Benedetto XVI: “la barca della chiesa il Signore non la lascia affondare”

Nella sua ultima Udienza Generale, Benedetto XVI trae un bilancio del suo pontificato su un piano spirituale

“Vedo la Chiesa viva!”. Con queste parole e ringraziando “commosso” le migliaia di fedeli presenti a piazza San Pietro per l’ultima Udienza Generale del suo pontificato, papa Benedetto XVI ha tratto un bilancio di natura essenzialmente spirituale, di questi otto anni trascorsi come successore di Pietro.

“In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita”, ha detto il Papa, ponendo fiducia nel Vangelo che “purifica e rinnova”, portando frutto ovunque i credenti lo accolgano. “Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia”, ha sottolineato il Santo Padre.

Tornando a quel 19 aprile 2005, in cui accettò di “assumere il ministro petrino”, Benedetto XVI ha espresso la “certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio”, che lo ha sempre accompagnato in quasi otto anni di pontificato.

“In quel momento – ha proseguito – come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze”.

Sono seguiti otto anni in cui il Papa ha “potuto percepire quotidianamente” la presenza del Signore, in un cammino “che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili”.

Benedetto XVI ha paragonato la sua esperienza a quella del suo primo predecessore, San Pietro, che, impegnato con gli altri Apostoli sul mare della Galilea, riceve in dono dal Signore “tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante”, così come “momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire”.

La barca della Chiesa, tuttavia, “non è mia, non è nostra, ma è sua”, ha osservato il Pontefice, e “il Signore non la lascia affondare”. Per questo il Papa ha ringraziato Dio “perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore”.

Il Santo Padre ha quindi accennato all’Anno della Fede, da lui istituito, “per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano”.

Si tratta di un’occasione, ha spiegato, per “affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica”, e perché ognuno si senta “amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini”.

Sono seguiti i ringraziamenti ai rappresentanti della Chiesa che, in questi otto anni, a tutti i livelli, sono stati vicini al Santo Padre: i “Fratelli Cardinali”, i “Collaboratori” più stretti, a partire dal “Segretario di Stato”, la “Segretaria di Stato e l’intera Curia Romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile”.

Il Papa ha poi ricordato la “Chiesa di Roma, la mia Diocesi”, oltre ai “Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio”.

Parlando delle lettere ricevute nelle ultime settimane, Benedetto XVI ha detto di aver percepito “il senso di un legame familiare molto affettuoso”, toccando con mano che cosa sia la Chiesa, ovvero “non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti”. Sperimentare tal sensazione, in un momento in cui tutti parlano del “declino” della Chiesa, “è motivo di gioia”, ha aggiunto.

Tornando sulla sua recente sofferta decisione, il Papa ha affermato: “ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa”. Di qui la scelta della rinuncia, compiuta “nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo”.

Amare la Chiesa, ha aggiunto il Papa, “significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi”.

La decisione presa è stata grave, ha proseguito il Pontefice, anche perché “da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore”. E chi assume il ministero petrino “non ha più alcuna privacy”, poiché sceglie di appartenere “sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa”.

Ritirandosi, Benedetto XVI non intende “ritornare nel privato”, né “a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze”. “Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”, ha spiegato il Papa che, in questo modo, rinuncia alla “potestà dell’officio per il governo della Chiesa”, continuando però a servirla, nella preghiera, rimanendo “nel recinto di san Pietro”.

Congedandosi e ringraziando nuovamente, Benedetto XVI ha raccomandato i fedeli di pregare per lui “e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito”.

Senza libertà non c’è vera Fede

Nec religionis est cogere religionem.  Lapidario è Tertulliano, con questo motto del suo scritto A Scapola (II, 2), nel riconoscere che nel cuore stesso della fede, ove pure impera la grazia divina, pulsa anche la libertà umana per cui «non è proprio della religione costringere alla religione». 
Un principio, purtroppo, non sempre rispettato dalle varie confessioni religiose, compreso il cristianesimo all’interno della sua storia secolare, ed è significativo che Giovanni Paolo II abbia anche di queste prevaricazioni chiesto perdono nel Giubileo del 2000. In un itinerario (che non è teologico ma di taglio culturale generale) all’interno dell’orizzonte della fede, oltre a celebrare il primato della grazia divina, non possiamo ignorare il necessario contrappunto armonico della libertà umana. Necessario perché la libertà è strutturale all’antropologia biblica e non solo alla concezione classica e moderna della persona. 

Non possiamo ora sviluppare questo tema inseguendo la trama dei testi biblici. Ci basti evocare due passi. Da un lato, la scena d’esordio delle Scritture: l’uomo e la donna sono collocati nei capitoli 2-3 della Genesi all’ombra «dell’albero della conoscenza del bene e del male», un evidente simbolo della morale nei cui confronti la creatura si trova libera se accettarne il valore oppure, strappandone il frutto, decidere in proprio ciò che è bene e male. D’altro lato, citiamo un passo emblematico della sapienza d’Israele: «Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti, l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà. 

Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,14-17). La grazia divina, pur nella sua efficacia, scende non all’interno di un oggetto inerte ma in un essere libero che può accogliere o rifiutare quel dono, può aprire o lasciare chiusa la porta della sua anima a cui bussa il Signore che passa, per usare la celebre metafora dell’Apocalisse (3,20). Esprime bene questo intreccio delicato e fondamentale – sul quale si sono accaniti per secoli i teologi cercando di definirne l’equilibrio – padre David M. Turoldo quando scrive: «Sono certo che Dio ha scoperto me, ma non sono certo se io ho scoperto Dio. La fede è un dono, ma è allo stesso tempo una conquista». L’epifania divina ha mille forme in cui manifestarsi e non è sempre sfolgorante come sulla via di Damasco. Tuttavia non è mai così cogente da condurre a un assenso forzato e obbligato. L’adesione dev’essere personale, libera, anche faticosa.

Siamo, infatti, consapevoli che l’esercizio della libertà è tutt’altro che semplice. Essere liberi non è una pura e semplice reazione istintiva e “libertina”, né soltanto un sottrarsi a un’oppressione o a un’imposizione, ma è una scelta coerente e cosciente tra opzioni differenti per una meta da raggiungere. 

Per questo il drammaturgo tedesco Georg Büchner nella Morte di Danton (1834) affermava che la statua della libertà è sempre in fusione ed è facile scottarsi le dita. Vivere nella libertà autentica, come ricorda spesso anche san Paolo, è un atto impegnativo perché comporta un’esistenza rigorosamente cosciente, ed è sempre in agguato il rischio del ricadere in schiavitù. Come accade ai cani a cui si lancia un ramo secco e te lo riportano subito, così per molti la libertà è un elemento inutile che riportano subito nelle mani del potere. 

