono come un preludio musicale, nel quale vengono anticipati i motivi dell’intera composizione (cf. N. Lohfink, Ascolta Israele, Esegesi di testi del Deuteronomio, Paideia Brescia 1965, p. 106).

     Mosè invita con insistenza il popolo a mettere in pratica gli ordinamenti che egli ha ricevuto da Dio ed insegna al popolo. La conseguenza della pratica dei comandamenti è la vita: Israele, attraverso l’obbedienza ai comandamenti è introdotto nella sfera della vita del Signore. La libertà piena sarà raggiunta nella terra «che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri e alla loro discendenza» (Dt 11,9; cf. Dt 8,1). Anche la vita libera e serena nella terra è legata all’obbedienza ai precetti. La disobbedienza può comportare la perdita della terra, come è il caso di Israele in esilio, quando il Deuteronomio viene scritto. Allora sorge una domanda angosciante; Israele che non ha più la terra, non ha più il tempio, può ancora distinguersi come popolo di fronte alle altre nazioni? I versetti 6-8 del capitolo 4, insieme con tutto il libro del Deuteronomio, rispondono: «Israele senza terra e senza tempio è ancora una nazione distinta dalle altre, perché la sua identità di popolo di Dio gli è data dalla Tôrà del Signore, che contiene ordinamenti più saggi e più giusti di tutti quelli degli altri popoli. Questa risposta del Deuteronomio sarà molto preziosa anche dopo la distruzione del secondo tempio e di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte dei romani. Intorno alla Tôrà si ricostituirà l’identità del popolo e la testimonianza al Dio unico, peculiare missione di Israele fra le genti, si esprimerà nella pratica dei precetti, l’osservanza dei precetti della Tôrà costituisce la saggezza e l’intelligenza di Israele «agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente» (Dt 4,6).

     Israele, oltre che per gli ordinamenti, si distingue per la particolare vicinanza a Dio. In ebraico c’è un gioco di parole fra «vicino» (qarob) e «invocare» (qarà).

     Israele, in esilio, apparentemente abbandonato dal suo Dio, lo ha ancora così vicino, che lo ascolta ogni volta che lo invoca, la vicinanza di Dio non è per Israele legata a un luogo, ma all’ascolto della sua Parola, che deve essere messa in pratica sempre e dovunque. Dopo la colpa, c’è la possibilità del ritorno (teshuvà) «perché il Signore tuo Dio è un Dio mise-ricordioso, non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 4,31).

     In questa luce si capisce l’entusiasmo del Deuteronomio e di altre pagine bibliche, in particolare i Salmi, per i decreti e gli ordinamenti della Tôrà, che costituisce il patrimonio prezioso di Israele, che lo distingue dagli altri popoli e lo rende vicino a Dio in un modo del tutto peculiare. 

Seconda lettura: Giacomo 1,17-18.21-22.27

 Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature. Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi. Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.           

 I quattro versetti del primo capitolo della lettera di Giacomo (17-18.21.27) che la liturgia ci fa leggere oggi fanno parte della pericope 1,17-27, che è un’esortazione ad ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio, perfettamente in linea con la prima lettura.

     Giacomo si rivolge a discepoli di Gesù ebrei con un linguaggio a loro familiare. Dio è Padre della luce e Padre di coloro che «per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità» (Gc 1,18). I figli da lui scelti devono rispondergli con l’obbedienza, segno dell’accettazione dei suoi doni, che sono permanenti e perfetti, non caduchi come quelli degli uomini (Gc 1,17). Perfetta è la legge, che è il dono di Dio per eccellenza; essa è «la legge della libertà» (Gc 1,25).

     La lettera di Giacomo, entrata nel canone allo stesso titolo delle lettere paoline, può aiutarci a mantenere un atteggiamento equilibrato nei confronti della Tôrà di Mosè, che gli ebrei religiosi del tempo di Gesù e dei secoli posteriori fino ad oggi hanno sempre cercato di mettere in pratica e di insegnare ai figli di generazione in generazione.

     La presenza della lettera di Giacomo nel canone, ci ricorda che non possiamo farci una rivelazione su misura. La Bibbia presenta spesso pagine che sembrano a una prima lettura in contraddizione, non dobbiamo di fronte alle difficoltà scegliere una pagina, ignorando l’altra. Non possiamo parlare di grazia senza la legge; la legge (Tôrà) è il dono gratuito di Dio per eccellenza, come dice il Deuteronomio, il segno del patto di alleanza, che costituisce Israele nella realtà di popolo di Dio e lo fa vivere come tale. I cristiani, se provenienti dal giudaismo, come dovevano essere quelli a cui Giacomo scriveva, devono continuare a seguire la legge di Dio «perfetta e legge della libertà», come ha dato l’esempio Gesù stesso. Paolo stesso, nella lettera ai Romani dice: «Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati» (Rom 2,13). Anche i cristiani venuti dal paganesimo, non sono esonerati dal mettere in pratica la Parola di Dio, l’esempio di Gesù vale anche per loro. Resta la problematica dell’interpretazione e del modo di applicazione, che si fa acuto per i cristiani provenienti dal paganesimo, come ne costatiamo il riflesso nella pagina evangelica.

Vangelo: Marco 7,1-8.14-15.21-23

 In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

Esegesi

     La pericope evangelica Mc 7,1-23, di cui leggiamo oggi i versetti 1-8, 14-15.21-23 è costruita intorno alla problematica fondamentale di come distinguere il «comandamento di Dio», dal «precetti degli uomini». Non è messa in discussione la Tôrà (insegnamento, legge) data da Dio a Mosè  sul Sinai, ma la sua interpretazione e le modalità della sua messa in pratica. Gesù si scaglia in maniera molto polemica contro «le tradizioni degli uomini», che possono far dimenticare le esigenze fondamentali dei precetti divini, non contro quest’ultimi, che invece devono essere eseguiti, come lui stesso da l’esempio.

     I personaggi messi in scena dal brano sono nel primo quadro: i farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme, Gesù e i suoi discepoli (vv. 1-13); nel secondo: Gesù e la folla, chiamata da lui (14-15.[16]); nel terzo: Gesù e i discepoli rientrati in casa (17-23).

     La cornice è poco attendibile storicamente, è un pretesto per fissare l’attenzione sulle problematiche discusse. Farisei e scribi, infatti, arrivati addirittura da Gerusalemme, pongono a Gesù una domanda: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (Mc 7,5) e poi scompaiono di scena, senza rispondere all’invettiva polemica di Gesù, nei loro confronti.

     Dobbiamo rilevare che non è Gesù a commettere un’infrazione rituale (cf. Mc 2,23), ma solo i discepoli non seguono la regola, presentata come facente parte della «tradizione degli antichi» (Mc 7,3).

     Il desiderio di purificazione, che si manifestava nei bagni rituali, nelle immersioni, aspersioni e abluzioni varie era diffuso nelle popolazioni antiche, non solo in Israele. Il Vangelo di Marco presenta la regola di lavarsi le mani prima di prendere cibo come comune sia ai farisei sia a tutti i giudei (Mc 7,1-3). Una affermazione, dice Piero Stefani nel suo commento al brano, che «appare difficilmente valida se situata all’epoca di Gesù. Il lavaggio delle mani (e dei piedi) si presenta, infatti, come esplicito precetto biblico solo nel caso del sacerdote che deve seguirlo prima di entrare nel luogo sacro per compiervi un’offerta (Es 30,17-21; cf. Dt 21,6-7), (ma nulla era richiesto, neppure al sacerdote, in relazione alla consumazione del cibo comune). All’epoca di Gesù, però, particolari gruppi di ebrei (detti chaverini), che si proponevano di realizzare la santificazione di ogni aspetto della vita, e che perciò tendevano a comportarsi nelle loro case come i sacerdoti nel tempio, adottarono la prassi di lavarsi ritualmente le mani prima di mangiare. È proprio quest’estensione della sacralità, tanto accentuata da farla in un certo senso coincidere con la profanità, indicò una delle vie che consentiranno all’ebraismo di proseguire la propria vicenda anche dopo la distruzione del secondo tempio. Tuttavia questi gruppi (di cui non è neppure universalmente condivisa l’identificazione con i farisei) rappresentavano solo una piccola minoranza della popolazione, non certo «tutti i giudei» (Mc 7,3). Solo dopo la distruzione del

tempio (in una data incerta, ma anteriore alla metà del II secolo), tale norma fu estesa a tutti e integrata nella codificazione della Mishná; in tal modo essa, secondo lo spirito proprio della tradizione ebraica, divenne, nonostante fosse stata promulgata dai maestri, tanto valida come se provenisse direttamente dal Signore, cosicché tuttora, quando si compie questa abluzione (detta notilat judalm), si recita la seguente benedizione: «Benedetto sei tu, o Signore Dio nostro re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comandato il lavaggio delle mani». È però assai difficile ritenere che all’epoca di Gesù qualcuno potesse recitare una simile benedizione.

     Sullo sfondo di queste precisazioni, risulta quanto meno strano che in Marco (ma non in Matteo 15,1-20) il discorso sulla purità prosegue fino a sfociare in una presa di posizione relativa alla stessa esistenza di cibi ritualmente puri (kasher). «Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non entra nel cuore, ma nel ventre e va fino alla fogna?. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (Mc 7,18-19). Non vi è dubbio infatti che le norme sulle purità del cibo non possono in alcun modo ritenersi «tradizioni degli uomini» (o degli antichi) (cf. Mt 15,2.2.6; Mc 7,8.9.13); al contrario, esse devono venir considerate solidamente fondate sulla Tôrà scritta (Pentateuco) (cf. Lv 11; Dt 14,3-20). Né vi è alcuna indicazione che Gesù e i suoi discepoli (almeno prima della pasqua) non si attenessero a questi precetti (stando a quanto pronunciato da Pietro nel libro degli Atti se ne dedurrebbe anzi il contrario, cf. At 10,14; 11,8). La disputa sui cibi divenne argomento di dibattito e tensione entro le comunità cristiane di origine pagana (cf. Gai 2,11-14; Rm 14,1-6), perciò si è ragionevolmente proposto di veder proiettati sulle pagine evangeliche i motivi propri di tali dispute.

     Subito dopo la discussione sull’impurità, Marco afferma che Gesù «partito di là, andò nel territorio di Tiro e Sidone» (Mc 7,24; cf. Mt 15,21); espressione quest’ultima che nel suo indicare una terra pagana assume un significato non tanto geografico quanto teologico (cf. 1Re 17,8-16; Le 4,25-26). Nella grande sezione del libro degli Atti (10, 1- 11,18), le tre volte avvenuta e le due volte raccontata visione di Pietro indicano chiaramente che il non considerare più impuro nessun cibo, in quanto tutto è purificato, deve ritenersi come grande metafora del rapporto (profondamente mutato dalla vicenda pasquale) tra figli d’Israele e figli delle genti; tant’è vero che Pietro stesso riassume il senso della sua visione con queste parole: «Ma a me Dio ha insegnato a non chiamare nessun uomo profano (koinos) e immondo (kathartos) (At 10,28). Ai nostri giorni perciò, quando le polemiche interne a quelle primitive comunità sono ormai lontane, è legittimo (o addirittura richiesto) sostenere che la possibile partecipazione universale, attraverso la fede in Cristo, alla discendenza di Abramo da parte dei figli delle genti (cf. Gal 4,29) non solo non esclude, ma anzi addirittura comporta che i figli di Israele, popolo sacerdotale (Es 19,6), la cui elezione non è stata tolta (Rom 11,29), continuino ad essere assoggettati a norme più rigide a motivo della propria e

altrui santificazione.

