Per un rilancio della scuola in Italia

In vista della prossima legislatura, l’UCIIM (Unione Cattolica degli insegnanti) ha redatto un documento nel quale elenca 10 punti irrinunciabili per un rilancio della scuola in Italia e per un effettivo processo di crescita della società civile.

– Riforma degli organi collegiali nel rispetto dell’autonomia scolastica e della professionalità dei docenti

– Riordino dello stato giuridico dei docenti in vista delle nuove forme di reclutamento, di una efficace azione di aggiornamento e formazione, di una revisione del Contratto nazionale di lavoro e la cooperazione delle associazioni professionali

– Adeguato sviluppo della valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione

– Coerente e puntuale razionalizzazione del dimensionamento scolastico per un efficace presenza nel territorio

– Riduzione della dispersione scolastica

– Dialogo interculturale e apertura agli alunni di cittadinanza non italiana

– Progetto di formazione sull’uso delle nuovo tecnologie

– Attuazione delle indicazioni di “Cittadinanza e Costituzione”

– Accompagnamento dei docenti ai processi di cambiamento nell’organizzazione della scuola

– Redazione di un nuovo testo unico della scuola.

La scaletta dei 10 punti “irrinunciabili” ruotano attorno al valore dell’autonomia scolastica, processo sempre in fieri nell’attuazione del Piano dell’Offerta formativa a servizio della comunità scolastica, impegnata altresì nella costruzione di un curricolo verticale e di una dinamica costituzione di reti tra le diverse scuole.

Si auspica inoltre che a livello nazionale venga istituito il “Consiglio Nazionale della Scuola” (CNS) e a livello regionale il “Consiglio regionale del sistema educativo di istruzione e formazione “ (CoReSEIF)

Convinti che la qualità della scuola si consegue tramite la sempre maggiore competenza pedagogica e di didattica dei docenti la proposta dell’UCIIM privilegia una qualificata ed efficace azione di aggiornamento e formazione per personale docente , secondo una visione sistemica e con i dovuti riconoscimenti e progressione di carriera.

Nello stato giuridico del docente la qualificazione professionale dovrebbe occupare il primo posto e costituire una costante motivazione per una processo di innovazione efficace e produttiva di positivi traguardi.

Un programma per la scuola non può non tener conto delle strategie per l’Europa 2020 che privilegia lo sviluppo dell’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione; migliore utilizzazione delle risorse; centralità del lavoro e dell’occupazione ; ricerca della coesione sociale nel territorio; attivazione dell’agenda del digitale , scommessa per il futuro) e di un’agenda per le nuove competenze professionali in vista di un rinnovato sviluppo economico.

La rivalutazione ed il coinvolgimento delle associazioni professionali, portatrici di competente qualificate, di una ricca storia di esperienze sul campo e di idee innovative , secondo l’UCIIM è quanto mai necessaria per un nuovo cammino di risveglio della scuola, dopo le stanche e pesanti pause di rallentamento di questi ultimi anni.

Se la scuola, nonostante tutti i disagi è andata avanti ed ha conseguito al termine di ogni anno positivi traguardi di successi formativi lo si deve alla professionalità dei docenti e degli operatori scolastici che credono nella valenza sociale e formativa dell’istituzione scolastica e per essa spendono risorse professionali e competenze anche se non sempre riconosciute e apprezzate.

Rimettere la scuola nel circuito dello sviluppo dovrà costituire un impegno di governo che vuole garantire la crescita del Paese, se ciò non avverrà, la china verso il fondo sarà ancor più accelerata e credo che ciò non faccia piacere a nessuno.

(08 Febbraio 2013) © Innovative Media Inc.
 

I DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Deuteronomio 26,4-10

Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».

La bella professione di fede recitata dal singolo israelita, quando si presenta al sacerdote presso l’altare per offrire le primizie dei frutti della terra, rievoca sinteticamente la storia passata, scandita da quattro momenti fondamentali, nei quali si alterna per due volte il momento negativo con quello positivo (vv: 5-9): l) mancanza di una terra propria (neg.); 2) discesa in Egitto e crescita demografica (pos.); 3) oppressione da parte degli egiziani (neg.), liberazione con il conseguente dono della terra promessa (pos.). Così si passa dalla terra non ancora posseduta alla terra ora abitata e coltivata, per dare una motivazione all’offerta dei frutti che da essa si sono ricavati. 

     La tentazione poteva essere ora per Israele quella di dimenticare il Signore, che ha dato la terra e i frutti che essa produce; con l’offerta che se ne fa si riconosce questa dipendenza. «Guardati dunque dal pensare: la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze. Ricordati invece del Signore tuo Dio perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 8,17-18).

Seconda lettura: Romani 10,8-13

Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».

Questo brano è stato scelto perché si parla della «professione di fede» (v. 10) cristiana, in analogia con la professione di fede israelita vista nella Prima lettura. Il contenuto ora cambia, perché essa si impernia sulla risurrezione di Gesù e sulla sua attuale e definitiva signoria, ma la sua struttura fondamentale è simile. Si tratta anche ora di un evento che accade nella storia, che è un’opera compiuta in essa da Dio («Dio lo ha risuscitato dai morti», v. 9; cfr. «il Signore ci fece uscireci condusseci diede», Dt 26,8-9).

     La professione di fede deve essere concepita nel cuore e proclamata con la bocca. Questo concetto viene scandito, ancora una volta, con la citazione di tre passi dell’AT: Dt 30,14, che parla insieme della «bocca» e del «cuore» (v. 8); Is 28,18, che accenna al «credere», che si concepisce nel cuore (v. 11); Gl 3,5, che menziona l’«invocare», che si esprime con la bocca (v. 13). È la totalità della persona che così si manifesta nell’atto di fede.

Vangelo: Luca 4,1-13

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

 

Esegesi 

     La tentazione di Gesù è situata unanimemente dai tre Sinottici subito dopo il battesimo, e tutti e tre mettono questa dimora di Gesù nel deserto in rapporto con il dono dello Spirito Santo, ricevuto da lui immediatamente prima nello stesso battesimo (v. 1). Ma nel modo di parlarne gli evangelisti presentano delle significative differenze. Mc riporta in due soli versetti la notizia del digiuno dei quaranta giorni che costituiscono pure, globalmente, tutto il tempo in cui Gesù è tentato (Mc 1,12- 13). Solo Mt (4,1-11) e Lc (4,1-13) parlano di tre speciali tentazioni che si verificano soltanto alla fine dei quaranta giorni di digiuno, ma rispetto a Mt solo Lc sottolinea che Gesù era tentato anche prima (v. 2), durante i quaranta giorni, come dice pure Mc. Ma la differenza più significativa tra Mt e Lc consiste nell’inversione che Lc presenta tra la seconda e la terza tentazione rispetto a Mt, la cui sequenza sembra la più logica e la più primitiva. Infatti, l’adorazione dell’unico Signore a cui si appella Gesù nel respingere l’offerta dei regni della terra si presta meglio a formare l’apice di tutto il racconto che non il rifiuto di tentare Dio, che Lc pone nella terza tentazione. Con questa inversione Lc conferisce più importanza alla città di Gerusalemme (v. 8), sede dell’ultima tentazione, indicando così in essa il preludio alla suprema tentazione di Gesù nella sua passione. Ma nello stesso tempo, con questa inversione Lc dà più importanza al tema della tentazione stessa, come si vede dalla sua conclusione dell’episodio (v. 13): «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato».

     Al di là di questo episodio, il verbo «tentare» o «mettere alla prova» (peirazo) ricorre ancora in Mt 16,1; 19,3; 22,18.35, ma nel significato più scialbo della tentazione o prova a cui i farisei sottopongono Gesù rivolgendogli delle domande capziose; qui Lc riprende l’espressione soltanto nel primo e nell’ultimo caso (Lc 11,16; 10,25, con un ordine diverso rispetto a Mt). Invece l’importanza di questo tema in Lc la si vede meglio se consideriamo l’uso del sostantivo (peirasmos), che lui ha usato già in 4,13. In parallelo con Mt, il termine ricorre nel Padre nostro (Lc 11,4 = Mt 6,13) e nell’ammonizione di Gesù ai tre discepoli nel Getsemani (Lc 22,46; Mt 26,41; Mc 14,38). Al di là di questi casi in comune con Mt, Lc introduce il termine di sua iniziativa nella spiegazione della parabola del seminatore (Mt 13,21; Mc 4,17: «tribolazione o persecuzione»; Lc 8,13: «nel tempo della tentazione»). Ma l’uso forse più interessante del sostantivo in Lc, lo troviamo in queste parole di Gesù ai discepoli dopo l’istituzione dell’eucaristia nell’ultima cena: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie tentazioni (BC: prove) e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno» (Lc 22,28-30a). In questo detto, tutto il ministero pubblico di Gesù, passato in compagnia dei discepoli, è considerato come un continuo periodo di tentazione, nel quale lui ha avuto il confronto della loro compagnia e della loro condivisione; essa trova il suo culmine nella celebrazione dell’eucaristia, prefigurazione della sua mensa nella pasqua del cielo.

     Ma la suprema tentazione di Gesù doveva aver luogo nel tempo della sua passione. Nel Getsemani, dopo la preghiera rivolta al Padre perché allontanasse da lui il calice della sua dolorosa morte imminente, Gesù dice a quelli che sono venuti ad arrestarlo: «Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre» (Lc 22,53).