Questa è un’immagine di Dostoevskij e dal grande romanziere desumiamo una suggestiva riflessione sul nesso tra fede e libertà. Scriveva: «Tu non discendesti dalla croce quando ti si gridava: Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu! Perché una volta di più non volesti asservire l’uomo… Avevi bisogno di un amore libero e non di servili entusiasmi, avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio». Lo scrittore rievoca la scena del Golgota col Cristo morente sbeffeggiato dai passanti: «È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo!» (Mt 27,39-42). Come durante la sua esistenza aveva evitato gesti taumaturgici spettacolari, preoccupandosi solo di sanare le sofferenze umane, spesso in disparte dalla folla e imponendo il silenzio ai miracolati, così in quel momento estremo Gesù affida la sua rivelazione non al prodigio ma allo scandalo della croce. Egli non cerca adesioni interessate, ma invita a una fede libera e guidata dall’amore che è per eccellenza un atto di libertà.

Senza questa dimensione la fede diventa parodia, come si intuisce dalla ricostruzione che Simone de Beauvoir, la scrittrice francese compagna del filosofo Sartre, morta nel 1986, fa della sua crisi giovanile che le fece abbandonare la fede. Nelle sue Memorie di una ragazza perbene rievoca il momento in cui in collegio, ascoltando una predica del cappellano padre Martin sull’obbedienza, si era fatta in strada in lei la necessità di liberarsi dall’incubo della religione, proprio perché essa – secondo quella visione che in realtà era una deformazione dell’autentica fede – comportava la cancellazione della libertà. 

Raccontava: «Mentre l’abate parlava, una mano sciocca si era abbattuta sulla mia nuca, mi faceva chinare la testa, mi incollava la faccia al suolo, per tutta la vita mi avrebbe obbligata a trascinarmi carponi, accecata dal fango e dalla tenebra; bisognava dire addio per sempre alla verità, alla libertà, a qualsiasi gioia». Per questo è importante un annuncio corretto della fede che, senza concedere nulla a un accomodamento troppo facile, a un compromesso generico e comodo, non deformi però la vera anima della fede, introducendo un volto sfigurato di Dio, quella che Lutero chiamava la simia Dei, cioè la «scimmiottatura di Dio». 

Il credere genuino non è schiavitù ma libertà, non è imposizione ma ricerca, non è obbligo ma adesione, non è cecità ma luce, non è tristezza ma serenità, non è negazione ma scelta positiva, non è incubo minaccioso ma pace. Come affermava in un suo saggio, Vivere come se Dio esistesse, il teologo tedesco Heinz Zahrnt, «Dio abita soltanto là dove lo si lascia entrare». Questa scelta comporta – come in ogni opzione libera – un aspetto di rischio. Entra, così, in azione un lineamento ulteriore che è la fiducia. È la famosa fides qua dei teologi, ossia la fede «con la quale» si aderisce confidando in Dio e che fa accogliere la fides quae, cioè i contenuti della rivelazione divina che il credere ci manifesta. 

Abramo, che «per fede, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e partì senza sapere dove andava» (Ebr 13,8), ne è l’esempio archetipico biblico. Mi affido ai versi di una scrittrice con la quale personalmente ebbi un dialogo intenso negli ultimi anni della sua vita, Lalla Romano, scomparsa nel 2001: «Fede non è sapere/ che l’altro esiste/ è vivere/ dentro di lui/ calore/ nelle sue vene/ sogno/ nei suoi pensieri./ Qui aggirarsi/ dormendo/ in lui destarsi» (da Giovane è il tempo del 1974). 

Come pregava un’altra poetessa, segnata però esplicitamente dalla fede, Ada Negri: «Tu mi cammini a fianco, o Signore, orma non lascia in terra il tuo passo. Non vedo te: ma sento e respiro la tua presenza in ogni filo d’erba, in ogni atomo d’aria che mi nutre». La fiducia ha il suo vaglio di autenticità nel tempo oscuro della prova, quando il volto di Dio scompare, la sua parola tace, la sua presenza si tramuta in assenza. Giobbe coinvolto in pieno nella tenebra, non cessa di credere e di aver fiducia: «Quand’anche egli mi ucciderà, non me ne lamenterò» (13,15).

La tradizione giudaica mette in scena in una parabola un ebreo sfuggito all’Inquisizione spagnola con moglie e figlio che, durante una tempesta, approda in un’isola. Lì, però, un fulmine uccide la moglie e un’onda trascina in mare il ragazzo. Solo, nudo, flagellato dalla tempesta, atterrito, errabondo su quell’isola rocciosa, leva la sua voce al cielo: «Dio d’Israele, sono finito! Proprio ora, però, non ti posso servire se non liberamente. Tu hai fatto di tutto perché io non creda più in te. Bene, te lo dico, Dio mio e dei miei padri, tu non ci riuscirai: io crederò sempre in te, ti amerò sempre, tuo malgrado!». 

Evidente è il paradosso, ma in questa ripresa del dramma di Giobbe, brillano la totale libertà e l’assoluta fiducia in Dio. Una fiducia che è esaltata anche nella tradizione musulmana con accenti altissimi (muslim significa appunto «chi ha fiducia e si abbandona a Dio»), anche se però non di rado a danno della libertà umana. Significativa è una pagina delMemoriale dei santi del grande scrittore mistico persiano del XII secolo Farid ed din ’Attar che ha per protagonista «un adoratore del fuoco», cioè uno zoroastriano, quindi un pagano agli occhi del musulmano. Farid vede che egli getta miglio sulla distesa di neve che circonda la sua abitazione e spiega che lo fa per gli uccelli del cielo, «sperando che l’Altissimo avrà misericordia di me». 

Ma Farid obiettò: «Tu sei un infedele e il grano seminato da un infedele non germoglia!». Quell’uomo replicò: «Pazienza! Se Dio non accetta la mia offerta, posso almeno sperare che veda il piccolo gesto di amore che io faccio». Mesi dopo ’Attar ripassa e ritrova l’uomo: «L’Altissimo ha fatto germogliare quei semi. Grazie, o Dio, che regali il paradiso per un pugno di grano! Il cuore di Dio si commuove sempre di fronte a un gesto d’amore!». Amore, fiducia, fede si uniscono tra loro e donano serenità. È ancora un musulmano, il poeta nazionale del Pakistan Muhammad Iqbal, morto nel 1938, a scrivere: «Ti dirò il segno del credente:/ quando a lui giunge la morte,/ sulle sue labbra sboccia un sorriso». 

