La vigilanza come cura dell’anima

Proponiamo una riflessione di Vito Mancuso sulla cura che dobbiamo all’anima, la nostra dimensione più preziosa.
 
LA VIGILANZA
I frutti non maturano da soli. Chiunque ha un frutteto, un orto, un giardino, sa quanto lavoro è necessario, quanto i parassiti, le erbacce, le intemperie siano in agguato. Lo stesso è per l’anima umana.
Senza un’attenta coltivazione non vi cresce nulla. È alla coltivazione dell’anima che ci esorta il maestro col dire «vigilate».
Simone Weil dice la stessa cosa col termine di attenzione, Wittgenstein parla di concentrazione. La vigilanza è il contrario dell’immaginazione, la grande dissipatrice dell’energia.
La vigilanza è qualcosa che va osservata quotidianamente, su di essa occorre fare l’esame di coscienza e alla fine della giornata darsi un voto, come faceva da ragazzo Pavel Florenskij e come raccomandava a suo figlio Michail.
Ma che cosa significa vigilare? Ecco la risposta di Dietrich Bonhoeffer: «Se tu parti alla ricerca della verità, impara soprattutto la disciplina dei sensi e dell’anima, affinché i desideri e le tue membra non ti portino ora qui ora là.
Casti siano il tuo spirito e il tuo corpo, a te pienamente sottomessi ed ubbidienti, nel cercare la meta loro assegnata.
Nessuno apprende il segreto della libertà, se non attraverso la disciplina».
Vigilare è saper guardare il vuoto di cui siamo costituiti, saperlo ascoltare, saper sostare ai suoi margini, senza subire il richiamo dell’immaginazione che lo vuole riempire, dell’immaginazione che è la voce dell’Io.
In questo senso tutto il mondo umano è un prodotto dell’Io, della sua immaginazione, e veramente va negato. Ma lo si può fare solo dopo un lungo lavoro, dopo giorni e giorni, dopo anni e anni, di vigilanza.
Una delle più importanti forme di vigilanza è ricercare per l’anima il nutrimento buono. In mezzo a tante dannose tossine, il nutrimento buono esiste e occorre riconoscerlo.
Vi sono giornali buoni, libri buoni, musica buona, cinema buono. Il nutrimento migliore è dato dalla contemplazione. Ci si riveste di luce. Ci si pone in contatto con la sorgente più pura dell’energia, Dio, che dispensa l’energia come luce assoluta del bene e dell’amore. Nutriti da questa energia, si diventa in grado di immettere gratuitamente energia positiva nel sistema-mondo attraverso il proprio lavoro.
I contemplativi fanno questo nel modo più alto, sono il tramite più puro tra l’energia divina e il sistema-mondo. Sono i migliori conduttori, come i metalli più nobili per l’elettricità.
(Vito Mancuso)

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

Come è tradizione della Società Biblica in Italia, anche quest’anno 2013 sono offerti alla meditazione dei Cristiani alcuni testi biblici appositamente scelti da un gruppo internazionale ecumenico composto da rappresentanti del Consiglio Ecumenico delle Chiese e del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

Quest’anno la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ci invita a riflettere sull’importantissimo e ben noto testo del profeta Michea: “Quale offerta porteremo al Signore, al Dio Altissimo, quando andremo ad adorarlo? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio? Gli daremo in sacrificio i nostri figli, i nostri primogeniti per ricevere il perdono dei nostri peccati? In realtà il Signore ha insegnato agli uomini quel che è bene quel che esige da noi: praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio” (6, 6-8).

scarica opuscolo:

Opuscolo 2013

La settima parola: “non commettere adulterio”

Nel cammino di fraterno dialogo e stima tra la Chiesa in Italia e il Popolo ebraico, l’incontro tra il Papa e la Comunità ebraica di Roma nel Tempio Maggiore, il 17 gennaio 2010, ha suggellato positivamente le tappe fin qui percorse, indicando nuovi obiettivi, mostrando di voler andare oltre turbolenze e incertezze che hanno talora suscitato dubbi sull’effettiva consistenza del dialogo cristiano-ebraico odierno.
Nella sua visita alla Sinagoga di Roma Benedetto XVI, ha voluto sottolineare in maniera ancora più chiara quanto aveva già affermato nella sinagoga di Colonia sulla comune responsabilità che gli ebrei e i cristiani hanno di fronte alle “Dieci parole”: «In particolare il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (cfr Es 20,1-17; Dt 5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un “grande codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17)».
In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza che si aprono davanti a ebrei e cristiani, uniti da comuni aspirazioni.
Vorremmo ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo.
 

Per una pastorale della proposta di fede

Si è svolto giovedì 10 e venerdì 11 gennaio a Roma, il seminario “Verso orientamenti condivisi”, organizzato dalla Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi (CEDAC).
La Commissione ha programmato una serie di seminari per la verifica ed il rilancio della catechesi in Italia (Orientamenti pastorali 2010-2020, “Educare alla vita buona del Vangelo”, n. 54a) nel cammino verso un “documento condiviso” per il rinnovamento di percorsi e strumenti.
Il programma dei lavori è stato aperto giovedì dall’introduzione di S.E. Mons. Marcello Semeraro, Vescovo di Albano e Presidente della CEDAC, che ha evidenziato il percorso che, nella mutata situazione odierna, richiede non una riscrittura del Documento di Base, ma appunto “orientamenti condivisi” che confermino quel documento che rimane la magna carta della catechesi. Ad essere interpellata è la Chiesa nella sua valenza di comunità missionaria, che evangelizza passando a una pastorale della proposta di fede.
La catechesi, è stato evidenziato, rimane uno snodo essenziale della vita delle comunità cristiane, sia nella linea della formazione cristiana degli adulti, che dell’iniziazione cristiana dei ragazzi e di una proposta che si fa annuncio nei diversi ambiti di vita delle persone.
A Mons. Semeraro sono seguite due relazioni, affidate a Mons. Valentino Bulgarelli, catecheta e Direttore dell’Ufficio Catechistico della diocesi di Bologna (“15 anni di catechesi in Italia: indicazioni e orientamenti dal Direttorio Generale della Catechesi ad oggi”), e a Mons. Paolo Sartor, Responsabile del Settore catecumenato dell’Ufficio Catechistico Nazionale (“Il Vangelo della vita buona nella catechesi. Sintesi dei contributi inviati all’UCN in vista degli Orientamenti sulla catechesi”).
 
Venerdì 11 gennaio, alle 8, S. E. Mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, ha presieduto la celebrazione dell’Eucaristia. Alle 9.15 Don Guido Benzi, Direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale, ha introdotto i gruppi di lavoro sulle relazioni del giorno precedente. Nel pomeriggio, si è tenuta la tavola rotonda, dal titolo: “Tre prospettive di contenuto in vista degli Orientamenti: comunità missionaria, formazione e iniziazione”, alla quale hanno partecipato il Prof. Don Pio Zuppa, catecheta e pastoralista della Facoltà Teologica Pugliese, la Prof.ssa Chiara Giaccardi, pedagogista ed esperta del mondo della comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, la Prof.ssa Maria Teresa Stimamiglio, formatrice dei catechisti della Diocesi di Padova, e don Giuseppe Nevi, Parroco nella Diocesi di Cremona. Ha concluso i lavori S.E. Mons. Semeraro.
         
 SCARICA:
 

Per la Scuola. Lettera agli Studenti, ai Genitori, a tutte le Comunità educanti

La Lettera agli studenti, ai genitori e a tutte le comunità educanti, che viene pubblicata in questo numero del Notiziario con il titolo “Per la scuola” è il punto di arrivo di una esigenza condivisa e maturata nel corso degli ultimi anni sia all´interno della Consulta per la pastorale della scuola, sia a livello di Commissione Episcopale per l´educazione cattolica, la cultura, la scuola e l´università.

In un incontro di questa con i Vescovi delegati delle Conferenze episcopali regionali per la materia di competenza, svoltosi il 16 maggio 1994, si è ritenuto necessario un intervento significativo che esprimesse la visione positiva ed esigente della Chiesa per la scuola e che incoraggiasse tutte le persone che in essa operano.
La prima stesura della Lettera è stata analizzata in due riunioni della Commissione che vi ha apportato numerose modifiche e integrazioni. In seguito, il documento fu sottoposto all´esame del Consiglio Episcopale Permanente del 27-30 marzo 1995, che ha dato l’approvazione per la pubblicazione a nome della Commissione Episcopale.
La Lettera, firmata da S.E. Mons. Pietro Giacomo Nonis in data 29 aprile 1995 è stata presentata ufficialmente il 23 maggio 1995 nella Conferenza stampa tenuta nel corso della XL Assemblea Generale della C.E.I.
In un momento di grandi cambiamenti, i Vescovi, con il presente documento, richiamano la necessità e l´urgenza che anche la scuola si adegui strutturalmente e istituzionalmente alle nuove istanze culturali con un progetto educativo a cui i credenti sono invitati ad offrire il proprio contributo.

