La catechesi della bellezza: Il ciclo pittorico delle pareti della Cappella Sistina

Sisto IV fece decorare le pareti della Cappella Sistina da una squadra di pittori toscani guidata dal Perugino.

Essi decorarono ogni parete dividendola in tre registri: in alto osserviamo i Papi Martiri, nel mezzo le storie di Mosè e di Cristo e in basso delle finte tende.

A noi interessa il registro di mezzo dove i pittori hanno illustrato la storia della salvezza sotto la Legge (storie di Mosè sulla parete sinistra, ovvero quella a sud) e la storia della salvezza sotto la Grazia (storie di Cristo sulla parete di destra ovvero quella a nord).

Le due storie sono poste una di fronte all’altra perché Mosè per noi cristiani è una prefigurazione di Cristo e come dice Sant’Agostino “il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico, mentre l’Antico è svelato nel Nuovo”. Possiamo dunque leggere queste storie in parallello.

Il ciclo pittorico aveva inizio sulla parete di fondo dove oggi possiamo ammirare il Giudizio Universale di Michelangelo. Qui alla fine del 1400 avremmo potuto vedere sulla sinistra la nascita di Mosè e sulla destra quella di Cristo.

Fermando la nostra attenzione sul primo dipinto di sinistra, opera del Perugino, possiamo vedere un angelo che ferma Mosè, vestito di giallo e di verde, e gli impone di circoncidere suo figlio Eliezer. Del rito si occupa sua moglie Zippora. Sulla parete opposta, sempre ad opera del Perugino, troviamo il Battesimo di Cristo.

Nella parte alta vediamo l’Eterno Padre, attorniato da numerosi angeli, nell’atto di benedire, più in basso scorgiamo la colomba, simbolo dello Spirito Santo, che si posa sul Cristo mentre viene battezzato da Giovanni Battista. Risulta chiaro il parallelismo: il rito ebraico della circoncisione anticipa e prefigura quello cristiano del Battesimo

Tornando sulla parete di sinistra osserviamo le prove di Mosè, opera del Botticelli. In questo dipinto Mosè viene rappresentato per ben 7 volte mentre affronta diverse prove. Sul lato opposto, sempre dello stesso autore, vediamo le prove di Cristo narrate secondo il racconto di Matteo.

In alto a sinistra, il diavolo, vestito da frate, invita Gesù a trasformare le pietre in pane. In alto al centro Satana conduce Gesù sul pinnacolo del Tempio (che ha le sembianze di Santo Spirito in Sassia) e gli dice di gettarsi. Infine, in alto a sinistra, il maligno mostra a Gesù tutti i regni della Terra, ma viene sconfitto e allontanato dal Signore.

Proseguiamo guardando quello che secondo la critica è il dipinto meno bello della Cappella: il passaggio del Mar Rosso. Mosè raduna il popolo ebraico che riceverà il decalogo, mentre i soldati egiziani affogano nel Mar Rosso. Spostando la nostra attenzione  sul lato destro possiamo ammirare il dipinto del Ghirlandaio che raffigura la chiamata dei primi discepoli. Analogamente al dipinto che abbiamo visto sulla parete opposta la scena si svolge sul mare (lago di Galilea). Gesù sta radunando il popolo che riceverà le Beatitudini.

Spostandoci di nuovo a sinistra, vediamo Mosè che sale sulla montagna per ricevere da Dio il decalogo, accompagnato da Giosuè, vestito di giallo e blu (i consueti colori dei Della Rovere). Sceso dal monte Mosè scaglia a terra le tavole della legge perché ha visto il suo popolo che adora il vitello d’oro. Sulla sinistra Mosè mostra al popolo ebraico il decalogo che Dio ha riscritto dopo l’episodio del vitello d’oro. Sulla parete opposta anche Gesù è salito su un monte per proclamare ai suoi discepoli le Beatitudini.

Sulla sinistra Botticelli ha dipinto la punizione di Core, Datan ed Abiram. I tre ebrei che si erano ribellati all’autorità di Mosè e di suo fratello Aronne sprofondano nella terra. Sullo sfondo si nota un arco di trionfo sul quale è scritto in latino: “Nessuno si assuma l’onore, se non chi è chiamato da Dio”. Come Mosè ed Aronne sono stati chiamati da Dio nell’Antico Testamento, così gli Apostoli sono stati chiamati da Gesù nel Nuovo Testamento.

È questo il tema dell’opera del Perugino, sicuramente quella di maggior pregio e con maggiore densità teologica. Gesù chiede agli apostoli cosa le persone, rappresentate col cappello, pensino di Lui, poi rivolgendosi di nuovo agli apostoli, dipinti senza cappello, chiede cosa loro pensino di Lui. Solo Pietro risponde “Tu sei il Figlio di Dio” e Gesù gli consegna le chiavi del Paradiso.

Sullo sfondo notiamo il Tempio di Gerusalemme. Da una attenta lettura del brano di Matteo si evince che questo episodio è accaduto durante la festa dello Yom Kippur, durante la quale il Sommo Sacerdote entrava nel Santo dei Santi e pronunciava il nome di Dio (JHWH).

È evidente il parallelismo: mentre il Sommo Sacerdote degli ebrei pronuncia il nome di Dio, Pietro, novello Sommo Sacerdote dei cristiani, dice “Tu sei il Figlio di Dio”. Possiamo quindi dire che questo dipinto del Perugino rappresenta in termini artistici la più straordinaria apologia del Papato.

Tornando per l’ultima volta sulla parete sinistra vediamo un angelo che mostra a Mosè la terra promessa dove però non entrerà. Il vecchio legislatore scende dalla montagna, legge la Torah agli ebrei e ai suoi piedi è posta l’Arca dell’Alleanza nella quale si possono scorgere le tavole della legge, la verga di Aronne e la manna, il pane sceso dal cielo che ha alimentato gli ebrei durante l loro pellegrinaggio nel deserto. Il pane è anche al centro del dipinto opposto dove Gesù sta celebrando l’Ultima Cena insieme agli apostoli.

Il ciclo delle storie di Mosè termina nella controfacciata dove vediamo la sua tomba. Accanto a questa scena, si conclude anche il ciclo delle storie di Gesù, ma in modo ben diverso, con la sua resurrezione.

I sogni dei giovani chiave per la pace

​Riportiamo un’intervista ad Ernesto Olivero fondatore del Servizio Missionario Giovani, il Sermig.

Il Sermig – Servizio Missionario Giovani – è nato nel 1964 da un’intuizione di Ernesto Olivero e da un sogno condiviso con molti: sconfiggere la fame con opere di giustizia e di sviluppo, vivere la solidarietà verso i più poveri e dare una speciale attenzione ai giovani cercando insieme a loro le vie della pace.

Dai “Si” di giovani, coppie di sposi e famiglie, monaci e monache è nata la Fraternità della Speranza, per essere vicini all’uomo del nostro tempo e aiutarlo a incontrare Dio.

Il Papa ha aperto l’anno della Fede in occasione del 50° del Concilio Vaticano II. Ernesto Olivero, lei è stato il fondatore del Servizio Missionario Giovani, il Sermig, realtà che si spende per la diffondere la giustizia e promuovere la pace tra i popoli, come ha influito il Concilio sulle sue scelte?

A me come a tutti, il Concilio ha offerto la possibilità di accostarsi alla sacra Scrittura. E le mie scelte sono segnate, da sempre, dall’esperienza di entrare nel Vangelo, camminare in ogni sua pagina e ritrovarvi la bellezza della normalità. Ho incominciato ad amare Gesù per la sua logica. Lui dice: amate i nemici. Sembra un paradosso, ma se fossi io il nemico vorrei essere tagliato fuori senza pietà o vorrei che mi si desse una possibilità? Gesù dice di perdonare settanta volte sette, cioè sempre. Le poche volte che uno perdona, come si sente dopo: bene o male? Il Vangelo è stato il mio Concilio, è il mio rinnovamento quotidiano. La Chiesa non è una struttura che deve aggiornarsi, ma una Presenza cui convertirsi, quella di Dio che ha il volto di Gesù.

Come accoglie l’invito di Benedetto XVI a diventare “pellegrini del deserto” per tornare a evangelizzare?

Non pensiamo di “andare a evangelizzare” con dei discorsi. Dei primi cristiani la gente diceva: guardate come si vogliono bene, come testimoniano il loro amore per Dio, come condividono i loro beni… E Paolo nel suo “testamento pastorale” – testo fondamentale di cui purtroppo non si parla mai – dice negli Atti: «Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù… Non ho desiderato né argento né oro né il vestito di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse “Si è più beati nel dare che nel ricevere”». L’evangelizzazione parte sempre dalla testimonianza. Si è spenta la luce, tornare ad essere cristiani 24 ore su 24 sarà la migliore evangelizzazione.

Lei è stato eletto cittadino dell’anno dall’Unione europea, che ha appena vinto il Nobel per la pace. È d’accordo con questo premio?

È stato un gesto positivo, ora occorre meritarselo con un salto di qualità decisionale condiviso e solidale. Mi piacerebbe che diventasse un’unione di popoli legati non solo da interessi economici, ma dall’interesse per la promozione di pace e sviluppo. Da un lato l’Europa deve far sì che nei suoi Paesi i diritti umani siano rispettati da tutti, anche dai nuovi ospiti; dall’altro deve contribuire a promuoverli nei Paesi nei quali non sono ancora riconosciuti. I Paesi dell’Ue negli ultimi anni hanno usato più volte le armi. Invece questo Nobel deve farci diventare cittadini del mondo, che significa sentire come proprie fatiche, sofferenze e speranze degli altri popoli e agire di conseguenza. Dovremmo ad esempio sentirci padri e madri, fratelli e sorelle di Malala, la ragazza pakistana di 14 anni massacrata dai talebani per il suo impegno a favore dell’educazione femminile.

In Italia le inchieste giudiziarie mettono in luce una diffusa corruzione, scandali, abusi e sprechi di denaro pubblico. Dov’è la radice di questa crisi della politica?