     Nell’AT il tema della tentazione affiora nel definire lo stretto rapporto che intercorre tra Dio ed Israele, specialmente nel tempo del deserto. Dio «tenta» o «mette alla prova» (ebr. nissah) Israele, per far emergere quello che c’è nel cuore del suo popolo, come si può vedere da questi passi: «Io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no» (Es 16,4); «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2; cfr. anche il v. 16). Ma questa prova o tentazione continua anche dopo, nella terra promessa: «Tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore (che ti vogliono far rivolgere agli dèi stranieri); perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Dt 13,4).

     Come si vede, si aggiunge sempre, con una proposizione finale, il motivo positivo di questa prolungata tentazione a cui il Signore sottopone il suo popolo, che consiste nel desiderio di appurare la consistenza del suo rapporto con lui. È questo un tipico elemento della parenesi deuteronomica, per cui non ci stupisce che nelle risposte di Gesù a Satana vengano citati tre passi, ripresi tutti dal Deuteronomio. Vale la pena considerarli ora separatamente, inquadrandoli nel loro contesto originario.

     a) In Lc 4,4 si cita Dt 8,3: «Egli (il Signore) dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore». Il tempo del deserto consentiva ad Israele di sperimentare la sua dipendenza da Dio, che provvede il cibo della manna con il comando dato dalla sua bocca. Citato da Gesù, questo detto vuol dire che egli, anche se compirà la moltiplicazione dei pani, attirerà le folle non tanto con il cibo materiale, quanto piuttosto con l’annunzio del regno di Dio e con l’invito alla conversione.

     b) La corrispondenza di Lc 4,8 con il Dt non è evidente: «Guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile. Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,12-13); qui, «ti presterai» e «adorerai» corrispondono a «temerai» e «servirai» di Dt 6,13. Si noti come queste diverse ingiunzioni

sono precedute dalla raccomandazione a non dimenticare quanto il Signore ha già fatto: ciò che Israele deve fare, è una risposta a quanto Dio ha fatto prima.

     c) Nell’ultima citazione (v. 12) appare l’uso inverso del tema della tentazione, in quanto ora è Israele che tenta Dio, quando lo abbandona e così lo costringe a dargli una punizione: «Non seguirete altri dèi… L’ira del Signore tuo Dio si accenderebbe contro di te e ti distruggerebbe dalla terra. Non tenterete il Signore vostro Dio come lo tentaste a Massa. Os-serverete diligentemente i comandi del Signore vostro Dio…» (6,14-17). Rilette sullo sfondo dell’AT, le tentazioni di Gesù ci appaiono come la dimostrazione della sua totale adesione a Dio, in contrasto con la condotta indocile d’Israele, cosicché i suoi quaranta giorni di digiuno nel deserto corrispondono ai quaranta anni trascorsi da Israele nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto. Ma in maniera più specifica, con queste tre tentazioni satana cerca di distogliere Gesù dalla sua missione messianica, che, rifuggendo dai facili e fallaci successi mondani di una popolarità ottenuta con miracoli molto spettacolari, consiste nell’adesione alla via della croce.

Meditazione

      Quaresima. Quaranta giorni per ricalibrare la nostra vita e le sue relazioni: con Dio, con gli altri, con il creato, con se stessi. L’esigenza di mettere ordine nella propria esistenza è diffusa, a molti livelli. I testi biblici che ci vengono oggi proposti offrono alcuni criteri per perseguire tale fine.

     Il celeberrimo e impressionante brano delle tentazioni di Gesù nel deserto si apre con una duplice significativa annotazione: Gesù entra in questa esperienza guidato dallo Spirito – non è altro che il nostro desiderio di ‘riprendere in mano’ la vita – e rifiutando di nutrirsi.

     Perché questo digiuno? Cosa c’entra l’alimentazione con i nostri problemi etici, politici, religiosi, di gestione del tempo e del denaro, degli affetti e delle relazioni? L’odierno imperativo sociale, che richiede un corpo palestrato a tutte le età, già può orientarci verso il ‘sospetto’ che forse uno stato complessivo di benessere della persona non è separabile dalle condizioni del corpo. Ma Gesù va ben oltre: un digiuno prolungato, di quaranta giorni, segnala l’intenzione di sondare la propria verità, la propria identità ben oltre la percezione superficiale e puntuale di un’esperienza ‘curiosa’. La testimonianza unanime della pratica ascetica del digiuno, comune a tutte le tradizioni religiose e filosofiche, conferma che la persona che si sottopone ad esso, si apre ad una conoscenza di sé nuova e sorprendente: provare per credere…! Rinunciare ad assumere cibo, quanto cioè ci è di più basilare e necessario per la stessa sussistenza, modifica inevitabilmente la percezione dei nostri valori di riferimento. E se primissima conseguenza potrebbe risultare la limpida precisazione – e distinzione! – dei termini appetito e fame, che noi, nel nostro opulento occidente, impieghiamo impropriamente come sinonimi, perseverare in un regime alimentare misurato, regolare e sobrio –  questo il contenuto autentico del digiuno – riattiva la sensibilità e la capacità di scelta e chiama in causa i valori più profondi. L’essenzialità  a cui si è indirizzati rende la persona più attenta e vigile. È pertanto nella condizione ideale per… riprendere in mano la propria vita e compiere delle scelte nuove! Giungendo così al fine che ci si era proposti e da cui eravamo partiti. L’«ebbe fame» (Lc 4,2) che Gesù stesso avverte dopo quaranta giorni di digiuno conferma questo stato psichico percettivo, dove si conosce, in modo sensibilmente nuovo, la dipendenza dall’esterno per la propria sopravvivenza: nessuno di noi basta a se stesso! La mia vita dipende da qualcosa al di fuori di me. Sorgono allora domande nuove: di cosa ho veramente bisogno? Cosa desidero veramente?

     Gesù, che nel battesimo (cfr. Lc 3,21-22) è appena stato riconosciuto come Figlio di Dio, è spinto ora dal diavolo a indagare su come ‘giocare’ la sua identità. Vuole custodire l’oggettività della gratuità e del dono, che lo lega al Padre e alla storia degli uomini, oppure preferisce rifiutare questa dipendenza e utilizzare le proprie energie per imporsi sulla natura e sugli altri? Significativamente, tra il battesimo e il nostro brano, l’evangelista Luca inserisce una sorprendente genealogia risalente fino ad «Adamo, figlio di Dio» (cfr. 3,23-38), che evidenzia e imprime all’identità di Gesù anche la qualifica di fratello dell’uomo. Il suo essere figlio di Dio non cancella né ‘divora’ l’essere fratello dell’uomo ma, con genialità compassionevole, si coniuga in una sintesi esigente ma feconda, fonte di vita e di libertà infinita per sé e per tutti. Gesù non utilizza la propria divinità per opportunità per opprimere gli uomini né si piega ad un umanesimo gaudente che si riconosce come assoluto e svincolato da ogni solidità. Egli è invece il Figlio di Dio che resta consapevolmente nella dipendenza e nel legame per rinnovare dal di dentro ogni figlio dell’uomo. Con amore.

     Per resistere alla tentazione dell’individualismo egoistico Gesù si nutre – qualcosa si deve pur mangiare! – della parola di Dio, sapientemente interpretata. La prima lettura ci  ricorda di richiamare alla nostra mente tutto quanto si è già ricevuto nel passato per continuare a sostenere la lotta verso una libertà sempre più profonda. Le nostre forze sono, infatti, sempre fragili e quando si è nel digiuno si è ancor più bisognosi di sostegno. Quale dunque il nostro cibo per orientare e compiere le nostre scelte?

Preghiere e racconti

Prima domenica di Quaresima

In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio.

Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr. Fil 2,6-7).

Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr. Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.

(BENEDETTO XVI, nell’introdurre la preghiera mariana dell’Angelus: 01.03.2009).

Due re aspirano a regnare

Tanto il Figlio di Dio quanto l’Anticristo aspirano a regnare, ma l’Anticristo desidera regnare per uccidere quelli che avrà sottomesso, Cristo regna per salvare. E su ognuno di noi, se è fedele, regna Cristo, che è la Parola, la Sapienza, la Giustizia, la Verità. Se invece amiamo i desideri disordinati più di quanto amiamo Dio, su noi regna il peccato di cui l’Apostolo dice: II peccato non regni sul vostro corpo mortale (Rm 6,12). Due re dunque si affrontano per regnare: il re del peccato, il diavolo sui peccatori; il re della giustizia, Cristo, sui giusti.

Il diavolo sapeva che Cristo sarebbe venuto per sottrargli il suo regno e per cominciare a sottomettere al suo potere quelli che erano sottomessi al potere del diavolo. Così gli mostra tutti i regni del mondo e degli uomini di questo mondo, gli mostra come su alcuni regna la lussuria, su altri l’avarizia e come alcuni sono trascinati dal soffio della celebrità, altri sono prigionieri delle seduzioni della bellezza. Non dobbiamo pensare che mostrandogli i regni del mondo gli abbia mostrato il regno della Persia o quello delle Indie; ma gli mostra tutti i regni del mondo, cioè il suo regno, il suo modo di dominare il mondo per invitarlo a fare la sua volontà e cominciare così ad assoggettare Cristo […].