     Si è detto che il giudaismo, così come vissuto dai farisei (e/o dai chaverim), affrontava il problema della santificazione d’Israele (e santificare qui significa separare), e questo compito si distingue marcatamente dalla dinamica tipica della predicazione del regno e del buon annuncio di salvezza tipico di Gesù e degli apostoli. Per più aspetti tale affermazione

appare convincente, ma ciò non dovrebbe impedire di comprendere adeguatamente le regole insite in tale santificazione, che non coincidono affatto, come una superficiale lettura di qualche passo evangelico indurrebbe a credere (cf. Mt 15,1-20; 23,1-36; Mc 7,1-23; Lc 15,38-52), con un ipocrita tentativo di sostituire un’osservanza puramente esteriore all’ese-cuzione di più gravi e precisi precetti etici.

     Per comprenderlo basterebbe tenere presente l’ovvia quanto dimenticata distinzione che «ritualmente impuro» non equivale affatto a «moralmente riprovevole». Non a caso la maggior parte delle regole bibliche sulla purità indicano la maniera di purificare un’impurità contratta in modo inevitabile (e quindi moralmente neutro), come ad esempio quelle derivate dalle mestruazioni o dal parto (cf. ad es. Lv 12,1-8; 15,1-27; Num 19,11-22; Lc 2,22). Una tipica espressione rabbinica per indicare la canonicità di un testo sacro è quella di sostenere che esso «rende impure le mani» (cf. m. Jadaim 3,5); tale espressione sarebbe da sola sufficiente ad indicare l’ambito in cui il giudaismo colloca la sfera dell’impurità o della purità, sfera che ha a che fare non con l’eticità (e ancor meno con l’igiene), bensì con una santificazione della vita compiuta secondo una procedura che non dovrebbe venir schernita, non foss’altro a motivo della millenaria fedeltà con cui è stata osservata da Israele» (P. STEFANI, Sia santificato il tuo nome. Commenti ai Vangeli della domenica. Anno B, Marietti Genova 1987, p. 163-166).

     Se è dall’interno di noi che hanno inizio gli impulsi malvagi o quelli buoni, nel nostro stato di creature corporee abbiamo bisogno anche di segni esterni; proprio il gesto del lavaggio rituale delle dita, con la recita di un versetto di un salmo («Lavami Signore da ogni colpa, purificami da ogni peccato». Sal 51,4) è il gesto che il sacerdote compie nel rito della

messa subito dopo la preparazione delle offerte, prima di iniziare la grande preghiera eucaristica.

Meditazione

     Spesso, nei racconti evangelici, ci imbattiamo in lunghe ed aspre polemiche che vedono a confronto Gesù, il suo comportamento e la sua parola, con l’élite più rappresentativa e impegnata della cultura religiosa ebraica, i farisei e gli scribi. Questi, alcune volte contestano a Gesù o ai suoi discepoli un comportamento non conforme alle pratiche religiose comunemente e tradizionalmente accolte nel mondo giudaico; altre volte, invece lo interrogano su questo o quell’aspetto della Scrittura per sapere ciò che realmente pensa. In ogni caso questi incontri producono sempre tensione, scontro e si rimane stupiti dalla durezza con cui spesso Gesù reagisce di fronte a quel mondo spirituale e giuridico di cui i farisei erano rappresentanti. Soprattutto ciò che sembra irritare maggiormente Gesù non è tanto l’interpretazione della Scrittura che caratterizzava la visione religiosa di questi uomini, quanto piuttosto la loro sfacciata incoerenza che nascondeva, sotto una apparenza di perfezione, una autosufficienza idolatrica, quella radicale doppiezza di vita che si concentra nel titolo con cui spesso i farisei sono chiamati: ipocriti.

     È il caso della situazione presentata nel capitolo 7 di Marco il brano proposto in questa domenica (anche se la liturgia presenta solo una scelta di versetti per dare maggiore unita-rietà al contenuto). «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (v. 5). L’interrogativo stupito e irritato che gli scribi e i farisei pongono a Gesù è dunque motivato da un comportamento ‘spavaldo’ dei discepoli, i quali sembrano non tener in nessun conto le prescrizioni della legge. Il rap-porto tra Scrittura e Tradizione/tradizioni (vv. 6-13) e la relazione tra puro e impuro (vv. 14-23) che caratterizzano il dibattito che segue a questa domanda, mettono a fuoco un aspetto fondamentale. Ciò che è in questione in questa polemica, non sono tanto delle pratiche religiose, la loro validità o meno. Al centro c’è la relazione con Dio, la scoperta del luogo profondo e vero in cui questa relazione prende forma e da qualità a tutta la vita.

     Ma, proprio a partire da questo testo di Marco, ci si può domandare: erano realmente così i farisei? Citando il testo di Isaia 29,13, Gesù si rivolge ai farisei in questi termini: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti… Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (v. 6). L’ipocrisia è una prerogativa dei farisei oppure è qualcosa che si nasconde nel cuore dell’uomo? E perché, in ogni caso, l’ipocrisia poteva essere un rischio di questa categoria dei persone? Farisei e scribi di fatto rappresentavano la parte religiosamente più impegnata di Israele, seriamente preoccupata di tradurre nella vita concreta quel rapporto con Dio, quella saggezza che sgorgava dalla parola e che caratterizzava l’unicità del popolo dell’Alleanza.

La responsabilità personale, l’interiorità della decisione morale, il profondo senso della santità e dell’alterità di Dio, la consapevolezza del dono ricevuto nella Legge orientavano questi uomini nella ricerca di una sincera e radicale fedeltà alla volontà di Dio. Ma correvano un rischio: credevano di essere fedeli alla legge ‘ripetendola’ e pensavano di essere attuali frantumandola in una casistica sempre più complicata. È il rischio che porta a una illusione: la pretesa di programmare il rapporto con Dio, la ricerca della sua volontà attraverso una serie di comportamenti che danno sicurezza e in qualche modo fanno sentire a posto nella relazione con Dio o con gli altri. La gratuità di una relazione, lo stupore di un Dio che sempre è al di là delle immagini che l’uomo ha di lui, la novità del dono, il cuore e l’essenziale della parola, tutto questo viene soffocato e annullato dalla pretesa dell’uomo di conoscere Dio e la sua volontà. Gesù smaschera questo pericolo mettendo a confronto ciò che l’uomo cerca (in questo caso ciò che i farisei difendono) e ciò che Dio desidera dall’uomo. 

     E c’è un primo confronto che colpisce. Il testo del Deuteronomio mette in bocca a Mosè queste parole: «…quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7). Colui che è il Santo, la cui trascendenza sembra rendere la creatura molto lontana da un incontro, è il Dio vicino, sempre disponibile quando lo si invoca, è il Dio che ha deciso di fare storia con l’uomo, di camminare con lui. Pur restando irriducibile alla creatura, si lascia trovare ogni giorno e la sua vicinanza si trasforma in fedeltà all’uomo e alla sua storia. Dio non è lontano; è l’uomo che spesso cammina per altre vie e colloca il suo cuore in luoghi diversi da quelli in cui può scoprire il volto di Dio.

E Gesù ricorda la parola di Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mc 7,6). Ecco il pericolo: la pretesa di accostarsi a Dio, rimanendo tuttavia estranei a Lui, lontani. E questo avviene quando il cuore della vita non aderisce veramente a Dio e alla sua parola, anche se si pretende di rendere un culto che è, alla fine, pura apparenza.

     Ma c’è un luogo in cui questa vicinanza si fa presenza efficace, parlante: è la Parola stessa di Dio contenuta nella Scrittura. Ancora Mosè ricorda al popolo di Israele: «Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno affinché le mettiate in pratica , perché viviate… quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza» (Dt 4,1.6). A Israele, il Signore chiede di ricambiare la fedeltà di cui Egli ha dato prova lungo il cammino di liberazione attra-verso il deserto, con l’obbedienza e l’ascolto di una Parola di vita e di saggezza. Ed ecco allora un altro contrasto: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini… Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,8.13). L’uomo ha bisogno di attualizzare una obbedienza alla parola di Dio: è la legge della Incarnazione. Ma deve sempre tenere presente questo: che la parola di Dio resta continuamente aperta, anzi è la porta per un incontro vivo e personale con il Signore. Non basta osservare un precetto, se poi non si incontra veramente il volto del Signore. E questo avviene quando si va al cuore della Parola, al luogo dove si rivela ciò che Dio vuole da noi. E su questo punto Gesù è molto chiaro: il rischio che si incontra nell’assolutizzare un modo concreto di tradurre la Parola, è quello di non riuscire più ad andare al cuore di essa.

     Come il cuore della Parola ci rivela la volontà di Dio, ce lo fa incontrare, così è il cuore dell’uomo il luogo che deve essere custodito nella verità e nella purezza. Ecco il terzo contrasto che Gesù ci presenta. L’impurità che ci impedisce di accostarci a Dio o la purezza che ci permette di entrare nel luogo dove abita, non sono da ricercare fuori dell’uomo. E se c’è un comportamento esterno che ostacola il nostro rapporto con Dio o con i fratelli, in ogni caso il punto di partenza è sempre nel cuore dell’uomo: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono i propositi di male…»(v. 21). Il cuore dell’uomo non purificato è il covo di vizi che causano la rovina (cfr. Lc 6,45). E Gesù ci offre anche un elenco di ‘propositi di male’ (dialogismoi kakoi): dodici vizi, sei al plurale e sei al singolare che manifestano lo stato negativo del cuore attraverso un errato rapporto con sé stessi, con il proprio corpo, con gli altri. L’ultimo vizio, la stoltezza, e la sintesi di un cuore intaccato dalla impurità e la fonte di ogni altro vizio: lo stolto è l’uomo che «non conosce Dio», l’uomo che dimentica e disprezza Dio, l’uomo lontano da Dio. «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo» (v. 20): non ci si purifica dalla vita quotidiana per incontrare Dio in chissà quale luogo perfetto e irreale; ci si deve purificare dal peccato che portiamo dentro di noi. È il cuore malvagio che ci rende incapaci di avvicinarci a Dio; ciò che unisce ed avvicina a Dio è il cuore nuovo, il cuore puro che Dio stesso crea nell’uomo, in tutti, peccatori e giusti, giudei e pagani. I farisei si accontentavano di prendere il pane con mani lavate; Gesù ci dice che per ‘afferrare’ il pane non servono mani pure, ma il cuore ‘secondo il Signore’. Il pane, il cibo, sono i simboli della vita, il simbolo della parola che è vita e che Gesù stesso ci dona. Per ricevere da lui questo pane di vita si deve avere un cuore nella verità, un cuore che ama, un cuore buono, che desidera la vita. Subito dopo questa disputa, Marco colloca l’episodio della donna siro-fenicia (Mc 7,24-30). A questa donna, pagana e perciò impura, Gesù dirà: «Non è bene prendere il pane di figli e gettarlo ai cagnolini» (v. 27). Così risponderà la donna: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». La consapevolezza umile di una lontananza da Dio rende il cuore di quella donna puro e lo avvicina a Dio: può sedersi alla mensa ed afferrare il pane che vi è posto sopra, il pane del Figlio.

Preghiere e racconti

Questo popolo mi onora con le labbra

Fratelli, siamo umili, deponendo ogni vanagloria, vanità, stoltezza, ira e adempiamo ciò che sta scritto; lo Spirito santo dice, infatti: «Il saggio non si vanti della sua saggezza, né  il forte della sua forza, né il ricco della sua ricchezza, ma chi si vanta si vanti nel Signore, di cercarlo e di praticare il diritto e la giustizia» (cfr. Ger 9,22-23; 1Re 2,10; 1Cor 1,31; 2Cor 10,17). Ricordiamoci soprattutto delle parole del Signore Gesù, quando ci insegnava la benevolenza e la grandezza d’animo. Così diceva: «Siate misericordiosi per ottenere misericordia; perdonate per essere perdonati, come farete, così sarà fatto a voi; come date, così sarà dato a voi; come giudicate, così sarete giudicati; la bontà che usate, sarà usata con voi; la misura con la quale misurate, verrà usata con voi» (cfr. Mt 6,14-15; 7,1-2; Lc 6,31.36-38).