Nell’avidità che ci ha fatto diventare miopi e ci ha fatto perdere di vista il bene comune. Siamo il Paese di Francesco, Michelangelo e Giotto, Verdi, Marconi e Fermi, Ambrosoli, Falcone e Borsellino, Alex Zanardi. L’Italia detiene il 40% del patrimonio artistico mondiale e il maggior numero di siti inclusi nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità. Dobbiamo diventare degni di queste eccellenze. Mi fa soffrire l’idea che il mio Paese sia uno dei più corrotti al mondo. Quando parlo di politica mi rattrista poter fare riferimento solo a Zaccagnini, La Pira, De Gasperi e pochi altri. Mi piacerebbe citare nomi di politici italiani contemporanei senza temere brutte sorprese. La politica deve tornare trasparente, rimettersi a servizio del bene comune. Non sono le tasse a risolvere la crisi, ma una nuova coscienza educata alla sobrietà e all’etica.

Ha proposte concrete da avanzare?

Iniziamo a tagliare la metà dei consiglieri comunali, provinciali, regionali, dei deputati e dei senatori. Eliminiamo alla radice i privilegi, cominciando dai rimborsi spropositati dei politici per proseguire con le liquidazioni faraoniche dei manager d’azienda e le sostanziose pensioni di alcune categorie percepite dopo pochi anni di attività. Chi viene eletto a un incarico istituzionale dovrebbe continuare a percepire lo stipendio di prima dall’azienda per cui lavorava (come i sindacalisti) e chi ha un’attività di tipo imprenditoriale potrebbe autofinanziare il proprio impegno. Ricoprire un incarico istituzionale è un onore, non solo un onere, un servizio e non un privilegio. Bisognerebbe anche rendere esecutiva ed efficace una “legge della restituzione” che preveda la riparazione integrale dei danni provocati alla collettività. Mi è molto caro a questo proposito l’esempio biblico di Samuele che, al momento di cedere la guida del popolo d’Israele a Saul, dice: «A chi ho portato via il bue? A chi ho portato via l’asino? Chi ho trattato con prepotenza? A chi ho fatto offesa? Da chi ho accettato un regalo per chiudere gli occhi a suo riguardo? Sono qui a restituire!». La politica deve arrivare a una coscienza talmente limpida da poter guardare i giovani negli occhi senza vergogna.

E se lei fosse giovane, avrebbe ancora voglia di rimanere in questo Paese?

Quando ero giovane, il vescovo della mia città, il Cardinale Michele Pellegrino, mi ha dato fiducia, ci ha riconosciuti come gruppo quando noi stessi non sapevamo ancora bene chi eravamo. Così è nato il Sermig. Oggi i giovani si sentono persi e cercano un futuro altrove perché in Italia nessuno più investe su di loro. Piangersi addosso non serve, né rifugiarsi nello sballo o chiudersi in casa. Le cose in Italia possono cambiare con i giovani, non senza di loro. Con ragazzi che si fanno promotori del cambiamento mettendosi in gioco nella politica nell’economia, nella cultura nell’informazione, nelle tecnologie e scienze. Il Sermig si è impegnato a metterli al centro. Perciò dico loro: facciamo del nostro meglio perché possano crescere di nuovo in mezzo a noi un Francesco, un Leonardo. Grandi cuori e grandi cervelli, se le comunità cristiane mettessero, nel formare i giovani e nel formarsi, lo stesso impegno che mette un centro sportivo nel preparare i propri atleti per le Olimpiadi, nuovi Zaccagnini, La Pira, De Gasperi non sarebbero un’eccezione.

L’ultimo rapporto della Fao indica che un essere umano su otto muore di fame. Allo stesso tempo, un terzo del cibo viene sprecato ogni anno. È una delle battaglie che lei e il Sermig affrontate da mezzo secolo. Riesci a cogliere segni di speranza?

Come si fa ad accettare che ogni giorno muoiano 100mila persone di fame? La vera causa non è la mancanza di risorse, ma la cattiva distribuzione. Su questo tema stiamo lavorando ad un grande sforzo tra produttori e consumatori di prodotti agricoli. Fa la differenza non chi si ferma al “non è giusto”, ma chi “si investe” su quel “non è giusto”. Il Sermig è nato per abbattere la fame nel mondo, è partito con il poco che sapeva fare, semplicemente mettendosi in gioco. A distanza di 48 anni sono 2.971 i progetti e gli interventi di sviluppo: milioni di persone hanno aiutano e sono state aiutate da milioni di persone. Abbiamo sperimentato che la sproporzione è il terreno della Provvidenza. Ognuno di noi è chiamato a metterci sempre tutto il suo pezzo ed è allora che Dio scatena la sua Provvidenza. Non sprecare una goccia d’acqua né un pezzo di pane, è la prima attenzione che chiediamo a tutti i giovani che passano negli Arsenali. È un cambiamento di mentalità che porta a un diverso stile di vita.

La guerra in Siria continua e minaccia di estendersi. La presenza del Sermig in Giordania vi ha consentito di conoscerle da vicino. Si può ancora parlare di pace?

Pace e dialogo hanno ancora troppo poco peso nella mente e nelle scelte dei governanti, non solo in Medio Oriente. La guerra ha eserciti pronti a combattere 24 ore su 24, ha uomini, arsenali, investimenti, tecnologie, materiali e non porta la pace. Le armi uccidono quattro volte. La prima perché sottraggono risorse all’istruzione, alla sanità, allo sviluppo. La seconda perché distolgono saperi e intelligenze che potrebbero essere impiegate a servizio della vita. La terza perché vengono usate per distruggere e uccidere. Da ultimo, perché preparano la vendetta. Credo invece nella forza dell’incontro. Per favorire il dialogo non bastano convegni nei quali ognuno espone (e spesso mantiene) il proprio punto di vista. Dobbiamo sedere attorno a un tavolo disposti a cambiare qualcuna delle nostre idee. La chiave per il dialogo è una condivisione di vita che promuove il rispetto dell’altro come persona. Dal 2003 questa scommessa per noi ha preso vita a Madaba in Giordania, dove siamo presenti con l’Arsenale dell’Incontro in un ambiente a maggioranza islamica che accoglie bambini diversamente abili e racchiude la profezia di un giorno normale in cui musulmani e cristiani, nel rispetto delle reciproche identità, lavorano insieme per il bene dei loro figli. Altra chiave per la pace sono i sogni dei giovani. Qualche tempo fa a Torino abbiamo ospitato un gruppo di ragazzi israeliani e palestinesi. Pensavano di venire a difendere le proprie posizioni, invece si sono trovati a lavorare gomito a gomito per aiutare a popolazioni colpite da calamità naturali. Chinandosi insieme su chi è in difficoltà hanno dimenticato di essere nemici e si sono ritrovati con gli stessi sogni.

Paolo Lambruschi

da Avvenire: 3/11/12


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SERMIG

La famiglia nelle situazioni di fragilità

Un pomeriggio per riflettere su “La famiglia nelle situazioni di fragilità”.

È l’appuntamento che il biennio di specializzazione in teologia pastorale della Facoltà teologica del Triveneto propone mercoledì 14 novembre, dalle 15 alle 18, nell’aula magna della Facoltà (ingresso da via del Seminario 7, Padova).

“Molteplici – si legge nella presentazione dell’iniziativa – sono le situazioni di fragilità che le famiglie incontrano lungo il ciclo di vita di tutti i loro componenti. Esse sono aggravate dai tratti frammentari, individualisti ed efficientisti che caratterizzano il clima culturale della tarda modernità e dalla povertà di relazioni vitali che si riescono a intessere nella società liquida contemporanea.

I contributi della giornata di studio affronteranno la questione cercando d’interpretare alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana le situazioni che oggi rendono le famiglie vulnerabili ed evidenziando alcune possibili vie di soluzione”.

All’incontro, rivolto specificatamente a studenti e operatori pastorali, ma aperto a tutta la cittadinanza, interverranno Riccardo Battocchio, docente di teologia sistematica alla Facoltà teologica del Triveneto, Aristide Fumagalli, docente di teologia morale nel Seminario arcivescovile di Milano, e Basilio Petrà, docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale.

XXXI DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: Deuteronomio 6,2-6

Mosè parlò al popolo dicendo: “Temi il Signore tuo Dio os­servando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il fi­glio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così sia lunga la tua vita.

Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il lat­te e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno so­lo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore”.

Come purtroppo diverse volte avviene per i brani liturgici, il testo biblico è stato ritagliato in modo non rispettoso dell’andamento originario. Nel suo tenore completo e primario il testo consterebbe avere due sezioni.

La prima va dal v. 1, escluso dalla versione liturgica, al v. 3. Essa è un invito a dare concretezza al «timore di Dio», cioè alla considerazione di Lui per quello che è nella sua divinità e autorità, attraverso l’osservanza di «tutte le sue leggi e di tutti i suoi comandi». Senza entrare nella analisi dei due diversi termini giuridici noteremo qui semplicemente la completezza tipica del linguaggio deuteronomista. Nessuna prescrizione divina deve essere trascurata, nessun giorno della vita può trascorrere senza la premura di custodirle. Tutto l’arco generazionale che un uomo può conoscere da se stesso fino ai suoi nipoti deve costituire anche la durata dell’osservanza.

Altra caratteristica del Deuteronomio è quella di legare all’obbedienza alla legge dei benefici concreti. Il primo è la longevità. Poco prima in 5,16 la lunga vita era già stata promessa come conseguenza dell’osservanza del quarto comandamento. Il secondo è la posterità numerosa, contenuto tipico delle promesse fatte ai patriarchi (Gentile 12,2; 13,14-16; 15,5 ecc.) e prospettiva decisamente appetibile nella cultura dell’antico vicino oriente. Vita e discendenza sono così punto di convergenza delle aspirazioni umane e delle promesse divine; Dio desidera dare all’uomo ciò a cui egli tende. L’ambiente storico entro il quale queste promesse si realizzeranno è la terra promessa, anche qui indicata come la «terra dove scorre latte e miele» (cf. Es 3,8.17; 13,5; 33,3). L’immagine poetica rende assai bene l’impressione che si ha arrivando dal deserto di Giuda alle zone più fertili della terra d’Israele. Per un popolo di nomadi abituati all’aridità e spoliazione del deserto una terra come quella a cui Dio conduceva non poteva che meritare una descrizione come quella che ormai ci è familiare.