Vivere la fede genera una fiducia che fa fiorire, anche nella crudezza dell’agonia, un sorriso. Concludiamo, allora, con una delle Quattordici preghiere che compose Robert L. Stevenson, il geniale autore ottocentesco inglese dell’Isola del tesoro e dello Strano caso del dottor Jekyll e del Signor Hyde, un vero canto di fiducia nel Dio che non abbandona mai le sue creature coi suoi piccoli e grandi doni: «Ti ringraziamo, Signore, per questo luogo nel quale dimoriamo, per l’amore che ci tiene insieme, per la pace che oggi ci è accordata, per la speranza con la quale aspettiamo il domani, per la salute, il lavoro, il cibo, il cielo chiaro che riempiono la nostra vita di fiducia e di serenità».

 
Gianfranco Ravasi

Percorsi didattici alternativi: “I bambini sono spugne!”

Crescente complessità della vita alla quale concorre anche la tecnologia? Sempre più ampie e trasversali competenze richieste per entrare nel mondo del lavoro? Anche l’universo scuola non può rimanere incolume a tutto questo. Così le classiche ore divise per materie stanno cadendo nel dimenticatoio, i programmi finiscono necessariamente per integrarsi fra loro e l’interdisciplinarietà diventa la nuova parola d’ordine. Ma tutto questo, evidentemente, nel passaggio dal teorico al pratico non è per nulla semplice. Lo sforzo richiesto agli insegnanti è cresciuto e cresce in modo esponenziale. Alcuni, alquanto pioneristicamente, propongono idee nuove e risposte concrete: per un vero e proprio nitido segnale di aggiornamento. Fra questi il Prof. Nicola Rosetti propone un percorso a dir poco particolare: “la catechesi della bellezza”. Se è vero che sin dall’albore dei tempi l’arte e la bellezza hanno tradotto in immagini l’idea della fede, in una qualche forma di trascendenza divina, questo connubio può tentare di spiegare la religione o quantomeno renderla un po’ più accessibile ai nostri ragazzi. Lo abbiamo intervistato.

Prof. Nicola Rosetti, quanto è difficile insegnare religione ai ragazzi? Quale è la sfida/reticenza più grande che questo insegnamento incontra nelle nostre scuole oggi?

Io non parlerei di una difficoltà specifica dell’insegnamento della religione, perché il discorso religioso, la curiosità tipica di ogni uomo e in particolare dei più giovani e non ultimo il fascino proprio della figura di Gesù continua ad attrarre gli alunni. L’insegnamento religioso patisce gli stessi problemi delle altre discipline su un doppio versante: dalla parte di chi insegna e dalla parte di chi riceve l’insegnamento. Per  i primi, cioè per gli insegnanti, il grande problema è quello della riduzione a piccoli burocrati del sapere. Una burocrazia sempre più opprimente li impegna e li distoglie, ovviamente contro la loro volontà, da quello che dovrebbero e vorrebbero fare e cioè formare i ragazzi. Dall’altra parte, gli alunni ricevono molti stimoli e per loro la scuola è diventato sempre più un impegno fra i tanti e non quello principale. Contrariamente a quello che comunemente si pensa, la crisi non è di risorse (che comunque sicuramente potrebbero essere maggiori!) ma culturale. Questa dunque è a mio avviso la vera sfida del momento: far tornare la scuola alla sua vocazione originaria.

Ci può spiegare come organizza una “catechesi della bellezza” in teoria e in pratica?

Il termine “catechesi” non deve trarre in errore i lettori! Il compito dell’insegnante di religione nella scuola non è quello di iniziare alla fede, questo è compito appunto della catechesi. Ho voluto tuttavia chiamare questo modo di impostare le lezioni “catechesi della bellezza” perché sono convinto che solo attraverso la conoscenza dei contenuti della fede si può apprezzare fino in fondo un’opera d’arte di carattere religioso. Allo stesso tempo, un quadro che rappresenta una scena sacra, attraverso l’immagine, riesce a spiegare la fede meglio di un discorso: temi come quelli della grazia e del libero arbitrio sarebbero pesanti e di difficile comprensione anche per un adulto, ma ecco che se magari si mostra ai bambini “La vocazione di San Matteo” di Caravaggio, tutto è più semplice! La luce che proviene dal Cristo rappresenta il suo amore per ogni uomo (grazia) e infatti tutti i personaggi seduti al tavolo sono illuminati, ma solo uno, Matteo, risponde attivamente alla chiamata (libero arbitrio). Una volta osservata l’immagine e spiegato il significato, si può chiedere ai bambini di disporsi nello stesso modo in cui sono disposti i personaggi nel dipinto, oppure si può chiedere loro di adattare il quadro secondo un’altra visione religiosa, come ad esempio quella luterana.

Da dove arriva o deriva la sua idea di utilizzare il connubio tra bello artistico e fede?

Lavorando con i bambini della scuola primaria, comunemente detta elementare, ho sempre dovuto ricercare un linguaggio semplice, accessibile e diretto e nulla è così comunicativo come un’immagine. Direi che quindi tutto è nato per praticità. Durante la mia esperienza lavorativa a Roma, mi sono accorto che i bambini non conoscono per nulla la città in cui vivono. Pertanto nelle mie lezioni cerco di usare il più possibile opere d’arte che poi posso fare ammirare ai miei alunni dal vivo. Si tratta di fare un raccordo fra fede, arte e le ricchezze che il territorio offre. Nel mio lavoro cerco di ispirarmi ad un dipinto di El Greco che nella sua semplicità mi ha sempre affascinato. Si tratta di un “ritratto” dell’evangelista Luca che mostra all’osservatore il vangelo aperto; sulla pagina di sinistra si vede un passo del vangelo, mentre su quella di destra è dipinta una Madonna che regge in braccio Gesù Bambino. Ho scelto questa immagine come sintesi del mio lavoro perché non faccio altro che abbinare a ogni passo biblico che propongo ai miei alunni un’immagine artistica che lo visualizzi e lo spieghi. In tutta onestà posso dire che di mio c’è ben poco! Il mio è soprattutto un lavoro di “collage”!

Che tipi di riscontri (commenti, pensieri, idee … ) incontra presso i ragazzi e/o presso i loro genitori usando questo suo metodo? Ci racconti un episodio che le è rimasto impresso.