Allora il diavolo disse al Signore: «Sei venuto per lottare contro di me e per strappare al mio potere tutti quelli che io ho soggiogato? Non voglio contendere con te, non voglio che tu ti affatichi, che ti sottoponga alle difficoltà della lotta. Chiedo una cosa sola: prosternati ai miei piedi e adorami, ricevo l’intero mio regno». Senza dubbio il nostro Signore e Salvatore desidera regnare e desidera che tutti i popoli gli siano sottomessi perché servano la giustizia, la verità e le altre virtù, ma vuole regnare in quanto è la Giustizia, senza peccato e senza malizia […] Ecco perché risponde: Sta scritto: adorerai il Signore tuo Dio e lui solo servirai (Lc 4,8). Voglio che tutti costoro mi siano sottomessi perché adorino il Signore Dio e servano lui solo. Così desidero regnare. Tu vorresti che il peccato cominciasse da me, quel peccato che sono venuto a distruggere, da cui desidero liberare anche gli altri. Sappi e riconosci che rimango fedele a ciò che ho detto: che sia adorato solo il Signore Dio e che tutti questi uomini siano sottomessi al mio potere nel mio regno». Quanto a noi rallegriamoci di essere sottomessi a lui e preghiamo Dio che faccia morire il peccato che regna nel nostro corpo (Rm 6,12) e che solo Cristo Gesù regni in noi. A lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli ( I Pt 4,11).

(ORIGENE, Omelie sul vangelo di Luca 30,1.3-4, SC 37, pp. 370-374).

Autenticità e verità

Per essere autentici occorre essere fedeli a se stessi ma, nello stesso tempo, diffidare di sé. C’è un necessario legame con se stessi, ma un’altrettanta necessaria esigenza di superarsi. Il cammino versa la vita autentica consiste quindi nel procedere su una specie di crinale, nel suscitare la libertà ma anche nel disciplinarla, nel voler essere pienamente liberi perché solo così si è uomini e non servi, ma nel voler altresì che la prima vera libertà sia di tipo interiore e corrisponda al dominio sulle menzogne di cui ognuno si sa capace “in pensieri, parole, opere e omissioni”. […] La libertà si compie solo nella misura in cui ci si dedica a qualcosa di più grande di sé o, meglio, del sé: una grandezza che il pensiero umano nomina in vari modi, di cui i principali sono giustizia, bene, verità. Io sostengo che l’uomo autentico è l’uomo giusto, è l’uomo che vive per attuare il bene dentro e fuori di sé, è l’uomo che ama sopra ogni cosa la verità.

(Vito MANCUSO, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, 2009, Milano, 15-16). 

Non ci indurre in tentazione

«Nostro Signore mi fa fare questa domanda nel Pater perché essa mi è necessaria in tutte le ore, perché deve trovarsi come grido dell’anima cento volte in ogni preghiera, e per insegnarmi a lanciare incessantemente verso di Lui, in tutte le ore, questo grido: “Aiuto”».

(CHARLES DE FOUCAULD, Opere spirituali, Roma, Pauline, 1984).

Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società. Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo. Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita. E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…

La solitudine è la fornace della trasformazione. Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra società e continuiamo a restare impigliati nelle illusioni del falso io. Anche Gesù è entrato in questa fornace. Fu tentato con le tre seduzioni del mondo: essere importante («trasforma le pietre in pane»), essere spettacolare («gettati dalla torre»), essere potente («ti darò tutti questi regni»). Gesù ha affermato Dio come unica sorgente della sua identità («Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto»). La solitudine è il luogo della grande lotta e del grande incontro – lotta contro le imposizioni del falso io e incontro con il Dio dell’amore che offre se stesso come sostanza del nuovo io.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 94).

Deserto

«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: aravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.

Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Genesi 2,815). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,12). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,114); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 1924); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alleanza nuziale…

Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,1112; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!

Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.

Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene cifra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».

(Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).

Solitudine

La solitudine è un elemento antropologico costitutivo: l’uomo nasce solo e muore solo. Egli è certamente un «essere sociale», fatto «per la relazione», ma l’esperienza mostra che soltanto chi sa vivere solo sa anche vivere pienamente le relazioni. Di più: la relazione, per essere tale e non cadere nella fusione o nell’assorbimento, implica la solitudine. Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontare l’incontro con 1’alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie «moderne», che riguardano la soggettività, arrivino anche a inficiare la qualità della vita relazionale: per esempio, l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vita interiore, diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri. Certo, non ogni solitudine è positiva: vi sono forme di fuga dagli altri che sono patologiche, vi è soprattutto quella «cattiva solitudine» che è l’isolamento, il quale implica la chiusura agli altri, il rigetto del desiderio degli altri, la paura dell’alterità. Ma tra isolamento, chiusura, mutismo, da un lato, e bisogno della presenza fisica degli altri, dissipazione nel continuo parlare, attivismo smodato, dall’altro, la solitudine è equilibrio e armonia, forza e saldezza.

Chi assume la solitudine è colui che mostra il coraggio di guardare in faccia se stesso, di riconoscere e accettare come proprio compito quello di «divenire se stesso»; è l’uomo umile che vede nella propria unicità il compito che lui e solo lui può realizzare. E non si sottrae a tale compito rifugiandosi nel «branco», nell’anonimato della folla, e neppure nella deriva solipsistica della chiusura in sé. Sì, la solitudine guida l’uomo alla conoscenza di sé, e gli richiede molto coraggio.

La solitudine allora è essenziale alla relazione, consente la verità della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità di solitudine e capacità di amore sono proporzionali. Forse, la solitudine è uno dei grandi segni dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: «Preserva la tua solitudine. Se mai verrà il giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra la solitudine interiore e l’amicizia; anzi, proprio da questo segno infallibile la riconoscerai».La solitudine è il crogiuolo dell’amore: le grandi realizzazioni umane e spirituali non possono non attraversare la solitudine. Anzi, proprio la solitudine diviene la beatitudine di chi la sa abitare. Facendo eco al medievale «beata solitudo, sola beatitudo», scrive MarieMadeleine Davy: «La solitudine è faticosa solo per coloro che non han sete della loro intimità e che, di conseguenza, l’ignorano; ma essa costituisce la felicità suprema per coloro che ne hanno gustato il sapore».

In verità, la solitudine, certamente temibile perché ci ricorda la solitudine radicale della morte, è sempre solitudo pluralis, è spazio di unificazione del proprio cuore e di comunione con gli altri, è assunzione dell’altro nella sua assenza, è purificazione delle relazioni che nel continuo commercio con la gente rischiano di divenire insignificanti. E per il cristiano è luogo di comunione con il Signore che gli ha chiesto di seguirlo là dove lui si è trovato: quanta parte della vita di Gesù si è svolta nella solitudine! Gesù che si ritira nel deserto dove conosce il combattimento con il Tentatore, Gesù che se ne va in luoghi in disparte a pregare, che cerca la solitudine per vivere l’intimità con 1’abba e per discernere la sua volontà. Certo, come Gesù, il cristiano deve riempire la sua solitudine con la preghiera, con la lotta spirituale, con il discernimento della volontà di Dio, con la ricerca del suo volto.

Commentando Giovanni 5,13 che dice: «L’uomo che era stato guarito non sapeva chi fosse [colui che l’aveva guarito]; Gesù infatti era scomparso tra la folla», Agostino scrive: «È difficile vedere Cristo in mezzo alla folla; ci è necessaria la solitudine. Nella solitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa; per vedere Dio ti è necessario il silenzio». II Cristo in cui diciamo di credere e che diciamo di amare si fa presente a noi nello Spirito santo per inabitare in noi e per fare di noi la sua dimora. La solitudine è lo spazio che apprestiamo al discernimento di questa presenza in noi e alla celebrazione della liturgia del cuore.

Il Cristo poi, che ha vissuto la solitudine del tradimento dei discepoli, dell’allontanamento degli amici, del rigetto della sua gente, e perfino dell’abbandono di Dio, ci indica la via dell’assunzione anche delle solitudini subite, delle solitudini imposte, delle solitudini «negative». Colui che sulla croce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo l’abbandono di Dio, ricorda al cristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. Essa, infatti, è mistero di amore!

(Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999).

Preghiera

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima. È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.

Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza. Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.

So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me. La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita. Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni. Non vi sono tempi o luoghi senza scelte. E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo. Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me. Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003. 

Corso nazionale di aggiornamento dell’IRC

Mediazione culturale e offerta formativa dell’Irc nei contesti culturali allargati dei percorsi scolastici
 
ll Corso Nazionale di aggiornamento per Idr (anno finanziario 2012), si svolge a Santa Maria degli Angeli (Assisi, PG) nei giorni dal 18 al 20 febbraio 2013.
Senza dimenticare i richiami alla riforma in atto nella scuola, il Corso “Mediazione culturale e offerta formativa dell’Irc nei contesti culturali allargati dei percorsi scolastici” intende studiare (vedi programma) le dinamiche dell’Irc come insegnamento del peculiare codice di cultura cristiano-cattolica.
Le relazioni a tema come pure i laboratori di rielaborazione (qui il materiale di preparazione) approfondiscono: l’identità cristiano cattolica nel quadro del pluralismo culturale e religioso, la responsabilità interculturale dell’IRC nel contesto scolastico, le nuove Indicazioni Irc e le linee guida di progettazione nella mediazione interculturale a scuola, con particolare attenzione alla Scuola Secondaria di secondo grado.
 
 
Sono disponibili:
– il Programma
– i Documenti propedeutici ai laboratori
– le Relazioni
– il “Credo del Popolo di Dio” di Paolo VI (link all’originale).