La seconda sezione va dal v. 4 al v. 9, ma nella lettura liturgica abbiamo solo i primi due versetti di questo passaggio tra i più noti della letteratura biblica.

Come si sa gli ebrei recitano tre volte al giorno la preghiera dell’ascolta, costituito appunto da Dt 6,4-9. Più che un’orazione esso è una professione di fede. La dichiarazione più importante, cioè «il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno so­lo» nel testo originale è un accoppiamento di due sentenze nominali, vale a dire di due proposizioni in cui il verbo essere è assente. Oltre alla traduzione ufficiale italiana che lo ripete in entrambe si avrebbe dunque anche la possibilità di lasciare il predicato verbale in una sola delle affermazioni. Si avrebbe così come prima possibilità di traduzione: JHWH è il nostro Dio, JHWH solo. Reso così il testo pone una dichiarazione fortissima di monoteismo, oltre a YHWH non esiste nessun altra divinità. Non si tratta solamente di una affermazione teorica, ma di una dichiarazione che polemizza con l’avversario cananeo del Dio d’Israele Baal, il cui culto esercitava fascino sugli israeliti e trascinava effettivamente al peccato. La seconda possibilità di traduzione sarebbe: YHWH nostro Dio è un solo JHWH. In questo caso la polemica sarebbe con i diversi santuari locali che rischiavano di creare un pluralismo confusionario di tradizioni teologiche, non sempre controllabili nella ortodossia e una conseguente sospetta pluralità di culti. Si ricorderà certamente che il tema portante della tradizione deuteronomista è l’unicità del tempio e del culto a Gerusalemme, tenacemente voluta e realizzata da Giosia. La scelta legittima della versione CEI si pone nella linea della proclamazione del monoteismo più puro.

Se YHWH è l’unico Dio deve essere amato con assoluta totalità. In altre formule in cui si richiede l’impegno dell’israelita il Deuteronomio implica solamente il cuore e l’anima (4,29; 10,12; 11.13; 26,16; 30,1.6.10), nel nostro testo anche le forze, cioè l’attività fisica dell’uomo viene implicata. L’amore a Dio non rimane quindi una questione di semplice interiorità, ma tutte le facoltà umane vengono coinvolte: intelligenza, volontà, sentimenti, fantasia, creatività, ben consapevoli che fermandoci qui l’elenco è molto lontano dall’essere completo.

All’israelita viene chiesto di «amare» il suo Dio. Il verbo ebraico esprime una gamma vasta di relazioni affettive. Con esso si può indicare l’amore coniugale, quello filiale o fraterno, l’affetto che lega due amici. Se ritenessimo Osea uno degli ispiratori del messaggio deuteronomista, e il suo influsso non è certamente da escludere, bisognerebbe dare la precedenza all’affetto filiale (cf. Os 11,1-4 e Dt 8,5; 14,1) e a quello sponsale, largamente impiegato dal grande profeta per indicare l’alleanza tra Dio e il suo popolo tradita da Israele, custodita invece dal suo sposo. A Israele viene dunque chiesto di vivere l’alleanza con il suo Dio come l’esperienza affettiva più intensa, più piena, veramente unica.

Seconda lettura: Ebrei 7,23-28

Fratelli, [gli Israeliti] sono diventati sacerdoti in gran nume­ro, perché la morte impediva loro di durare a lungo; Cristo in­vece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore.

Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato so­pra i cieli; che non ha bisogno ogni giorno, come gli altri som­mi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso.

La legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a umana debolezza, ma la parola del giuramento, posteriore al­la legge, costituisce tale il Figlio reso perfetto in eterno.

Nella sezione 7,20-25 la lettera agli Ebrei parla della immutabilità del sacerdozio di Cristo. Al centro del brano vi è la citazione di Sal 110,4 che riporta il giuramento divino: «tu sei sacerdote per sempre». Il brano liturgico illustra il contrasto tra il sacerdozio numericamente molteplice e qualitativamente insufficiente dei ministri della alleanza antica e il perfetto, intramontabile sacerdozio di Cristo. La causa principale dell’imperfezione del sacerdozio della vecchia economia era la morte. Impedendo agli addetti al culto di durare, ne imponeva la sostituzione e i limiti spaziali a cui l’essere umano è soggetto se ne esigeva anche un grande numero.

Il compito del sacerdote è quello di esercitare una mediazione. Attraverso l’offerta di sacrifici, libera gli uomini dai peccati e li rimette in comunione con Dio. Dopo la sua risurrezione Gesù rimane a pieno titolo nella sua dimensione di eternità e vi rimane anche con la sua glorificata umanità. Non più soggetto alla morte, il suo sacerdozio è intramontabile sia nell’aspetto dell’intercessione sia in quello dell’offerta. Per quanto riguarda l’intercessione, la lettera agli Ebrei aveva già presentato questo ruolo di Gesù in 4,14-16 e vi ritornerà sopra la prossima domenica in 9,24. Circa l’offerta, invece, la presente lettura è uno dei passaggi più decisi nell’affermare l’unicità dell’offerta di Cristo al v. 28. Gli altri punti in cui la nostra lettera ribadisce questo insegnamento sono: 9,12.25-28; 10,12-14.18.

Così l’ufficio sacerdotale di liberare dal peccato e riavvicinare a Dio è perfettamente compiuto da Gesù.

Nel v. 26 una serie di aggettivi tratteggia il ritratto ideale di sacerdote che Gesù realizza. In primo luogo Egli è definito «santo». In questa qualifica si assommano le relazioni fondamentali della persona che anche Gesù vive: con Dio, con i fratelli, con se stesso. La santità del resto è la condizione imprescindibile per celebrare e per partecipare al culto e di conseguenza è la prima caratteristica che il Sacerdote unico ed efficace deve innanzitutto possedere. L’aggettivo «santo» si riferisce ai rapporti con Dio vissuti nell’espletamento di tutti i doveri verso di Lui; si tratta della «pietà» come coltivazione dei doveri religiosi nella più assoluta delicatezza e fedeltà. Viene poi l’attributo «innocente» con il quale si illustra il rapporto con il prossimo, dal quale rapporto è esclusa ogni malizia, ogni doppiezza, ogni inganno o falsità per prevaricare sull’altro. La relazione con il prossimo che viene qui illustrata non conosce ombra di male. Infine il Sacerdote ideale è definito «senza macchia», qualifica che nel testo originale è espressa con un solo termine, un aggettivo appunto. Qui si parla del rapporto interno che il soggetto ha con se stesso, con la propria coscienza anch’essa estranea al male. Così si capisce perché e in che modo al Sacerdote era necessario essere separato dai peccatori. Non si trattava di una distanza fisica, cosa che per altro Gesù non ha mai vissuto venendo anzi qualificato «amico dei peccatori» (Mt 11.19; Lc 7,34), ma di una differenza interiore che costituisce l’unicità di Gesù anche nella sua umanità.

La nuova condizione nella quale il Figlio si trova è il santuario celeste (4,14; 9,1). Lì espleta nella vera e piena intimità col Padre l’ininterrotta e fruttuosa mediazione per l’umanità.

Il v. 27 accenna ad una attività quotidiana che il sommo sacerdote ebraico in realtà non espletava. Il culto giornaliero nel tempio infatti era officiato da ministri di grado inferiore. Può darsi che l’autore sacro alluda ad una offerta di farina che si teneva tutti i giorni a spese del sommo sacerdote a ricordo ed espiazione della tolleranza che Aronne ebbe verso gli israeliti quando fabbricarono il vitello d’oro (Es 32). In ogni caso è fuori discussione che quando presiedeva le solenni celebrazioni il sommo sacerdote non si collocava al di sopra del popolo, ma all’interno di esso, solidale con la condizione peccaminosa d’Israele e bisognoso come gli altri di perdono.

Gesù invece costituisce una eccezione spiegata dal testo sacro non tanto in virtù dell’ontologia di Cristo, alla quale specialmente il prologo della lettera era stato dedicato (1,1-4), ma per la perfetta coincidenza tra sacerdote e vittima che esclusivamente in Gesù viene riscontrata. Egli ha offerto se stesso non solo fisicamente, ma ancora di più tale offerta consumata è frutto di un’adesione totale e spontanea alla volontà del Padre, come ben mostrato in 10,3-10, che per altro pure si conclude con la perentoria affermazione dell’unicità del sacrificio di Cristo.

Nel v. 28 viene posta una distinzione tra il sacerdozio della vecchia economia, basata sulla legge, e quello di Gesù che ha come fondamento un giuramento divino, ricordato al v. 21, che non appartiene alla versione liturgica. Distinto è il fondamento della funzione sacerdotale, ma soprattutto differente la qualità. Il sacerdozio di Cristo è perfetto per quanto Egli ha sofferto (2,10) e per l’intercessione perpetua e valida che Egli sempre esercita a nostro favore (6,20).

Vangelo: Marco 12,28b-34

In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli do­mandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio no­stro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua for­za. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di que­sti”.

Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secon­do verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olo­causti e i sacrifici”.

Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il co­raggio di interrogarlo.

Esegesi

Nell’ultima settimana della sua vita, trascorsa a Gerusalemme, Gesù frequenta assiduamente il tempio svolgendovi una intensa attività didattica. Marco raccoglie nel capitolo 12 del suo vangelo l’insegnamento impartito dal Signore prima della sua passione e lo conclude con l’episodio dell’offerta della vedova, che sarà il brano evangelico della prossima domenica.

Il v. 28 viene praticamente tralasciato dalla lettura liturgica. Esso invece spiega perché lo scriba si rivolge a Gesù. Egli aveva assistito al modo in cui Gesù aveva risolto il caso propostogli dai sadducei per mostrargli come fosse arduo e ingenuo sostenere la dottrina della risurrezione e così costringere Gesù ad arrendersi alle loro credenze narrando una situazione alla quale, secondo loro era impossibile dare equa soluzione. Il modo in cui Gesù aveva sostenuto la controversia e l’aveva risolta aveva suscitato fiducia nello scriba accendendo in lui la convinzione che avrebbe potuto ricevere da un simile personaggio la soluzione per un problema ben più importante. Nella selva di precetti in cui il giudaismo di allora si era inceppato non era per nulla facile trovare l’albero dal quale avere la vita, e ai grandi studiosi della legge e caposcuola della sua interpretazione non veniva risparmiata la domanda su quanto fosse essenziale riassumesse in sé la pratica di tutta la religiosità ebraica. A conti fatti risultava che i precetti da vivere erano 613 divisi in prescrizioni e divieti. I primi erano calcolati in 248, cifra che secondo l’anatomia di allora elencava le diverse membra del corpo; i secondi invece corrispondevano al numero di giorni dell’anno: 365.