Non bisogna sottovalutare l’intelligenza, la curiosità e il desiderio di conoscere dei bambini, anzi forse noi adulti, spesso stanchi e annoiati da tutto, dovremmo prendere esempio da loro! Non bisogna avere paura di proporre agli alunni molti contenuti perché i bambini sono “spugne”! Io per esempio non mi faccio nessun problema a portare classi di alunni di terza elementare in visita ai Musei Vaticani! Propongo questa attività didattica al termine dell’anno scolastico, come coronamento di un percorso che abbiamo svolto durante tutto l’anno. I bambini sono sempre molto entusiasti perché finalmente, dopo un anno di intenso lavoro, possono vedere dal vivo quello che hanno studiato in classe! Quando ci troviamo ai Musei Vaticani non prendiamo una guida, ma ogni bambino fa da guida agli altri! Diciamo che è una vera e propria interrogazione sul posto: io faccio le domande sui dipinti che vediamo e un bambino alla volta risponde, in modo tale che tutti  siano coinvolti. A questo tipo di uscite partecipano anche i genitori che si possono rendere conto del tipo di attività che abbiamo svolto in classe durante l’anno. I genitori partecipano sempre molto volentieri, anche perché per molti di loro è la prima occasione per ammirare le meraviglie di Roma. Quest’anno mi ha colpito la visita a Santa Maria Maggiore. Il custode mi ha chiesto se i bambini potessero essere interessati a vedere dei paramenti liturgici cinquecenteschi. Ero molto scettico sulla cosa perché la ritenevo più adatta per un gruppo di sacerdoti o di religiosi piuttosto che per dei bambini, e più per non rispondere con un  “no” che per altro ho acconsentito. Con mio grande stupore, quando il custode ha aperto gli armadi dove erano contenuti i paramenti, dai bambini si è levato un grosso “OHHH” di meraviglia. Quegli abiti finemente decorati, insoliti, di foggia preconciliare li ha enormemente colpiti. Questo per dire che non bisogna avere paura nel proporre contenuti che a prima vista potrebbero sembrare “pesanti”.

Chiudiamo con una domanda personale. Cos’è quindi “la bellezza” secondo la sua esperienza? È più un modo, per noi uomini, per avvicinarci a capire un poco Dio o più un modo di Dio per scendere al nostro livello, parlando una lingua che noi conosciamo, e farsi capire?

Credo che si possa parlare di due vie complementari. Dio è bellezza, l’uomo è bellezza, l’arte è il ponte che li lega. È impressionante come l’uomo, volendo catturare in immagini la gloria di Dio finisce anche per glorificare se stesso attraverso il talento artistico. Mi permetta di terminare con le parole del grande scrittore inglese G.K. Chesterton che, in polemica con la bruttezza di certe produzioni artistiche moderne ha descritto a mio avviso in modo magistrale cosa deve essere una vera opera d’arte: “Non basta che un monumento popolare sia artistico, come uno schizzo a carboncino. Deve sorprendere, deve essere sensazionale nel senso più alto della parola, deve rappresentare l’umanità, deve parlare per noi alle stelle, deve proclamare al cospetto del cielo che, una volta stilato il catalogo più lungo e più nero di tutti i nostri crimini e di tutte le nostre follie, restano ancora alcune cose di cui gli uomini non devono vergognarsi”.

(Intervista tratta dal sito Mediapolitika)

Ragione e Fede: l’approccio scolastico dell’Irc

In occasione dell’Anno della Fede, il Convegno sul tema “Ragione e Fede: l’approccio scolastico dell’Irc” invita i Direttori e Responsabili Irc a rivolgere rinnovata attenzione al contributo che l’Irc può offrire ai percorsi della ricerca scolastica intorno alla ragionevolezza della fede cattolica e ai diversi confini che caratterizzano la ragione umana e il Mistero che la accoglie.

Si svolge a Bari dal 15 al 17 Aprile 2013.

E’ disponibile il Programma di massima.

Qui le note tecniche-organizzative.


Al seguente link riservato ai Direttori Diocesani è possibile effettuare l’iscrizione on-line.  

 

III DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Esodo 3,1-8.13-15

In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.  L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.

Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele». Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».        

Nei primi due capitoli del libro dell’Esodo abbiamo storie di oppressioni e violenze ai danni di un popolo che vive in schiavitù. D’altra parte, anche l’iniziativa «autonoma» di Mosè fallisce perché offuscata da sospetti, ombre, paure. Storia di miserie umane dove Dio

non è presente. Finché non giungiamo alla fine del cap. 2, vv. 23-24 «Gli Israeliti gemettero… Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo, Giacobbe». Vocazione e missione di Mosè si pongono ad immediato seguito di questa iniziativa libera e gratuita di Dio.

     — Il racconto della vocazione di Mosè contiene momenti caratteristici e costanti di simili narrazioni bibliche. Abbiamo uno schema tripartito:

a) chiamata di Dio (vv. 1-10);

b) obbiezioni del vocato (vv. 11.13);

c) il segno e la protezione di Dio (vv. 12.14-15)

     Lo stesso schema si ritrova nelle vocazioni di Simeone, Isaia Geremia e nell’annuncio a Maria (Lc 1). A motivo di un taglio notevole (vv. 8b-12), nella pericope liturgica non si percepisce bene la struttura «dialettica» di questa chiamata.

     Evidenziamo alcuni punti che aiutino alla comprensione ed all’approfondimento del testo:

     — Simbolismo del fuoco che brucia senza consumarsi (vv. 2-3). In Es 19,18 il Signore discende nel fuoco sul Sinai, lo fa tremare, ma non lo distrugge. Simbolo fondamentale nelle teofanie, il fuoco esprime due aspetti della presenza di Dio: la sua trascendenza (il fuoco che brucia e non consuma è una realtà che non possiamo afferrare e dominare, ma ci sfugge e trascende); la vicinanza di Dio (il suo calore avvolge, illumina, riscalda).

     — Santità del luogo (v. 5). Spesso ricordata nella Sacra Scrittura: vedi Gn 28,16 (santuario di Betel): Certo il Signore è in questo luogo, ed io non lo sapevo! Non l’uomo ma Dio, con la sua presenza, santifica un certo luogo. Questo spazio santificato «preesiste alla coscienza dell’uomo» (G. RAVASI) e questi, per accedervi, deve compiere un gesto di distacco e umiliazione, un gesto che qui si esprime nel togliersi i sandali (cosa che ancora vige nelle moschee).

     — Rivelazione del Nome divino (vv. 13-14). Il «nome» corrisponde alla realtà stessa di Dio. Così come viene espresso e spiegato, può aprirsi a vari livelli di comprensione:

     • Mistero che sfugge: «Io sono colui che sono» è tautologia enigmatica ed apparentemente evasiva, che comunque lascia il suo essere nel mistero, senza chiarirlo: irraggiungibile e inconoscibile, il mistero di Dio non si lascia usare o definire dall’uomo.