COMMISSIONE EPISCOPALE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, LA SCUOLA E L’UNIVERSITÀ

Lettera del Consiglio Episcopale Permanente su alcuni problemi dell’Università e della cultura in Italia

Preceduti da una inchiesta nazionale nel 1986 e promossi dalla Commissione Episcopale per l´educazione cattolica, la cultura e la scuola, si sono svolti, in questi anni, alcuni incontri sia con i sacerdoti incaricati od esperti di pastorale universitaria (17.2.87), sia con i sacerdoti docenti universitari (12.2.88), sia infine con numerosi docenti universitari di ispirazione cattolica (21.5.88 e 27.5.89).

Da tutti questi incontri è emersa unanime l´esigenza di una più specifica attenzione da parte della Chiesa italiana ai problemi dell´Università e della cultura nel nostro Paese e di un migliore coordinamento della presenza e dell´azione pastorale in questi settori.
Il Consiglio Episcopale Permanente, aderendo anche all´invito del Santo Padre Giovanni Paolo II, ha preso in approfondito esame le linee di un servizio più coordinato di presenza pastorale nell´Università e nella cultura, approvando nella sessione primaverile del 26-29.3.1990 la pubblicazione della seguente Lettera e delle indicazioni pratiche in essa contenute.

CONSIGLIO EPISCOPALE PERMANENTE


La chiesa per la scuola.

Il 3 e il 4 maggio si è tenuto a Roma il Laboratorio nazionale La Chiesa per la scuola, prima tappa di un percorso di sensibilizzazione sulle tematiche della scuola (statale e paritaria) e della formazione professionale, promosso dalla Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana.
Nell’organizzazione sono stati coinvolti, oltre all’ Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università, ilServizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica, l’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia e il Servizio nazionale per la pastorale giovanile che hanno fatto il punto su alcuni nodi centrali della scuola e della formazione professionale.
 
Proponiamo il dossier, risultato del Laboratorio.
 

BATTESIMO DEL SIGNORE

Prima lettura: Isaia 40,1-5.9-11

 «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. – Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato».  Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».

 I versetti 1-11 del capitolo 40 di Isaia fungono da prologo all’intera sezione della seconda parte di Isaia formata dai capitoli 40-55. Il brano è pervaso da una grande letizia, fondata sulla fede esaltante nel Dio guida del popolo, suo liberatore e salvatore. «Consolate, consolate il mio popolo»: Dio comanda di consolare Israele e l’imperativo ripetuto due volte suggerisce l’idea dell’urgenza e della sovrabbondanza della consolazione. Dio può infliggere il «doppio per tutti i suoi peccati», ma non si dimentica del suo popolo e della sua città e torna a rivolgergli parole di salvezza, che parlano al cuore.

     «Una voce grida»: la voce misteriosa del versetto 3 e le altre, che seguono, si possono considerare l’equivalente poetico della formula profetica il «Signore ha parlato». Con maggiore efficacia il secondo Isaia al comando diretto del Signore fa seguire in forma diretta le voci, che ne ripetono il messaggio.

     I sinottici per spiegare il compito profetico di Giovanni Battista adoperano le parole di Isaia 40,3 (cf. Mt 3,3; Mc 1,3; Lc 3,4). Egli è una voce, che ripete il comando del Signore. Il Signore, che aveva abbandonato insieme al popolo la sua dimora e lo aveva seguito in esilio, vi fa ora ritorno: per lui, e quindi anche per il popolo, si deve preparare una strada agevole, percorribile con facilità. Si tratta di una strada «nel deserto», come nel deserto era stata la strada dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa. «La gloria del Signore» (Is 40,5) si rivelerà di nuovo in tutta la sua potenza, come nell’esodo dall’Egitto, momento fondante tutta la storia di Israele.

     I versetti 6-7, che sono stati tolti dalla liturgia di oggi, incentrata sulla rivelazione di Dio, propongono un intermezzo meditativo sulla distanza fra la fragilità dell’essere umano, paragonato all’erba, e la potenza divina. Questa meditazione aiuta a capire che l’intervento di Dio nelle vicende umane e in particolare in quelle di Israele, dipende interamente dalla sua scelta misteriosa, dettata dall’amore.

     Il Signore avanza con potenza e domina col suo braccio, ma verso il suo popolo si rivela un pastore amoroso: «egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).

     «Il suo braccio » è l’immagine che esprime il suo intervento di castigo e dominio (cf. in Esodo l’intervento contro il faraone, ma anche il castigo dell’esilio per il popolo), ma anche di perdono e dono gratuito e sovrabbondante di salvezza. Dobbiamo sempre tenere insieme nel leggere i profeti per non fraintenderli, i messaggi di salvezza, che dipendono sempre dalla bontà misericordiosa di Dio, da quelli di castigo, che sono volti a riportare Israele sulla via del Signore e non vogliono affatto annientarlo: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29).

 

Seconda lettura: Tito 2,11-14;3,4-7

     

        Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta sal­vezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’em­pietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli ap­partenga, pieno di zelo per le opere buone. Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore no­stro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua mise­ricordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spi­rito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella spe­ranza, eredi della vita eterna. 

 In un breve scritto di occasione, volto ad esortare un pastore e la sua comunità a superare i contrasti interni e a tenere una condotta moralmente irreprensibile, l’autore della lettera a Tito richiama l’insegnamento fondamentale dell’apostolo Paolo: la nostra salvezza dipende interamente da Dio, dalla sua bontà (chrestòtes, amore per gli uomini (philan-tropìa) e misericordia (eléos) (Tt 3,4.5).

     Noi non possiamo vantare nessuna pretesa nei confronti di Dio. Noi, infatti, eravamo «insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degno di odio e odiandoci a vicenda» (Tt 3,3). Noi dobbiamo solo accogliere con gratitudine il dono di Dio e rispondere con una condotta che sia conforme alla chiamata di Dio e alla nuova vita che Dio ci ha donato gratuitamente.

     «È apparsa (epiphàne Tt 2,11; 3,4) la grazia di Dio» apportatrice di salvezza per tutti gli esseri umani. Il greco anthropos comprende uomini e donne senza differenze sessuali (a differenza da aner usato solo per uomo e arsen maschio). Si tratta di una vera e propria rivelazione, di un intervento fattivo di Dio, che, anche se apparentemente lascia tutto come prima, in realtà ha trasformato la situazione.

     L’incontro di Dio con gli uomini è un incontro potente e rinnovante. L’autore della lettera attribuisce la stessa potenza salvifica dell’«apparizione» di Dio a Gesù Cristo «nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». Si rinnova in lui il miracolo più volte avvenuto nella storia dell’umanità primitiva e in particolare in quella del popolo di Israele dell’intervento salvifico di Dio.

     In questo caso, la salvezza, data in dono gratuito, è legata al battesimo «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo». I battezzati sono esseri nuovi, che vivono nello Spirito di Dio «effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo».

     La manifestazione della grazia di Dio, effusa per suo volere e senza meriti umani, è, però, strettamente legata all’educazione a fare opere buone. Questo è un insegnamento tradizionale dell’ebraismo. La Torà è la «rivelazione-dono» per eccellenza di Dio. Non possiamo staccare la fede alle opere ammonisce la lettera di Giacomo, che accomuna Abramo che ha creduto, con Raab, la meretrice, salvata per la sua ospitalità (cf. Ge 2,21-25). A proposito di Abramo, il modello della fede per eccellenza, fra le diverse parole a lui rivolte da Dio leggiamo: «Io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso» (Gen 18,19). È Dio che ha scelto Abramo, ma tale scelta comporta una risposta pronta e lo «zelo» per i comandi del Signore.

     Il giudizio finale, secondo il Vangelo di Matteo sarà sulle opere compiute, anche senza il riconoscimento del Signore (cf. Mt 25,31-37), mentre la conoscenza, senza le opere è motivo di condanna: «Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Dobbiamo tenere insieme i due poli del messaggio biblico: l’insistenza sull’iniziativa gratuita di Dio e il richiamo pressante a mettere in pratica i suoi precetti.

     Fra le tante osservazioni che si possono fare sul brano della lettera a Tito scelto per la liturgia di oggi, merita particolare attenzione l’espressione «nella speranza». Siamo stati giustificati dalla grazia di Gesù Cristo e siamo diventati eredi della vita eterna, ma secondo la speranza.

     La salvezza rivelata da Gesù non è ancora quella definitiva, che non si può più perdere e che si manifesta in gloria e potenza per tutte le creature. «I cieli nuovi e la terra nuova» sono ancora sperati. Il regno del nostro Dio ci è dato nel segno della speranza: la sua manifestazione definitiva è nascosta nel mistero della benevolenza di Dio; a noi spetta il grande compito di testimoniare che il dono del regno ci è stato dato, dobbiamo rendere visibile la nostra speranza. Dobbiamo comportarci da cittadini del regno secondo la condotta dettata dai comandamenti divini.