Attacchiamoci saldamente a questo comandamento e a questi precetti per procedere umili e obbedienti nelle sue sante parole; dice infatti la sua santa Parola: «A chi rivolgerò lo sguardo, se non al mite, al pacifico e che teme le mie parole?» (Is 66,2).

Uniamoci, dunque, a quelli che vivono la pace nella fede, non a quelli che fingono di volerla con ipocrisia. Dice infatti: «Questo popolo mi onora con le labbra e il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13; Mc 7,6). E ancora: «Con la loro bocca benedicono, con il loro cuore maledicono» (Sal 61 [62] ,5). E ancora: «Lo amavano con la bocca e con la lingua gli mentivano, il loro cuore non era retto con lui, né rimanevano fedeli alla sua alleanza» (Sal 77 [78] , 36-37). […] Cristo appartiene agli umili e non a quelli che si elevano sopra il suo gregge. Lo scettro della maestà di Dio, il Signore Gesù Cristo, non è venuto nella vanagloria e nell’orgoglio, anche se avrebbe potuto, ma nell’umiltà, come lo Spirito santo aveva detto di lui. Sta scritto infatti: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? E il braccio del Signore a chi fu rivelato? Noi l’abbiamo annunciato in sua presenza: è come un bambino, come una radice in terra arida; non ha apparenza, né gloria» (Is 53,1-2). Vedete, carissimi, quale modello ci è dato!

(CLEMENTE DI ROMA, Lettera ai Corinti 13.15-16, SC 167, pp. 120-126).

L’umiltà

«Che abbiamo di buono che non lo abbiamo ricevuto? e se l’abbiamo ricevuto, perché vogliamo riportarne orgoglio? Al contrario, la viva considerazione delle grazie ricevute ci rende umili, poiché la conoscenza genera riconoscenza» (Introduction à la vie dévote [Filotea], V, 5).

«Il punto forte di tale umiltà sta non solo nel riconoscere volontariamente la nostra abiezione, ma nell’amarla e compiacervisi, e non per mancanza di coraggio e di generosità, ma piuttosto per esaltare tanto più la Maestà divina e stimare molto di più il prossimo a paragone di noi stessi» (Introduction à la vie dévote [Filotea], III, 6).

Verità e umiltà

Ci sono degli istanti in cui Dio ci conduce all’estremo limite della nostra impotenza ed è allora e solo allora che comprendiamo fino in fondo il nostro nulla.

Per tanti anni, per troppi anni, mi sono battuto contro la mia impotenza, contro la mia debolezza. Il più sovente l’ho nascosta, preferendo apparire in pubblico con una bella maschera di sicurezza. E’ l’orgoglio che non vuole accettare l’impotenza, è la superbia che non fa accettare di essere piccolo; e Dio, poco alla volta, me l’ha fatto capire.

Ora non mi batto più, cerco di accettarmi, di considerare la mia realtà senza veli, senza sogni, senza romanzi.

E’ un passo innanzi, credo; e se l’avessi fatto subito, quando imparavo a memoria il catechismo, avrei guadagnato quarant’anni. Ora l’impotenza mia la metto tutta in faccia all’onnipotenza di Dio: il cumulo dei miei peccati sotto il sole della sua misericordia, l’abisso della mia piccolezza in verticale sotto l’abisso della sua grandezza. E mi pare essere giunto il momento d’un incontro con Lui mai conosciuto fino ad ora, uno stare insieme come mai avevo provato, uno spandersi del suo amore come mai avevo sentito. Sì, è proprio la mia miseria che attira la sua potenza, le mie piaghe che lo chiamano urlando, il mio nulla che fa precipitare a cateratte su di me il suo Tutto.

E in questo incontro fra il Tutto di Dio e il nulla dell’uomo sta la meraviglia più grande del creato.

E’ lo sposalizio più bello perché fatto da un Amore gratuito che si dona e da un Amore gratuito che accetta.

E’, in fondo, tutta la verità di Dio e dell’uomo.

E l’accettazione di questa verità è dovuta all’umiltà ed è per questo che senza umiltà non c’ è verità, e senza verità non c’ è umiltà. 

(Carlo Carretto)

Preghiera

Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia. Desideriamo con l’aiuto del tuo Santo Spirito perseguire quello stile di vita che ci qualifica come tuoi veri discepoli. Permettici di riconoscere le nostre incoerenze, che offuscano lo splendore del tuo vangelo, e di vegliare sull’autenticità della nostra relazione con te e fra di noi.

Ti ringraziamo perché nella tua Pasqua tu ci hai generati a nuova vita, manifestando l’amore del Padre verso di noi. Per questo c’impegniamo davanti a te a non permettere che nei nostri rapporti comunitari prevalga la ricerca dell’apparire e del dominare. Ci impegniamo a custodire la consapevolezza della nostra immeritata figliolanza divina e della fraternità che deve regnare tra noi, nostro compito ma soprattutto tuo inestimabile dono.

Signore Gesù, desideriamo restare radicalmente tuoi discepoli, senza pretendere di diventare maestri di altri, perché dalla bocca tua, o solo Maestro, potremo comprendere, con sempre rinnovata gioia, l’amore di Dio Padre per noi suoi figli.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011

Dal 31 agosto al 2 settembre a Budapest il Genfest 2012

I giovani dei Focolari stanno lavorando da più di un anno su tutti i dettagli di questo evento, insieme agli adulti del Movimento, in una comunione di idee ed esperienze professionali che hanno dato vita al programma del Genfest.

Il Genfest 2012 “Let’s bridge” ha come tema la costruzione di ponti di fraternità.

Il programma seguirà la metafora della costruzione di un ponte: scavare nel fango, piantare i pilastri, realizzare il ponte, camminare sul ponte. Ogni fase sarà illustrata con coreografie, canzoni e testimonianze sulla fraternità vissuta nel quotidiano. Molto attese le parole di Maria Voce, presidente del Movimento dei Focolari, che nei suoi numerosi viaggi in tutti i continenti non ha mai mancato di incontrare i giovani e dialogare con loro a tutto campo. Anche il lancio del United World Project si annuncia uno dei momenti centrali di questo Genfest.  

Sono 3.000 i volontari coinvolti e 600 tra attori, tecnici e staff. Andrea è italiano, giornalista, ha 24 anni e sarà uno dei 3 conduttori del Genfest. Lisa ha 24 anni e viene dall’Austria. Canterà una delle 21 canzoni vincitrici del concorso del Genfest, a cui hanno partecipato 65 canzoni, tutte composte dai giovani dei Focolari in diversi Paesi del mondo.

Rafael, 27 anni, pubblicista, corresponsabile della comunicazione del Genfest. “Da più di un anno ho lasciato il Brasile e il mio lavoro e mi sono dedicato completamente alla preparazione di questo evento. Metto la mia professionalità a servizio di questo momento perché sono convinto che la comunicazione sia essenziale per diffondere l’ideale del mondo unito. Le reti sociali hanno un ruolo importantissimo, aiutano persone di diversi continenti a essere collegati e creare rapporti reali, non solo virtuali”. Maru, 23 anni, argentina, si occupa della pagina Facebook in spagnolo e commenta: “facendo questo lavoro ho scoperto che il mondo unito non solo sarà possibile a Budapest, ma che si comincia a viverlo nella preparazione con la squadra di lavoro”. 

I canali ufficiali sulle reti sociali contano, tra gli altri, pagine Facebook in 7 lingue e canali su Twitter in 4 lingue. I fan delle pagine Facebook sono ad oggi più di 7.600 – la maggioranza giovani da18 a24 anni – e le persone raggiunte, complessivamente, sono circa 76.000 ogni settimana. L’hashtag per seguire l’evento è #genfest.

Ark, 24 anni, filippino, è uno degli autori del programma del Genfest: “Sono infermiere e non ho l’esperienza di un professionista che organizza grandi eventi, ma l’esercizio che faccio a vivere il Vangelo nel mio lavoro per il Genfest, mi aiuta tanto a vedere ogni momento (sia positivo che negativo) come un’opportunità per amare e costruire l’unità con chi devo lavorare”.

Adélard ha 22 anni ed è burundese. Fa parte di “Gen Sorriso”, una delle 9 band che suoneranno dal vivo al Genfest. Questa band è composta da 17 ragazzi che vogliono dare un sorriso al loro Paese attraverso le loro canzoni e la loro vita. ‘Pelusa’ invece, ha 28 anni; argentino, è uno dei 4 componenti di “Anima Uno” che suonerà al Genfest. S’impegnano a costruire legami di unità con altre band della loro città, abbattendo le barriere di rivalità che tante volte sorgono nel mondo artistico: condividendo i propri strumenti o coinvolgendole nelle diverse edizioni del festival artistico “Una mano por la Paz”, organizzato dai giovani dei Focolari.

Zsolt è ungherese, economista e ha 30 anni. “Sono responsabile in uno degli alloggi dove ci saranno i giovani stranieri e farò anche un servizio per custodire il palcoscenico (già costruito) nei giorni precedenti alle funzioni di domenica. Non vedo l’ora di dare una mano nel funzionamento del buffet, durante il periodo delle prove generali”.

Luca, 24 anni, italiano, con studi di optometria: “Lavoro nella commissione, che si occupa della produzione generale. Dopo la ricerca di persone esperte per realizzare insieme a noi giovani ciò che vorremmo vedere a Budapest, sono nati gruppi di diverse competenze per ideare il palco, per l’allestimento scenografico dell’Arena, per creare la maglietta ufficiale del Genfest… Pensare in modo “universale” è davvero un’impresa da eroi. Sapersi perdonare quando necessario e riuscire a mantenere l’ago della nostra bussola puntato sempre in Alto è addirittura straordinario”.

“Siamo 27 i giovani peruviani che arriveremo a Budapest – racconta Fabricio, 26 anni, ingegnere civile. Abbiamo forte in cuore che la fraternità universale non è un’utopia, è uno stile di vita al quale abbiamo aderito e vogliamo portarlo avanti dai piccoli atti concreti fino alle grandi manifestazioni. Siamo coscienti che siamo giovani e non abbiamo tante risorse individualmente, ma noi ci stiamo mettendo d’accordo. Il cammino è già iniziato”.

L’ultimo Genfest si è realizzato nel 2000 e quest’anno – decima edizione – sarà la prima dopo la scomparsa di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari (1920 – 2008). Il Genfest è nato da una sua intuizione profetica nel 1973, a Loppiano (Firenze, Italia). Alle nuove generazioni, presenti fin dagli inizi nei Focolari, Chiara ha consegnato senza riserve il suo “sogno”. ‘Ho sempre avuto una grande fiducia nei giovani – diceva – sono il futuro del mondo! Sono fatti per i grandi ideali e sanno seguirli con radicalità. La scoperta di un Vangelo che si fa vita e che attua ciò che promette, è ciò che più li attira. E’ l’ideale di un mondo unito che li affascina’. Chiara Lubich sarà ricordata durante il Genfest con stralci video e brani artistici.

Meeting di Rimini

“La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito” è il tema del Meeting di quest’anno analizzato nella prolusione di Javier Prades López, rettore dell’Università di San Damaso di Madri

 

È la sproporzione tra realtà e desiderio che spinge l’uomo ad una ricerca senza confini. È proprio questo più o meno consapevole rapporto con l’infinito a mettere in moto gli uomini di ogni tempo, anche di questa epoca dominata dall’orizzontalità.

Il tema del Meeting di quest’anno, La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito, è ispirato ad una frase di don Luigi Giussani e la prolusione centrale del medesimo tema è stata affidata a don Javier Prades López, uno dei più illustri figli spirituali di Giussani.