     • La libertà di essere: il giro di frase, per cui si ripete quel che si è già detto (idem per idem) è tipico di alcune affermazioni divine in cui è messa in luce la sua libertà di essere e di agire. Ad es. in Es 33 19 Dio dice a Mosè: Faccio grazia a chi faccio grazia, uso misericordia con chi uso misericordia. In altri termini Dio non si lascia sindacare o condizionare da niente e da nessuno; è misericordioso con chi vuole esserlo, fa grazia a chi vuole. In tal senso, con l’espressione: Io sono colui che sono, Dio afferma che nel suo essere è determinato solo dal suo «volere»: veramente libero di essere quello che vuole essere!

     • Nome di speranza. Il verbo «essere» (hyh) in ebraico è verbo «attivo»; non indica uno stato, ma una attività. In tal senso Dio si rivela a Mosè come Colui che è, che agisce e vale (a differenza degli idoli che sono un nulla, perché non contano e non valgono niente). Alla luce di ciò, il versetto che conclude la nostra lettura assume tutto il suo spessore teologico: «Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (v. 15). «Per sempre», Dio è e sarà per il suo popolo quello che è, presente per liberarlo e guidarlo. Dio, nel rivelare il suo nome, non consegna una definizione filosofica di esso (Io sono l’ESISTENTE), anche se questa verità è in fondo supposta, ma un solido titolo di speranza. L’Apocalisse di Giovanni augura la grazia e la pace derivanti da «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,4).

Seconda lettura: 1Corinzi 10,1-6.10-12

 Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

Nei capp. 8-10 della Prima Lettera ai Cor., Paolo affronta lo spinoso problema degli «idolotiti», ossia delle carni degli animali sacrificati agli idoli. I resti di questi sacrifici venivano messi in vendita e regolarmente consumati dalla gente. Per i cristiani di Corinto si poneva il problema, se fosse lecito o no consumare queste carni. Pur affermando, da una parte, il principio della fondamentale libertà del cristiano (c. 8), testimoniato col proprio esempio (c. 9), l’Apostolo, d’altra parte, mette in guardia i Corinzi contro il pericolo di contaminazione e «connivenza» con gli ambienti pagani (c. 10). La nostra pericope si inserisce esattamente al principio di questa lunga ammonizione, che parte dai castighi che colpirono i padri nel deserto a causa della loro infedeltà.

     — Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè… tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, ecc. (vv. 1-4). I fatti principali vissuti da tutto il popolo d’Israele sono riletti alla luce della presente situazione dei cristiani, della loro vita sacramentale (battesimo, eucarestia, presenza del Cristo, ecc.). Si noti l’insistenza martellante sul «tutti»: a nessuno furono negati i doni della salvezza, che prefigurano quelli del regime attuale dei cristiani. Questo accostamento si fa in base alla continuità storico-salvifica che Dio stesso stabilisce tra i fatti dell’esodo e quelli della Chiesa. Il Cristo, preesistente nella storia di Israele, è indicato sia da Mosè («battezzati in Mosè, come noi lo siamo in Cristo), che dalla «roccia» (una tradizione rabbinica voleva che quella roccia, simbolo della sapienza divina, accompagnasse Israele nel deserto).

     — La maggior parte di loro… furono sterminati nel deserto (v. 5). Nonostante tali privilegi, la maggioranza degli Israeliti merita il castigo divino. Alla continuità salvifica si contrappone una «discontinuità» etica da parte di Israele.

     — Ciò avvenne come esempio per noi…» (vv. 6.11). La parola italiana «esempio» corrisponde al greco «typos», che qui assume un duplice significato: prefigurazione ed esempio ammonitore. Come prefigurazione, la storia dell’esodo anticipa, prepara ed è in funzione degli eventi vissuti dai cristiani, eventi ultimi e definitivi della storia della salvezza («è arrivata la fine dei tempi», v. 11).

     Come storia ammonitrice, quella dell’esodo ha la funzione di scuotere i corinzi dalla loro illusoria sicurezza («chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere»). Non si tratta solo di stare in guardia contro la mormorazione (v. 10), ma soprattutto — stando ai vv. 7-9 stranamente omessi nel brano liturgico — di non incorrere nel peccato di idolatria, che equivale a fornicazione, di quanto porta a tradire Dio, per prostituirsi ad altri idoli.

     Pur restando saldo il principio della libertà, occorre evitare il peccato di presunzione, ed essere umili nel ruggire ogni occasione di comunione con gli idoli pagani (v. 14: «Fuggite l’idolatria»).

Vangelo: Luca 13,1-9

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

Esegesi

     La pericope si colloca in quella lunga sezione del vangelo di Luca riguardante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51 – 21,27). Gesti, insegnamenti, ammonizioni di Gesù sono «segnati» da questa tensione verso il compimento decisivo della sua missione, attraverso la passione, la morte, la risurrezione, e quindi dalla dimensione pasquale.

     In particolare, il vangelo di oggi si inserisce tra due momenti che ne caratterizzano ulteriormente il senso kerygmatico:

     — prima, Gesù parla dei «segni dei tempi» invitando ad una condotta che ottenga il giudizio più benevolo possibile da parte di Dio (12,54-59);

     — dopo, la guarigione della donna curva (13,10-17), che rivela potenza salvifica di Gesù, superiore allo stesso sabato, a favore di una «figlia di Abramo».

     In tale contesto il richiamo di oggi a due fatti di cronaca e la parabola del fico, assumono, il senso ineludibile di un invito alla conversione, in presenza di Gesù che sale a Gerusalemme e si immola per tutti, disposto ad attendere, ma ancora per poco, che rispondiamo alle sue chiamate.

     — Il vangelo si compone di due brevi sezioni, ognuna con la sua introduzione: la prima, un monito chiaro alla conversione, prendendo occasione da due fatti tragici (vv. 1-5); la seconda, una parabola che invita ad approfittare, finché dura, del tempo della grazia.

     — Tre annotazioni per evidenziare l’aspetto kerygmatico del testo.

     Prima: i due episodi di morte violenta (strage ordinata da Pilato e crollo della Torre di Siloe) hanno lo scopo di sottolineare come non sempre è da cercare un nesso diretto tra colpa e morte, peccato e infortunio (cf. Gv 9 3) essi devono interpellare chi ascolta, e indurlo a conversione, per non essere impreparato se travolto da eventualità del genere.

     Seconda: in base al Lv 19,23 i frutti di un albero si possono cogliere solo al quarto anno. Se il proprietario dice: «sono tre anni che vengo a cercare frutti» vuol dire che sono passati almeno sei anni da quando il fico è stato piantato. Ma a parte questo lungo tempo, il fico gode del privilegio di essere piantato dentro il vigneto. Albero di poco conto e ingombrante, il fico veniva solitamente piantato altrove, fuori della vigna per non sfruttare il buon terreno destinato alle viti. Il che sottolinea sia la bontà del proprietario, sia il diritto che ha di aspettarsi dei frutti.