Benedetto XVI lascia il pontificato

Pubblichiamo le parole con cui Benedetto XVI, al termine del Concistoro ordinario pubblico tenuto lunedì mattina, 11 febbraio, nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico, ha annunciato la decisione di “rinunciare al minstero di vescovo di Roma”. 

Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Dal Vaticano, 10 febbraio 2013

 

BENEDETTO PP. XVI

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

 

Il futuro di Dio

 

 

È un avvenimento senza precedenti, e che di conseguenza ha subito fatto il giro del mondo, la rinuncia di Benedetto XVI al papato. Come lo stesso Pontefice ha annunciato con semplice solennità davanti a un gruppo di cardinali, dalla sera del 28 febbraio la sede episcopale di Roma sarà vacante e subito dopo verrà convocato il conclave per eleggere il successore dell’apostolo Pietro. Così è specificato nel breve testo che il Papa ha composto direttamente in latino e che ha letto in concistoro.
La decisione del Pontefice è stata presa da molti mesi, dopo il viaggio in Messico e a Cuba, e in un riserbo che nessuno ha potuto infrangere, dopo “aver ripetutamente esaminato” la propria coscienza “davanti a Dio” (conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata), a causa dell’avanzare dell’età. Benedetto XVI ha spiegato, con la chiarezza a lui propria, che le sue forze “non sono più adatte per esercitare in modo adeguato” il compito immane richiesto a chi viene eletto “per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo”.
Per questo, e soltanto per questo, il Romano Pontefice, “ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà” (bene conscius ponderis huius actus plena libertate) rinuncia al ministero di vescovo di Roma affidatogli il 19 aprile 2005. E le parole che Benedetto XVI ha scelto indicano in modo trasparente il rispetto delle condizioni previste dal diritto canonico per le dimissioni da un incarico che non ha paragoni al mondo per il peso reale e l’importanza spirituale.
È risaputo che il cardinale Ratzinger non ha in alcun modo cercato l’elezione al pontificato, una delle più rapide nella storia, e che l’ha accettata con la semplicità propria di chi davvero affida la propria vita a Dio. Per questo Benedetto XVI non si è mai sentito solo, in un rapporto autentico e quotidiano con chi amorevolmente governa la vita di ogni essere umano e nella realtà della comunione dei santi, sostenuto dall’amore e dal lavoro (amore et labore) dei collaboratori, e sorretto dalla preghiera e dalla simpatia di moltissime persone, credenti e non credenti.
In questa luce va letta anche la rinuncia al pontificato, libera e soprattutto fiduciosa nella provvidenza di Dio. Benedetto XVI sa bene che il servizio papale, “per la sua essenza spirituale”, può essere compiuto anche “soffrendo e pregando”, ma sottolinea che “nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede” per un Papa “è necessario anche il vigore, sia del corpo, sia dell’animo”, vigore che in lui va naturalmente scemando.
Nelle parole rivolte ai cardinali, prima stupiti e poi commossi, e con la sua decisione che non ha precedenti storici paragonabili, Benedetto XVI dimostra una lucidità e un’umiltà che è innanzi tutto, come ha spiegato una volta, aderenza alla realtà, alla terra (humus). Così, non sentendosi più in grado di “amministrare bene” il ministero affidatogli, ha annunciato la sua rinuncia. Con una decisione umanamente e spiritualmente esemplare, nella piena maturità di un pontificato che, fin dal suo inizio e per quasi otto anni, giorno per giorno, non ha smesso di stupire e lascerà una traccia profonda nella storia. Quella storia che il Papa legge con fiducia nel segno del futuro di Dio.

g.m.v

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

 

 

11 febbraio

 

 

Ha un senso ricordare ancora, a tanto tempo di distanza, l’evento maturato l’11 febbraio 1929 con la firma dei Patti Lateranensi?
L’interrogativo è più che legittimo, se si considera quanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere; fuor di metafora, se si pensa come si è trasformata la società italiana dal punto di vista culturale, politico, istituzionale; in quale misura la Chiesa stessa, nella sua dimensione giuridica ed istituzionale, si è venuta trasformando, specie a seguito di quel Concilio Ecumenico Vaticano II di cui si è appena celebrato il cinquantesimo dell’inizio. Anche il contesto internazionale si presenta oggi con un volto assai diverso, si direbbe quasi irriconoscibile, rispetto a quello di allora.
A ben vedere, parlare di quei Patti non è solo un omaggio formale alla memoria di un fatto storico, ancorché di grande rilevanza, che chiuse il dramma di coscienza dei cattolici italiani e riconobbe alla Santa Sede una condizione di diritto e di fatto rispondente alle esigenze di libertà ed autonomia, che la sua missione nel mondo richiede. Parlare di quei Patti non significa solo riconoscere il contributo che, grazie ad essi, la Santa Sede e la Chiesa hanno potuto dare alla crescita dell’Italia, in particolar modo negli snodi difficili della sua storia; non significa solo prendere consapevolezza dell’apporto dato dalla Santa Sede, grazie alle garanzie assicuratele dal Trattato del Laterano, nel forgiare il nuovo volto della comunità internazionale nelle sue aspirazioni alla giustizia, alla solidarietà, alla pace, alla garanzia dei diritti della persona e dei popoli. 
Parlare oggi dei Patti Lateranensi significa prendere atto di una realtà viva e vitale, che continua ad accompagnare nel divenire della storia, verso obbiettivi che il Vaticano II ha messo chiaramente a fuoco: indipendenza ed autonomia della comunità politica e della Chiesa nel proprio campo; dedizione di entrambe, ancorché a titolo diverso, al servizio della persona umana; collaborazione nella distinzione di competenze, per rendere quel servizio sempre più efficace. Ed ancora: libertà religiosa individuale e collettiva, ma anche libertà religiosa a livello istituzionale.
Si tratta di obbiettivi condivisi dalla Repubblica italiana, nella misura in cui sono rinvenibili nelle disposizioni della sua Costituzione. 
In particolare il Concordato, revisionato nel 1984, ha il merito di definire con chiarezza l’ordine proprio della Chiesa, precisando l’indicazione di principio contenuta nell’art. 7 della Costituzione italiana. Al contempo, esso regolamenta le modalità concrete di esercizio del diritto di libertà religiosa nelle sue diverse dimensioni soggettive, che è tutelato dall’art. 19 della medesima Costituzione.
Per parte sua il Trattato, richiamato dal ricordato art. 7 della Costituzione italiana, prevede garanzie personali, reali e funzionali per la Santa Sede, al fine di permetterle il libero e pieno esercizio della sua missione universale, al riparo da qualsiasi ingerenza di stampo giurisdizionalista che possa provenire da parte di qualsivoglia potenza terrena. Questa convenzione, come si è detto altre volte, è diretta a risolvere permanentemente una questione propriamente italiana, ma che ha al tempo stesso una dimensione internazionale. Difatti in Italia è la sede del successore di Pietro, cui è affidato il governo della Chiesa universale; ma l’indipendenza della Santa Sede nell’esercizio dei suoi compiti nel mondo interessa non solo l’Italia, bensì anche gli altri Stati e la comunità internazionale.
Le soluzioni elaborate nel 1929 a tale problema hanno palesato, nel tempo, la loro validità; in particolare l’ha dimostrata la creazione della Città del Vaticano, entità statuale dal territorio minimo, quasi simbolico. Ma appare evidente che ciò è avvenuto anche perché l’Italia ha sempre manifestato una particolare sollecitudine, ed al tempo stesso un assoluto rispetto, nei confronti dello Stato vaticano. Di questo va dato atto, con animo grato, nella consapevolezza che per l’esiguità territoriale e per la condizione di enclave sua propria, la forma statuale non sarebbe in grado di assicurare piena indipendenza e sicura libertà della Santa Sede, laddove fosse circondata da indifferenza o addirittura da ostilità.
Dunque fare memoria di quell’evento non è mera retorica o solo richiamo di un fatto storico; significa constatare ancora una volta la funzionalità della soluzione convenuta, la sua rispondenza a tuttora perduranti esigenze, la sua idoneità nel continuare a guidare verso obbiettivi condivisi. Che sono poi riassumibili in quelli indicati dall’art. 1 dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, che impegna lo Stato e la Chiesa cattolica alla salvaguardia delle reciproche competenze ed alla collaborazione per la promozione dell’uomo e del bene del Paese

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

 

Nelle parole del cardinale decano Angelo Sodano la gratitudine e la vicinanza spirituale della Chiesa

Quell’annuncio inatteso
risuonato nella sala del Concistoro

 

 