Ieri pomeriggio, di fronte ad una gremita sala B7 del Riminifiera (12mila spettatori, senza contare quanti hanno seguito la conferenza dai megaschermi esterni), il teologo spagnolo, rettore dell’Università di San Damaso di Madrid, è andato senza indugio alle radici dell’universale e biblica domanda: chi è l’uomo e perché te ne curi? (Sal 8).

Inevitabili i paralleli tra la tradizione e la modernità attorno al fatidico interrogativo ma Prades López è riuscito nel non facile tentativo di eludere tale dualismo, citando don Giussani, senza trascurare altri nomi meno prevedibili ma altrettanto significativi.

“L’eterna dissociazione tra realtà e desiderio – ha spiegato il rettore di San Damaso – da sempre tribola e fa penare l’uomo. Ognuno di noi deve accettare che la vita che l’aspetta è troppo limitata perché ci possano albergare tutti quei desideri che ci portiamo dentro”.

Il dramma dell’uomo che desidera troppo – tanto più quando riesce a realizzare tutti i propri desideri o gran parte di essi – è la perdita del senso dei suoi pensieri e delle sue azioni: egli diventa un uomo incapace di vera esperienza, quindi non ha sostanzialmente nulla da dire.

Lo struggimento nei confronti dell’infinito è più o meno manifesto in chiunque ma nessuno lo ha mai percepito in modo più nitido di chi ha fatto l’esperienza personale di Gesù Cristo, il Dio fattosi uomo, l’infinito fisicamente calatosi nella finitezza della vita e della morte.

Una metafora della tensione verso l’infinito è quella dell’orizzonte che, come argomentava lo scultore Eduardo Chillida, “è irraggiungibile” e, se noi avanziamo, si sposta: per questa sua natura “l’orizzonte è la patria comune di tutti gli uomini”.

Lo scrittore Ernesto Sabato si sofferma sul similare concetto di “assoluto”, traendone conseguenze non troppo diverse: il bisogno di assoluto è infatti “una nostalgia di qualcosa cui mai sono arrivato”, diceva Sabato, e con questa nostalgia “confrontiamo tutta la vita”.

Don Giussani, da parte sua, formulò la categoria della “esperienza elementare”, ovvero quel “complesso di esigenze ed evidenze originali con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste”.

Siamo davanti ad uno struggimento e ad un’inquietudine a cui solo Gesù Cristo può dare risposta, essendo la sua Resurrezione, “il primo e fondamentale avvenimento in cui il punto di fuga è diventato esperienza dell’uomo”.

Poiché nella realtà “il punto di fuga è l’indice di un oltre, questo oltre è diventato carne ed ossa, perciò Cristo risorto è proprio la prima esperienza di Dio fatto carne e ossa”.

Se una barca, avvicinandosi all’orizzonte, diviene sempre più piccola (come recita il popolare canto spagnolo La Sevillana del adios), don Giussani spiegava come la novità del cristianesimo consiste nell’esatto contrario, ovvero l’orizzonte che, sorprendentemente, si avvicina all’uomo.

È talmente prorompente il cristianesimo, l’infinito che si affaccia nella storia di ognuno di noi, che è impossibile ridurlo a pura esperienza soggettiva, confinata all’ambito personale, come pretenderebbero le scienze naturali e sociali odierne.

Il cristianesimo deve dunque scontrarsi con le contestazioni della mentalità contemporanea su tre assunti fondamentali ed irrinunciabili: l’unicità dell’uomo in corpo e anima; la sua intrinseca costituzione sessuale come uomo e donna; la pienezza dell’uomo nella socialità naturale.

 Sul primo dei tre assunti citati, tuttavia, vi è la sorprendente risposta fornita dalle neuroscienze che mettono in crisi “una spiegazione dell’uomo puramente immanente, di tipo materiale, incapace di dar conto dell’enigma dell’uomo”.

Possiamo conoscere quindi Cristo, massima espressione umana dell’Infinito manifestatosi sulla terra, e possiamo conoscerlo al meglio nella mendicanza. “Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo medicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”, ha affermato Prades verso la conclusione del suo intervento.

di Luca Marcolivio

RIMINI, mercoledì, 22 agosto 2012 (ZENIT.org) –

QUARTA GIORNATA

Dio e Darwin Evoluzione biologica e natura dell’essere umano: il tema della quarta giornata  
 “La scelta non è tra Darwin e Dio. L’incompatibilità tra creazione ed evoluzione è solo apparente”. Sono, queste, parole di William Carroll, docente di teologia e scienza al Blackfriars college di Oxford, intervenuto ieri, 22 agosto, nella quarta giornata del Meeting di Rimini, all’incontro su “Evoluzione biologica e natura dell’essere umano”.

Due causalità senza conflitto. Se, da una parte, prevale il “naturalismo totalizzante che ritiene la scienza sufficiente a spiegare tutto ciò che deve essere spiegato” e giunge “alla conclusione che non c’è bisogno di fare ricorso all’idea di un creatore”, dall’altra, ha affermato lo studioso, “è impossibile comprendere a pieno cosa sia l’essere umano senza ricorrere a biologia, filosofia e teologia combinate”, seppur senza confusioni di ruoli e invasioni di campo. Già in San Tommaso d’Aquino, ha proseguito Carroll, c’è la ricomposizione dell’apparente contraddizione tra fede e scienza, perché per l’aquinate “il funzionamento della causalità divina è radicalmente diverso dalla causalità esercitata dalle creature, sicché tra le due non c’è conflitto. Nessuna scoperta biologica – ha ribadito lo studioso – può negare che gli esseri umani siano stati creati”.

Una proprietà che ha solo l’uomo. Dire che “Dio è un progettista intelligente che riempie i buchi è un concetto impoverito, sia dal punto di vista della ragione che della fede. Dio – ha spiegato Carroll -è così trascendente da poter essere causa di tutto ciò che è senza compromettere l’efficacia causale delle creature”. Ma l’essere umano, l’ultimo fotogramma della storia, “da quando è stato capace di contemplare l’infinito?”, si è chiesto Ian Tattersall, paleontologo statunitense, individuando “il punto di rottura” nell’improvvisa “apparizione di una nuova e straordinaria capacità: l’elaborazione simbolica”. Che “significa linguaggio, una differenza fondamentale rispetto a tutti gli altri esseri viventi”, perché comprendiamo le entità astratte, “vediamo e percepiamo l’infinito”, e quindi “possiamo sentirci in rapporto con esso”.

Se il genoma non basta. Di natura umana e genetica si è parlato anche nel corso del convegno che presentava la mostra dedicata alla figura di Jerome Lejeune, scienziato scopritore della sindrome di Down e difensore dei diritti delle persone affette dalla malattia. “Lejeune ha testimoniato che le persone non vengono documentate dal genoma ma dal rapporto con l’infinito” – ha detto Marco Bregni, presidente dell’associazione “Medicina e persona” e moderatore dell’incontro. Sul rapporto tra scienza e fede si è soffermato Jean-Marie Le Méné, presidente della fondazione dedicata a Lejeune nel 1996, l’anno dopo la sua morte: “Fede e intelligenza sono due strade che portano alla stessa verità. Come mai allora oggi non sappiamo più cos’è l’uomo?”. La società, ha proseguito, “viene profondamente alterata dalla confusione tra bene e male. Il vero pericolo è nell’uomo, nello squilibrio sempre più preoccupante tra la potenza, continuamente più forte nel nostro contesto, e la saggezza, che invece va regredendo: nella corsa tra le due, la tecnoscienza spesso ha la meglio”.

La medicina al servizio della vita. Le Méné, partendo da alcuni fatti di cronaca, come la vicenda della bambina pakistana che rischia la pena di morte e quella del nuovo screening prenatale: “La vicenda della piccola pakistana ci commuove, però in Europa si fa di tutto perché questi bambini non nascano”, ha detto, “e con la notizia dello screening ematico nessun bambino sano morirà a causa dell’amniocentesi: ci viene quindi detto che uccidere un embrione sano è più grave che ucciderne uno che non lo è”, dal momento che già ora nel 95% dei casi i bambini down sottoposti a screening vengono abortiti. Dietro tutto questo, secondo l’esperto, c’è “un grosso business, che riguarda ogni donna, quindi metà della popolazione mondiale, e non riveste alcun nessuno interesse dal punto di vista medico. A che serve il medico, se i bambini affetti da trisomia, anziché essere meglio accolti, vengono uccisi?”.

“Siamo rapporto con Chi ci ha voluto”. Il presidente Le Méné ha poi parlato dell’impegno della Fondazione nella “difesa della vita che è inseparabile dalla medicina e dalla ricerca. Noi lavoriamo non sul genoma ma sulle connessioni cerebrali, in un’ottica di terapia, cerchiamo di migliorare la vita dei nostri malati. Eliminare la popolazione malata è forse una soluzione compatibile con l’approccio scientifico?”. Per Carlo Soave, docente di Fisiologia vegetale all’università di Milano, e curatore della mostra su Lejeune, la vita stessa del genetista “è una risposta alla domanda ‘cosa è l’uomo’. Lejeune – ha spiegato – era incredibilmente ottimista. D’altra parte, se un medico non nutre la speranza di fare qualcosa di buono, allora è meglio che cambi professione. Già esserci è un fine, perché siamo immagine del nostro creatore. Noi non siamo genetica, ma rapporto con Chi ci ha voluto”.

a cura di Lorena Leonardi, inviata Sir al Meeting di Rimini

 

Famiglia e insegnamento della religione per lo sviluppo dei giovani

Lettera pastorale dei vescovi polacchi per la II Settimana di Formazione

 

Sia il padre che la madre, contrariamente a quanto sostengono alcune ideologie, dovrebbero assumersi la responsabilità per l’educazione del bambino”.

Questo è quanto sottolineano i vescovi polacchi in una lettera pastorale diffusa prima della Seconda Settimana di Formazione che si sta svolgendo in Polonia dal 16 al 22 agosto.

I presuli rilevano che la testimonianza  e la partecipazione alla vita religiosa dei genitori è essenziale per l’educazione del bambino.

“In tutti i luoghi in cui si svolge l’educazione: a casa, a scuola e nella parrocchia, è necessario cercare le risposte alle domande che seguono: chi vogliamo formare ed educare? Come entrare nell’intimo del giovane? Sulla base di quali valori si desidera formare?

“Senza una riflessioni condotta congiuntamente dai genitori, dai padrini e dai nonni, così come per i responsabili per l’istruzione, gli insegnanti e gli educatori, non può esserci un’educazione fruttuosa”, affermano i Vescovi.

Nella lettera i vescovi polacchi hanno scritto che “il primo incontro con Dio e con la Chiesa avviene nella famiglia, giustamente chiamata ‘Chiesa domestica’.

“Nel clima di amore e di legami naturali della famiglia, cresce il processo di educazione e lo sviluppo dell’anima umana”, sostengono i Vescovi.

Secondo i vescovi polacchi, “preservare l’unità e la santità del matrimonio è una preoccupazione costante della Chiesa. La sua legittimità è ancora più evidente quando i coniugi sono i genitori”.

“Purtroppo, – continua la lettera dei presuli – un problema sociale crescente è il numero crescente di matrimoni che si disgregano. La divisione ha un impatto negativo sulla formazione e contribuisce alle esperienze negative dei bambini e dei giovani. Una parte molto importante della formazione in famiglia è infatti, un senso di stabilità e di sicurezza, che ogni bambino dovrebbe sperimentare”.

Nella lettera alla II Settimana di Formazione i vescovi consigliano la catechesi che realizza “la funzione educativa”.

 “L’esperienza dimostra che – sostengono i presuli – l’insegnamento della religione nella scuola favorisce il pieno sviluppo dei giovani. La catechesi arricchisce il panorama educativo con nuovi contenuti, apportando alla vita della scuola e dei suoi allievi l’ispirazione e la motivazione che favorisce lo sviluppo della personalità”.