 

Vangelo: Luca 3,15-16.21-22

 In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

 

Esegesi 

     Il vangelo di Luca nei versetti 14-16 ci presenta il popolo che è in attesa del messia (l’«unto», christòs in greco). Coloro che erano accorsi ad ascoltare la predicazione di Giovanni e a ricevere il suo battesimo di purificazione come segno dell’inizio della conversione (metanoia in greco, teshuvà in ebraico), si chiedevano se non fosse proprio lui il Messia.

     Si tratta di una piccola parte degli ebrei di allora, ma Luca parla del popolo in generale e dice «tutti» si ponevano la domanda sul messia e Giovanni risponde a «tutti». A lui interessa il popolo nella sua dimensione collegiale: al versetto 21 sottolinea: «mentre tutto il popolo veniva battezzato». È «tutto il popolo» che in analogia all’avvenimento del Sinai forma per così dire il luogo della rivelazione divina. Gesù, che in Luca è il destinatario della rivelazione: «Tu sei il Figlio mio, l’amato», appare pienamente inserito nel suo popolo Israele. Senza Israele non c’è la rivelazione del Padre di Gesù Cristo; se stacchiamo Gesù dal suo popolo, suggerisce l’evangelista, non comprendiamo nulla di Lui, perché il Dio, che al battesimo lo consacra «l’amato» con l’investitura dello Spirito Santo, è lo stesso Dio della rivelazione del Sinai a «tutto il popolo», col quale ha stipulato l’alleanza (cf. Es 24,3; 34,10).

     Giovanni si premura di togliere ogni dubbio sulla sua identità e per chiarire la distanza fra sé e il Messia usa il detto popolare, assai efficace, che egli non è degno neppure di «slegare i lacci dei sandali». Un’altra caratteristica rilevante del Vangelo di Luca, rispetto al rac-conto analogo degli altri due sinottici, è il legame fatto fra la rivelazione divina e la preghiera di Gesù.

     «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì…» (Lc 3,21-22). Il Vangelo di Luca mette spesso in rilievo la preghiera di Gesù: «Ma Gesù si ritirava in luoghi deserti e pregava» (Lc 5,16; cf. Mc 1,35; Lc 6,12; 9,18; 11,2); «in preda all’angoscia Gesù pregava più intensamente» (Lc 22,44); egli si affida al padre appena prima di esalare l’ultimo respiro (Lc 23,46).

     Prima della trasfigurazione, narrazione che si accosta a quella del battesimo, «Gesù salì sul monte a pregare. E mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto…» (Lc 9,29).

     La preghiera crea la situazione adatta alla rivelazione e nello stesso tempo ci presenta Gesù nella sua piena umanità, bisognoso di affidarsi al padre per comprendere quale sia la sua missione e per portarla a compimento con coraggio.

     Il battesimo è il momento della consacrazione di Gesù, attraverso la quale egli diviene Cristo, cioè unto, messia: «Dio unse (chriò) in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò benedicendo e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). Questa consacrazione si presenta come una nuova nascita, resa possibile dalla discesa dello Spirito e dalla manifestazione della paternità divina. Gesù stesso sperimenta una nuova nascita dall’alto per opera dell’acqua e dello Spirito, secondo le parole del vangelo di Giovanni (cf. Gv 3,3-6). Egli inizia al Giordano la strada che indicherà a tutti i discepoli, chiamati ad essere figli di Dio attraverso il dono dello Spirito Santo.

    

Meditazione

     Il racconto di Luca si apre oggi con l’immagine di un popolo ‘in attesa’ (cfr. Lc 3,15). Sembra essere stata questa la missione fondamentale del Battista: suscitare un’attesa e nello stesso tempo distoglierla dalla propria persona per orientarla verso il ‘più forte’ che deve venire (cfr. v. 16). È l’attesa che si compiano le promesse dei profeti, quelle che ci vengono ad esempio ricordate da Isaia nella prima lettura: che Dio consoli il suo popolo e che ogni uomo possa vedere il rivelarsi della sua gloria. Solo chi attende può giungere ad ascoltare la voce che annuncia: «Ecco il vostro Dio!» (cfr. Is 40,9).

     Nello stesso tempo questa attesa deve rimanere disponibile a lasciarsi purificare e convenire dalla parola del Signore. Dio infatti compie le sue promesse e colma le nostre attese in modo sempre sorprendente, a volte persino sconcertante. Giovanni aveva annunziato il venire di uno più forte di lui, che avrebbe battezzato non semplicemente con acqua, ma in Spirito Santo e fuoco. Eppure, la prima immagine che l’evangelista ci offre di Gesù, dopo il vangelo dell’infanzia, ce lo mostra nel momento in cui ha ricevuto, come tutti gli altri, il battesimo d’acqua da Giovanni. Il più forte è in mezzo al suo popolo, confuso tra i peccatori, insieme ai quali si è sottoposto al medesimo rito di penitenza e di purificazione. Chi può battezzare in Spirito Santo e fuoco non si sottrae al battesimo d’acqua di Giovanni. Ma è proprio mentre è in mezzo al suo popolo, disposto a scendere radicalmente nella fraternità dei peccatori, che Gesù vede il cielo aprirsi, accoglie lo Spirito che scende su di lui, ascolta la voce del Padre che lo conferma nella sua singolare identità:  «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v. 22).

     Tutto in questa scena è in discesa. Gesù discende dal nord della Galilea verso il sud, dove Giovanni battezza. Discende nella depressione del Giordano, che scorre circa 400 metri sotto il livello del mare, probabilmente il punto più basso della terra che un uomo possa raggiungere camminando sulle sue gambe. Una volta giunto al Giordano discende nelle sue acque e soprattutto si immerge nella fraternità dei peccatori. Ed è in questo cammino di umiltà e di discesa che può vedere il cielo aprirsi e ascoltare la voce del Padre. Nella scena seguente, che racconta la prova nel deserto, il diavolo farà compiere a Gesù il cammino opposto: dapprima lo condurrà «in alto» (cfr. Lc 4,5), poi a Gerusalemme lo porrà «sul punto più alto del tempio» (cfr. Lc 4,9), ma in questa altezza, anziché ascoltare la voce di Dio, si rischia di ascoltare soltanto le suggestioni di Satana. Per ascoltare la voce di Dio occorre invece percorrere un cammino di discesa, nell’umiltà e nell’obbedienza. Più volte Gesù ripeterà nei vangeli che chi si umilia sarà esaltato, e chi si innalza sarà umiliato. Sarebbe riduttivo intendere queste espressioni solamente a un livello morale, o peggio moralistico. Evocano piuttosto l’autenticità dell’esperienza di Dio, che è sempre un’esperienza pasquale. Quando raggiungi il punto più basso del tuo cammino esistenziale, quando sei gettato a terra o dal tuo stesso peccato, o dalla violenza che puoi subire da altri, allora incontri lì il Dio della Pasqua che ti rialza e ti dona una vita nuova. Sarà questa l’esperienza pasquale di Gesù: gettato nella polvere della terra e della morte, disceso nell’oscurità del sepolcro, accoglierà la potenza dell’amore del Padre che lo farà risorgere, innalzandolo nel più alto dei cieli. Nel suo battesimo Gesù anticipa quella che sarà la sua Pasqua. Immergendosi nella fraternità dei peccatori, scendendo con loro, lui l’unico giusto, nell’esperienza del peccato e dell’umiliazione in cui il peccato ci getta, ascolterà il Padre che gli dice: «Tu sei il mio Figlio, l’amato». In questo modo Gesù capovolge la logica perversa di Caino, il figlio primogenito che vuole rimanere solo, e per questo elimina Abele. Al contrario Gesù è il figlio Unigenito che non vuole rimanere solo, ma ci vuole in lui tutti fratelli e figli dello stesso Padre, e per questo dona la sua stessa vita fino alla Croce, nell’attesa di riceverla rigenerata dall’amore di Dio.

     Il cammino pasquale di Gesù è già tutto incluso nelle parole che ascolta presso il Giordano, molto essenziali ma incredibilmente ricche di contenuto. Almeno tre testi del Primo Testamento vi risuonano. «Tu sei mio figlio» evoca il Salmo 2: «Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio”» (v. 7). «L’amato» riprende, nel testo greco, lo stesso termine che nel Primo Testamento risuona solo in Genesi 22 a proposito di Isacco, che viene definito il figlio ‘amato’ di Abramo (cfr. Gen 22,2). «In te ho posto il mio compiacimento» cita le espressioni iniziali del primo canto del servo sofferente del Signore che leggiamo in Isaia 42: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui» (v. 1). Tutta l’identità di Gesù è qui delineata, l’intero suo cammino storico e pasquale già trat-teggiato. Gesù è il Figlio unigenito che dovrà vivere la sua identità filiale facendosi servo nella forma di Isacco. Lui è il vero Isacco di Dio, il figlio che non viene chiesto ad Abramo, ma che Dio stesso offre per la salvezza di tutti. È lui il vero capretto donato da Dio, l’Agnello di Dio offerto in sacrificio perché ogni uomo possa vedere la salvezza del Signore.