     Terza: concimare il terreno di un vigneto, di per se già di buona qualità è operazione insolita. Il fatto che la proposta del vignaiolo non venga respinta – come sarebbe normale – ma accolta dal proprietario, sta ad indicare che egli non vuole risparmiare, ma è disposto a accordare tempi lunghi e a fare tutto il possibile per mettere il fico in condizione di portare frutti.

   — Queste concessioni gratuite e generose contengono una lezione chiara per ogni cristiano: se il giudizio di Dio «ritarda» e se la nostra vita e i benefici di Dio si prolungano nel tempo, tutto questo va letto come «segno» di un tempo di grazia, che urge mettere a frutto, prima che sia tardi.

Meditazione

     Ogni parola che Dio rivolge all’uomo esige non solo un ascolto attento e disponibile, ma soprattutto una scelta di vita che sia conseguente alla parola udita. Non è importante il luogo che Dio sceglie per rivolgere la sua parola all’uomo: può essere un luogo misterioso e pieno di fascino in cui si può incontrare Dio nell’intimità di un dialogo e di uno sguardo pieno di stupore (è l’esperienza di Mosè sull’Oreb, narrata nel testo di Es 3,1-8); può essere la vicenda quotidiana dell’uomo con i suoi eventi drammatici e inquietanti, che esigono un discernimento per cogliere in essi un senso, una presenza che interpella, una parola di vita (cfr. Lc 13,1-9). Ma nel momento in cui l’uomo accoglie nella sua esistenza questa parola, la sua vita deve cambiare: c’è come uno ‘spostamento’, una ‘inversione di rotta’, una conversione.

     Così è avvenuto per Mosè nel terribile e affascinante incontro con quella misteriosa voce che lo chiamava dal roveto ardente. Avvicinarsi a Dio (Es 3,3), essere da Lui chiamati e co-nosciuti per nome (v. 4), essere consapevoli dell’alterità e della santità di Dio (v. 5), accogliere la rivelazione del suo volto e del suo ineffabile nome (vv. 6.14-15), velarsi il viso consapevoli della propria indegnità (v. 6), essere inviati a testimoniare la compassione di Dio per il suo popolo (vv. 7-8), sono le tappe di una radicale conversione che Mosè deve compiere a partire da quella parola pronunciata da Dio dal fuoco del roveto. E dal mo- mento in cui questa parola gli viene rivolta, Mosè ha un diverso rapporto con Dio, con il popolo, con se stesso. Prende a cuore il progetto di Dio, la condizione del popolo oppresso; la sua stessa vita rimane come ferita da questa parola. Ha scoperto l’iniziativa divina, che non può esser condizionata dal capriccio dell’uomo. Non è più lui a decidere, ma è Dio a inviarlo (cfr. il contrasto con l’episodio narrato in Es 2,11-15). Mosè è giunto ad ascoltare la verità di Dio; da allora non ascolta più se stesso e come Abramo è costretto a lasciarsi condurre da Dio e dalla sua parola. In Mosè il cammino di conversione alla parola di Dio sarà continuo e incessantemente ritmato da due domande che lo aprono alla consapevolezza della propria povertà e dell’infinita grandezza di Dio: «Chi sono io per andare dal farao-ne…?» (v. 11) e «Quale è il suo nome?» (v. 13).

     Lo stesso cambiamento di vita a partire da una parola udita è il messaggio che ci propone il testo di Lc 13,1-9. La parola di Gesù di fronte a due avvenimenti di cronaca e la breve parabola del fico che non porta frutto, richiamano la necessità di saper leggere le parole di Dio negli eventi della storia per entrare e collocarsi in essa in una verità di vita, nella vigilanza e nel discernimento. Si tratta di passare da una vita ‘in superficie’ a una vita ‘in profondità’, a una vita convertita alla logica di Dio. Ecco perché di fronte alla negatività della storia, il discepolo di Cristo non può accontentarsi di una semplice cronaca o di un giudizio affrettato e rassicurante. Con un tono che non lascia scampo, proprio a partire da due eventi drammatici noti a tutti (alcuni rivoltosi galilei uccisi da Pilato e alcune persone morte in seguito al crollo di una torre), Gesù pone ciascuno di fronte alla propria responsabilità e alla propria vita: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo steso modo» (v. 3). Ogni segno presente nella storia, ricorda Gesù, ha sempre un risvolto personale: è un invito a cogliere l’importanza decisiva del tempo, la necessità di accogliere l’of-ferta di perdono da parte di Dio resa attuale nella parola e nella persona di Gesù. E così di fronte a un evento drammatico, il discepolo è chiamato a esercitare un discernimento in cui deve lasciarsi coinvolgere come credente. C’è un discernimento illusorio che divide i buoni dai cattivi in nome della giustizia (cfr. la parabola della zizzania in Mt 13,24-30) o considera il male come inevitabile e fatale. Il discernimento a cui invita Gesù apre a una lettura della storia in profondità: il tempo che ci è donato è in vista di una salvezza e gli avvenimenti contengono la parola accorata ed insistente di un Dio che ama la vita e ci chiama a condividerla con lui. Ogni fatto, letto in questa prospettiva può essere un’occasione per mettere in gioco la nostra responsabilità, cambiare modo di pensare e di vivere, ma, soprattutto cambiare il nostro modo di rapportarci a Dio.

     Sotto questa angolatura, il tempo donato all’uomo in vista di una conversione si trasforma in tempo della pazienza (makrothumia) di Dio. A questo ci orienta la breve parabola del fico sterile (vv. 6-9). L’agire dei personaggi, in questa parabola, si colloca tra  l’ovvio e il paradossale. È ovvio, per il padrone di una vigna, tagliare un albero da frutto piantato in mezzo a essa, un fico, che dopo alcuni anni non produce il raccolto desiderato (qui c’è anche un’allusione all’immagine della vigna che produce uva selvatica, in Is 5,1-7): «taglialo, dunque! Perché deve sfruttare il terreno?» (v. 7) dice quel padrone al suo contadino. È paradossale la risposta del contadino al comando del suo padrone: «lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno… vedremo se porterà frutti… se no, lo taglierai» (vv. 8-9). È una proposta che rasenta l’assurdo: come potrebbe portare ancora frutto questo albero sterile? Eppure quel contadino ha uno sguardo che va oltre il fallimento evidente: una possibilità e un tempo ulteriori, con un supplemento di cure, forse gioverà a quell’albero, tanto da poter dare il frutto sperato. «Taglialo… lascialo!»: le due battute di questo breve dialogo ricordano quello tra Dio e Abramo a proposito della distruzione delle città del lago (cfr Gen 18,22 ss.). Come Abramo, quel contadino fa emergere il desiderio di vita che, nonostante la dura e sofferta decisione, rimane nascosto nel cuore di quel padrone. Fuori metafora, la parabola ci rivela il modo di agire di Dio. Dio ha pazienza e il suo sguardo va lontano: non toglie gli occhi dal male e solo lui è capace di sopportare il male con tale sicurezza e fiducia, poiché sa come e quando intervenire. La sua pazienza, allora, e spazio donato per la conversione e la salvezza Ecco perché il comportamento di Dio, proprio alla luce di questa parabola e per noi, così impazienti, tanto assurdo: sfocia nell’impossibile che, per Dio, diventa possibile. Ma, possiamo ancora aggiungere, la pazienza di Dio ha un volto: Gesù. Come non riconoscere nel contadino che implora una possibilità ulteriore, lo stile di Gesù che è venuto a chiamare i peccatori a conversione? Nella parabola Gesù rilegge la propria missione: tre anni di annuncio, di attesa perché il popolo porti frutto e alla fine un