 Per questi motivi – conclude la lettera – i vescovi lanciano un appello per “garantire l’insegnamento della religione nella formazione scolastica”.

di Don Mariusz Frukacz

ROMA, giovedì, 23 agosto 2012 (ZENIT.org).-

XXXIII edizione del Meeting per l’Amicizia fra i Popoli

Pubblichiamo il testo integrale del messaggio (datato 10 agosto) inviato da Benedetto XVI al vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi, in occasione dell’apertura della XXXIII edizione del Meeting per l’Amicizia fra i Popoli. 

 

Desidero rivolgere il mio cordiale saluto a Lei, agli organizzatori e a tutti i partecipanti al Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, giunto ormai alla XXXIII edizione. Il tema scelto quest’anno – «La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito» – risulta particolarmente significativo in vista dell’ormai imminente inizio dell’«Anno della fede», che ho voluto indire in occasione del Cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Parlare dell’uomo e del suo anelito all’infinito significa innanzitutto riconoscere il suo rapporto costitutivo con il Creatore. L’uomo è una creatura di Dio. Oggi questa parola – creatura – sembra quasi passata di moda: si preferisce pensare all’uomo come ad un essere compiuto in se stesso e artefice assoluto del proprio destino. La considerazione dell’uomo come creatura appare «scomoda» poiché implica un riferimento essenziale a qualcosa d’altro o meglio, a Qualcun altro – non gestibile dall’uomo – che entra a definire in modo essenziale la sua identità; un’identità relazionale, il cui primo dato è la dipendenza originaria e ontologica da Colui che ci ha voluti e ci ha creati. Eppure questa dipendenza, da cui l’uomo moderno e contemporaneo tenta di affrancarsi, non solo non nasconde o diminuisce, ma rivela in modo luminoso la grandezza e la dignità suprema dell’uomo, chiamato alla vita per entrare in rapporto con la Vita stessa, con Dio.
Dire che «la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito» significa allora dire che ogni persona è stata creata perché possa entrare in dialogo con Dio, con l’Infinito. All’inizio della storia del mondo, Adamo ed Eva sono frutto di un atto di amore di Dio, fatti a sua immagine e somiglianza, e la loro vita e il loro rapporto con il Creatore coincidevano: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen, 1,27). E il peccato originale ha la sua radice ultima proprio nel sottrarsi dei nostri progenitori a questo rapporto costitutivo, nel voler mettersi al posto di Dio, nel credere di poter fare senza di Lui. Anche dopo il peccato, però, rimane nell’uomo il desiderio struggente di questo dialogo, quasi una firma impressa col fuoco nella sua anima e nella sua carne dal Creatore stesso. Il Salmo 63 [62] ci aiuta a entrare nel cuore di questo discorso: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua» (v. 2). Non solo la mia anima, ma ogni fibra della mia carne è fatta per trovare la sua pace, la sua realizzazione in Dio. E questa tensione è incancellabile nel cuore dell’uomo: anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare la sete di infinito che abita l’uomo. Inizia invece una ricerca affannosa e sterile, di «falsi infiniti» che possano soddisfare almeno per un momento. La sete dell’anima e l’anelito della carne di cui parla il Salmista non si possono eliminare, così l’uomo, senza saperlo, si protende alla ricerca dell’Infinito, ma in direzioni sbagliate: nella droga, in una sessualità vissuta in modo disordinato, nelle tecnologie totalizzanti, nel successo ad ogni costo, persino in forme ingannatrici di religiosità. Anche le cose buone, che Dio ha creato come strade che conducono a Lui, non di rado corrono il rischio di essere assolutizzate e divenire così idoli che si sostituiscono al Creatore.
Riconoscere di essere fatti per l’infinito significa percorrere un cammino di purificazione da quelli che abbiamo chiamato «falsi infiniti», un cammino di conversione del cuore e della mente. Occorre sradicare tutte le false promesse di infinito che seducono l’uomo e lo rendono schiavo. Per ritrovare veramente se stesso e la propria identità, per vivere all’altezza del proprio essere, l’uomo deve tornare a riconoscersi creatura, dipendente da Dio. Al riconoscimento di questa dipendenza – che nel profondo è la gioiosa scoperta di essere figli di Dio – è legata la possibilità di una vita veramente libera e piena. È interessante notare come san Paolo, nella Lettera ai Romani, veda il contrario della schiavitù non tanto nella libertà, ma nella figliolanza, nell’aver ricevuto lo Spirito Santo che rende figli adottivi e che ci permette di gridare a Dio: «Abbà! Padre!» (cfr 8,15). L’Apostolo delle genti parla di una schiavitù «cattiva»: quella del peccato, della legge, delle passioni della carne. A questa, però, non contrappone l’autonomia, ma la «schiavitù di Cristo» (cfr 6,16-22), anzi egli stesso si definisce: «Paolo, servo di Cristo Gesù» (1,1). Il punto fondamentale, quindi, non è eliminare la dipendenza, che è costitutiva dell’uomo, ma indirizzarla verso Colui che solo può rendere veramente liberi.
A questo punto però sorge una domanda. Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza della propria natura? E non è forse una condanna questo anelito verso l’infinito che egli avverte senza mai poterlo soddisfare totalmente? Questo interrogativo ci porta direttamente al cuore del cristianesimo. L’Infinito stesso, infatti, per farsi risposta che l’uomo possa sperimentare, ha assunto una forma finita. Dall’Incarnazione, dal momento in cui in Verbo si è fatto carne, è cancellata l’incolmabile distanza tra finito e infinito: il Dio eterno e infinito ha lasciato il suo Cielo ed è entrato nel tempo, si è immerso nella finitezza umana. Nulla allora è banale o insignificante nel cammino della vita e del mondo. L’uomo è fatto per un Dio infinito che è diventato carne, che ha assunto la nostra umanità per attirarla alle altezze del suo essere divino.
Scopriamo così la dimensione più vera dell’esistenza umana, quella a cui il Servo di Dio Luigi Giussani continuamente richiamava: la vita come vocazione. Ogni cosa, ogni rapporto, ogni gioia, come anche ogni difficoltà, trova la sua ragione ultima nell’essere occasione di rapporto con l’Infinito, voce di Dio che continuamente ci chiama e ci invita ad alzare lo sguardo, a scoprire nell’adesione a Lui la realizzazione piena della nostra umanità. «Ci hai fatti per te – scriveva Agostino – e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confessioni I, 1,1). Non dobbiamo avere paura di quello che Dio ci chiede attraverso le circostanze della vita, fosse anche la dedizione di tutto noi stessi in una forma particolare di seguire e imitare Cristo nel sacerdozio o nella vita religiosa. Il Signore, chiamando alcuni a vivere totalmente di Lui, richiama tutti a riconoscere l’essenza della propria natura di essere umani: fatti per l’infinito. E Dio ha a cuore la nostra felicità, la nostra piena realizzazione umana. Chiediamo, allora, di entrare e rimanere nello sguardo della fede che ha caratterizzato i Santi, per poter scoprire i semi di bene che il Signore sparge lungo il cammino della nostra vita e aderire con gioia alla nostra vocazione.
Nell’auspicare che questi brevi pensieri possano essere di aiuto per coloro che prendono parte al Meeting, assicuro la mia vicinanza nella preghiera ed auguro che la riflessione di questi giorni possa introdurre tutti nella certezza e nella gioia della fede.
A Lei, Venerato Fratello, ai responsabili e agli organizzatori della manifestazione, come pure a tutti i presenti, ben volentieri imparto una particolare Benedizione Apostolica.

Le ragioni di un cristiano: intervista

Riportiamo parte dell’‘intervista che Lorenzo Fazzini ha fatto a Marco Tosatti, già vaticanista de “La Stampa”, pubblicata nel libro “Nuovi Cristiani d’Europa” (Lindau 2009).  

Come è possibile definire il suo cammino spirituale: una conversione religiosa? Un riavvicinamento? Un «re-inizio»?

Non c’è dubbio: nel mio caso si può parlare di un riavvicinamento. Sono nato a Genova nel 1947 e sono cresciuto a Torino con un’educazione famigliare di tipo cattolico. Ho fatto la prima comunione, ho partecipato alle attività della San Vincenzo fino ai primi anni dell’adolescenza. Poi, verso i 13-14 anni, mi sono allontanato dalla pratica religiosa. Non c’è stato un motivo particolare che ha causato questo allontanamento: l’adolescenza è il periodo in cui uno pensa di porsi in maniera titanica rispetto alle cose della vita. In questa scelta c’è stato, e fu molto forte, l’influsso di mio fratello Giorgio (noi siamo orfani di padre, che è morto quando avevo un anno e mezzo). Giorgio era un agnostico molto «militante» e questa sua dimensione personale mi ha condizionato molto nella mia fase adolescenziale. Da allora – erano i primi anni Sessanta – c’è stato da parte mia un rifiuto progressivo di tutto quello che era la religione e di quanto era legato alla fede. Tutto questo avveniva secondo un modello di pensiero molto «illuministico», ovvero con la scoperta delle polemiche classiche contro la Chiesa – che ora invece considero forti mancanze rispetto alle esigenze del Vangelo –, ma che allora consideravo posizioni connaturate al messaggio cristiano. La mia posizione era molto razionalistica, direi volterriana. Questa situazione si è protratta fino alla metà degli anni Novanta: diciamo che si è trattato un periodo lungo, tra i 35 e i 40 anni.

E come si è configurato questo cammino di «riavvicinamento» alla fede?

Non so se posso collocare un momento preciso per un inizio di «conversione». Occupandomi di questi argomenti c’è stato un «ritorno» un po’ in generale al tema religioso: ho studiato l’arabo e mi sono interessato di islam e Corano. Ho sempre avuto interesse per la meditazione zen essendo un grande appassionato e praticante delle arti marziali. Anche questa è stata un’altra strada che ha tenuto desta in me la ricerca religiosa, sebbene in questo caso si tratti di qualcosa più incentrato sul concetto di interiorità piuttosto che sulla ricerca di un polo esterno, come è invece il discorso religioso. Ma anche questa passione per le arti marziali ha rappresentato per me una sorta di «porta metafisica» aperta sulla domanda religiosa. Tutto questo ha avuto conseguenze molto precise, ovvero la consapevolezza, o meglio il sospetto, che non tutto si trova qui davanti a noi e che non tutto scompare con la fine della materialità della vita. Non c’è stato dunque niente di clamoroso, nessuna illuminazione improvvisa o folgorante che ha determinato il mio «riavvicinamento». Devo invece sottolineare che l’incontro – innanzitutto di carattere professionale – con Giovanni Paolo II ha avuto uno sviluppo molto forte per la mia persona. Mi sono trovato di fronte ad una persona che ho scoperto nella sua eccezionalità umana, in nel suo carisma e nella sua intelligenza.

Cosa ha creato l’interrogarsi sulla figura di Giovanni Paolo?