     «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», promette Giovanni. Ci farà condividere, cioè, la sua stessa esperienza pasquale, rendendoci partecipi della sua morte per condividere con noi la potenza della sua risurrezione e la novità della sua vita. «L’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo», come Paolo definisce il battesimo nella lettera a Tito (3,5), ci consente di ascoltare insieme a Gesù le parole del Padre come rivolte personalmente a ciascuno di noi. Anche a noi Dio dona il suo Spirito, che è lo Spirito del Figlio, e ci conferma il suo amore di predilezione e il suo compiacimento. La condizione per ascoltare questa parola di Dio rimane anche per noi la disponibilità a vivere, come Gesù, un cammino di discesa, di umiltà, di obbedienza. Solo così la nostra attesa sarà colmata, e potremo riconoscere, come sempre Paolo scrive a Tito, che «egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia» (3,5).

Preghiere e racconti

Battesimo di Cristo come metafora

«Un tentativo di rendermi conto dell’amore di Dio è stato per me la meditazione sul battesimo di Gesù (Lc 3,21s.). Gesù si cala nel Giordano, nell’acqua che è carica della colpa dei molti che si sono fatti battezzare nel fiume da Giovanni. Mentre entra in acqua, il cielo si apre sopra di lui. E Dio gli dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Nella meditazione ho sperimentato la realtà di questo amore quando ho sovrapposto consapevolmente la frase «Tu se il mio figlio prediletto» alla paura, all’oscurità, al fallimento, alla mediocrità, alla menzogna esistenziale in me. Ho tentato di calarmi nell’acqua del mio inconscio, nel regno delle tenebre in cui ho rimosso tutto quanto fugge alla luce del sole, ciò che non mi va di guardare alla luce del giorno. Per me è una bella immagine del battesimo di Gesù il fatto che il cielo sopra di lui si sia aperto proprio quando egli si è calato nelle profondità del Giordano. Il cielo vuole aprirsi anche sugli abissi della mia anima. Ma devo avere il coraggio di calarmi in tali abissi, per percepire là in fondo, con un suono nuovo, le parole: «Tu sei il mio figlio prediletto»; «Tu sei la mia figlia prediletta». Solo quando ho sovrapposto alla mia esistenza concreta la frase secondo cui sono il figlio prediletto, essa mi ha toccato nell’intimo, donandomi la pace interiore. Ogni parlare che si fa dell’amore di Dio ci lascia indifferenti se non giunge alle esperienze della nostra vita quotidiana.

Gesù si cala nei flutti della colpa, nell’inconscio, nella pulsionalità, negli elementi della terra, come lo rappresentano sempre le icone. Calandosi in essi, prega tanto intensamente che il cielo si apre sopra di lui, che quanto è essenziale prorompe e la luce di Dio risplende sopra di lui. È un profondo desiderio anche mio quello di saper pregare in modo tale che il cielo si apra sopra di me, che l’amore di Dio rifulga nelle profondo del mio inconscio, negli abissi della mia colpa. E anelo a saper pregare anche per gli altri, in modo tale che il cielo si apra sopra di loro. Pregare significa aprire il cielo sopra le persone, in modo che sia loro consentito di sentire il rapporto con Dio come la loro unica salvezza.

Gesù sente dal cielo aperto la voce di Dio che è rivolta a lui: «Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Questo è anche il mio anelito più profondo, l’essere il figlio prediletto di Dio, non essere rispettato, ammirato e amato solo dagli esseri umani, bensì da Dio, la causa prima di ogni esistenza, il creatore del mondo».

(A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 20-23).

La parola è “Amato”

[…] Come cristiano, ho scoperto per la prima volta questa parola nella storia del battesimo di Gesù di Nazareth.

«Non appena Gesù uscì dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E sentì una voce dal cielo: “Tu sei mio Figlio, l’Amato, in te mi sono compiaciuto”». […] Sì, è quella voce, la voce che parla dall’alto e da dentro i nostri cuori, che sussurra dolcemente o dichiara con forza: “Tu sei il mio Amato, in te mi sono compiaciuto”. Non è certamente facile ascoltare quella voce in un mondo pieno di altre voci che gridano: “Tu non sei buono, sei brutto; sei indegno; sei da disprezzare, non sei nessuno – e non puoi dimostrare il contrario.”.

Queste voci negative sono così forti e così insistenti che è facile credere loro. Questa è la grande trappola. È la trappola del rifiuto di noi stessi.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 23-24).

La lotta spirituale come esigenza battesimale

La lotta spirituale è organica alla vita cristiana tout-court: essa riguarda tutti i cristiani, non certo solo i monaci o altre “categorie” di iniziati… La necessità di tale lotta discende dal battesimo, è inerente la vita cristiana in quanto tale, e questo secondo tutto il NT e la tradizione cristiana. Il NT definisce «bella» questa lotta (1 Timoteo 1,18; 6,12; 2 Timoteo 4,7), cioè positiva, di altro ordine rispetto alle guerre e contese mondane, ma altrettanto dura ed esigente. È la «lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), insita cioè nell’adesione a Cristo e nella sua sequela, e riguarda ogni cristiano: essa infatti è connessa al battesimo, che sigilla la conversione, la rottura con il paganesimo e immette in una nuova vita.

Per Paolo, il rivestirsi di Cristo nel battesimo comporta l’impegno di rivestirsi di un abito di vita rigenerata per entrare nella gloria di Dio, e poiché ciò non è realizzabile senza una continua tensione morale che si può paragonare ad una lotta o ad un combattimento, con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, ad indossare cioè quelle che Paolo chiama «armi della giustizia» (Romani 6,13-14) e «armi della luce» (Romani 13,12).

Si tratta delle armi della fede, della preghiera, dell’ascolto della Parola di Dio, della docilità all’azione dello Spirito, che consentono al credente di veder agire in sé la forza di Dio stesso. Come Gesù, appena battezzato, ha affrontato l’assalto di Satana e ha combattuto le tentazioni (cfr. Matteo 4,1-11; Luca 4,1-13; Marco 1,12-13), così il cristiano dovrà attendersi, dopo il suo battesimo, una dura lotta contro l’Avversario.

Chiamato a entrare per la porta stretta (Luca 13,24), posto di fronte all’impossibilità di servire due padroni (Luca 16,13), il battezzato, cosciente dell’urgenza dell’ora escatologica instaurata dal Signore Gesù, deve attuare una scelta di campo mettendosi a servizio di Dio e non del peccato (Romani 6,12-14). Il NT definisce il cristiano «soldato di Gesù Cristo» (2 Timoteo 2,3) e afferma che deve sforzarsi di «piacere a chi l’ha arruolato» (2 Timoteo 2,4). Questa lotta assicura l’incessante dinamismo della vita cristiana ed è diretta contro «il peccato che ci assedia» (Ebrei 12,1), contro «il Maligno» (Efesini 6,16), contro quelle potenze indicate con nomi differenti (Efesini 6,12), ma che designano cumulativamente quelle forze negative, presenti nell’uomo e fuori di lui, che tendono a far ricadere il cristiano nella situazione pre-battesimale. È dunque una lotta che si combatte con armi spirituali: vigilanza e perseveranza (Efesini 6,18; Ebrei 12,1), sobrietà (1 Tessalonicesi 5,6.8), temperanza (I Corinzi 9,25), rinuncia e dominio di sé (1 Corinzi 9,27), capacità di soffrire per il Signore (Filippesi 1,29-30; Ebrei 10,32-33), pazienza ed esercizio alla pietà (1 Timoteo 4,8), e soprattutto preghiera (Efesini 6,18-20; cfr. Sapienza 18,21). Il messaggio neotestamentario è dunque esplicito sul carattere battesimale di questa lotta: vi è un rigoroso aut-aut che accompagna il cristiano nella sua vita e che gli contesta qualsiasi compromesso con la mondanità e con il peccato. È la vita cristiana stessa che è una battaglia, una lotta: essa esige lotta contro le tentazioni, ascesi della mente e del corpo per acquisire il necessario dominio di sé, la vigilanza costante sulle relazioni con sé e con gli altri, la disciplina del tempo e degli impegni, la purificazione delle relazioni. Contro che cosa si combatte? Possiamo riprendere le parole di Ilario di Poitiers che, scritte nel corso di quel IV secolo che ha visto il progressivo passaggio del cristianesimo dalla condizione di religione dei martiri a religione ufficiale, di Stato, si adattano molto bene alla nostra attualità:

«Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci da la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro» (Ilario di Poitiers , Liber contra Constantium, 5).

(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI /PIEMONTE-VALLE D’AOSTA, Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 139-140.