ultimo ed estremo tentativo… «Gerusalemme, Gerusalemme quante volte ho voluto raccoglierei tuoi figli… e voi non avete voluto!» (13,34).

     La parabola rimane aperta: non dice quale sia stato il risultato finale. Tutto è rimandato alla responsabilità e alla capacità di accogliere questa possibilità e questo tempo donati. Sta qui la serietà della conversione. Lo spazio che ci è concesso non ha altra ragione di essere se non nel cuore stesso di Dio. E non c’è altra forza che provochi una reale conversione se non la pazienza, la misericordia di Dio. Possiamo invertire la rotta di un modo di essere sbagliato, non attraverso uno sforzo eroico di volontà, ma se impariamo a guardare noi stessi e gli altri con lo sguardo vasto, infinito di Dio. Uno sguardo che va oltre i confi-ni delle nostre possibilità, del nostro giudizio, del nostro cuore Dio e abituato a vedere le cose in grande; come un contadino sa portare il peso del tempo dell’attesa, non rinuncia a lavorare, ha fiducia nelle potenzialità del terreno, pensa al frutto che può maturare. Non ha piantato l’albero per tagliarlo, ma per raccoglierne i frutti.

Preghiere e racconti

Peccatori in conversione

Tutto è provvisorio nella vita dell’uomo, tutto è legato al tempo: in questo senso i peccatori come i giusti vivono nel tempo, un tempo che è dono di Dio per loro, un tempo di grazia e quindi un tempo aperto alla conversione. Ne il peccatore incallito ne il giusto incallito resteranno tali per sempre, tutti sono chiamati a diventare ‘peccatori in conversione’.

Dio viene a toccarci in infiniti modi per renderci docili a questo stato di conversione; da parte nostra possiamo solo prepararci a essere toccati da Dio.

Estranei alla conversione siamo estranei all’amore. In questo caso rimarrebbero all’uomo solo due alternative: o l’autosoddisfazione e la giustizia propria, oppure una profonda insoddisfazione e la disperazione. Al di fuori della conversione non possiamo stare alla presenza del vero Dio: non saremmo davanti a Dio, bensì davanti a uno dei nostri numerosi idoli. D’altro lato, senza Dio, non possiamo dimorare nella conversione, perché questa non è mai frutto di buoni propositi o di qualche sforzo sostenuto: è il primo passo dell’amore, dell’amore di Dio molto più che del nostro.

Convertirsi significa cedere all’azione insistente di Dio, abbandonarsi al primo segnale d’amore che percepiamo come proveniente da lui. Abbandono, dunque, nell’accezione forte di ‘capitolazione’: se capitoliamo davanti a Dio, ci offriamo a lui. Allora tutte le nostre resistenze fondono davanti al fuoco divorante della sua Parola e davanti al suo sguardo; non ci resta altro che la preghiera del profeta Geremia: « Sconvolgici [lett: rovesciaci], Signore, e noi saremo convertiti [lett.: rovesciati]» (Lam 5,21; cfr. Ger31,18).

(A. LOUF, Sotto la guida dello Spirito, Magnano, 1990, 15-17).

La conversione

La conversione attesta la perenne giovinezza del cristianesimo: il cristiano è colui che sempre dice: « Io oggi ricomincio». Essa nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo: nessuna caduta, nessun peccato ha l’ultima parola nella vita del cristiano, ma la fede nella resurrezione lo rende capace di credere più alla misericordia di Dio che all’evidenza della propria debolezza, e di riprendere il cammino di sequela e di fede. Gregorio di Nissa ha scritto che nella vita cristiana si va «di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine». Sì, sempre il cristiano e la chiesa abbisognano di conversione, perché sempre devono discernere gli idoli che si presentano al loro orizzonte, e sempre devono rinnovare la lotta contro di essi per manifestare la signoria di Dio sulla realtà e sulla loro vita. In particolare, per la chiesa nel suo insieme, vivere la conversione significa riconoscere che Dio non è un proprio possesso, ma il Signore. Implica il vivere la dimensione escatologica, dell’attesa del Regno di Dio che deve venire e che la chiesa non esaurisce, ma annuncia. E annuncia con la propria testimonianza di conversione.

(Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, 67-70).

Dio attende pazientemente la nostra conversione

Fratelli amatissimi, mostriamo, sottomettendoci spiritualmente, quali servi e adoratori di Dio, la pazienza che ci viene insegnata con ammaestramenti divini.

Quale immensa pazienza in Dio! Sopportando pazientemente ciò che l’uomo ha stabilito in oltraggio della sua maestà e della sua gloria, i templi pagani, le immagini e i culti idolatri, fa nascere il giorno e la luce del sole tanto sui buoni quanto sui malvagi (cfr. Mt 5,45); e quando irriga di pioggia la terra, nulla è escluso dai suoi benefici. Senza distinzione prodiga piogge abbondanti per i giusti e per i peccatori (cfr. Mt 5,45).

E sebbene Dio sia amareggiato dalle nostre continue offese, domina la propria indignazione e attende pazientemente il giorno della retribuzione, prestabilito una volta per tutte, e sebbene la vendetta sia in suo potere, preferisce serbare pazienza a lungo, sopportando e indugiando con clemenza perché, se è possibile, la malvagità perpetrata a lungo si trasformi un giorno e l’uomo, dopo essersi compiaciuto in sbandamenti e mali contagiosi, ritorni a Dio che l’ammonisce e gli dice: Non voglio la morte di chi muore, ma che si converta e viva (Ez 18,32). E ancora: Ritornate al Signore vostro Dio perché è misericordioso e buono, paziente e colmo di compassione e tardo all’ira (Gl 2,13b). Il beato apostolo Paolo ricorda queste cose e cerca di ricondurre il peccatore a penitenza dicendo: «O forse disprezzi le ricchezze della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di tè per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,4-6). Ha definito giusto il giudizio di Dio, perché è tardivo, perché è differito a lungo in modo che la grande pazienza di Dio possa provvedere alla vita dell’uomo.