Un grande maestro di aperte vedute vissuto prima di Gesù aveva sintetizzato la pratica religiosa con parole che anticipano la regola d’oro: «Non fare agli altri ciò che non piace a te» (cf. Mt 7,12; Lc 6,31). Un altro maestro che si lasciò coinvolgere nella seconda rivolta giudaica morendovi martire, Rabbi Aqiba, proponeva l’amore del prossimo.

La risposta di Gesù parte dall’uso già invalso al suo tempo di recitare quotidianamente la preghiera dell’Ascolta, proponendo così, come passo essenziale per arrivare alla vita, la fede nell’unico Dio e le pratiche conseguenze che ne derivano e che risultano evidenti nella prima lettura.

Mentre la domanda dello scriba chiede che si offra un solo comandamento come vertice della prassi religiosa, spontaneamente Gesù ne aggiunge un secondo, preso da Lv 19,18: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Normalmente con il termine «prossimo» si intendeva una persona appartenente al popolo d’Israele, non si debordava dunque dai confini nazionali, religiosi e razziali. Per quanto riguarda l’amore, l’altro veniva identificato come colui con il quale si ha in comune quanto è fondamentale nell’identità. Sebbene poco più avanti rispetto alla regola proposta da Gesù, e precisamente in Lv 19,34, si ingiunga di estendere questo amore anche al forestiero che abita in Israele con la motivazione che gli stessi ebrei sono stati forestieri nel paese d’Egitto, non si è mai superata la barriera religiosa e razziale nella prassi dell’amore al prossimo. Gesù intende dare invece a questa seconda norma un respiro certamente universale. Nel vangelo di Marco non abbiamo passi che affrontino direttamente il problema della identità del prossimo, come avviene invece in Luca con la parabola del buon samaritano (10,29-37); tuttavia credo che l’aver scelto un centurione romano come soggetto della più importante professione di fede nel suo vangelo (15,39) sia una prova di come l’orizzonte universalistico di Gesù sia stato da lui assai ben percepito.

Con la sua risposta Gesù ha creato un legame indissolubile tra l’amore di Dio e quello del prossimo. Rimane certamente una chiara scala di valori per cui l’amore a Dio mantiene la precedenza assoluta, ma saldamente legato all’amore ai fratelli senza preclusioni.

L’entusiasmo dello scriba per la risposta di Gesù si esprime in un commento che istituisce un paragone tra amore e culto. Il primo, vissuto nella prospettiva data da Gesù, mantiene di gran lunga la precedenza sull’apparato rituale, anzi è l’amore stesso a diventare la forma più alta di culto, come è avvenuto per Gesù, e come la seconda lettura ha ricordato.

Il v. 34, che conclude il brano, mostra come Gesù abbia riscontrato in questo scriba vera sapienza, e la dichiarazione fatta a suo riguardo: «Non sei lontano dal regno di Dio» è di grande importanza. Anzitutto essa ci dice che Gesù non ha prevenzioni verso nessuno, nonostante che in 12,38 (vangelo della prossima domenica) Gesù inviterà la folla a non prenderli come modello. In 11,27 gli scribi insieme ai sommi sacerdoti e agli anziani avevano assunto verso Gesù un atteggiamento sfavorevole e inquisitorio, mentre in 16,53 e in 15,1 lo stesso gruppo di persone appare come il regista umano della passione di Gesù. In 15,31 gli scribi saranno presenti sotto la croce a schernire Gesù insieme ai sommi sacerdoti.

Questa barriera di odio però per Gesù non ha per lui alcun valore. Egli sa riconoscere il bene che c’è nel cuore anche di chi appartiene ad una categoria ostile incoraggiando questo avversario a proseguire sulla vita che conduce a fare l’esperienza veramente liberante di Dio. Il regno infatti, primo e fondamentale annuncio di Gesù (1,15) altro non è che la potenza di Dio che rende gli uomini liberi dal male conducendoli fino a quella realtà di cui il regno è sinonimo, cioè la pienezza della vita (cf. 10,43-48).

Meditazione

Il Vangelo di questa domenica ci porta nel tempio di Gerusalemme, ove Gesù ha già affrontato i sacerdoti, i farisei, gli erodiani e i sadducei. Interviene ora uno scriba, il quale si inserisce nel dibattito ma con animo diverso da coloro che lo hanno preceduto. Egli pone a Gesù una domanda vera, decisiva: «Qual è il primo di tutti i comandamen­ti?». Da esso, in effetti, dipende tutta la vita, nella sua globalità e nel suo svolgersi quotidiano Gesù, davanti ad una domanda come questa, non fa attendere la sua risposta. Cita anzitutto un passo del Deuteronomio da tutti conosciuto essendo la professione di fede che i pii israeliti recitano ogni giorno, mattina e sera: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4- 5). E poi aggiunge: «Il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scri­ba, a differenza della gran parte dei colleghi presenti, concorda con Gesù e nel rispondere cita anche lui, quasi a dimostrare la continuità dell’insegnamento della Scrittura, un brano tratto dal primo libro di Samuele: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligen­za e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12,32-33). E saggio e sincero questo scriba, tanto che Gesù gli rivolge un complimento che ognuno di noi gradi­rebbe: «Non sei lontano dal regno di Dio». Gesù non disprezza nessu­no, neppure coloro che altre volte lo avevano contrastato, anzi coglie il desiderio di quell’uomo che vuole capire.

Ma qual è il contenuto del consenso tra Gesù e il suo interlocutore? È il duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo; due comandamenti, a tal punto uniti, da essere la stessa cosa. E questa unità che Gesù sottolinea. La prima comunità cristiana lo aveva ben compre­so. L’apostolo Giovanni, quasi a commento del brano evangelico che abbiamo ascoltato, scrive: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,20-21). L’unione tra questi due comandamenti è un originale e chiarissimo insegnamento di Gesù, sebbene, come mostra la risposta dello scriba, già nel Primo Testamento è presente sia l’amore per l’unico Dio che quello per il prossimo. Gli israeliti, oltre che ad amare Dio sopra ogni cosa, sono altresì chiamati ad amare tutti i membri del popolo, particolarmente i più deboli, i piccoli, gli orfani, le vedove e gli stranieri (furono stabilite anche delle apposite leggi perché tutto ciò fosse attuato). Ma in Gesù questo duplice amore trova il suo compimento, la sua esaltazione sino ai limiti più alti. In lui si uniscono, si fondono, si identificano perché discendono dallo stesso Spirito. Gesù è colui che ama; è il compassionevole, il misericordioso, l’unico buono. È l’uomo che sa amare più di tutti e meglio di tutti.

Gesù ama il Padre sopra ogni cosa. Nelle pagine evangeliche emerge il particolarissimo rapporto tra Gesù e il Padre; un rapporto di dipendenza totale. È la ragione della sua stessa vita. Gli apostoli sono ammaestrati dalla singolare confidenza e dal totale abbandono che egli riponeva nel Padre, sino a chiamarlo con il tenero appellativo di «papà» (Abbà). E quante volte lo hanno sentito dire che l’unico scopo della sua vita era fare la volontà di Dio: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34)! Gesù è davvero l’esempio più alto di come si ama Dio sopra ogni cosa. Gesù ha amato con la stessa intensità anche gli uomini. Per questo «si è fatto carne». Nella Scrittura leggiamo che Gesù ha tanto amato gli uomini da lasciare il cielo (ossia la pienezza della vita, della felicità, dell’abbondanza, della pace e della consolazione) per stare in mezzo a noi. E nella sua esistenza c’è stato come un crescendo di amore e di passione per gli uomini, sino al sacrificio della sua stessa vita.

Ma cosa vuol dire amare «come se stessi»? Bisogna, appunto, guardare Gesù per poterlo capire. Lui infatti sa indicarci qual è il vero amore per noi stessi. Non di rado l’ignoranza in tale campo è notevole. Talora si cerca una felicità che non è tale, un benessere che non scende nel profondo; una libertà che è sottomettersi ancor più supinamente alla schiavitù di questo mondo. Gesù sembra dire: se ti rinchiudi nel tuo egoismo, non ti ami; se sei ripiegato sui tuoi interessi, ti vuol male, rovini la tua vita, ti rattristi; e così via. È, quanto accadde a quell’uomo ricco che non volle lasciare le ricchezze per seguire Gesù. Il senso dell’amare gli altri come se stessi è ben spiegato da altre parole dette da Gesù: «Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35); e ancora: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). Gesù, che ha vissuto per primo e sino in fondo queste parole, suggerisce che la felicità sta nell’amare gli altri più di se stessi. Tuttavia, è così intenso l’amore che ciascuno ha per sé, che almeno riversiamo l’intensità di questo amore sul nostro prossimo, e rendere­mo migliore la nostra e la vita degli altri.

Si tratta di una parola alta ed ardua. Chi può metterla in pratica? Bisogna rispondere che nulla è impossibile a Dio. Ed in effetti questo tipo di amore non si apprende da soli o sui banchi della scuola degli uomini; al contrario, in questi luoghi si apprende, e fin da piccoli, ad amare soprattutto se stessi e i propri affari, contro gli altri. Il tipo di amore di cui parla Gesù si riceve dall’alto, è un dono di Dio; anzi è Dio stesso che viene ad abitare nel cuore degli uomini. La prima lettura ci ricorda che esso nasce dall’ascolto, come la fede: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze». Ascolto e amore sono strettamente congiunti. Non si può amare Dio se si con­tinua ad ascoltare se stessi, e quindi ad amare se stessi. Ci si dovrebbe onestamente chiedere come mai spesso non cambia la nostra vita, nonostante frequentiamo con fedeltà la casa di Dio. Forse perché non ascoltiamo con il cuore e non ci portiamo nel cuore la parola di Dio, che sola trasforma e converte. Il libro del Deuteronomio insiste su questo comandamento, che è alla base di tutta la legge. Il profeta Geremia interpreterà tutta la storia di Israele e la profezia come una storia di ascolto e non ascolto di Dio: «Il Signore vi ha inviato con assi­dua premura i suoi servi, i profeti, ma voi non avete ascoltato e non avete prestato orecchio per ascoltare quanto vi diceva» (Ger 15,4-5). Anche oggi ogni ebreo osservante si rivolge ogni giorno a Dio con la preghiera dello Shemà, che comincia proprio con Dt 6,4. Solo ascoltan­do e riconoscendo l’unicità di Dio sulla propria vita si potrà imparare ad amare Dio e il prossimo.