Il battesimo di Gesù

I nuovi tempi sono già iniziati,

i tempi nuovi che il mondo attendeva

fin dall’origine, gli ultimi tempi:

e fu la voce dal cielo a bandirli.

«Questi è il mio Figlio, l’amato da sempre,

nel quale ho posto la mia compiacenza»:

così è spuntata l’aurora del mondo

e fu l’inizio di nuova creazione. 

Ma tu sei venuto a battezzarci

in Spirito santo e fuoco:

non vale l’acqua soltanto

ma l’acqua e il sangue

che sgorga dal tuo costato, Signore:

così sia il nostro battesimo

affinché i cieli si aprano anche su di noi.

Amen. 

E cielo e fiume insieme si aprirono:

è il nuovo esodo e il patto per sempre!

Come colomba lo Spirito scese

e fu la quiete seguita al silenzio.

David Maria Turoldo       

Preghiera

Ancora e sempre sul monte di luce                                    

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti. 

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

 

* Per l’elaborazione della presente «lectio», oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO:

NATALE BATTESIMO DEL SIGNORE ANNO C

 

Benedetto XVI: “combattere lo spread del benessere sociale”

L’odierna crisi economica e finanziaria “si è sviluppata perché troppo spesso è stato assolutizzato il profitto, a scapito del lavoro, e ci si è avventurati senza freni sulle strade dell’economia finanziaria, piuttosto che di quella reale”.

Lo ha affermato oggi Benedetto XVI nel suo discorso al Corpo Diplomatico (159 ambasciatori accreditati).

“Occorre dunque recuperare – ha aggiunto – il senso del lavoro e di un profitto ad esso proporzionato”. 

Nell’attuale situazione di crisi economica, in Europa “da soli alcuni Paesi andranno forse più veloci, ma, insieme, tutti andranno certamente più lontano!”, ha aggiunto il Papa, appellandosi ai Paesi a economia forte perché non lascino quelli deboli al loro destino. Occorre “educare a resistere alle tentazioni degli interessi particolari e a breve termine, per orientarsi piuttosto in direzione del bene comune”, ha detto il Papa. Inoltre, “è urgente formare i leaders, che, in futuro, guideranno le istituzioni pubbliche nazionali ed internazionali”. “Anche l’Unione Europea – ha poi avvertito il Pontefice – ha bisogno di Rappresentanti lungimiranti e qualificati, per compiere le scelte difficili che sono necessarie per risanare la sua economia e porre basi solide per il suo sviluppo”. “Da soli alcuni Paesi andranno forse più veloci – ha aggiunto -, ma, insieme, tutti andranno certamente più lontano!”. 

Se nell’attuale crisi economica si combatte lo “spread” finanziario, bisogna combattere anche quello “del benessere sociale”, e porre freno alle “crescenti differenze fra pochi, sempre più ricchi, e molti, irrimediabilmente più poveri”. Lo ha affermato Benedetto XVI.  “Se preoccupa l’indice differenziale tra i tassi finanziari – ha detto il Papa in un passo del suo discorso di inizio d’anno -, dovrebbero destare sgomento le crescenti differenze fra pochi, sempre più ricchi, e molti, irrimediabilmente più poveri. Si tratta, insomma, di non rassegnarsi allo ‘spread del benessere sociale’, mentre si combatte quello della finanza”. 

“Rinnovo il mio appello affinché le armi siano deposte e quanto prima prevalga un dialogo costruttivo per porre fine a un conflitto che, se perdura, non vedrà vincitori, ma solo sconfitti, lasciando dietro di sè soltanto una distesa di rovine”. Lo ha detto il Papa al Corpo Diplomatico sulla situazione in Siria, “dilaniata da continui massacri e teatro d’immani sofferenze fra la popolazione civile”, Benedetto XVI ha anche chiesto agli ambasciatori di “continuare a sensibilizzare le vostre Autorità, affinché siano forniti con urgenza gli aiuti
indispensabili per far fronte alla grave situazione umanitaria”. 

PALESTINA E ISRAELE: DUE STATI SOVRANI
“In seguito al riconoscimento della Palestina quale Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite, rinnovo l’auspicio che, con il sostegno della comunità internazionale, israeliani i palestinesi s’impegnino per una pacifica convivenza nell’ambito di due Stati sovrani, dove il rispetto della giustizia e delle legittime aspirazioni dei due Popoli sia tutelato e garantito”. È quanto ha affermato Benedetto XVI, nel suo discorso al Corpo Diplomatico, sulla situazione inTerra Santa. “Gerusalemme, diventa ciò che il Tuo nome significa! Città della pace e non della divisione; profezia del Regno di Dio e non messaggio d’instabilità e di contrapposizione!”, ha aggiunto il Papa.

NON ALTERARE EQUILIBRIO TRA MADRE E FIGLIO
“La Chiesa Cattolica non intende mancare di comprensione e di benevolenza, anche verso la madre. Si

tratta, piuttosto, di vigilare affinchè la legge non giunga ad alterare ingiustamente l’equilibrio fra l’eguale diritto alla vita della madre e del figlio non nato”. Tiene a precisarlo Benedetto XVI che torna a ribadire nel discorso d’inizio anno al Corpo Diplomatico – pur con linguaggio assai pacato – che “l’aborto diretto, cioè voluto come un fine o come un mezzo, è gravemente contrario alla legge morale”. Secondo il Pontefice “per essere autentica, la difesa dei diritti deve, al contrario, considerare l’uomo nella sua integralità personale e comunitaria”. 

“Purtroppo, soprattutto nell’Occidente, vi sono – denuncia il Papa tedesco – numerosi equivoci sul significato dei diritti umani e dei doveri ad essi correlati. Non di rado i diritti sono confusi con esacerbate manifestazioni di autonomia della persona, che diventa autoreferenziale, non più aperta all’incontro con Dio e con gli altri, ma ripiegata su se stessa nel tentativo di soddisfare i propri bisogni”.

“In questo campo – rileva Benedetto XVI – la recente decisione della Corte Interamericana dei Diritti Umani relativa alla fecondazione in vitro, che ridefinisce arbitrariamente il momento del concepimento e indebolisce la difesa della vita prenatale, è ugualmente fonte di preoccupazione. Allo stesso tempo, constato con tristezza che, in diversi Paesi, anche di tradizione cristiana, si è lavorato per introdurre o ampliare
legislazioni che depenalizzano o liberalizzano l’aborto”. 

Benedetto XVI confida agli ambasciatori di essersi “rallegrato” per il fatto che “una Risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, nel gennaio dello scorso anno, abbia chiesto la proibizione dell’eutanasia, intesa come uccisione volontaria, per atto o omissione, di un essere umano in condizioni di dipendenza”.

“Sempre di nuovo – continua il Papa teologo – la costruzione della pace passa per la tutela dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali”. “Tale impegno, seppure con modalità e intensità diverse, interpella – scandisce – tutti i Paesi e deve costantemente essere ispirato dalla dignità trascendente della persona umana e dai principi iscritti nella sua natura”. “Fra questi – conclude – figura in primo piano il rispetto della vita umana, in ogni sua fase”.

RISPETTARE IL DIRITTO ALL’OBIEZIONI DI COSCIENZA
“Per salvaguardare effettivamente l’esercizio della libertà religiosa è essenziale rispettare il diritto all’obiezione di coscienza”. Secondo il Papa, “questa frontiera della libertà tocca dei principi di grande importanza, di carattere etico e religioso, radicati nella dignità stessa della persona umana. Essi sono come i muri portanti di ogni società che voglia essere veramente libera e democratica”. “Pertanto – condanna Ratzinger – vietare l’obiezione di coscienza individuale ed istituzionale, in nome della libertà e del pluralismo, paradossalmente aprirebbe invece le porte proprio all’intolleranza e al livellamento forzato”. 

TRISTEZZA PER I CRISTIANI UCCISI IN NIGERIA
“Ho provato una grande tristezza nell’apprendere che, perfino nel giorno in cui noi celebriamo il Natale, dei cristiani sono stati uccisi barbaramente”. Benedetto XVI ha sottolineato che “la Nigeria è teatro di attentati terroristici che mietono vittime, soprattutto tra i fedeli cristiani riuniti in preghiera, quasi che l’odio volesse trasformare dei templi di preghiera e di pace in altrettanti centri di paura e di divisione”.

LO SPIRITO DI TENACIA ANIMI L’ITALIA
 “Auspico che, in questo momento della sua storia, tale spirito di tenacia e di impegno condiviso animi tutta la diletta Nazione italiana”, ha detto il Papa ricordando la sua visita alla zone terremotate dell’Emilia.

EPIFANIA DEL SIGNORE

Prima lettura: Isaia 60,1-6

 

 Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio. Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te, verrà a te la ricchezza delle genti. Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Màdian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore.