Questo pormi tali domande ha iniziato a «lavorarmi» dentro e ha accompagnato il sorgere di un interesse per lo studio sulla nascita del cristianesimo. In tutto questo si è confermato il fatto che, personalmente, mi sento una persona con una componente razionale importante. Mi sono così dedicato a leggere e a studiare la storia dei Vangeli e gli Atti degli Apostoli. Da cui ho capito che, nella Palestina di allora, intorno alla persona di Gesù è successo davvero qualcosa di straordinario. Tutto, il comportamento delle persone intorno a lui, quello che è stato scritto e che ora abbiamo ancora, è straordinario! Quelle povere persone che erano pescatori, dopo la resurrezione, cambiano totalmente, e lo fanno non per formare un potere terreno (tutt’altro!), ma vanno in giro per il mondo a testimoniare un Risorto e a farsi ammazzare per questa fede. Questo è quello che è successo ed è quanto è stato raccontato in maniera credibile nei testi che possediamo ancora oggi. Il comando “Amate i vostri nemici, benedite chi vi perseguita, fate del bene a quelli che vi odiano e pregate per coloro che vi insultano e vi danno la caccia…” (Matteo, 5:44 ) è qualcosa di impressionante, ci deve essere qualcosa di diverso dall’umano per suscitarlo! Tutto questo studio ha contribuito al mio percorso di riscoperta del cristianesimo. Ho iniziato a studiare le origini della religione cristiana per cercare delle risposte che non fossero solo emotive alle domande che mi erano sorte. Non ho «pianto e creduto», come successe a René de Chateaubriand. C’è stata una componente di cuore, certamente, ma anche una di erudizione e ricerca, se così si può dire. Tutto ciò si è tradotto in un ritorno, in un riavvicinamento che non è esente dal dubbio. È evidente che – come dice San Paolo – la nostra fede è «scandalo per gli ebrei e follia per i greci» (???). Crediamo in un uomo Dio ucciso, morto e risorto, qualcosa che è al di là di ogni mito, qualcosa di razionalmente imprendibile, così come lo è la fede nella nascita verginale di Gesù. Il mio credere non è esente dal dubbio. Tutto questo però è accompagnato dalla tranquilla consapevolezza che tutto è così: una sensazione molto strana! Alla base di questo sentimento c’è un senso di abbandono fiducioso, per cui posso avere qualche dubbio sulla fede cristiana ma non ho dubbi che noi uomini siamo stati creati per un qualche scopo e che non tutto finisce qui: tutto ciò lo sento vero come so che ora sto parlando con lei. Non oso pensare razionalmente che siamo stati creati per caso: tale convinzione sarebbe un insulto alla nostra intelligenza. Certo, resta il problema del male, della sofferenza, del dolore dell’innocente, problemi insolubili con cui nessuno può venire a patti. Ma capisco che non si può venire a contatto con questi problemi se non si ha una ratio più alta che ci offra un cammino e una direzione verso cui andare per comprendere.

Da studioso e giornalista, ci sono state persone, presenti o defunte, autori, intellettuali, pensatori, magari libri, che l’hanno aiutata in questo cammino di riavvicinamento alla fede?

 

 

Sicuramente il primo libro è stato il Vangelo. Un altro testo molto molto interessante, che degli spunti che mi hanno parlato in modo molto eloquente, è stato Cammino di san Josè Maria Escrivà [1]. Il suo messaggio di un cristianesimo così «laico», che concede pochi fronzoli, mi ha molto colpito. Già l’inizio di Cammino – «che la tua vita non sia una vita sterile, lascia traccia» – è un invito ad una fede non melensa, ma che sia intessuta di operare e fare, non una fede dell’apparenza: si tratta di inviti che ancora oggi mi accompagnano. Certamente nel mio cammino di riavvicinamento spirituale c’è stato anche René de Chateaubriand, portatore di un cristianesimo di tutt’altro tipo rispetto a quello di Escrivà, che però – insieme a quello di Pascal – mi ha colpito molto. Poi, moltissimo mi hanno aiutato G. K. Chesterton e C.S. Lewis. Credo che una delle caratteristiche della divinità sia l’umorismo, cioè il saper credere sorridendo.

da: Zenit dell’11/08/12

II Festival della DSC a Verona dal 14 al 16 Settembre

Il tema centrale riguarderà la situazione economica e sociale. L’idea forte è il tentativo di proporre qualcosa di diverso rispetto  a quanto ci sentiamo dire tutti giorni.

 Partiamo da un dato condiviso da tutti: siamo arrivati al capolinea e non si può andare avanti così. Se noi dessimo continuità al nostro sistema economico, sociale e civile per come si è sviluppato fino ad oggi, cadremmo nel baratro. C’è bisogno di discontinuità. Ecco il perché del tema di questo secondo festival: abbiamo bisogno innanzitutto di un pensiero diverso. Fare di più non ci fa uscire da questa situazione, occorre un modo nuovo di vedere le cose. Il nuovo pensiero è riaffermare un’economia al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio dell’economia, è ipotizzare uno sviluppo libero dagli interessi personali o di gruppo, uno sviluppo a misura d’uomo che riduca le disuguaglianze. Dobbiamo sviluppare l’idea che senza valori e senza etica possiamo forse avere di più, ma non possiamo essere contenti di noi e del mondo che ci circonda. Tutti insieme siamo chiamati a cercare il nuovo che è nascosto dentro le pieghe di una crisi e chiede di essere riscoperto ed evidenziato. Parleremo di economia e di società con l’intento di rendere più  bello vivere, lavorare, aiutarsi, stare assieme. I principi a cui attingiamo sono quelli espressi nel pensiero sociale della Chiesa perché per leggere bene il presente e sviluppare  una società più giusta è necessario riconoscere ad ogni persona la  trascendenza, la  dimensione relazionale, la centralità e la dignità.

I grandi passaggi da affrontare sono:

  • Dal come al perché;
  • Dal presente al futuro;
  • Dalla centralità dello spread alla centralità dell’uomo.

 Ecco il Festival delle persone, dei fatti, dei pensieri e dei valori su cui costruire il futuro!
Abbiamo individuato due soggetti con cui affrontare queste prospettive: i giovani e le donne.
Saranno presentate persone, esperienze, idee, approfondimenti.

Il Festival è un momento in cui si intrecciano positività, problemi, fatiche, volti, relazioni, cultura, esperienze, azioni, motivazioni, spiritualità, incontri e idee, ma da questo intreccio, che riflette il quotidiano, ci auguriamo che  ognuno possa raccogliere nuova forza per la ricerca della verità e per interpretare e sviluppare le novità racchiuse nel presente.

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La preghiera testimonianza di fede

Benedetto XVI dedica l’Udienza generale del mercoledì alla vita spirituale di san Domenico Guzman per rimarcare l’importanza della preghiera anche nei suoi aspetti esteriori

 

All’origine della testimonianza di fede che ogni cristiano deve dare in famiglia, nel lavoro, nell’impegno sociale e nei momenti di distensione, c’è la preghiera, contatto personale con Dio.

È questo l’insegnamento di san Domenico di Guzman, di cui oggi ricorre la memoria liturgica, sul quale Benedetto XVI ha incentrato la sua catechesi durante l’Udienza Generale di questa mattina, nella Piazza della Libertà antistante il Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo.

In particolare, il Santo Padre ha posto in luce la vita spirituale del santo Sacerdote e Fondatore dell’Ordine dei Predicatori, “uomo di preghiera, innamorato di Dio, imitatore di Cristo”.

San Domenico “incarnò radicalmente i tre consigli evangelici unendo alla proclamazione della Parola una testimonianza di una vita povera” ha detto il Papa, e progredì “sulla via della perfezione cristiana”, grazie alla forza della preghiera che “rese sempre più feconde le sue opere apostoliche”.

Soprattutto, caratteristica del Santo era l’incessante orazione notturna: “Il giorno lo dedicava al prossimo, ma la notte la dava a Dio” scriveva, infatti, il Beato Giordano di Sassonia, suo successore alla guida dell’Ordine.

“Egli parlava sempre con Dio o di Dio” ha osservato il Pontefice ricordando le testimonianze delle persone a lui più vicine, e tutto ciò “indica la sua comunione profonda con il Signore e, allo stesso tempo, il costante impegno di condurre gli altri ad essa”.

A tal proposito, Papa Benedetto si è soffermato a lungo su Le nove maniere di pregare di San Domenico, libro scritto da un frate domenicano tra il 1260 e il 1288, che “ci aiuta a capire qualcosa della vita interiore del Santo” e soprattutto “a imparare qualcosa su come pregare”.

Secondo san Domenico, infatti, sono nove le maniere di pregare e ciascuna di queste “esprime un atteggiamento corporale e uno spirituale che, intimamente compenetrati, favoriscono il raccoglimento e il fervore”.

“I primi sette modi – ha evidenziato il Papa – seguono una linea ascendente, come passi di un cammino, verso la comunione con Dio, con la Trinità”.  San Domenico “prega in piedi inchinato per esprimere l’umiltà, steso a terra per chiedere perdono dei propri peccati, in ginocchio facendo penitenza per partecipare alle sofferenze del Signore, con le braccia aperte fissando il Crocifisso per contemplare il Sommo Amore, con lo sguardo verso il cielo sentendosi attirato nel mondo di Dio”.

Gli ultimi due modi, invece, ha spiegato Papa Benedetto, “corrispondono a due pratiche di pietà abitualmente vissute dal Santo”: la meditazione personale e la preghiera durante i viaggi.

 

Nella meditazione personale “la preghiera acquista una dimensione ancora più intima, fervorosa e rasserenante”. San Domenico, infatti, al termine della recita della Liturgia delle Ore, e dopo la celebrazione della Messa, prolungava questo colloquio intimo con Dio, “senza porsi limiti di tempo, seduto tranquillamente, raccolto in se stesso in atteggiamento di ascolto, leggendo un libro o fissando il Crocifisso”.

La comunione con Dio in questi momenti era così intensa, che “anche esteriormente si potevano cogliere le sue reazioni di gioia o di pianto”. A volte, raccontano dei testimoni, “entrava in una sorta di estasi con il volto trasfigurato, ma subito dopo riprendeva umilmente le sue attività quotidiane ricaricato dalla forza che viene dall’Alto”.

La seconda forma di preghiera il Santo la praticava durante i viaggi tra un convento e l’altro. In quei momenti, egli “recitava le Lodi, l’Ora Media, il Vespro con i compagni”, e, attraversando le valli o le colline, “contemplava la bellezza della creazione. Allora, dal suo cuore sgorgava un canto di lode e di ringraziamento a Dio per tanti doni, soprattutto per la più grande meraviglia: la redenzione operata da Cristo”.

Una grande testimonianza di fede e di amore al Signore quella di San Domenico, dunque, che “ci ricorda che solo questo rapporto reale con Dio ci dà la forza per vivere intensamente ogni avvenimento, specie i momenti più sofferti”.

Non solo: “questo Santo ci ricorda l’importanza degli atteggiamenti esteriori nella nostra preghiera” ha rimarcato Benedetto XVI. Inginocchiarsi, stare in piedi davanti al Signore, fissare lo sguardo sul Crocifisso, fermarsi e raccogliersi in silenzio, sono tutti aspetti che sembrano secondari, ma che in realtà “ci aiutano a porci interiormente, con tutta la persona, in relazione con Dio”.

Alla luce di tutto questo, l’esortazione del Papa è “di trovare quotidianamente momenti per pregare con tranquillità”, specialmente nei periodi di vacanze. “Sarà un modo – ha concluso – per aiutare chi ci sta vicino ad entrare nel raggio luminoso della presenza di Dio, che porta la pace e l’amore di cui abbiamo tutti bisogno”.

XIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: 1 Re 19,4-8

  In quei giorni, Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò.

     Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve.
Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

 Elia sta fuggendo l’odio di Gezabele e si inoltra nel deserto. Lì si abbandona alla disperazione e vorrebbe morire. Il paragone è con Mosè che prostrato dal peso della missione di guidare il popolo nel deserto si lamenta con Dio e lo invoca: «Se mi devi trattare così, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, io non veda più la mia sventura» (Num 11,15; cf. Gb 7,15; Tb 3,6).

     Proprio nel momento del massimo sconforto interviene il Signore con una chiamata e l’offerta del cibo (1 Re 19,5).

     Elia trova una focaccia «cotta su pietre roventi» (19,6). Rashi il massimo commentatore medievale ebraico nota che il vocabolo ebraico rafim tradotto con «pietre roventi» è lo stesso che si trova in Isaia 66 ma al singolare rafa, indica la pietra ardente (di solito tradotta con carbone) che ha in mano il serafino (il vocabolo ebraico ha la stessa radice «ardere») con il quale purifica la bocca del profeta. Si tratta di una focaccia cotta per così  dire, sul braciere che arde davanti a Dio stesso.