La santa Liturgia della domenica è il momento privilegiato per rice­vere il grande dono dell’amore, quando ascoltiamo la parola di Dio e incontriamo il Sommo Sacerdote, che Dio ha stabilito una volta per sempre, il Signore Gesù che si offre per noi sull’altare, lui, come si legge nella Lettera agli Ebrei, il «santo, innocente, senza macchia, sepa­rato dai peccatori ed elevato sopra i cieli». In lui noi troviamo l’amore perfetto, perché egli ci ha amato tanto da dare la sua vita per noi. Per questo, nel giorno del Signore, con gioiosa riconoscenza, avviciniamoci all’altare. Anche noi, come quello scriba saggio, ci sentiremo ripetere: «Non sei lontano dal regno di Dio».

Preghiere e racconti

Parlami della felicità e dell’amore

Durante quel terzo giorno, il giovane principe non aprì quasi bocca. Mi ascoltava e tornava a sprofondare nelle sue riflessioni, come se, sentendo avvicinarsi la fine del viaggio, volesse assorbire tutte le mie esperienze.

“Parlami della felicità e dell’amore”, mi chiese all’improvviso.

“Bell’argomento” esclamai con un sospiro. […] “L’esperienza mi ha insegnato che non esiste la felicità senza l’amore, intenso come una costante passione per la vita e un continuo stupore di fronte a tutto ciò che percepiamo attraverso i nostri sensi: colori, movimenti, suoni, odori o forme che siamo. […] La strada più diretta e più semplice per la felicità è rendere felici le persone attorno a noi”, conclusi.

Dopo una pausa di silenzio, notando che il mio giovane amico mi ascoltava attento proseguii: “Quanto all’amore, la più grande verità mai detta è che si apprende ad amare solo amando. Tutti possiedono una grande capacità di offrire amore, anche solo con un sorriso, che arricchisce chi lo dà e chi lo riceve”. […] “L’amore vero”, proseguii, “si concentra su quello, che fa bene agli altri e dimentica se stesso. Per questo tipo di amore, capace di accettare tutto e perdonare tutto, non c’è niente di impossibile. Se trattiamo gli altri per quello che sono, continueranno a essere sempre gli stessi, ma se li trattiamo per quello che potrebbe diventare, raggiungeranno tutta la loro pienezza. Questo è un amore altruista, che perfeziona tutto ciò che incontra e non lascia nessuno indifferente.”

[…] “E come faccio a sapere chi si merita il mio aiuto e il mio amore?” chiese il giovane principe.

“Spesso risparmiamo il nostro aiuto per offrirlo solo a chi se lo merita davvero. È un grave errore, perché non spetta a noi giudicare i meriti altrui, cosa oltremodo difficile, ma semplicemente amare. Come accade con il perdono, chi più ama più si arricchisce. In fin dei conti, se Dio ama tutti gli essere umani allo stesso modo, che diritto abbiamo noi di escludere alcuni e preferire altri? Chi si approfitta della tua bontà va semplicemente compatito. E in più, se dedicherai la tua vita a scoprire il meglio della gente, finirai per trovare il miglio di te stesso.”

(A.G. ROEMMERS, Il ritorno del giovane principe, Corbaccio, Milano, 2012, 101; 104-105)

Una leggenda irlandese

Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l’Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi. Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affliggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono. Le caratteristiche richieste erano le seguenti: 1) amare Dio e 2) amare gli altri esseri umani.

Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani. Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessario per il viaggio sino al castello. Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente potè mettersi in viaggio alla volta del castello. Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano: «Ho fame e ho freddo. Mi aiuti?»

Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante. Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste. Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno. All’arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente potè accedere nella sala del trono.

Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore.

«Voi… voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada».

«Sì», rispose il re. «Quel mendicante ero proprio io».

«Ma non siete un vero mendicante. Siete il re».

«Sì, sono il re».

«Perché avete fatto questo?», chiese, allora, il giovane.

«Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani. Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d’oro e dai miei abiti regali.

Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale; ma in questo modo non avrei mai saputo com’è realmente il tuo cuore. Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell’amore del tuo cuore.

Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani. Tu sarai il mio successore. Tu avrai il mio regno!»

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 109-110).

Il mistero dell’Amore

«Auguro a tutti di sentire in voi un po’ di quell’amore che non dipende dal fatto che in questo momento siate amati da una persona o che siate innamorati di qualcuno. L’amore è una qualità divina. Rende magica la nostra vita. Quest’amore è in ognuno di noi e ci circonda nella creazione che ci abbraccia, nella presenza d’amore di Dio che ci avvolge e nelle persone che ci amano.

Auguro a tutti voi che vi sappiate amati e che troviate gusto nell’amore con cui amate gli altri. E ho fiducia nel fatto che, nelle vostre esperienze d’amore, nelle delusioni d’amore e nella gioia che l’amore ha suscitato in voi, riconosciate e percepiate il mistero di un amore che non è più fragile, su cui possiate sempre fare affidamento, che non si esaurisce mai perché si alimenta dalla sorgente dell’amore divino che fluisce in voi. Se avvertite in voi quest’amore, potete stare certi di essere in Dio, che  siete iniziati al più grande mistero di Dio, il mistero del suo amore».

(A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 61-62)

Amare Dio

Esiste un terzo oggetto del mio amore: Dio. Oltre a me stesso e agli altri, devo amare il Signore mio Dio con tutta la mia mente, il mio cuore e la mia forza. Amare Dio aggiunge una dimensione nuova e diversa all’amore. Nonostante quanto ci piacerebbe credere, di fatto non possiamo dare a Dio nulla che Egli già non possegga. Dio non ha bisogno di noi come noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Soltanto coloro che sono indigenti provano dei bisogni, e Dio non è indigente. In ogni caso, Dio ci domanda di amarci gli uni gli altri e ci promette che qualunque cosa facciamo per il più piccolo dei suoi figli, lo considererà come fatto a Lui.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 71).

Amare il prossimo

Dice Kiekegaard “è proprio dell’amore cristiano scoprire che il nostro prossimo esiste… e che ognuno di noi è il prossimo di qualcuno. Se amare non fosse un dovere, il concetto stesso di ‘prossimo’ non avrebbe alcun significato. Ma solo quando noi amiamo il nostro prossimo, solo allora l’egoismo insito nell’amore preferenziale viene estirpato, e conservato invece il sereno equilibrio dell’eterno.”

(Cit. Leo BUSCAGLIA, Amore, Mondatori, Milano, 1972, 168).

Pioggia dentro

Una sera di pioggia.

Su un marciapiede della città

un vecchio steso per terra.

Inginocchio accanto a lui

mi lascio interrogare dai suoi occhi

annebbiati dal viso.

Il suo sguardo penetra il mio

per raccontarmi,

nel silenzio,

la sua vita infelice,

la solitudine,

il desiderio di amare,

l’attesa d’una famiglia….

Una voce alle mie spalle mi rassicura

che la colpa è della società,

ma arriva un’ambulanza,

raccoglie da terra quel problema

e se lo porta via.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 44).

Amare me stesso

«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre». La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri”».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).

Saggezza

Una coppia di novelli sposi chiese:

«Cosa dobbiamo fare

perché il nostro amore duri?».

Rispose il maestro:

«Amate insieme altre cose».

Preghiera

O Dio unica fonte di tutto ciò che esiste, tu sei il Padre nostro: donaci l’amore perché, fedeli al tuo comandamento, possiamo amarti con cuore indiviso, cercando te in ogni cosa. Insegnaci ad amarti «con tutta la mente»: illumina la nostra intelligenza, perché libera dal dubbio e dalla vana presunzione sappia scoprire il tuo disegno di salvezza nella storia e nelle circostanze quotidiane.

Fa’ che ti amiamo «con tutte le forze», consacrando a te e al tuo servizio le nostre capacità e i nostri limiti, le nostre azioni e le nostre impotenze, i nostri risultati e i nostri fallimenti. Aiutaci, Signore, ad amarti in ogni fratello che tu ci hai posto accanto e che tu hai amato per primo, fino al sacrificio del tuo Figlio. La sua oblazione eterna ci dia la forza e la gioia di perdere noi stessi nella carità per ritrovarci pienamente in te che sei l’Amore.

 

* P er l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXI DOM TEMP ORD ANNO B

Francesco, il più inascoltato dei santi italiani

Al Santo di Assisi vengono dedicati romanzi, film e documentari, ma di fatto la società ne disattende e ne offende di continuo il modello e l’esempio

di Franco Cardini

 

Non so, e senza dubbio può essere una mia personale ignoranza, chi abbia mai pronunziato per primo la peraltro fortunata formula “Francesco, il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”. Si tratta senza dubbio di uno slogan efficace: molti lo attribuiscono a Benito Mussolini, il quale effettivamente lo fece proprio fin da quando nel 1926, in coincidenza con la celebrazione del settecentenario del Transito del Povero d’Assisi, volle conferire all’evento il carattere della celebrazione nazionale segnata da una solennità paragonabile a quanto si era fatto cinque anni prima, in coincidenza con il seicentenario della morte di Dante.

Il nesso tra Dante e Francesco, a parte il celebre canto XI del Paradiso, era evidente: si tratta dei due principali fondatori della lingua e della poesia italiane, e nel processo di costruzione dell’identità nazionale necessario al consolidamento dello stato nazionale l’idioma era valore fondamentale.