 

v Per la solennità dell’Epifania la liturgia sceglie un inno dalla terza parte del libro di Isaia. Quest’inno risale alla fine del VI secolo a. C. Esso si rivolge alla città di Gerusalemme, che viene personificata. La pericope liturgica contiene e presenta solo l’inizio (vv. 1-6) dell’inno.

     «Rivestiti di luce» (v. 1). Tutta la lettura è posta sotto il segno della luce. Nel primo versetto si ripetono le espressioni «luce» e «brilla»; nel secondo troviamo la coppia di concetti opposti alla luce, «nebbia» e «tenebre»; nel terzo appaiono tre termini relativi alla luce; nel quarto sono messi in risalto gli occhi, fatti per percepire la luce; nel quinto, Gerusalemme è presentata come città raggiante, piena di raggi e di luce. Oltre a tutto questo, Gerusalemme è salutata come città-madre (in greco si direbbe «metropolis»), madre di figli e figlie (v. 4).

— «Si riverserà su di te» (v. 5). Ecco un’altra immagine tematizzata nell’inizio dell’inno: l’affluire, l’invasione di re, nazioni, figli, figlie, popoli, cammelli… Si riversano a Gerusalemme come il mare; portano ricchezze, oro, incenso ed annunziano le lodi del Signore (v. 5-6).

— «La gloria del Signore» (vv. 1 e 2). La luce, deriva da questa gloria del Signore, e la lode di essa è sulla bocca di tutta l’immensa moltitudine, che con i suoi doni affluisce a Gerusalemme per rendere omaggio.

— «I tuoi figli vengono da lontano» (v. 4). In questa imponente processione anche i figli di Gerusalemme fanno ritorno alla loro madre. Erano stati prigionieri, ma adesso vengono ricondotti a casa in corteo trionfale.

— Queste immagini meravigliose chiariscono il Vangelo odierno; i Magi che vengono dall’oriente con i loro doni in omaggio (oro, incenso e mirra) annunziano la lieta novella della nascita del Messia a Gerusalemme.

— L’inno presenta in forma nuova un antico tema profetico: il pellegrinaggio dei popoli verso Gerusalemme (Is 2,1-5; Mi 4,1-5), dove essi si radunano intorno al Signore, che rende loro giustizia e dona la pace.

 

Seconda lettura: Efesini 3,2-3a.5-6 

 Fratelli, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero. Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo.

 

La lettura riproduce, in forma abbreviata, un passo al centro del quale l’Autore della lettera agli Efesini pone il concetto di «mistero» (che ricorre tre volte). Questo «mistero» sta ad indicare il piano nascosto ed i pensieri di Dio che sono inaccessibili all’uomo. Già a livello del rapporto tra uomini e uomini, i pensieri degli uni sono nascosti agli altri. A maggior ragione i piani di Dio sono impenetrabili per noi.

     Il piano nascosto di Dio. Egli lo rivela ai santi apostoli e ai profeti (tra cui si trova particolarmente Paolo, vv. 1-2 e 5).

— Contenuto centrale di questo piano salvifico è il Cristo (v. 4), per mezzo del quale tutti gli esseri umani, tanto i pagani quanto i Giudei, ottengono le promesse e l’eredità di Dio (v. 6). Il messia (cioè il Cristo) nel piano di Dio dev’essere non solo il re del popolo ebraico ma dovrà raccogliere per la salvezza tutti quanti gli uomini.

— Questa intelligenza delle sue decisioni. Dio l’ha resa manifesta per mezzo dello Spirito Santo e l’ha annunziata nel Vangelo. 

Vangelo: Matteo 2,1-12

 

 Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

 Esegesi 

     Siamo nel quadro del Vangelo dell’infanzia narrato da Matteo (capitoli 1-2). L’annuncio di Cristo si svolge secondo due precise prospettive: da una parte, mostrare che già nei primi giorni di vita di Gesù si stanno compiendo le profezie dell’Antico Testamento, il che dimostra, specialmente ai cristiani di origine giudaica che l’avvento di Cristo compie le scritture e quindi s’inserisce profondamente nel piano di Dio; dall’altra parte, l’Evangelista ci tiene ad anticipare sin da ora l’origine e la dignità divina di Cristo, pur nelle umili condizioni di un bambino.

     In questo modo i fatti dell’infanzia costituiscono un abbozzo mirabile di teologia della storia della salvezza e di cristologia.

—    «Alcuni Magi… da oriente» (v. 1).

Il termine greco magoi sta propriamente a designare gli esponenti di una classe di gente colta esistente fra i Persiani. Qui esso va letto sullo sfondo della concezione universalistica della salvezza, presente già nell’Antico Testamento (vedi I Lettura) e rievocata da Matteo: in Gesù, Dio chiama tutti alla rivelazione della sua gloria, grandi e piccoli, ricchi e poveri, colti ed ignoranti…

— «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? » (v. 2).

La domanda evidenzia la dignità messianica del Bambino. Questa dignità è confermata dal riferimento alla stella («Abbiamo visto spuntare la sua stella») che va collegata con la profezia contenuta in Nm 24,17 (Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele»).

Siamo venuti per adorarlo (v. 2).        

Il verbo «adorare» (in greco proskynéo) è ripetuto tre volte, nella lettura di oggi. Insieme ai doni offerti in omaggio (oro, incenso, mirra) sottolinea il superamento di una prospettiva puramente messianica, in quanto si riferisce alla dimensione divina e pasquale della persona di Gesù.

     In realtà, Matteo usa ripetutamente il verbo proskynéo, che esprime l’atteggiamento della comunità cristiana in preghiera e adorazione davanti al suo Signore risuscitato.

— «Il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme» (v. 3).

Davanti al Cristo si delinea il dramma della divisione degli spiriti e dell’ostilità dei cuori. Da una parte, la ricerca dei Magi, cioè dei popoli pagani, che approda all’incontro con Gesù coronato da gioia grandissima (v. 10) e dall’adorazione. Dall’altra, il turbamento di Erode e di tutta la capitale del popolo ebraico, e la ricerca attenta attraverso i testi delle Scritture (vv. 5-6) che approdano al progetto di sopprimere il bambino. Sin da ora il Cristo è posto come «segno di contraddizione». L’umanità è chiamata ad operare scelte decisive davanti a Lui.

 

Meditazione

 

     Il Figlio di Dio nasce nella notte, nel nascondimento di Betlemme, «l’ultima delle città principali di Giuda» (Mt 2,6), e secondo il racconto di Luca, che abbiamo ascoltato durante la Messa nella notte di Natale, la notizia della sua nascita non raggiunge inizialmente che pochi pastori, nei quali l’evangelista legge il simbolo dei poveri, dei piccoli, degli umili, capaci di riconoscere e accogliere la rivelazione di Dio. L’evangelo di Matteo, che ascoltiamo oggi nella solennità dell’Epifania, narra invece la sua manifestazione ai Magi, altro simbolo eloquente: nel loro cammino l’evangelista riconosce il compiersi del pellegrinaggio di tutte le genti verso Gerusalemme, così come era stato annunciato dai profeti. «Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio» (Is 60,3-5). È prezioso mantenere unite tanto la sottolineatura di Luca quanto quella di Matteo: la manifestazione (epifania) del Signore è per tutti i popoli, poiché – ci ricorda l’apostolo Paolo nella seconda lettura – «le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo» (Ef 3,6); nello stesso tempo, per riconoscere questa sua manifestazione, occorre avere il cuore dei poveri e degli umili. Come i pastori, ma anche come i Magi, i quali, se pure vengono presentati come dei sapienti o dei re, custodiscono comunque il cuore povero di chi sa mettersi in ricerca uscendo dalle proprie convinzioni e pregiudizi; il cuore umile di chi sa adorare, senza sottomettersi alla potenza di Erode, ma piegando le proprie ginocchia e offrendo i propri doni alla piccolezza e alla debolezza di un bambino, finalmente trovato insieme a sua madre.

     I Magi vengono da Oriente, che nella storia di Israele ha rappresentato spesso il luogo di provenienza di invasioni, distruzioni, oppressioni. Oriente era stato anche il luogo dell’esilio. «Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa», profetizza Isaia (v. 6), capovolgendo in promessa di gioia quella che più volte era stata una minaccia di morte. Ora cammelli e dromedari invadono Gerusalemme, ma per portarvi oro e incenso e proclamare le glorie del Signore (cfr. Is 60,6). Da Oriente era partito anche Abramo, per giungere nella terra che Dio gli aveva promesso, confidando nel dono di una eredità attraverso la quale sarebbero state benedette tutte le nazioni della terra. Anche i Magi, come Abramo, hanno saputo uscire dalla loro terra, affidandosi a dei segni, a una parola misteriosa che è risuonata nel loro cuore e ora, nel bambino che adorano, figlio di Davide e figlio di Abramo (cfr. Mt 1,1) possono riconoscere il compiersi della promessa antica: finalmente la benedizione di Dio raggiunge tutti i popoli.