La prima chiamata non basta a rinfrancare Elia. Il profeta si riaddormenta, non ha ancora la forza di riprendere a seguire la volontà del Signore.

     Questo riaddormentarsi di Elia è il segno della riluttanza del profeta a seguire la vocazione del Signore, che intuisce difficile e piena di ostacoli.

     Lo stesso Mosè cerca di opporre delle scuse che lo esonerino dal gravoso compito che Dio vuole affidargli (cf. Es 4.10.13). Geremia obietta di essere troppo giovane (Ger 1, 6) e Giona tenta addirittura la fuga.

     L’Angelo del Signore, che rappresenta Dio stesso, chiama Elia e lo invita a mangiare una seconda volta: solo dopo aver mangiato la seconda volta il profeta è pronto per il cammino fino all’Oreb, vale a dire il Sinai per ricevere e abbracciare con energia rinnovata l’insegnamento (Tôràh) del Signore e a predicarlo in Israele.

Seconda lettura: Efesini 4,30-5,2

 Fratelli, non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. 

 I versetti della lettera agli Efesini che leggiamo oggi fanno parte di una lunga esortazione a comportarsi secondo le esigenze della vita nuova ricevuta nel battesimo.

     Il v. 30 propone la motivazione teologica del dovere di comportarsi secondo i dettami descritti nella parentesi precedente e successiva: «non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio». Questa immagine fa percepire lo Spirito divino quasi fosse un educatore che partecipa alla vita dell’educando.

     Lo Spirito non è presentato come un principio astratto, ma, per così dire, persona capace di sentimenti; il verbo greco lupein indica una relazione interpersonale (cf. 2Cor 2,2-5; 7,8-9).

     È nello Spirito che i cristiani «sono stati segnati» nel «giorno della redenzione» (Ef 30b). Il riferimento è al battesimo che è il sigillo dello Spirito e inizio della redenzione, che avrà una sua manifestazione nel «giorno del Signore» espressione paolina simile a quella usata qui e che indica la parusia o manifestazione ultima del Cristo (cf. 1 Ts 5,2; 1Cor 1,8; 2Cor 1,14).

     I v. 31 e 32 indicano gli atteggiamenti e i comportamenti da evitare e quelli invece da praticare. L’autore specifica in cinque sinonimi «tutte le malignità (kakia)» da evitare, o meglio si può dire che vengono indicati quattro comportamenti frutto dell’ira, che i cristiani devono bandire nei rapporti fra loro (cf. v. 26): asprezza, sdegno, clamore, maldicenza. I battezzati, invece, devono imitare il comportamento di Dio rivelato in Cristo ed essere fra loro benevoli, misericordiosi e pronti al perdono.

     Il principio dell’imitazione di Dio è espresso esplicitamente in 5,1: «Fatevi dunque imitatori di Dio», che rammenta il comandamento biblico «Siate santi come Io [il Signore] sono santo» (Lev 19,2) ripreso da Gesù: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli» (Mt 5, 48) e in Luca «siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36).

     In 5,2 l’autore della lettera, per inculcare nei cristiani che il «culto» veramente gradito a Dio è il darsi per amore ad imitazione di Gesù Cristo, usa una combinazione di due elementi che si trovano nella Bibbia in contesti diversi. Usa i termini «oblazione e vittima» (prosfora kai thusia nel v. 5,1 tradotto «offrendosi a Dio in sacrificio») che sono citati anche in Eb 10,5 ripresi dal salmo 40,7 «Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta».

Vangelo: Giovanni 6,41-51

   In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Esegesi

     Nel brano del Vangelo di Giovanni tratto dal capitolo 6 continua il discorso sul «pane di vita» iniziato al v. 26 e che si prolunga fino alla fine del capitolo. Si tratta di un discorso il cui ambiente vitale è la liturgia.

     Gli studiosi vedono in 6,26-50 la liturgia della parola e in 6,51-58 quella eucaristica.

     I vv 41-42 servono da commento alle parole precedenti di Gesù e sono occasione per la continuazione del discorso. I protagonisti sono detti «giudei», termine che in Giovanni ricorre 77 volte, (5 in Matteo e Luca e 6 in Marco). Tale uso indiscriminato del termine è indice che quando l’evangelista compone il suo Vangelo, siamo ormai nel periodo in cui i «giudei» (ebrei) in diaspora si stanno riorganizzando e cercano di ricomporre la loro identità intensificando lo studio della Tôràh, dal quale nascerà il Talmud e la tradizione del giudaismo rabinico, che è il filone fondamentale dell’ebraismo giunto fino a noi.

     Il cristianesimo sta anch’esso mettendo a punto la propria dottrina; si stacca sempre di più dal giudaismo e afferma la sua identità spesso in polemica con il giudaismo, che ne costituisce la sua radice.

     La società ebraica, invece, in terra di Israele e nei tempi in cui Gesù predicava è scomparsa. Essa era molto composita, come intravediamo dai sinottici, che parlano di sadducei, farisei, erodiani, zeloti, seguaci del battista, oltre che di giudei e galilei per indicare gli abitanti delle rispettive regioni. Dobbiamo tener presente questa distanza e differenza per non cadere nell’errore di identificare in tutti i «giudei» (ebrei) gli avversari di Gesù, mentre in realtà la quasi totalità degli interlocutori di Gesù ai tempi della sua predicazione erano giudei, sinonimo di ebrei e non semplicemente abitanti della regione della Giudea, come Gesù stesso, i suoi Apostoli e i suoi discepoli.

     Prendere il termine «giudei», come purtroppo si è verificato, non prestando bene attenzione alla distanza e differenza fra la situazione di Gesù e quella posteriore della chiesa nascente, per indicare gli avversari di Gesù, è un errore, che ora siamo in grado di evitare grazie agli studi più approfonditi riguardanti l’ambiente del tempo di Gesù e quello della redazione dei Vangeli.

     Nei versetti letti oggi «giudei», probabilmente galilei di provenienza, sono alcuni della folla che esprimono delle perplessità su un discorso veramente difficile e che si farà addirittura paradossale, se preso alla lettera e non in senso sacramentale, quando Gesù dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue» (Gv 6,54.56). Essi non contestano che Dio possa dare «un pane di vita», ma sono stupiti che Gesù possa dire di sé di «essere il pane di vita». Essi infatti conoscono bene la sua famiglia, vale a dire lo conoscono per un uomo normale. Anche nei sinottici la conoscenza della famiglia terrena è un ostacolo alla comprensione di Gesù (cf. Mc 6,3; Mt 13,55-57; Lc 4,22).

     Al versetto 43 Gesù riprende a parlare; e invita a «non mormorare».

     Non è infatti uno sforzo personale di interpretazione delle sue parole che le farà comprendere, ma una chiamata del Padre: «nessuno può venire a me se il Padre che mi ha mandato non lo attira» (cf. Mt 16,17). Si tratta di una vocazione, dono gratuito di Dio. In linguaggio tradizionale si dice che è la grazia preveniente di Dio che suscita la fede.

     Frutto dell’attrazione del Padre e della conseguente fede in Gesù sarà la risurrezione: «Io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,44; cf. 6,39.40.54; 11,24).

     Come spiegazione dell’opera di Dio, l’evangelista cita un versetto di Isaia (54,11), seguendo con una certa libertà la versione della Bibbia ebraica dei LXX.: «E saranno tutti istruiti da Dio», «Chiunque ha ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me» (Gv 6,45). L’insegnamento del Padre deve essere ascoltato ed accolto.

     Siamo qui alla presenza del mistero di Dio che chiama, e a quello della libertà della persona, che deve rispondere. Una persona non può venire alla fede senza «attrazione e insegnamento» divino, ma al tempo stesso conserva la libertà di rispondere positivamente o negativamente a questa chiamata. Si tratta di una accoglienza nell’ascolto, secondo la via normale indicata da Dio ad Israele: «Ascolta Israele» Shemà Israel (Dt 6,4), non secondo la visione: «Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (Gv 6,46).

     «Chi crede ha la vita eterna» (6,47), già fin da ora il credente, che sarà risuscitato «nell’ultimo giorno» partecipa della vita di Dio attraverso Gesù, che si fa «pane di vita». Perché chi lo mangia non muoia. Viene qui introdotto il discorso del «mangiare» che continua nel seguito del capitolo e che va inteso in senso sacramentale.

     Gesù stesso è il pane che discende dal cielo, non il pane materiale, fosse pure la manna donata come cibo ad Israele nel deserto. Si tratta della «carne» stessa di Gesù, donata per la vita del mondo. (Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19).

     Il paragone con la manna, il cui nome ebraico è man hu, «che cosa è» ed e l’espressione degli ebrei quando la videro per la prima volta, sottolinea il dono gratuito di Dio che deve sorprendere coloro a cui è rivolto come ha sorpreso gli ebrei nel deserto. Si tratta di entrare nel mistero di Dio in Gesù che si dona per la vita del mondo e che si può accogliere solo nella fede, dono di Dio.         

Meditazione

     La prima lettura di questa domenica ci mostra il profeta Elia smarrito e disorientato, al punto di inoltrarsi nel deserto per cercarvi la morte. In questo momento egli ha perso il senso di Dio, che sembra essere entrato nel silenzio e aver abbandonato il suo profeta. Di fronte all’idolatria dilagante in Israele, Dio sembra tacere e disinteressarsi di quanto accade. Tutta l’identità di Elia è nella sua relazione con Dio, «alla cui presenza io sto» (cfr. 1Re 17,1). Se Dio tace, Elia smarrisce se stesso e il significato della propria esistenza. «A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere: se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa» (Sal 28,l). Più che cercare la morte, Elia cerca Dio e la sua parola. Il suo inoltrarsi nel deserto è come un grido innalzato verso Dio perché torni a parlare e a manifestarsi. E Dio ascolta il grido del suo profeta, parla, si rivela. A un Elia disorientato dona di nuovo un orientamento, apre una strada davanti ai suoi passi, offrendo anche un pane che sostenga il suo cammino. L’itinerario che Elia dovrà percorrere è lo stesso vissuto dai suoi padri, di cui sa di non essere migliore: quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb, altro nome con cui si identifica il Sinai, il monte dove Dio aveva parlato a Mosè e aveva stipulato l’alleanza con il suo popolo. E come la manna aveva nutrito Israele durante il cammino nel deserto, così ora c’è un pane che nutre il cammino di Elia. Il primo libro dei Re, nei versetti successivi, racconterà come l’esperienza di Dio che Elia vivrà sull’Oreb sarà molto diversa da quella vissuta da Mosè sullo stesso monte. A Elia Dio parlerà non in un vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco (elementi presenti nella grande teofania alla quale assiste Mosè in Esodo 19), ma nella voce di un silenzio sottile. Per ascoltare questa voce, e riconoscere in questo silenzio la presenza di Dio, Elia stesso dovrà entrare nel silenzio, mettendo a tacere le attese e i preconcetti con cui immaginava che Dio gli si rivelasse. Se fosse rimasto bloccato nei suoi pregiudizi, non avrebbe saputo ascoltare e riconoscere questo diverso modo di manifestarsi da parte di Dio. Potrà così comprendere che talora, quando Dio entra nel silenzio, è perché cambia il suo modo di parlare e vuole purificare la nostra attesa.