Sconcerto, sorpresa, stupore, commozione alle parole di Benedetto XVI che ha comunicato la sua decisione di “rinunciare al ministero di Vescovo di Roma”. Sentimenti disegnati sui volti dei cardinali, dei presuli e dei prelati che – riuniti per il Concistoro ordinario pubblico di lunedì mattina, 11 febbraio, nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico – hanno ascoltato dalla viva voce del Papa l’inatteso annuncio. Gli sguardi di tutti si sono incrociati, un lieve brusio si è alzato nella sala e la meraviglia si è trasformata in dispiacere. Ma dopo i primi momenti di smarrimento, si è fatto strada nei presenti – tra i quali erano anche i cerimonieri pontifici, i rappresentanti delle postulazioni, i cantori della Cappella Sistina, i sediari pontifici e gli addetti tecnici – il riconoscimento unanime che il gesto compiuto dal Pontefice è un altissimo atto di umiltà. 
Una decisione cha ha colto tutti di sorpresa. E che il Pontefice – accompagnato dagli arcivescovi Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, e Guido Pozzo, elemosiniere, dai monsignori Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, e Alfred Xuereb, della Segreteria particolare del Pontefice – ha voluto comunicare personalmente quando, terminata la celebrazione dell’Ora media e dopo l’annuncio che il 12 maggio prossimo si sarebbero tenute le tre canonizzazioni all’ordine del giorno del Concistoro, ha letto il testo latino della Declaratio scritta di suo stesso pugno. Parlando con voce ferma e serena, mentre i presenti lo ascoltavano in un silenzio quasi irreale – ha spiegato le ragioni della sua scelta, compiuta “con piena libertà” e “dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio”.
Da un momento di preghiera e di gioia l’atmosfera si è trasformata in mestizia. A farsene portavoce è stato il cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, che ha subito preso la parola a nome di tutti i porporati. “Santità, amato e venerato successore di Pietro, come un fulmine a ciel sereno – ha detto – ha risuonato in quest’aula il suo commosso messaggio. L’abbiamo ascoltato con senso di smarrimento, quasi del tutto increduli. Nelle sue parole abbiamo notato il grande affetto che sempre ella ha portato per la santa Chiesa di Dio, per questa Chiesa che tanto ella ha amato”.
Ora, ha aggiunto, “permetta a me di dirle a nome di questo cenacolo apostolico, il collegio cardinalizio, a nome di questi suoi cari collaboratori, permetta che le dica che le siamo più che mai vicini, come lo siamo stati in questi luminosi otto anni del suo pontificato”. 
Il porporato ha assicurato a Benedetto XVI che “prima del 28 febbraio, come lei ha detto, giorno in cui desidera mettere la parola fine a questo suo servizio pontificale fatto con tanto amore, con tanta umiltà, prima del 28 febbraio, avremo modo di esprimerle meglio i nostri sentimenti. Così faranno tanti pastori e fedeli sparsi per il mondo, così faranno tanti uomini di buona volontà, insieme alle autorità di tanti Paesi”. Un riferimento poi ai prossimi impegni del Pontefice. “Ancora in questo mese avremo la gioia di sentire la sua voce di pastore, già mercoledì nella giornata delle Ceneri, poi giovedì col clero di Roma, negli Angelus di queste domeniche, nelle udienze del mercoledì. Ci saranno quindi tante occasioni ancora di sentire la sua voce paterna”. La sua missione, ha concluso, “però continuerà. Ella ha detto che ci sarà sempre vicino con la sua testimonianza e con la sua preghiera. Certo, le stelle nel cielo continuano sempre a brillare e così brillerà sempre in mezzo a noi la stella del suo pontificato. Le siamo vicini, Padre Santo, e ci benedica”.

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

 

Il mondo esprime sorpresa e rispetto 

 

 

La notizia della rinuncia di Benedetto XVI al pontificato ha fatto in poco tempo il giro del mondo, monopolizzando i siti internet dei giornali e le dirette televisive e catalizzando l’attenzione del web, come dimostra il fatto che sia subito balzata al primo posto nelle tendenze mondiali di twitter. Mentre in ogni luogo del pianeta si commenta l’avvenimento, da tutte le capitali giungono attestati di stima e di riconoscenza per l’opera del Pontefice.
Di “straordinario coraggio e straordinario senso di responsabilità” ha parlato il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano. Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha detto che si tratta di “una notizia che emoziona e suscita il mio più grande rispetto”. Di decisione “altamente rispettabile” ha parlato il presidente francese, François Hollande. Da Londra, il primo ministro britannico, David Cameron, ha scritto in una nota di volere inviare i suoi migliori auguri al Papa dopo il suo annuncio di oggi. 
L’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, primate della Comunione anglicana, ha spiegato di aver accolto con “cuore pesante e completa comprensione” la decisione di Joseph Ratzinger di lasciare il ministero di vescovo di Roma, un ruolo – ha detto – “ricoperto con grande dignità, visione e coraggio”. Il primate della Comunione anglicana ha rigraziato Dio per la vita di Benedetto XVI “profondamente dedicata, in parole e opere, nella preghiera e nel servizio dispendioso, alla sequela di Cristo”. 
Il Patriarcato ortodosso di Mosca ha ricordato la “dinamica positiva” che Benedetto XVI ha garantito nei rapporti ecumenici e ha auspicato che tale dinamica continui anche col suo successore.
Yona Metzger, rabbino capo di Israele, ha lodato il Papa per l’impronta data al dialogo tra le religioni. Di scelta coraggiosa e da rispettare ha infine parlato Izzedin Elzir presidente dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia.

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

La gioia di vivere cristianamente il Carnevale

Edie Bethlem, responsabile della Comunità cattolica Shalom, racconta le iniziative di evangelizzazione per i giovani tra cui l’originale “Festa di Carnevale” di venerdì 8 febbraio

Quando si pensa oggi al Carnevale, in particolare al Carnevale brasiliano, ci viene in mente di tutto: svago, musica, colori, alcool, scherzi, donne che ballano… Ma si celebra davvero solo così questa festa? ZENIT lo ha chiesto a Edie Bethlem, responsabile in Italia della Comunità Catolica Shalom nata appunto in Brasile.

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Come ha avuto la Comunità Shalom l’idea di fare una “Festa di Carnevale” come missione?

Edie Bethlem: La nostra Comunità è nata in mezzo ai giovani e per i giovani. Per loro usiamo tutti i mezzi e metodi che la creatività ci ispira per far sì che il Nome di Gesù sia conosciuto e amato. Basti pensare che Shalom è iniziata 30 anni fa con l’apertura di una pizzeria per evangelizzare! Se invitiamo un giovane ad andare in Chiesa, a partecipare ad un ritiro, la sua risposta probabilmente sarà un “No”. Se lo invitiamo invece a mangiare una pizza con gli amici, a venire ad una festa, la probabilità di ricevere un “Si” aumenta di molto. La pizzeria o la festa viene organizzata in maniera attuale e giovanile, con bellezza e semplicità, affinché tutti si sentano bene, accolti, in un ambiente che possa esprimere la gioia che non finisce mai, quella che solo Gesù ci può donare.

Questa iniziativa si è sviluppata in tutte le vostre missioni nel mondo?
Edie Bethlem: Fare una festa di Carnevale è stata un’idea delle nostre missioni in Italia (Roma, Civita Castellana e Cecina), perché i giovani italiani dimostrano una grande simpatia per il Brasile e hanno già la tradizione del carnevale. Abbiamo approfittato quindi di questa apertura per organizzare la”Festa di carnevale”, in modo da trasmettere valori come la gioia, la fraternità, il sano divertimento, la pace a tanti che, come noi un tempo fa, non conoscono la sorgente di ogni felicità. Le pizzerie invece si spandono sempre di più nelle nostre case missionarie in tutto il mondo. Stiamo poi pensando a lanciare nuove idee del terreno fertile dello Spirito Santo e della nostra fantasia, per testimoniare che Cristo è la nostra Pace.

Che reazione c’è da parte della gente che partecipa alle vostre iniziative?

Edie Bethlem: Ognuno prova un’esperienza diversa. Abbiamo sentito tante testimonianze lungo questi quattro anni di “Festa di Carnevale” in Italia.  C’è chi dice di essere rimasto colpito semplicemente dal sorriso nei volti dei giovani presenti alla festa; c’è chi dice che non sapeva che in mezzo ai missionari ci si poteva anche divertire; c’è chi racconta dell’allegria che continuava dopo la festa pur non avendo preso nessun tipo di sostanza stupefacente o di alcool.

La festa poi ha anche un dopo, non finisce lì. Ogni persona che incontriamo, infatti, la invitiamo a fare un cammino insieme a noi, un itinerario spirituale fatto di incontri di preghiera e di formazione, seguendo il metodo che Gesù stesso ci ha insegnato “Venite e vedrete” e formando nuovi discepoli il Suo Regno.

Ricorda la storia di qualcuno in particolare che ha iniziato un percorso di fede dopo una festa di Carnevale?

Edie Bethlem: Sì, vi leggo la storia di Sara Ferretti, 22 anni, che ha scritto: “Per me il primo Carnevale Shalom è stato bellissimo! Ho provato una grande emozione.  C’era un’atmosfera familiare, un ambiente semplice ma gioioso. Abbiamo ballato tanto e ho conosciuto molte persone provenienti da diversi paesi.  Nella cappella del Centro San Lorenzo, dove si svolgeva la festa, c’era anche la possibilità di stare in adorazione.  Sono tornata a casa con la gioia nel cuore e il desiderio di vivere ogni giorno quello che avevo vissuto li: armonia con gli altri, accoglienza, gioia e amicizia. Ho trovato lì tutto ciò che in altri luoghi non riuscivo a trovare.  Da quell’anno, per i successivi tre anni, questa allegria ha contagiato me e gli altri giovani con cui abbiamo deciso di continuare ad organizzare il “Carnevale della pace” e di far vivere anche ad altri ragazzi questa esperienza. Una festa dove non ci debba ubriacare per stare bene, perché già solo entrando lì si è “ubriachi” di felicità.  Ovvero quella sensazione unica che si prova solo quando il Signore è in mezzo a noi!”.

Sembra, quindi, che questa festa sarà un anticipo dello spirito che i giovani, soprattutto europei, troveranno alla GMG di Rio de Janeiro?