     Abramo era partito poiché aveva creduto; anche i Magi sono mossi da una fede come quella di Abramo, che li porta a cercare non una terra o un figlio, ma il re dei Giudei che è nato (cfr. v. 2). Hanno creduto nella stella che hanno saputo scorgere nel cielo notturno. Non era stata forse questa la promessa ad Abramo? «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza» (Gen 15,5). Abramo era stato invitato da Dio ad alzare lo sguardo verso l’alto. Verso il cielo. All’inizio del suo cammino, Dio lo aveva sollecitato a camminare, e dunque a guardare verso una terra che egli stesso gli avrebbe indicato; ora Abramo deve guardare verso il cielo. Potrà contemplare la terra della promessa di Dio solo a condizione di alzare lo sguardo verso l’alto. E ha dovuto farlo di notte, abbandonando la sicurezza della propria tenda per arrischiarsi all’aperto. La notte è spazio di pericolo, in cui la vita può essere minacciata da molti nemici; o è tempo di smarrimento, che non consente di intravedere la via da intraprendere, di saggiare con chiarezza dove porre i propri passi. Eppure, soltanto accettando di uscire nella notte si può anche contemplare il cielo stellato che la sovrasta. Solo così e solo allora si vede «spuntare la sua stella» (Mt 2,2).

     I Magi, inoltre, hanno scorto questa stella non solo in un cielo notturno, ma anche nelle Scritture sante. Sanno infatti che non è una stella qualsiasi quella che contemplano, ma è la stella del re dei Giudei. Lo aveva profetizzato Balaam, figlio di Beor.

 

Io lo vedo, ma non ora,

io lo contemplo, ma non da vicino:

una stella spunta da Giacobbe

e uno scettro sorge da Israele (Nm 24,17).

 

Sono necessarie entrambe le luci per illuminare la notte di una ricerca: quella della stella e quella delle Scritture, che i Magi tornano ad ascoltare a Gerusalemme, laddove i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, sollecitati da Erode, ricordano quanto si legge nel profeta Michea (cfr. Mt 2,5-6). Entrambe le luci, le stelle e le Scritture: «i Magi hanno scandagliato il cielo, vi hanno scoperto una nuova stella, e sono partiti, come Abramo, senza sapere dove andassero. Hanno dovuto mettere a confronto la loro esperienza astrale con la rivelazione scritta: hanno consultato gli scribi a Gerusalemme e, con loro, hanno scrutato le Scritture. Se noi stiamo attenti soltanto alla Scrittura letterale, possiamo esserne i depositari, i custodi, ma essa rischia di diventare per noi un testo morto e persino una lettera che uccide, se trascuriamo d’essere sensibili come i Magi ai segni dei tempi, agli imprevisti della storia» (P. Miquel).

     Infine è necessario un cuore che sappia leggere tanto nei segni dei tempi quanto nelle Scritture. Un cuore come quello dei Magi, che provano una grandissima gioia nel vedere la stella (cfr. v. 10), mentre al contrario «il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme» (v. 3). La paura di Erode nasce in fondo dalla preoccupazione di dover difendere qualcosa, anzitutto il proprio potere; mentre la gioia dei Magi nasce dall’aver finalmente incontrato colui al quale portare i propri doni, prostrandosi nell’adorazione. Diversamente da Erode, non hanno nulla da difendere o da trattenere nella voracità di un possesso; hanno tutto da offrire e da donare. È questo loro atteggiamento a consentire di leggere il cielo e le Scritture, e di trovare finalmente colui che anche noi cerchiamo con tutto il nostro de-siderio. Lo cerchiamo per donare a lui la nostra vita, corrispondendo all’amore non misurabile con cui egli si consegna a noi. «Egli libererà il misero che invoca e il povero che non trova aiuto. Abbia pietà del debole e del misero e salvi la vita dei miseri» (Sal 72,12-13).

 

Preghiere e racconti

Una pasqua annunciata

 

«Alza gli occhi intorno e guarda; tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano» (Is 60,4). 

«Al vedere la stella essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il Bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese». (Mt 2, 10-12).

 

Un proverbio, preso dai miei ricordi d’infanzia, suona: «la Pasqua-Epifania tutte le feste si porta via». Ciò che allora mi sembrava incomprensibile, era lo strano accoppiamento dell’Epifania con la Pasqua.

Il Gesù bambino adorato dai magi che già richiama il Gesù crocifisso e risorto. Il Figlio di Maria e Giuseppe ancora infante, cioè senza parola, che come in una rapida dissolvenza cinematografica, cede il posto al Cristo Signore, alfa e omega della storia, Parola unica ed ultima dell’amore universale del Padre.

Poi, col passare degli anni, ne ho capito il motivo e so che non potrebbe essere diversamente. L’Epifania del Dio-bambino ai magi, cioè il suo manifestarsi ai lontani e ai pagani, è già un primo squarcio di luce che lacera il velo del tempio che separava e nascondeva il «Santo dei santi». La lacerazione di quel velo sarà totale e definitiva nell’evento pasquale, quando l’urto dell’onda luminosa del Risorto romperà le anguste barriere di separazione tra cielo e terra, tra vita e morte, tra uomo e uomo. Così l’Epifania del Natale è il primo bagliore di una Pasqua ormai annunciata. E la Pasqua è l’annuncio della totale epifania di Dio finalmente realizzata. 

Cercare Dio

Oggi è la festa degli infaticabili cercatori di Dio, degli inarrestabili pellegrini dell’Assoluto, incamminati verso cieli nuovi e terra nuova: «I tuoi figli vengono da lontano» (Is 60, 4).

A qualunque popolo, razza, religione e cultura appartengano, tutti lo possono trovare perché Egli, che è la meta, si è fatto anche strada. Visto il collegamento tra Epifania e Pasqua, non sarebbe male commentare quella preghiera che si pronuncia nella liturgia del venerdì santo per coloro che, pur non credendo in Dio, vivono con bontà e rettitudine di cuore. È splendida: «Dio, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace: fa’ che, al di là di ogni ostacolo, tutti riconoscano i segni della tua bontà e, stimolati dalla testimonianza della nostra vita, abbiano la gioia di credere in te, unico vero Dio e padre di tutti gli uomini».

I magi sono il simbolo di tutti coloro che affrontano un lungo percorso ad ostacoli senza cedere ai tentativi di depistaggio o disorientamento, senza lasciarsi catturare dagli ambigui sorrisi del potere. E il loro viaggio non termina, come ci aspetteremmo, con il raggiungimento del traguardo sognato. «Videro il Bambino con Maria sua Madre» e così, si potrebbe concludere, vissero felici e contenti. No. Dopo aver offerto i loro doni, «per un’altra strada fecero ritorno al loro paese».

Da allora sarà sempre così per chi lo ha trovato e poi vuole rimanere con lui: bisogna saper cambiare strada, per non perderlo; anzi, per non perdersi.

 

Avvicinarsi a Dio

Festa anche dei lontani, degli stranieri, degli esclusi dal sistema. L’apparire della luce di Dio tra le nostre tenebre capovolge i sistemi dei pesi e delle misure da noi stabiliti. Trasforma i meccanismi di esclusione e inclusione da noi codificati. Ci sono «lontani» che diventano «vicini», e «primi» che diventano «ultimi». Ci sono pii e osservanti delle leggi e maestri di morale che escono dal tempio senza essere perdonati; e peccatori, prostitute ed empi samaritani che diventano modelli di santità. Non è l’etichetta che conta. Le vecchie carte d’identità, per lui, sono tutte scadute e vanno rinnovate con… altri criteri.

Se i magi riescono a incontrare e adorare Gesù, è perché Dio, per rivelarsi, «non fa preferenze di persone», non chiede prima la tessera di appartenenza politica o religiosa, non discrimina in base ai titoli di studio o ai diplomi di benemerenza. Non valuta insomma le condizioni di staticità o i piedistalli del passato. Egli va incontro e svela il suo volto a quanti si spingono sulle piste del futuro e aprono i varchi dell’esodo. Si fa trovare nella casa di ogni uomo reso «infante», senza capacità o diritto di parola e di difesa.

Si fa identificare da chi ha già deciso di assomigliarli. E gli si può assomigliare solo lasciando la nostra strada, oltre che la sicurezza della nostra casa, per seguire i suoi sentieri e le sue tracce. 

Leggere i segni di Dio

Festa di chi sa leggere i segni. Una “stella”, guidava i magi nel loro faticoso cammino.

Quanti segni anche per noi, nella natura, negli eventi del tempo, nel cuore dell’uomo, possono diventare frecce direzionali, raggi luminosi che discretamente, nel cuore della notte, orientano i nostri timidi passi verso un paese, sempre incompiuto, dove c’è spazio per ogni uomo: quell’uomo che è lo spazio stesso di Dio.