E’ tuttavia credo possibile (personalmente non ho fatto verifiche) che la celebre formula sia dovuta non già a Mussolini, bensì a Vincenzo Gioberti: nel qual caso è molto probabile che essa sia stata segnalata al Duce, che la fece propria, da Giovanni Gentile il quale del Gioberti appunto era studioso. Essa è d’altronde azzeccata nella misura in cui ci si pone il problema di quando sia nata la nazione italiana, di quando si sia potuto cominciar a parlare di italiani (e non solo di “italici”, vale a dire di abitanti della penisola).

Non c’è dubbio che una nazione si definisce primariamente attraverso l’idioma: in questo senso, il Cantico delle Creature – che è tra l’altro, con la sua lode altissima al Creatore e al Creato, un perfetto e inimitabile manifesto anticataro scritto proprio in un momento nel quale la Chiesa era impegnata nella lotta (anche armata) contro l’eresia che veniva ordinariamente chiamata “albigese” – ha il valore di un vero e proprio atto di fondazione dell’identità nazionale.

Se tutto ciò non serve a comprovare che Francesco sia davvero “il più santo degli italiani” (anche perché stabilire un Guinness dell’intensità santorale resta cosa ardua se non impossibile), vale quanto meno a verificare la validità della seconda parte di quella fortunata definizione: “il più italiano dei santi”, nel senso che nessuno tra i canonizzati dalla Chiesa ha mai fatto per la lingua e quindi per l’identità nazionale italiana quel che ha fatto Francesco in quanto scrittore e poeta.

Ma da qui a ritenere che sul serio se ne possa ricavare un modello di “santità italiana”, ce ne corre. Specie adesso, in tempi di Modernità sia pure in crisi e di consumismo sia pure in pericolo. Basta riflettere: in che cosa consiste la Modernità, quanto meno quella che Zygmunt Baumann ha definito “Modernità solida”? Nata nel ‘400 – ‘500, essa non è certo priva di radici e di una qualche continuità con la storia del mondo occidentale (ch’era a quel tempo l’Europa erede della pars Occidentis configurata dall’Editto di Teodosio e segnata dalla disciplina ecclesiale romana e dall’uso liturgico, giuridico e civile della lingua latina), ma rappresenta tuttavia una vera e propria rivoluzione che ha ridefinito l’Occidente stesso.

Si può addirittura sostenere che Modernità ed Occidente moderno e contemporaneo coincidano: che, insieme, costituiscano una indissolubile endiadi e una realtà profondamente rivoluzionaria. Credo si possa adddirittura parlare di una “rivoluzione occidentale” alla base del mondo moderno: essa è anzitutto originariamente  basata su un geniale rovesciamento di rapporti tra produzione e consumo (tra XII e XV secolo si verificò un ribaltamento di piani nell’Europa occidentale, sulla base del quale non fu più il consumo a regolare i ritmi della produzione, come si era sempre verificato e avrebbe continuato a verificarsi in qualunque altra civiltà umana, bensì questa a dover seguire il trendindefinitivamente ascendente di quello in una travolgente corsa verso l’altrettanto indefinita crescita dei profitti).

Quella “rivoluzione occidentale”, accompagnata con la decisa riscoperta dei valori filosofici antichi, consentì la nascita di un individualismo sempre più assoluto e del primato dell’economia e della dimensione del progresso (le scoperte e le invenzioni) che le tennero dietro. Le basi della “rivoluzione della Modernità” furono l’individualismo – dal quale nacquero stati assoluti prima, democrazie più tardi – e la Volontà di Potenza applicata in ogni campo, dall’economico al finanziario al politico al militare al tecnologico.

Tali le forze che indussero, e che in un certo senso addirittura obbligarono, il mondo occidentale a farsi padrone della terra e dei popoli che la abitano, avviando “economia-mondo” e “scambio asimmetrico”. Tali le forze che adesso sono entrate in crisi in quella che il Baumann ha definito “Modernità liquida”, che le contesta, mostra di non confidare più in esse ma al tempo stesso ha difficoltà a sostituirle con altri valori, con altri obiettivi.

Ebbene: se è così, il Povero di Assisi fu un santo radicalmente antimoderno, sia pur ante litteram. Quando si parla della “povertà francescana”, si dimentica spesso quel che mi sembra fra tutti gli studiosi del nostro tempo sia stato sottolineato con energia, fermezza e lucidità speciali da Giovanni Miccoli: la paupertas francescana, esattamente in linea con il “Discorso delle Beatitudini” di Gesù, è non già semplicemente egestas, non già puro e limitato rifiuto della ricchezza materiale, bensì totale e radicale rinunzia a qualunque tipo di Volontà di Potenza individuale; a partire dalla sapienza e dalla cultura, a loro volta forme fondamentali di ricchezza e di potere.

Ma appunto in ciò il modello e l’esempio di Francesco colpiscono la radix omnium malorum della Modernità, ch’è in ultima analisi il culto sfrenato e unilaterale di qualunque forma di individualismo e di Volontà di Potenza. Il “farsi pusillo” di Francesco, il proclamarsi Ultimo, il mettersi al servizio degli Ultimi, configura non solo una teologia ma soprattutto un’antropologia  in totale, assoluto e insanabile contrasto con quanto è prevalso in Occidente nell’ultimo mezzo secolo e con quanto il travolgente e prepotente revival liberal-liberistico postmoderno va proclamando da alcuni anni a questa parte.

Francesco va di moda: gli si dedicano romanzi, films, “originali” televisivi. Va di moda in una società che, di fatto, ne disattende, ne offende e ne calpesta di continuo il modello e l’esempio. La Modernità può essere anche “cristiana” e “postcristiana” nelle forme, nelle consuetudini e nell’esteriorità; può confondere la carità con l’umanitarismo e l’altruismo che ne sono  patetica e superficiale caricatura; ma è radicalmente antifrancescana in quanto è radicalmente cristiana, e non ci sono “cristianisti”, non ci sono “atei devoti” che tengano.

E’ antifrancescana, e come tale anticristiana, in quanto sostituisce sistematicamente e irremissibilmente l’Ego a Dio, in quanto predica libertà religiosa e tolleranza solo in quanto legittimazioni di un sistema civile, sociale, morale e intellettuale di vita da viversi etsi Deus non daretur. E’ antifrancescana, e come tale anticristiana, in quanto sostituisce sistematicamente il fiat voluntas Tua del Pater Noster con un blasfemo fiat voluntas mea.

In questo senso, Francesco d’Assisi può anche essere il più affascinante e il più amato dei santi: ma resta anche il più disatteso, il più tradito, il più inascoltato. Se non si capisce tutto questo, il solenne scenario di ogni 4 ottobre ad Assisi diventa un’oscena e blasfema parodia. Se lo si capisce, da qui deve cominciare la Rivoluzione.

UN’AGENDA PER LA FAMIGLIA: LAVORO E SCUOLA

In Umbria il primo dei 16 Convegni pubblici regionali promossi dall’Ac

Sabato 3 novembre 2012 a Foligno, presso l’Istituto San Carlo, con inizio alle ore 16.30, si terrà il primo dei 16 Convegno pubblici regionali promossi dalla Presidenza nazionale dell’Azione Cattolica Italiana congiuntamente alle Delegazioni regionali dell’associazione allo scopo di offrire un contributo alla fase di preparazione alla prossima Settimana sociale dei cattolici italiani, in programma a Torino dal 12 al 15 settembre 2013.

Si tratta di occasioni di discernimento e confronto con la società civile e con le istituzioni del territorio a partire dagli argomenti che saranno oggetto di riflessione durante i lavori dell’assise torinese.

Il tema di questo primo incontro pubblico regionale è “Un’agenda per la famiglia: lavoro e scuola”.

Interverranno Luca Diotallevi, vice presidente delle Settimane Sociali, Marcello Rinaldi, dirigente dell’Istituto Agrario di Todi, Valentina Di Maggio, responsabile del “Progetto Policoro” della diocesi di Assisi-Nocera-Gualdo, e Ulderico Sbarra, segretario regionale della Cisl. Le conclusioni sono affidate al presidente nazionale dell’Ac, Franco Miano, e al vescovo della diocesi di Foligno, mons. Gualtiero Sigismondi.

Come sottolinea Stefano Sereni, delegato regionale Ac Umbria, «in questo momento di grave crisi economica e occupazionale, come Azione Cattolica riteniamo opportuno un momento di discernimento che possa portare a un nuovo impegno come cittadini, affinché scuola e lavoro possano trovare nuove sinergie e idee di sviluppo, in una regione dove non mancano uomini e donne di buona volontà pronti a confrontarsi e a impegnarsi affinché le famiglie possano tornare a guardare con speranza al futuro, e al futuro delle nuove generazioni in particolare».

«Una nuova fase di sviluppo non solo economico potrebbe passare – rileva ancora Stefano Sereni – attraverso una diversa considerazione e un diverso impegno verso gli Istituti Tecnici Superiori, che fino a qualche decennio fa sfornavano ragazzi con una buona possibilità di collocazione sul territorio. Una diversa formula della formazione professionale e un utilizzo più efficace dei fondi che le Regioni mettono a disposizione potrebbero dare maggiori possibilità occupazionali a tanti nostri giovani, che senza un lavoro degno di questo nome difficilmente riusciranno nel progetto di formare una nuova famiglia».

* Ulteriori informazioni saranno disponibili collegandosi al sito:
http://www2.azionecattolica.it/conv-pub-reg-2012-13

I Santi, modelli efficaci per la nuova evangelizzazione

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 31 ottobre 2012 (ZENIT.org) –


I santi sono dei “modelli efficaci” per la Nuova Evangelizzazione. Lo afferma il Sinodo dei vescovi nella Proposizione 23 consegnata a papa Benedetto XVI.

“La santità – si legge – è una parte importante di ogni impegno evangelizzatore per colui che evangelizza e per il bene di coloro che sono evangelizzati”. Si tratta di un messaggio che è in perfetta armonia con la festa di Tutti i Santi, che la Chiesa celebra domani, 1° novembre.

I padri sinodali dedicano l’intera Proposizione 23 alla santità dei nuovi evangelizzatori. “La chiamata universale alla santità è costitutiva della Nuova Evangelizzazione, che vede nei santi dei modelli efficaci della varietà di forme in cui questa vocazione può essere realizzata”, scrivono i padri sinodali.