Edie Bethlem: Certamente! I giovani europei troveranno l’accoglienza tipica dei
brasiliani e, attraverso i diversi eventi, scopriranno una fede contagiosa. La GMG conta sulla partecipazione di un grande numero di brasiliani e di latino americani che hanno incarnato la fede nella loro vita senza perdere l’autenticità della gioventù. E sì, si può dire che la “Festa di Carnevale” di Shalom sarà un “assaggio” di quello che vivremo a Rio nella prossima estate.

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La Festa di Carnevale organizzata dalla Comunità Shalom, in collaborazione con la Pastorale Giovanile del Vicariato di Roma, si svolgerà il prossimo venerdì 8 febbraio presso il Centro Giovanile Giovanni Paolo II a Roma.

Per maggiori informazioni: 

www.gpdue.it 

roma@comshalom.org

“Amarsi e sposarsi nei matrimoni misti …”

Da oggi è possibile iscriversi al Convegno nazionale sui matrimoni misti dal titolo “Amarsi e sposarsi nei matrimoni misti: attenzioni pastorali e canoniche
che si svolgerà a Roma, presso la Domus Mariae, dal 21 al 23 febbraio 2013
Il Convegno è organizzato dall’Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, l’Ufficio Nazionale per i problemi giuridici e l’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia.
 
 
 
Allegati

IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Geremia 1,4-5.17-19

Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni. Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».

La lettura di oggi contiene la chiamata e la missione del profeta Geremia in un «racconto autobiografico» (in prima persona). La pericope liturgica decurta il testo biblico di circa dieci versetti (mancano i vv. 6-16). I redattori delle letture di questa domenica hanno voluto ritenere solo quelle parti in cui si esprime il conflitto tra il profeta ed i suoi avversari, in vista del Vangelo di oggi, nel quale assistiamo ad un contrasto analogo tra Gesù ed i suoi ascoltatori nella sinagoga di Nazaret.

— vv. 4-5: «Prima di formarti nel grembo materno…». Con queste parole ben note Dio rivela al profeta la sua vocazione: esse manifestano l’assoluta, sovrana potenza di Dio nel costituire Geremia profeta in vista della sua futura missione. Il profeta venne all’esistenza proprio per realizzare la sua missione: in certo senso il suo esistere ed il suo essere mandato formano un’unica ed identica realtà. Inoltre la chiamata di Dio è come una consacrazione («ti ho consacrato»), una speciale investitura che abbraccia tutta la persona del profeta. Anche se occorre molto coraggio per essere l’inviato di Dio, la sua forza deriva da questa investitura da parte del Signore.

— vv. 18-19: «una colonna di ferro e un muro di bronzo…». Il profeta viene paragonato ad una città fortificata, che i nemici assediano senza poterla espugnare. Immagine (o metafora) marziale, impiegata per mettere in risalto anche la dura battaglia che il profeta è chiamato a sostenere.

—v. 19: «sono con te per salvarti». Ecco l’unica certezza che sorregge il profeta. Questa «formula di assistenza», con cui il Signore o il suo angelo promettono l’assistenza indefettibile di Dio agli inviati («Io sono con te…», «Il Signore è con te»), ricorre spesso nella Sacra Scrittura, ad esempio in Es 3,12; Rut 2,4; Lc 1,28, e nella nostra liturgia. È un invito, rivolto alle persona inviate, ad aver fiducia in Dio. Costoro devono affidare a Dio la loro missione, e non cercare altrove le loro certezze.

Seconda lettura: 1Corinzi 12,31-13,13

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime. Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

 Solitamente si ama definire la lettura di oggi «l’inno alla carità», uno dei testi più celebri del Nuovo Testamento. Il brano liturgico va riposto esattamente nel contesto in cui Paolo (nella 1 Cor.) parla dei carismi. È lo stesso contesto della II Lettura di domenica scorsa.

— vv. 12-31: «desiderate intensamente i carismi più grandi». I cristiani di Corinto mostrano grande interesse per i doni o carismi, specie quelli più spettacolari, che attirano ed alimentano il loro orgoglio, rappresentando qualcosa di speciale. Paolo ristabilisce il giusto ordine nella realtà di questi doni. In tale ordine il posto centrale lo detiene il dono dell’amore. Chi ha ricevuto questo carisma dell’amore, ha ricevuto il più grande dei doni.

— vv. 1-3: «le lingue degli uomini e degli angeli, ecc.». Perché il dono dell’amore è realtà centrale rispetto ad ogni altro dono? Paolo ne spiega il motivo, affermando che esso è la condizione che garantisce l’autenticità di tutti gli altri carismi. Il parlare in lingue misteriose (v. 1), l’esercitare la profezia (v. 2), l’avere la scienza di tutte le realtà più misteriose, come pure l’aver fede e capacità di trasportare le montagne (v. 2), la stessa grazia del martirio non sono valori assoluti e a sé stanti; valgono soltanto se trovano la loro profonda motivazione nel dono dell’amore.

— vv. 4-7: «Magnanima, benevola, non è invidiosa ecc.». L’Apostolo enumera ben 15 qualità: inizia con due caratteristiche positive, continua con otto negative (ciò che l’amore non è, e non fa), e conclude con cinque positive. Questo elogio diligentemente strutturato dell’amore mira a sottolineare quelle virtù, opposte alla vanagloria ed alla ricerca di sé, che sono appunto all’origine di quelle spinte segrete che portano molti cristiani di Corinto a desiderare i carismi per sé. Vogliono avere i carismi per essere diversi e superiori agli altri.

— vv. 8-12: «La carità non avrà mai fine…». A differenza dei carismi, che prima o poi hanno fine, la carità dura per sempre. Lo stesso carisma della conoscenza, che pure è permanente, è da considerare provvisorio nel senso che nel tempo presente non può essere che parziale e frammentario, incompleto. Per questo la conoscenza è paragonata all’immagine sfocata e approssimativa che si vede in uno specchio metallico usato nell’antichità; oppure, è paragonata alla capacità conoscitiva che ha un bambino rispetto a quella di un adulto. La carità invece si prolunga nell’eternità, senza alterazioni o limitazioni di sorta. Inoltre, la carità è come un legame che ci congiunge con la vita eterna.

— v. 13: «Ma la più grande di tutte è la carità!». Fede, speranza e carità in quanto appartengono al rapporto dell’uomo con Dio, sono importanti.  Ma di queste tre, è l’amore a valere di più, perché ci avvicina maggiormente a Dio, da lui verrà maggiormente stimata e ricambiata e resterà in eterno.

Vangelo: Luca 4,21-30

 In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino. 

Esegesi

     Il brano del vangelo odierno è la seconda parte della cosiddetta «pericope di Nazaret», ad immediato seguito della prima parte, letta domenica scorsa. Mentre nella I parte si riferiva l’accoglienza positiva di Gesù da parte dei suoi compaesani (elogi, stupore), nella II parte ci troviamo invece di fronte all’aspetto negativo di tale accoglienza: rifiuto e ostilità. L’evangelista Luca ha voluto fare di questo episodio un momento emblematico della missione di Gesù, presentando fin d’ora la divisione degli spiriti che si opera di fonte a lui, sempre.

— v. 22: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». La meraviglia si traduce in delusione e ostilità. In realtà la sua persona «delude» le aspettative dei presenti, perché egli socialmente non appare diverso da loro. Ma anche il suo messaggio li delude, in quanto non prospetta alcun benessere terreno, alcun cambiamento politico e neanche l’esaltazione di Israele. Inoltre a Nazaret Gesù non compie i miracoli che ha compiuto altrove, specie a Cafarnao.

— v. 23: «Medico, cura te stesso». Cosciente di tale delusione, dovuta in particolare all’assenza di segni spettacolari, Gesù mette in bocca ai compaesani il proverbio, noto anche presso i rabbini: « Medico, cura te stesso ». La sua potenza taumaturgica, Gesù avrebbe dovuto metterla in mostra specialmente nella sua patria, e non lontano da essa.

— v. 24: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria». Al proverbio che rispecchia il pensiero dei suoi ascoltatori, Gesù ne contrappone un altro, che spiega perché egli non compia miracoli a Nazaret. Se, come tutti i profeti, non è riconosciuto e accettato nella sua patria, non può compiere prodigi semplicemente per avvalorare la sua identità e indurli a credere. La fede che esige miracoli non è vera fede.

— vv. 25-27: «C’erano molte vedove… molti lebbrosi». Con i due esempi veterotestamentari, la vedova di Zarepta e Naaman il Siro, Gesù esprime due dimensioni essenziali della sua missione: a) la sua patria, per volere divino, passa in secondo ordine di fronte agli stranieri; b) la elezione di Dio non si ferma a vincoli di patria o familiari, ma è rivolta a tutti.

— vv. 28: «Si riempirono di sdegno». Gli esempi addotti da Gesù, con l’universalismo che dichiarano, determinano sdegno e rifiuto ostile da parte dei compaesani. Se quel profeta non compie nulla per la sua patria, anzi mostra di offrire agli stranieri i suoi benefici, non appartiene più ad essa: va ripudiato. Stando al testo del Dt. 13,2, un profeta che non vuole garantire la sua missione con segni, merita la morte. Perciò lo conducono fuori, per ucciderlo.