Soprattutto il Bambino, scoperto e adorato nella povertà di un villaggio da questi curiosi investigatori del mistero, è i1 segno che dobbiamo indagare tra le case e le baracche della terra, se vogliamo rintracciare i preziosi lembi del cielo. È lui il vero cielo, e ne dobbiamo intuire la presenza oltre il velo di ogni persona, dietro le quinte di ogni scena storica. Davanti a Gesù i magi non dicono nulla. Di fronte a lui solo silenzio, ginocchia che si piegano, vita che diventa dono: mirra, oro, incenso. È Gesù crocifisso, risorto, glorificato. Compendio dei misteri dolorosi, gaudiosi e gloriosi della vita umana. Epifania di Dio, pellegrino sulle strade dell’uomo. Epifania dell’uomo, quando si fa pellegrino sulle strade di Dio. Un monito per le nostre comunità affinché, come popolo di «magi pellegrini», non indugino nei palazzi di Erode, nelle accademie dell’immobilismo, nei labirinti delle ricerche a tavolino, ma affrontino la strada della concretezza quotidiana e forzino la marcia verso quell’alto monte dove il Signore, eliminata per sempre la coltre della morte e fatto cadere l’ultimo velo che impedisce la completezza della sua definitiva epifania, ha già preparato il festoso banchetto della vita e della pace per tutti i popoli.

(Don Tonino Bello, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 97-102).

Epifania del Signore

Prostrati, i santi magi adorano il Bambino,

offron doni d’Oriente: oro, incenso e mirra.

 

O simboli profetici di segreta grandezza,

che svelano alle genti una triplice gioia! 

Oro e incenso proclamano il Re e Dio immortale;

la mirra annunzia l’Uomo deposto dalla croce.

 

Betlemme, tu sei grande fra le città di Giuda:

in te è apparso al mondo il Cristo Salvatore. 

Nelle sue mani il Padre pose il giudizio e il regno:

lo attestano concordi le voci dei profeti.

 

Non conosce confini nello spazio e nel tempo

il suo regno d’amore, di giustizia e di pace. 

A te sia lode, o Cristo, nato da Maria Vergine,

al Padre ed allo Spirito nei secoli dei secoli.

 

Amen.

 

(Ufficio delle Letture nella Solennità dell’Epifania). 

I re magi

La notte era senza luna; ma tutta la campagna risplendeva di una luce bianca e uguale come il plenilunio, poiché il Divino era nato; dalla campagna lontana i raggi si diffondevano… Il Bambino Gesù rideva teneramente, tenendo le braccia aperte verso l’alto, come in atto di adorazione; e l’asino e il bue lo riscaldavano col loro fiato, che fumava nell’aria gelida. La Madonna e San Giuseppe di tratto in tratto si scuotevano dalla contemplazione, e si chinavano per baciare il figliolo. Vennero i pastori, dal piano e dal monte, portando i doni e vennero anche i Re Magi. Erano tre: il Re Vecchio, il Re Giovane e il Re Moro. Come giunse la lieta novella della natività di Gesù si adunarono. E uno disse:- È nato un altro Re. Vogliamo andare a visitarlo ?- Andiamo- risposero gli altri due.- Ma con quali doni?- Con oro, incenso e mirra. Nel viaggio i Re Magi discutevano animatamente, perché non potevano ancora stabilire chi, per primo, dovesse offrire il dono. Primo voleva essere chi portava l’oro. E diceva:- L’oro è più prezioso dell’incenso e della mirra; dunque io debbo essere il primo donatore. Gli altri due alla fine cedettero. Quando entrarono nella capanna, il primo a farsi innanzi fu dunque il Re con l’oro. Si inginocchiò ai piedi del bambino; e accanto a lui si inginocchiarono i due con l’incensi e la mirra. Gesù mise la sua piccoletta mano sul capo del Re che gli offerse l’oro, quasi volesse abbassarne la superbia. Rifiutò l’oro; soltanto prese l’incenso e la mirra, dicendo: L’oro non è per me!

(Gabriele D’Annunzio)

 

La stella più luminosa

Una stella brillò in cielo oltre ogni stella in quella notte; la sua luce fu oltre ogni parola e la sua novità destò stupore. Tutte le altre stelle insieme col sole e con la luna, formarono un coro attorno a quella stella che tutte sovrastava in splendore.

(S. Ignazio di Antiochia)  

La solennità dell’Epifania

Cari fratelli e sorelle!

Celebriamo oggi la solennità dell’Epifania, la “Manifestazione” del Signore. Il Vangelo racconta come Gesù venne al mondo in grande umiltà e nascondimento. San Matteo, tuttavia, riferisce l’episodio dei Magi, che giunsero dall’oriente, guidati da una stella, per rendere omaggio al neonato re dei Giudei. Ogni volta che ascoltiamo questo racconto, siamo colpiti dal netto contrasto tra l’atteggiamento dei Magi, da una parte, e quello di Erode e dei Giudei, dall’altra. Dice infatti il Vangelo che, all’udire le parole dei Magi, “il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme” (Mt 2,3). Una reazione che può avere differenti comprensioni: Erode è allarmato, perché vede in colui che i Magi ricercano un concorrente per sé stesso e per i suoi figli. I capi e gli abitanti di Gerusalemme, invece, sembrano più che altro stupefatti, come risvegliati da un certo torpore, e bisognosi di riflettere.

 Isaia, in realtà, aveva preannunciato:

“Un bambino è nato per noi, / ci è stato dato un figlio. / Sulle sue spalle è il potere / e il suo nome sarà: / Consigliere mirabile, / Dio potente, / Padre per sempre, / Principe della pace” (Is 9,5).

Perché dunque Gerusalemme rimane turbata? Pare che l’Evangelista voglia quasi anticipare quella che sarà poi la posizione dei sommi sacerdoti e del sinedrio, ma anche di parte del popolo, nei confronti di Gesù durante la sua vita pubblica. Di certo, risalta il fatto che la conoscenza delle Scritture e delle profezie messianiche non porta tutti ad aprirsi a Lui e alla sua parola. Viene alla mente che, nell’imminenza della passione, Gesù pianse su Gerusalemme, perché non aveva riconosciuto il tempo in cui era stata visitata (cfr Lc 19,44).

Tocchiamo qui uno dei punti cruciali della teologia della storia: il dramma dell’amore fedele di Dio nella persona di Gesù, che “venne fra i suoi, / e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Alla luce di tutta la Bibbia, questo atteggiamento di ostilità, o ambiguità, o superficialità sta a rappresentare quello di ogni uomo e del “mondo”  in senso spirituale , quando si chiude al mistero del vero Dio, il quale ci viene incontro nella disarmante mitezza dell’amore. Gesù, il “re dei Giudei” (cfr Gv 18,37), è il Dio della misericordia e della fedeltà; Egli vuole regnare nell’amore e nella verità e ci chiede di convertirci, di abbandonare le opere malvagie e di percorrere decisamente la via del bene.

“Gerusalemme”, dunque, in questo senso siamo tutti noi! Ci aiuti la Vergine Maria, che ha accolto con fede Gesù, a non chiudere il nostro cuore al suo Vangelo di salvezza. Lasciamoci piuttosto conquistare e trasformare da Lui, l’”Emmanuele”, Dio venuto tra noi per farci dono della sua pace e del suo amore.

(Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 06.01.2009).

 

Preghiera

Verso la grotta di Betlemme, guidati dalla stella cometa apparsa nel lontano cielo, sono diretti i sapienti del tempo per incontrare il Messia atteso dalle genti. Lungo è il cammino che porta a Gesù Bambino, un cammino che i santi Re Magi ricoprono in tempi stretti per non disperdersi in altri pensieri. Giungono, per vie misteriose, alla Grotta del Signore e depongono ai piedi del Salvatore, oro, incenso e mirra, simboli del divino. E’ l’atto di sottomissione della scienza alla fonte della vera ed unica sapienza. Ripartono da quel luogo benedetto carichi di meriti e di propositi di bene, per ritornare ai paesi di origine e narrare in termini nuovi la buona notizia della nascita del Redentore. 

O Gesù, che nella tua manifestazione ai popoli e alla cultura di altra provenienza ti sei fatto fratello a tali sapienti d’Oriente che furono spinti dal profondo desiderio di incontrarti, aiutaci a capire da quale parte è la verità e dove è la luce che guida i nostri passi verso nuove ed autentiche conquiste per l’umanità. Illumina quanti operano nel campo della ricerca e della sperimentazione perché alla scuola dei Re Magi possano anch’essi accostarsi al mistero dell’uomo con grande rispetto e venerazione. Tu che sei l’onnisciente e l’onnipotente fa che questa umanità, pervasa dalla presunzione di volare sempre più in alto per sentirsi grande, possa recuperare il valore dell’umiltà, quello che aiuta a sognare e a costruire il domani ripartendo da Te che sei l’unica e certa verità. Amen

(Padre Antonio Rungi)

* Per l’elaborazione della presente «lectio», oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.