“Ciò che è comune nelle diverse storie della santità è la sequela di Cristo; essa si esprime in una vita di fede attiva nella carità che è una proclamazione privilegiata della Chiesa”, continuano i padri.

Il Sinodo individua nella Vergine Maria il modello di tutti i santi: “Noi riconosciamo in Maria un modello di santità che si manifesta negli atti di amore, che vanno fino al dono supremo di se stesso”.

La Proposizione 22 evoca la “conversione” e il “rinnovamento nella santità” necessario nei nuovi evangelizzatori. “Il dramma di sempre e l’intensità dello scontro tra il bene e il male, tra la fede e la paura, dovrebbero essere presentati come il fondamento essenziale, un elemento costitutivo della chiamata alla conversione a Cristo”. Questa lotta prosegue a un livello naturale e soprannaturale. “Ma quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,14).

Numerosi vescovi hanno parlato del bisogno di un rinnovamento nella santità della loro propria vita, se vogliono essere degli agenti veramente efficaci della Nuova Evangelizzazione.

I padri sinodali insistono sulla necessità di questa “conversione personale e comunitaria”, e anche di una conversione “pastorale”.

[Traduzione dal francese a cura di Paul De Maeyer]

Sospesi tra cielo e terra

di Gionatan De Marco

Felicità, gioia, beatitudine! Sono parole che fanno vibrare in profondità il cuore di tutti e soprattutto dei giovani.

Sono la ricerca continua nascosta o palese in ogni azione, in ogni scelta che si compie, ogni giorno e … per tutta la vita! Ma chi può darci la gioia, quella vera, quella piena, e chi può indicarci la via per raggiungerla?

Io sono venuto perchè abbiate la gioia e la vostra gioia sia perfetta”

Sono le parole di Gesù di Nazareth! E’ lui la sorgente della gioia vera e piena, ed è Lui che indica la strada per raggiungerla: la strada delle Beatitudini! Beati … Beati … Beati…

Con le sue profonde e insieme semplici riflessioni e il suo stile agile, vicino allo stile, alla sensibilità e alla vita dei giovani, don Gionatan offre un aiuto per incamminarsi sulla via delle Beatitudini.

Possano molti, stimolati da queste riflessioni, mettersi alla sequela di Gesù!Potranno attestare al mondo intero che la felicità è possibile!

+ Vito de GrisantisVescovo di Ugento – S. Maria di Leuca

Gionatan De Marco, giovane sacerdote della Diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca, nasce a Tricase (Le) l’8 ottobre 1981 e il 13 dicembre dello stesso anno inizia il suo cammino di vita cristiana con il dono del Battesimo, ricevuto dalle mani di don Tonino Bello.E’ ordinato sacerdote il 26 agosto 2006.Attualmente è Assistente diocesano dell’Azione Cattolica

SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI

Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso.

Dopo la solenne scenografia celeste (cf. cap. 4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf. cap. 5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf. cap. 6). La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte. Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento. La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.

Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv. 2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv. 9-12) e la loro identità (vv. 13-14). All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti. Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf. Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv. 5-8, tralasciati dal testo liturgico). Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo. (Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).

Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare». Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf. v. 9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione. Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza. Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza). Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v. 14). I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»). Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

La santità è amore. La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.

I vv. 1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!». Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo. Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità. Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita. L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile. Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio. Se i vv. 1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.

Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v. 3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino. Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono. Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v. 3). Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni. Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre. Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v. 9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.

Vangelo: Matteo 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Esegesi

Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola. Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo. È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù. Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo. Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale. E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano. Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità. L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf. Mt 5,1.2).

Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati». Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o

felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf. Lc 6,20-26). Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf. Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf. Sal 128,1; 1,1). Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.

Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi. Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11. A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.

Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo. Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole. Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento. I vv. 11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù. Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto. Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena. Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui. Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso. È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.

Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito… beati gli afflitti…». Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock. Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza. Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento. L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente. Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente. Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo. Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.

Che cosa possiamo rispondere?

Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive. Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff. Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.

La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore. La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende. Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile. Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità. E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso. Così di seguito, tutto rimanda a Dio.

La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive. In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere. Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è. Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà. Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva. Questa è la santità.

Meditazione

È bene per noi, uomini e donne della terra, ancora sotto il dominio del peccato e della morte, pregare con chi è passato attraverso la grande tribolazione, la morte, colei che sembra allontanare definitivamente da Dio e dalla vita che egli ci ha donato. E, mentre celebriamo la liturgia, ci uniamo a coloro che celebrano la liturgia del cielo e cantano la lode di Dio. Sono i santi, uomini e donne diversi, che si sono fatti ascoltato­ri della Parola di Dio e discepoli di Gesù, scegliendo di vivere non per se stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi. La Chiesa, nostra madre, in modo sapiente, anticipa la festa di tutti i Santi alla memoria dei fedeli defunti, quasi per aiutarci a comprendere il mistero della morte e perché non siamo dominati dalla paura. Il Signore infatti non abbandona gli uomini all’abisso della morte e nel Figlio Gesù, primo­genito di una moltitudine di fratelli, ci fa già cantare nella liturgia la gioia della resurrezione. La memoria dei santi accanto a noi ci aiuta a guardare con speranza il tempo che viviamo; soprattutto ci aiuta a non vivere prigionieri del nostro piccolo mondo, della terra su cui cammi­niamo, neppure delle realtà ecclesiali di cui siamo parte. Vi è una mol­titudine immensa di uomini e donne, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua, che insieme a noi e alla nostra comunità canta la salvezza che viene da Dio attraverso l’Agnello e ci rende partecipi di un popolo grande, in cui la diversità di origine e di cultura non diventa motivo di divisione e di inimicizia. È il popolo di Dio, sacramento dell’unità della famiglia umana, come ha detto il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium, liberato dall’odio, dalla divisione, dall’inimicizia, da tutti quei motivi di separazione che ancora non permettono agli uomini di vivere sulla terra quella visione del cielo.

Le parole dell’Apocalisse sembrano descrivere un altro mondo, lon­tano, irraggiungibile, impossibile da realizzare nel nostro. Sì, siamo di fronte davvero a un mondo altro, diverso da quello di tutti i giorni, spesso costellato di divisioni, contrapposizioni, inimicizie, che impedi­scono l’unità e intralciano il superamento del proprio io in una comunione e una sintonia con gli altri. Ci sono ancora troppe inimicizie che passano nei cuori di ognuno. Quante divisioni ancora tra i popoli, quanti conflitti nella vita di ogni giorno, fondati sulla difesa di se stessi e del proprio interesse. Le parole dell’Apocalisse rimangono una visio­ne e una profezia, ma sono anche una vocazione, quella di ognuno dei cristiani che da uomini della terra diventano uomini spirituali e si fanno discepoli del Signore, entrando già fin d’ora a far parte di quella moltitudine immensa. E un popolo di poveri, di gente che piange, di miti; di affamati e assetati di giustizia, di misericordiosi, di puri di cuore, di operatori di pace, di perseguitati per causa della giustizia e del Signore. Sembra un popolo di deboli, perché i poveri sono disprez­zati, coloro che soffrono abbandonati, i miti dileggiati, i cercatori di giustizia e di pace considerati degli ingenui, i perseguitati dimenticati, come tanti cristiani nel mondo. Qual è la loro forza se non di essere in quel popolo? Quale la loro felicità e beatitudine se non nella certezza che Dio realizzerà la sua parola e che fin da oggi sono radicali nella promessa di Dio? Questo Vangelo, che abbiamo ascoltato molte volte, traccia un itinerario tanto diverso dal vangelo di questo mondo, che proclama beati i ricchi, i forti, i belli, i furbi, coloro che fanno il loro interesse. La Chiesa lo ripropone nella solennità di tutti i santi, per farci comprendere qual è la via della santità, a cui tutti siamo chiamati.

Si vive talvolta una vita modesta, incentrata su se stessi, istintiva e suscettibile, ci si accontenta di quanto si riesce a percepire dal nostro orizzonte quotidiano, impauriti davanti alle grandi visioni. Così la visio­ne di Dio si appanna e svanisce. Per far parte di quella moltitudine immensa e poter incontrare il Dio della vita passando attraverso la grande tribolazione senza soccombere, bisogna essere più ambiziosi nell’amore, non tiepidi e calcolatori, non avari ed egoisti, non chiusi nel proprio mondo di buoni, che giudicano gli altri. I martiri, che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello e di cui la Chiesa fa sempre memoria, ci indicano la forza di una vita spesa nell’amore. Uno degli ultimi, che la Chiesa proclamerà beato, è don Pino Puglisi, un sacerdote che ha dato la sua vita per il Vangelo e non ha ceduto alla mentalità violenta e mafiosa da cui era circondato. La visione di Dio ci chiama ad essere santi, a vivere sulla terra come cittadini del cielo, familiari e cercatori di Dio, amici dei poveri e dei bisognosi per poter essere un giorno con loro, miti in un mondo pre­potente e violento, operatori di pace là dove permangono piccoli o grandi conflitti, affamati di quella giustizia di Dio, che mai è disgiunta dalla misericordia e non invoca la vendetta sul colpevole e sul malvagio. Se vogliamo un mondo migliore e più umano, percorriamo la via della santità, che ci è così bene indicata nelle beatitudini. E, se vogliamo realizzarla, uniamoci ai poveri, perché sono i primi beati, i primi a far parte del regno di Dio. Gesù, secondo i Vangeli sinottici, incontra per primi i discepoli e i poveri, i malati, gli indemoniati. Tutti loro fanno parte della sua famiglia. E noi potremo esser ugualmente felici, percor­rendo la via che il Signore ha proclamato dal monte delle beatitudini, nuovo Sinai, come la legge di Dio, l’insegnamento nuovo che porta a compimento l’antico senza abolirne il valore.