— v. 30: «si mise in cammino». Come spesso il Vangelo di Giovanni sottolinea il fatto che i Giudei non poterono catturare Gesù «perché non era ancora giunta la sua ora» (Gv 7,30; 8,20:10,39), così qui Luca vuol dire che Gesù passa liberamente in mezzo a coloro che lo hanno condotto fuori della città non tanto per fare un miracolo (che finora ha rifiutato) quanto per affermare la sua sovrana libertà di fronte alla morte. Tale «momento» arriverà, non per fatalità, per effetto di complotti umani o sdegno di popolo, ma per sua libera scelta. Alla luce di ciò, acquista particolare spessore teologico il verbo finale: «si mise in cammino». Respinto e rifiutato dalla sua patria, Gesù a sua volta se ne va, le volta le spalle, la ripudia, per portare altrove l’annuncio di salvezza.

Meditazione 

     La liturgia ci fa ascoltare in due domeniche successive quanto avviene nella sinagoga di Nazaret. Domenica scorsa abbiamo interrotto la narrazione di Luca nel momento in cui Gesù, dopo aver proclamato la lettura dal rotolo del profeta Isaia, ne afferma il suo compimento oggi. In questa domenica leggiamo la seconda parte del racconto, che si sofferma sulla reazione dei suoi concittadini presenti alla preghiera sinagogale. La meraviglia iniziale si trasforma presto in sdegno, sino al punto di cacciarlo fuori dalla città e tentare di ucciderlo buttandolo giù da precipizio (cfr. v. 29). La meraviglia dei nazaretani diventa così lo stupore di noi ascoltatori: come mai questo diverso e addirittura contrapposto atteggiamento? Cosa fa passare dalla meraviglia allo sdegno? Diversamente da quanto accade nel racconto degli altri Sinottici, in Luca queste contrastanti reazioni nascono entrambe dall’ascolto della parola di Gesù. Descrivono due opposte conseguenze dell’ascoltare, o meglio due differenti modi di ascoltare. Non soltanto la meraviglia per le parole di grazia che escono dalla bocca di Gesù, ma anche lo sdegno nasce «all’udire queste cose» (v. 28). C’è dunque un aspetto di questa parola che affascina e stupisce, e che siamo disposti ad accogliere volentieri; ma c’è anche un altro taglio più duro da accettare, che esige una conversione delle nostre attese, perché la Parola si compie sempre nel modo che non immaginavamo. Di conseguenza, o siamo disposti a lasciarci sorprendere e convertire, o altrimenti ne restiamo scandalizzati.

     Gesù discerne cosa c’è nel cuore dei suoi concittadini, lo intuisce e lo porta in piena luce. «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”» (v. 23). Innanzitutto tra i tuoi, per quelli della tua casa. Tu che sei il figlio di Giuseppe, uno di noi, guarda anzitutto ai nostri bisogni. Nel cuore dei nazaretani c’è la tentazione di requisire e circoscrivere l’azione di Gesù. Ciò che si manifesta in questa pretesa non è soltanto il rifiuto del carattere universale della salvezza. Che Gesù compia prodigi a Cafarnao o altrove ai nazaretani sta anche bene, purché li compia anzitutto ‘nella sua patria’. La tentazione più grave consiste nel non riconoscere i segni della salvezza là dove germogliano perché essi non sono il soddisfacimento immediato del proprio bisogno personale. Occorre invece rallegrasi per i segni della salvezza anche se sono per altri perché comunque testimoniano la vicinanza di Dio al suo popolo; annunciano che la misericordia del Signore diviene un oggi nella nostra storia.

     Gesù cita due proverbi: «Medico, cura te stesso» e subito dopo «Nessun profeta è ben accetto nella sua patria». Vi risuonano due appellativi, entrambi riferiti a Gesù: ‘medico’ e ‘profeta’. Il primo sembra più esprimere il punto di vista dei nazaretani e l’idea che hanno maturato di Gesù, o l’attesa che nutrono nei suoi confronti. Il secondo indica piuttosto come Gesù interpreta la propria missione e desidera compierla. Per i cittadini di Nazareth Gesù è il medico che deve curare le loro infermità e colmare i loro bisogni. Gesù invece afferma di essere anzitutto un profeta, vale a dire un uomo che compie sì segni e guarigioni, ma non semplicemente per appagare un bisogno, ma per rivelare che la promessa di Dio, custodita dalla sua Parola, ha iniziato ad attuarsi nella storia. Per il profeta il segno rinvia alla Parola, la quale a sua volta esige un affidamento e un atto di fede che oltrepassa il segno stesso. Si riconosce il segno, ma per credere nella Parola.

     I nazaretani, al contrario, hanno saputo dei segni già operati da Gesù, ma essi, anziché nutrire la fede nella sua persona, li conducono a pretendere altri segni che risolvano i loro problemi. Questa è la tua casa, la tua patria, qui c’è la tua gente e i tuoi parenti: tutto ciò ci offre un diritto e una pretesa nei tuoi confronti. Fa’ anche qui, nella tua patria, quanto vai facendo altrove. Tra questi nazaretani ci sono certamente molti bisogni veri,  numerose infermità da guarire e oppressioni da liberare, le stesse che Gesù incontrerà e sanerà altrove; il problema è che tutto ciò viene vissuto nella forma della pretesa e non in quella dell’affidamento. Con l’atteggiamento dei ricchi, dunque, e non con il cuore dei poveri. Ma è ai poveri che viene annunciato l’evangelo della salvezza, come Gesù ha appena affermato citando il profeta Isaia.

     Gesù legge nei cuori dei nazaretani l’invito a compiere «anche qui, nella tua patria, quanto hai fatto a Cafarnao» (cfr. v. 23). Luca, in verità, non lo ha ancora raccontato, lo racconterà nei capitoli seguenti del suo vangelo. Ma forse questa non è tanto una svista narrativa, quanto un modo raffinato per invitare il suo lettore ad andare a vedere ciò che Gesù opera a Cafarnao. Tra i vari miracoli si staglia la guarigione del servo del centurione narrata all’inizio del capitolo settimo (vv. 1-10). Un episodio che aiuta a capire, in un gioco di contrasti, proprio ciò che accade nella sinagoga di Nazaret. Il centurione è un pagano che si riconosce indegno di ricevere Gesù nella sua casa. Il suo è un atteggiamento completamente diverso da quello dei concittadini di Gesù. Questi ultimi vantano dei diritti su Gesù, perché era uno di loro. Questo pagano non solo non avanza pretese, ma per ben due volte, con insistenza, afferma di non essere degno, mentre al contrario i Giudei presentano a Gesù le sue credenziali: «egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano – perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga» (vv. 4-5). «Egli merita» – «Io non sono degno»: davvero forte è il contrasto tra il punto di vista dei Giudei e quello di questo centurione che, oltre a non vantare diritti e a non pretendere il segno, non attende neppure che il segno si compia per credere alla parola di Gesù. Si affida a essa subito, radicalmente, come un povero che sa di dover dipendere in tutto da quella parola, così come un soldato dipende dalla parola del suo superiore: «di’ una parola e il mio servo sarà guarito» (v. 7). L’episodio si conclude con lo stupore di Gesù: «All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» (v. 9).

     Neppure in Israele, neanche nella mia patria! Come i nazaretani erano ammirati dalle parole di grazia che uscivano dalla bocca di Gesù, così ora è Gesù ad ammirare le parole di fede che escono dalla bocca di questo centurione. Egli ha infatti compreso che la parola della grazia si compie per chi non ha meriti da vantare, ma può soltanto riconoscersi indegno davanti alla gratuità della salvezza, come un povero che sa accoglierla nella propria casa e nella propria vita. Ai poveri è annunciato l’evangelo della salvezza, che è gratuito e universale, non fa differenze sulla base dei meriti e dei diritti presunti o acquisiti, ma ha comunque un destinatario privilegiato nei poveri, in chi sa accoglierlo nell’umiltà del non riconoscersene degno.

     Noi ripetiamo la parola del centurione in ogni celebrazione eucaristica: «Signore, io non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola e io sarò salvato». La parola della salvezza, per diventare davvero un oggi nella nostra vita, ha bisogno di questo atteggiamento e di questa accoglienza.

Preghiere e racconti

Parabola orientale

Il maestro non amava i discorsi eruditi che gli altri chiamavano invece “perle di saggezza”. I discepoli gli chiesero: Se sono parole perché le disprezzi? Il maestro replicò: Avete mai visto perle che crescono se seminate in un campo?

Questi è davvero il profeta

Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: Beati quelli che non vedono e credono (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: Susciterò per loro un profeta simile a te (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: Un profeta non riceve onore nella sua patria (Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (cfr. Is 9,6). E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.

(AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni 24,6-7, in Opere di sant’Agostino, pp. 564-566).

Essere profeti

Il profeta, Signore, non è un depositario di verità,

ma un testimone di bene.

Non sa dire cose sublimi, ma le compie.

Annuncia la speranza nella disperazione,

la misericordia nel peccato,

l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.

 

Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezza,

dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza,

ma è anche sereno e coraggioso,

perché Dio lo ha scelto e amato.

 

Il profeta fa la scelta di Dio,

vive la comunione intima con lui.

 

Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione

ad una pastorale missionaria,

significa essere presenti là dove la gente

vive, lavora, soffre, gioisce.

 

Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza

che dobbiamo ascoltare e accogliere.

Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi,

i monti, le strade.

 

Ogni cristiano è profeta,

è la tua bocca che evangelizza,

che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.

 

Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera

là dove scorre la vita della gente.

(A. Merico)

Preghiera

Tu ci parli. Signore, attraverso profeti pienamente inseriti nelle vicende del loro popolo e del loro tempo e insieme capaci di restare in solitudine o di andare nel deserto per fare riascoltare la tua Parola a coloro che li seguono.