     Il Vangelo di Giovanni, di cui ascoltiamo un’altra sezione del capitolo sesto, mostra come i Giudei rimangano prigionieri della loro incredulità proprio perché incapaci di riconoscere la rivelazione di Dio nella carne di Gesù. Dio entra persino in questo silenzio per manifestare la sua gloria: il silenzio di una carne in tutto simile alla nostra, ma che già prelude a un abbassamento ben più profondo, quello che giunge fino al silenzio della Croce. Il Prologo del Vangelo lo aveva già annunciato: «il Verbo, la Parola, si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (1,14). Tutta la gloria di Dio si rivela nel farsi carne della Parola e nel suo dimorare in mezzo a noi. Questo occorre ascoltare, vedere, contemplare per fare esperienza di Dio. Ma è proprio questo che suscita la mormorazione e l’incredulità dei Giudei: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire “Sono disceso dal cielo?”» (6,42). È lo scandalo dell’incarnazione a impedire la fede. Due schemi o due logiche di pensiero si contrappongono. Per i Giudei la carne di Gesù, il suo essere uno di noi, smentisce la sua pretesa di venire dal cielo e di essere il rivelatore di Dio. Al contrario, per Gesù è proprio la sua carne, il suo venire dal cielo per dimorare tra di noi come uno di noi, a dire tutta la verità di Dio. Dio è infatti così: è colui che tanto ama il mondo da donare il proprio Figlio unigenito, «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna», come annuncia Gesù a Nicodemo (3,16).

     «Solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (6,26), afferma Gesù per vincere l’incredulità dei suoi interlocutori. Occorre intendere in senso forte questa espressione. Non sta a indicare solamente che Gesù conosce il Padre perché viene da lui, appartiene alla sua sfera, è da sempre rivolto verso il seno del Padre (come ricorda ancora il Prologo nel versetto conclusivo, il 18). Più radicalmente, Gesù conosce il Padre perché si lascia da lui donare al mondo fino allo scandalo dell’incarnazione e della Croce. Conoscere il Padre significa infatti ri-conoscere la gratuità del suo dono, o meglio il suo essere il Donatore. In secondo luogo, si può riconoscere il Padre come Donatore solo lasciandosi consegnare al mondo, come Gesù, che fa di tutta la sua vita un’offerta: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51).

     Per giungere alla fede occorre perciò spezzare le catene dei propri preconcetti su Dio, lasciandosi attirare dal Padre e istruire da lui. «Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato… Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (v. 45). La fede implica lasciarsi strappare alle proprie certezze, che ci scandalizzano e ci conducono a mormorare, per divenire docili all’attrazione con cui il Padre ci fa venire a Gesù. Lasciarci consegnare a Gesù ci fa entrare in quella dinamica del dono che qualifica tutta la sua vita. Le sue mani ci accolgono, ci custodiscono, così che nessuno vada perduto, ma venga da lui risuscitato nell’ultimo giorno. Gesù lo aveva poco sopra affermato dialogando con i suoi interlocutori, in alcuni versetti che la lectio liturgica omette e che può essere utile qui richiamare: «Tutto ciò che il Padre mi , verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.

E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno (6,37-39).

     A Elia Dio aveva offerto un pane che gli consentisse di camminare fino all’Oreb. A ciascuno di noi Dio dona il proprio Figlio unigenito come un pane che ci fa camminare verso il Padre. Ci rende figli come lui è Figlio, ci rende dono come lui è Dono. Solo così possiamo conoscere il vero volto del Padre, che non trattiene il Figlio per sé, ma lo offre affinché  nessuno vada perduto. La logica implicita nel segno operato da Gesù si chiarifica: dopo aver sfamato la folla, Gesù ordina: «raccogliete (meglio: radunate!) i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (v. 12). Gesù offre la propria carne per la vita del mondo, affinché  nessuno vada perduto. È pane di vita che ci comunica la vita eterna, una vita che non si perde, non deperisce, non viene meno proprio perché vive il passaggio dalla logica del possesso a quella del dono. Nei Sinottici Gesù esprime questa dinamica con le parole: «chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 6 15) In Giovanni afferma: «Ho il potere di dare la vita e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18). Gesù, pane di vita, ci comunica la vita eterna, una vita che rimane perché riceve da lui la medesima possibilità che egli riceve dal Padre, nell’obbedienza alla sua parola e al suo comandamento: la possibilità di riprendere la vita perché la si offre per la vita del mondo.

Preghiere e racconti

Pane spezzato e offerto

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Il pane vivo

 «Io sono il pane vivo disceso dal cielo» (Gv 6,51). Vivo precisamente perché disceso dal cielo. […] I fedeli dimostrano di conoscere il corpo di Cristo, se non trascurano di essere il corpo di Cristo. Diventino corpo di Cristo se vogliono vivere dello Spirito di Cristo. Dello Spirito di Cristo vive soltanto il corpo di Cristo. Fratelli miei, capite quello che vi dico? Tu sei un uomo, possiedi lo spirito e possiedi il corpo. Chiamo spirito ciò che comunemente si chiama anima, grazie alla quale sei un uomo; sei composto infatti di anima e di corpo. E così possiedi uno spirito invisibile e un corpo visibile. Ora dimmi: qual è il principio vitale del tuo essere? È il tuo spirito che vive del tuo corpo o è il tuo corpo che vive del tuo spirito? Che cosa potrà rispondere chi vive? E il mio corpo che vive del mio spirito. Vuoi tu vivere dello Spirito di Cristo? Devi essere nel corpo di Cristo. Forse che il mio corpo vive del tuo spirito? No, il mio corpo vive del mio spirito, e il tuo del tuo. Il corpo di Cristo non può vivere se non dello Spirito di Cristo. E quello che dice l’Apostolo, quando ci parla di questo pane: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo» (1Cor 10,17). Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità! Chi vuol vivere ha dove vivere, ha di che vivere. Si avvicini, creda, entri a far parte del Corpo, e sarà vivificato. Non disdegni di appartenere alla compagine delle membra, non sia un membro infetto che si deve amputare. […] Rimanga unito al corpo, viva di Dio per Dio; sopporti ora la fatica su questa terra per regnare poi i cielo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 26,13, NBA XXIV, pp. 608-610).

La singolarità dell’eucaristia

«Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro» (Gv 21, 18). Questa comunione di mensa tra Gesù e i suoi, anche se non è un’eucaristia propriamente detta, riprende il vocabolario eucaristico del Nuovo Testamento e ci invita a riflettere sulla cena e sull’eucaristia.

L’eucaristia, così come è accolta nella fede della Chiesa, presenta un aspetto sorprendente, che sconvolge l’intelligenza e commuove il cuore. Siamo di fronte a uno di quei gesti abissali dell’amore di Dio, davanti ai quali l’unico atteggiamento possibile all’uomo è una resa adorante piena di sconfinata gratitudine.

L’eucaristia non è solo la modalità voluta da Gesù per rendere perennemente presente l’efficacia salvifica della Pasqua.

In essa non è presente soltanto la volontà di Gesù che istituisce un gesto di salvezza; in essa è presente semplicemente (ma quali misteri in questa semplicità!) Gesù stesso.

Nell’eucaristia Gesù dona a noi se stesso. Solo lui può lasciare in dono a noi se stesso, perché solo lui è una cosa sola con l’amore infinito di Dio, che può fare ogni cosa.

Certo, occorre badare anche agli strumenti umani, di cui Gesù si serve. Poiché la Pasqua rivela e insieme celebra l’amore di Dio che attrae l’uomo a sé, troviamo plausibile che Gesù nell’ultima cena abbia valorizzato la tensione alla comunione con Dio espressa nel gesto del mangiare insieme e soprattutto abbia fatto riferimento al valore commemorativo dell’alleanza, che era proprio della liturgia pasquale veterotestamentaria. È quindi normale e doveroso che la Chiesa, nel configurare concretamente la liturgia eucaristica, abbia assunto nel passato e debba assumere e aggiornare continuamente le espressioni celebrative provenienti dalla nativa spiritualità umana e dalla liturgia veterotestamentaria.

Ma tutto questo è percorso e oltrepassato da una novità assoluta: è tale la forza di camminare manifestata e attuata nel sacrificio della croce, che essa rende presente nell’eucaristia il Cristo stesso nell’atto di donarsi al Padre e agli uomini per restare sempre con loro.

Gesù, che già in molti modi attrae a sé la Chiesa con la forza del suo Spirito e della sua Parola, suscita nella Chiesa la volontà di obbedire al suo comando: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).

E quando la Chiesa, nell’umiltà e nella semplicità della sua fede, obbedisce a questo comando, Gesù, con la potenza del suo Spirito e della sua Parola, porta l’attrazione della Chiesa a sé al livello di una comunione così intensa, da diventare vera e reale presenza di lui stesso alla Chiesa: il pane e il vino diventano realmente, per quella misteriosa trasformazione che è chiamata transustanziazione, il corpo dato e il sangue versato sulla croce; nei segni conviviali del mangiare, bere, festeggiare si attua la reale comunione dei credenti col Signore; le funzioni sacerdotali si svolgono non per designazione o delega umana, ma per una reale assunzione dei ministri umani nel sacerdozio di Cristo, secondo le modalità stabilite da Cristo stesso.

L’eucaristia si presenta così come la maniera sacramentale con cui il sacrificio pasquale di Gesù si rende perennemente presente nella storia, dischiudendo a ogni uomo l’accesso alla viva e reale presenza del Signore.

Si tratta di prodigi che fioriscono su quel prodigio di inesauribile amore, che è il mistero pasquale. D’altra parte si potrebbe dire che si tratta della cosa più semplice: Dio, nell’eucaristia di Gesù, prende sul serio la propria volontà di alleanza, cioè la decisione di stare realmente con gli uomini, di accoglierli come figli, di attrarli nell’intimità della sua vita.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).

Non di solo pane vive l’uomo

Che cosa voleva dire Gesù affermando che l’uomo non vivrà di solo pane? Perché usa questa espressione al futuro invece che al presente? Il Maestro ci vuole far comprendere che la vita vera, quella che attende l’uomo, non la puoi conseguire con i beni materiali. Essi tutt’ al più permettono alla carne e al sangue di sopravvivere nel frammento di tempo presente, ma senza le prospettive che si aprono sull’ eternità. Se vuoi vivere in pienezza, oltre i limiti dello spazio e la corrosione del tempo, devi nutrirti di un altro pane, il pane della vita, che viene dal cielo e non dalla terra: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51). Caro amico, la realtà del nostro tempo è sotto i tuoi occhi. Guardati intorno ed esamina la tua situazione esistenziale. Quante sono le persone che hanno fame del pane vivo che dà la vita eterna? Quanti sono quelli che sentono il bisogno di cercare Gesù e di scoprirlo nella loro vita? I beni materiali sono divenuti una droga, di cui hanno continuamente bisogno, ma che li irretiscono nella tela che il ragno infernale tende instancabilmente. Non attendere che la clessidra del tempo si sia svuotata del tutto per renderti conto dell’inganno mortale.

(Padre Livio FANZAGA, Fa’ posto a Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 9).

Preghiera

O mio amato Salvatore! Tu sei davvero tutto per me, perché mi doni la vita eterna nel dono di te stesso.

Il mistero dell’eucaristia è grande e sconfinato, ma oggi le tue parole chiare, provocanti, nette e decise lo illuminano in modo inequivocabile. Tu mi dai la tua vita, che è vita eterna, perché un giorno hai saputo donare la vita! Ti ringrazio, ti benedico, lodo la tua santa passione e risurrezione, adoro con gioia la tua sapienza che mi raggiunge nelle mie preoccupazioni terra a terra.

Tu sai come è difficile per me alzare lo sguardo alle tue grandi prospettive. Io mi lascio avviluppare dalle cose che passano e dentro rischio di metterci anche la tua eucaristia, dandole magari tanti significati umani, giusti di per sé, ma ben lontani dal significato decisivo che oggi mi presenti.

Tu vuoi che io viva per sempre con te, perché sei e sarai la mia realizzazione e quindi la mia felicità. Ogni giorno tu mi immergi nella tua eternità offrendoti in cibo.

Tu porti con te la vita che ti lega al Padre e vuoi trasmettere a me!

Apri i miei occhi annebbiati dalle cose di ogni giorno, perché possa legarmi indissolubilmente a te, anche per portare tutti con me, nella tua vita!

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

PER L’APPROFONDIMENTO …

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