A noi, discepoli dell’unico che ha vissuto tutte le beatitudini, il Signore Gesù, viene chiesto di lasciarci attrarre da questo popolo, ribel­landoci all’individualismo che ci vorrebbe divisi. Le beatitudini sono le parole che ogni giorno ci permetteranno di far parte della famiglia di Dio e di gustare la gioia e la bellezza di essere un noi, un unico popolo, dove non esistono più confini di nazione, tribù, popolo, lingua. Ci tro­viamo davanti all’antico sogno di Dio che volle gli uomini non nemici né divisi, ma fratelli. Oggi nella festa di tutti i santi lo vediamo realizzar­si e ci sentiamo coinvolti in un disegno di amore che va oltre quanto siamo in grado di comprendere e di vivere ogni giorno. Non tiriamoci indietro per paura di perdere noi stessi. Aspiriamo alla santità, che è comunione con il Signore, vita gioiosa con i fratelli e amica dei poveri. Viviamo l’audacia di essere uomini e donne di quella moltitudine immensa, che non accetta la divisione come un fatto normale né il conflitto come naturale. La vittoria di Gesù sulla morte, la testimonian­za di coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello, raf­forzano la nostra esistenza in un mondo di gente incerta e impaurita e ci aiutano a guardare al futuro con speranza e con la certezza che il Signore non permetterà al male di soffocare i tanti segni di bene che i suoi discepoli custodiscono. La beatitudine dei discepoli di Gesù sarà la gioia di continuare a vivere in quella moltitudine immensa e senza con­fini, popolo di umili e di poveri, santificato dalla presenza di Dio e reso forte dal suo amore che ha vinto la morte.

Per questo ovunque nel mondo i cristiani continuano incessante­mente ad innalzare la loro lode al Padre e all’Agnello, primogenito di quella moltitudine immensa: «Amen, lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli». Nella preghiera di lode essi ritrovano la forza per l’agire, la speranza che si fa tenace ricerca della pace contro il pessimismo e il realismo triste di chi accetta l’inimicizia come un fatto naturale e inevitabile. La visione di Dio ci precede sempre. Non dimentichiamolo! E l’Eucaristia in qual­che modo la rende più vicina perché ci rende più vicini al Signore e ci fa parte già in questo mondo di quella moltitudine immensa che cele­bra la vittoria di Dio sul male. Mentre egli si manifesta a noi, siamo costituiti come suo popolo e ci avviciniamo a lui in quella comunione di amore che diventa canto di lode e rendimento di grazie.

Preghiere e racconti

La santità è sempre giovane

«Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.

“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.

Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.

(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).

Ciò che ho scritto di noi

Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia

è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile

è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni

è il disegno tracciato su un raggio di sole

ciò che ho scritto di noi è tutta verità

è la tua grazia

cesta colma di frutti rovesciata sull’erba

è la tua assenza

quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via

è la mia gelosia

quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati

è la mia felicità

fiume soleggiato che irrompe sulle dighe

ciò che ho scritto di noi

è tutta una bugia

ciò che ho scritto di noi è tutta verità.

(Nazim Hikmet)

Le beatitudini bibliche

Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.

Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.

Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).

Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.

(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.).

Il paese della felicità

Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.

Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.

(Thorkild Hansen)

Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli?

Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza. Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte. Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.

San Benedetto lo sapeva. Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati. Questa è per me una regola fondamentale e saggia. I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità. Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti. In questo modo danneggerebbe se stessa. C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli. Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).

Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo?

I valori ci conferiscono valore e dignità. La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore. Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri. La sua vita avrà sempre meno valore. Lo tirerà giù. La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”. I valori ci danno, quindi, una forza interiore. Rendono sana la nostra vita. Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido. Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli. Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido. E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità. Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo. E a lungo termine avrà anche successo nella vita.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

custodisci questi giovani nel tuo amore.

Fa’ che odano la tua voce

e credano a ciò che tu dici,

poiché tu solo hai parole di vita eterna.

Insegna loro come professare la propria fede,

come donare il proprio amore,

come comunicare la propria speranza agli altri.

Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo,

in un mondo che ha tanto bisogno

della tua grazia che salva.

Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,

perché siano sale della terra e luce del mondo

all’inizio del terzo millennio cristiano.

Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida

questi giovani uomini e giovani donne

del ventunesimo secolo.

Tienili tutti stretti al tuo materno cuore. Amen.

(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

PER L’APPROFONDIMENTO:

TUTTI I SANTI (Anno B)

Intervista al Cardinal Bagnasco sul Sinodo dei Vescovi

“Il punto non è venirne a capo, ma tenere desto il fuoco. Ascoltando quest’agorà delle genti mi sono accorto che passione per il Vangelo fino alla morte ce n’è molta”.

Lo ha detto il card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ieri sera, su Tv2000, intervistato da alcuni giornalisti dell’emittente dei cattolici e di Radio Inblu sul significato del Sinodo dei vescovi appena concluso.

Il tesoro tra le mani. “Gli eventi della Chiesa non vogliono ripetere un ritornello ma ridestare questa fiamma”, ha risposto spiegando la funzione del Sinodo, “perché l’amore bisogna rimotivarlo e accorgersi del tesoro che si ha in mano. Il dramma più grave, quando l’uomo vive una difficoltà, è sentirsi solo. Allora tutto pare insormontabile, si arrende e diventa passivo. È invece giusto sapere che, in qualunque momento, l’uomo incontra Cristo che lo precede”.

Incontrarsi di persona. “Conoscenza e ragionevolezza della propria fede, alimentata nella cura amorevole di Gesù Cristo, in un contesto che non è favorevole”: questa è la sfida a cui siamo chiamati. “L’incontro personale con Gesù”, senza il quale “anche il pensiero di Cristo sarà difficile da interiorizzare e tradurre in termini vivi”, va inserito, ha spiegato il porporato, “nell’aria che respiriamo tutti”, perché “i cattolici non vivono sotto una campana”. C’è, però, “una strana separatezza tra la fede proclamata e i criteri desunti, aspirati in modo acritico dall’aria del secolarismo”, che non è diffuso “solo nel mondo occidentale, ma anche in quei territori di recente tradizione cattolica”.

Una voce forte e costante. A proposito dei diritti dei cristiani in Medio Oriente e Nord Africa, la Chiesa, ha sottolineato il card. Bagnasco, “dev’essere coscienza critica. Non maestra che bacchetta ma profezia. Profezia vuol dire incarnarsi nella storia, nel mondo, come ci ha insegnato il Maestro. La Chiesa – ha proseguito – dev’essere sempre presente ovunque, seguendo, col discernimento che lo spirito le dona, quei semi buoni da valorizzare, in ordine alla dignità della persona umana”. In merito al fondamentalismo, “da qualunque parte venga”, la Chiesa “deve elevare ed eleva la sua voce, forte e costante, insieme alla sua preghiera”, che vuol dire “denunciare violazioni diritti fondamentali e invocarne in tutte le sedi il rispetto”. È doveroso però, ha aggiunto, che “anche la comunità internazionale parli forte e costante”.

Farsi profezia. Sul valore della “Chiesa profetica” il presidente Cei si è soffermato spiegando come “nell’Antico Testamento ‘profetico’ è chi guarda le cose con gli occhi di Dio, cogliendone così la verità e l’esito. Ma lo è anche colui che anticipa un mondo nuovo, secondo Dio. È la comunione il miracolo che autentica l’annuncio, e si fa profezia del mondo nuovo. Ma c’è la profezia – ha aggiunto – anche nel momento in cui la Chiesa parla e annuncia il Vangelo, quando la Chiesa richiama l’errore di certi stili, e dice ‘no’. A volte questo non è capito, ma il ‘no’ è solo l’altra faccia del ‘sì’. Dire che un comportamento porta alla rovina è profezia”.

Cuore materno e pulsante. Sul tema della famiglia, “la Chiesa si deve porre facendo pulsare il suo cuore materno. Ma, in quanto madre delle genti, dev’essere anche maestra” e dunque “accompagnare, sostenere, incoraggiare, dare fiducia, dire una parola di verità”. Per rispondere alle esigenze delle famiglie contemporanee, “nel documento ‘Sacramentum caritatis’ – ha segnalato il porporato – vengono indicati nove modi per partecipare alla vita della Chiesa, pur nell’impossibilità di accostarsi alla comunione”. In questo contesto, una “grande solitudine abbraccia i nostri ragazzi”, che “vogliono essere amati, tutto il resto è relativo. Se sentono che le figure educative vogliono loro bene e sono là per loro, tutto il resto si dipana. Il linguaggio, seppur con la sua importanza, non è prioritario ma secondario rispetto al cuore che essi cercano”.

Creature di confine. Quanto all’evangelizzazione, “dobbiamo far emergere la dimensione costitutiva della persona”, che è fatta di fiducia. L’uomo “non può vivere senza fiducia. In questo senso il limite, che è parte costitutiva della persona, è un grandissimo alleato del Vangelo”, perché “l’esperienza che facciamo del limite ci dice che abbiamo bisogno degli altri, che non possiamo vivere chiusi in noi stessi, ma solo andando incontro con fiducia al dono fatto di noi stessi agli altri. Io – ha detto il card. Bagnasco – ho molta fiducia nel bisogno di fiducia. Chi ha paura di perdere la vita e la trattiene, la perderà davvero. Chi la dona, invece, la troverà”. Di qui “il passaggio dagli altri all’Altro, l’unico che può riempire il cuore umano, piccolo ma creato per l’infinto. L’uomo, d’altra parte, è una creatura di confine, tra terra e cielo, tempo ed eterno”.

Un’antropologia integrale. Il card. Bagnasco ha riservato una riflessione anche all’impegno dei cattolici: “Quanto più politica, economia e finanza segnano difficoltà e scandali, tanto più il cattolico non si può ritirare, anzi è chiamato in causa. Il suo è un dovere: ciascuno, secondo la propria vocazione e capacità, deve partecipare al bene pubblico. Non certo per voglia di potere, ma per servire al bene comune, non per imporre legislazione di fede ma in nome di un’antropologia integrale, che scopriamo alla luce del Vangelo ma non prescinde dall’uso della ragione”.

Come la luna. “Trasparenza” e “credibilità” sono state, infine, le parole che il card. Bagnasco ha indicato in risposta agli scandali che possono coinvolgere la Chiesa: “Il Santo Padre ci indica continuamente la via della trasparenza”, e “la credibilità è un desiderio che dobbiamo avere per Lui, il Signore. ‘La Chiesa è come la luna, che riflette la luce del sole’, diceva Sant’Ambrogio. Dobbiamo pensare ad essere credibili e fedeli”.