Tu ci parli, Signore, attraverso testimoni in grado di condividere le angosce dei loro fratelli, le paure e i drammi degli uomini e insieme pieni di fede nell’indicare la tua presenza già operante, la tua promessa suscitatrice di vita.

Tu ci parli, Signore, attraverso uomini che sanno contestare coraggiosamente le mode, le abitudini, i pregiudizi, i luoghi comuni dei loro contemporanei e insieme profondamente solidali con loro nel ricercare il tuo volto che salva, nel parlare al cuore di chi dispera.

Guarda, ti preghiamo, alla tua Chiesa, alla Chiesa del nostro tempo, a noi che siamo il tuo popolo, costituiti per tua grazia profeti e testimoni della tua verità: donaci di essere mediatori della tua consolazione nel momento stesso in cui denunciamo le nostre e le altrui ipocrisie. Nei deserti della nostra società fa’ risuonare la tua Parola, perché anche noi ‘usciamo’, confessando i nostri peccati per essere di nuovo immersi nella grazia del tuo Spirito.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

 

La testimonianza cristiana vince la crisi

Il cardinale Angelo Bagnasco spiega come il rinnovamento della fede fornisce le energie per superare ogni congiuntura negativa

Di fronte alle innumerevoli crisi che stanno colpendo l’Italia e l’Europa, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), ha indicato la dottrina sociale e la testimonianza cristiana come la via per trovare pace, sviluppo e gioia.

Nel corso della prolusione svolta al Consiglio Permanente della CEI, il Porporato ha spiegato che benché nessuno possa negare che siamo dentro a un travaglio storico delicatissimo e intricato, “noi sappiamo di poterci affidare alla gioia”.

L’arcivescovo di Genova ha precisato la Gioia dei cristiani “non è solo un sentimento, una fragile emozione: è una Persona” Gesù!

“Non è vero che a noi interessa far politica, – ha sottolineato il cardinale – noi vogliamo dire Gesù”, cioè “l’Infinito fatto bambino” che “è entrato nella nostra umanità”.

Il Presidente della CEI ha illustrato quanto è ancora difficile essere cristiani oggi nel mondo, con centomila cristiani delle varie confessioni uccisi nel 2012.

Nonostante sia la religione più diffusa al mondo – ha rilevato – “in troppi Paesi ai cristiani non è consentito alcun segno di appartenenza religiosa, salvo mimetizzarsi, nascondersi, dislocarsi”.

Secondo l’arcivescovo di Genova i cristiani devono testimoniare che non hanno un prodotto da imporre, ma “una Persona, una presenza, un’amicizia che cambia la vita”.

In questo contesto il Presidente della CEI ha invitato le comunità cristiane a rispondere “alla nostalgia di Dio”, con “il clima necessario alla pietà, al senso di stupore, all’interiorizzazione” e che la nuova evangelizzazione coincida con la carità, cosicchè il Vangelo, “non sia più solo parola, ma realtà vissuta”.

In merito al peso economico e sociale della crisi, il cardinale Bagnasco ha affermato che “il popolo italiano si è mostrato ancora una volta solido nella capacità di dedizione e di sacrificio ha rivelato forza di tenuta e di speranza”.

“Ma nessuno s’illuda o cerchi spiegazioni ideologiche e parziali: – ha precisato – se ciò è accaduto, prima che ai risparmi, alle autoriduzioni, alla revisione di stili di vita, ciò è dovuto al naturale e insostituibile moltiplicatore di ogni più piccola risorsa: la famiglia!”.

In merito alla crisi politica, il presidente della CEI ha detto chiaramente che “La gente vuole che la politica cessi di essere una via indecorosa per l’arricchimento personale”

Per il presidente della CEI “alla radice del bene comune troviamo le realtà primarie della vita, della famiglia e della libertà, che si intrecciano e si richiamano universalmente perché sono valori fondativi e quindi irrinunciabili dell’umano”.

In questa cornice, il cardinale Bagnasco ha sostenuto l’importanza della campagna “Uno di noi”, milioni di firme per fare dell’Europa il continente che riconosce la vita fina dal concepimento.

L’arcivescovo di Genova ha concluso ricordando le parole del venerabile Paolo VI il quale parlò del Concilio Vaticano II come “un potente e amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare […] quel Dio ‘dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere’ (Sant’Agostino, Soliloqui, I,1 3)(7 dicembre 1965)”.

Perchè scegliere l’insegnamento della religione cattolica nella scuola?

Dépliant di monsignor Martinelli, vescovo della diocesi di Frascati 

Riprendiamo il testo del dépliant fatto stampare da monsignor RaffaelloMartinelli, vescovo della diocesi di Frascati, nel quale sono sintetizzati alcuni principali motivi per la scelta di tale insegnamento. Nei prossimi giorni, genitori ed alunni sono infatti chiamati a fare le loro scelte al riguardo.

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Perché scegliere l’insegnamento della religione cattolica nella scuola? 

Per almeno 7 motivi:

1) approfondire la specificità, l’originalità, l’unicità della religione cattolica, attraverso la Bibbia e le modalità specifiche della scuola;

2) conoscere meglio Gesù Cristo, venuto perché “tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”(Gv 10,10), Colui che “svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (Gaudium et spes n. 22);

3) sviluppare maggiormente la mia dimensione religiosa, connaturale e complementare con le altre dimensioni, così da maturare una personalità completa, felice e libera;

4) ricercare le risposte profonde alle domande fondamentali della mia esistenza, ai “perché” delle persone e del mondo;

5) comprendere meglio la cultura del passato e del presente, in particolare quella italiana ed europea, che ha nella fede cristiana la matrice e la chiave di lettura;

6) avere un confronto sereno e ragionato con le altre religioni; 

7) usufruire, nel mio cammino formativo, di un qualificato servizio, di un’opportunità preziosa, offertami dallo Stato, dalla Scuola e dalla Chiesa Cattolica.

Messaggio per l’insegnamento della religione cattolica nell’anno scolastico 2013-2014

Cari studenti e genitori, 

nelle prossime settimane sarete chiamati a esprimervi sulla scelta di avvalersi dell’Insegnamento della religione cattolica (Irc). 
L’appuntamento si colloca in un tempo di crisi che investe la vita di tutti. Anche la scuola e i contesti educativi, come la famiglia e la comunità ecclesiale, sono immersi nella medesima congiuntura. Noi Vescovi italiani, insieme e sotto la guida di Benedetto XVI, animati dallo Spirito Santo che abita e vivifica ogni tempo, vogliamo ribadire con convinzione che la «speranza non delude» (Rm 5,5). 
Sono proprio i giovani – ricorda a tutti il Santo Padre – che «con il loro entusiasmo e la loro spinta ideale, possono offrire una nuova speranza al mondo… Essere attenti al mondo giovanile, saperlo ascoltare e valorizzare, non è solamente un’opportunità, ma un dovere primario di tutta la società, per la costruzione di un futuro di giustizia e di pace. Si tratta di comunicare ai giovani l’apprezzamento per il valore positivo della vita, suscitando in essi il desiderio di spenderla al servizio del Bene» (BENEDETTO XVI, Messaggio per la XLV Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2011). 
Noi Vescovi vogliamo anzitutto ascoltare le domande che vi sorgono dal cuore e dalla mente e insieme con voi operare per il bene di tutti. Lo abbiamo fatto nel redigere le nuove indicazioni per l’Irc nella scuola dell’infanzia, del primo e del secondo ciclo, con l’impegno di sostenere una scuola a servizio della persona. Siamo persuasi, infatti, che la scuola sarà se stessa se porterà le nuove generazioni ad appropriarsi consapevolmente e creativamente della propria tradizione. L’Irc, oggi come in passato, aiuterà la scuola nel suo compito formativo e culturale facendo emergere, “negli” e “dagli” alunni, gli interrogativi radicali sulla vita, sul rapporto tra l’uomo e la donna, sulla nascita, sul lavoro, sulla sofferenza, sulla morte, sull’amore, su tutto ciò che è proprio della condizione umana. I giovani domandano di essere felici e chiedono di coltivare sogni autentici. L’Irc a scuola è in grado di accompagnare lo sviluppo di un progetto di vita, ispirato dalle grandi domande di senso e aperto alla ricerca della verità e alla felicità, perché si misura con l’esperienza religiosa nella sua forma cristiana propria della cultura del nostro Paese. 
Cari genitori, studenti e docenti, ci rivolgiamo a voi consapevoli che l’Irc è un’opportunità preziosa nel cammino formativo, dalla scuola dell’infanzia fino ai differenti percorsi del secondo ciclo e della formazione professionale, perché siamo convinti che si può trarre vera ampiezza e ricchezza culturale ed educativa da una corretta visione del patrimonio cristiano-cattolico e del suo peculiare contributo al cammino dell’umanità. 
Riteniamo nostro dovere di Pastori ricordare, a tutti coloro che sono impegnati nel mondo della scuola, le parole del Papa per questo Anno della fede: «Ciò di cui il mondo oggi ha particolarmente bisogno è la testimonianza credibile di quanti, illuminati nella mente e nel cuore dalla Parola del Signore, sono capaci di aprire il cuore e la mente di tanti al desiderio di Dio e della vita vera, quella che non ha fine» (BENEDETTO XVI, Porta fidei, n. 15). 

Roma, 26 novembre 2012
PRESIDENZA DELLA CEI

  Messaggio IRC 2013-2014.pdf