(CIPRIANO, II bene della pazienza 3-4, SC 291, pp. 186-190).

Cambiare la storia

Chi spera cammina,

non fugge!

Si incarna nella storia!

Costruisce il futuro,

non lo attende soltanto!

Ha la grinta del lottatore,

non la rassegnazione di chi disarma!

Ha la passione del veggente,

non l’aria avvilita di chi si lascia andare.

Cambia la storia, non la subisce!

(don Tonino Bello)

Preghiera

«Dio mio,

dammi la forza di cambiare le cose

che possono essere cambiate;

dammi la forza di accettare le cose

che non possono essere cambiate;

e dammi la luce

per distinguere le une dalle altre»

(Anonimo)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003. 

PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA III QUARESIMA (C)

Quaresima e Pasqua, il sussidio on-line

Con il rito delle ceneri, mercoledì 13 febbraio inizia il tempo di Quaresima. Per accompagnare le parrocchie, i gruppi e i movimenti, gli operatori pastorali e quanti potrebbero essere interessati a tale servizio, l’Ufficio Liturgico Nazionale pubblica on line un sussidio liturgico-pastorale – destinato a coprire anche il tempo pasquale – dal titolo “Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi” (1Gv 4,16), suggerito dal messaggio di Benedetto XVI.
“Partendo dall’esperienza liturgica – scrive Mons. Crociata nell’introduzione al sussidio– la proposta offre una serie di suggerimenti e percorsi per vivere in maniera capillare il mistero in ogni ambito di vita”.
 
Il sussidio è visitabile e scaricabile all’indirizzo http://www.chiesacattolica.it/quaresima2013

La riconoscenza della Chiesa italiana

Un inserto speciale allegato domenica 24 febbraio ad «Avvenire» esprime la gratitudine più profonda al Papa nel giorno del suo ultimo Angelus in piazza San Pietro. Nelle pagine, l’analisi dei temi centrali del pontificato affidati a grandi firme.
Ad aprire la carrellata, l’editoriale del Card. Bagnasco, che riproduciamo.
 
“Dopo l’inattesa rinuncia di Benedetto XVI che ha commosso la Chiesa e il mondo, affiorano d’impulso ricordi e sen­timenti. Anche nel mio animo si affollano pensieri e immagini, gesti e parole che han­no segnato il mio servizio alla Chiesa e, in­nanzitutto, la mia vita di credente. In quan­to cardinale e come presidente della Cei, ho avuto la grazia e la gioia di poterlo in­contrare più volte. Ogni volta, sentivo che il carisma petrino di confermare la fede mi aveva segnato. E quanto più l’attenzione affettuosa sulla Chiesa che è in Italia, e la mitezza della sua parola erano visibili, tan­to più la conferma era chiara e vigorosa. Rincuorava il cammino con il calore della sua paternità universale e sollecitava nel­la verità del Vangelo da vivere con radica­lità e da annunciare con gioia. Se posso o­sare, mi ha da subito colpito la libertà in­teriore di quest’uomo venuto dal nord, che Cristo aveva scelto come Successore di Pie­tro. Una libertà – pensavo – possibile solo quando il cuore batte con quello di Dio e non si ha nulla da affermare di sé. La di­screzione del tratto, la naturale riservatez­za sembravano il desiderio di distogliere l’attenzione dell’interlocutore dalla sua persona: come un dito puntato su Cristo. L’urgenza di annunciare che Gesù è il Si­gnore della vita e della speranza, infatti, è l’urgenza che ha ispirato tutto il suo pon­tificato. L’annuncio in un mondo che cam­bia vorticosamente, fino a voler ridefinire i fondamenti dell’umano, richiede una fe­de pensata capace di parlare alla moder­nità con serena chiarezza. I suoi interven­ti – dalle omelie ai discorsi, dalle encicliche ai libri – sono un esempio di amore, di lu­cidità di pensiero e di metodo, a cui guar­dare come luminoso riferimento per con­tinuare nel dialogo con l’uomo contempo­raneo. Egli è alla ricerca – magari incon­scia – del senso ultimo del vivere e delle ragioni del credere con le sue implicazioni morali.
L’emozione con cui viviamo la decisione u­mile e ferma di Benedetto XVI si associa a un profondo senso di riconoscenza per il suo ministero a servizio della Chiesa e del mondo. Vorremmo che il Santo Padre sen­tisse ora, più forte che mai, l’abbraccio dei Vescovi italiani. Insieme alle loro comunità, si stringono a lui con affettuosa gratitudi­ne per l’esempio, e per la parola segnata dall’autorità di Pietro e dalla dolcezza di Benedetto”.

Giovani, università e comunicazione della fede

In questi ultimi anni, numerosi sono stati i messaggi provenienti dal Santo Padre Benedetto XVI e dagli organi della Chiesa che si rivolgono con sempre maggiore attenzione ai giovani. Basti pensare, tra i molti, al messaggio di Papa Benedetto per la Giornata Mondiale della Pace del 2012 dal titolo: “Educare i giovani alla giustizia e alla pace”, oppure alla recente plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura del 2013 dal tema: “Culture giovanili emergenti”. Per comprendere i cristiani di domani, in sintesi, è importante conoscere e sostenere i giovani di oggi.

Abbiamo chiesto alcune considerazioni in merito al vescovo titolare di Eraclea, Enrico dal Covolo, Rettore della Pontificia Università Lateranense che in questi giorni si trova Iran. È, infatti, in visita ufficiale presso l’Università islamica di Teheran. 

è  stata da poco celebrata la Giornata della Vocazione e della Vita Consacrata. Lei prima di tutto è sacerdote, salesiano e poi rettore dell’Università del Papa. Cosa significa la sua vocazione di salesiano al servizio della Lateranense? 

Mons. Enrico dal Covolo: Ritengo di essere stato inviato in questa università soprattutto per essere al servizio dei giovani e per la promozione della cultura accademica, sempre orientata alla crescita dei giovani, degli studenti e di conseguenza anche dei professori di questa università. Ritengo, però, che i giovani siano la mia patria determinante. Molte volte dico che l’università se c’è, se esiste, è per i giovani e per gli studenti, non è di per sé per i professori. E’ finalizzata alla crescita dei giovani e per questo mi ritrovo come a casa perché questa è la via che ho scelto come salesiano: fare di loro, secondo il progetto di Don Bosco, degli onesti cittadini e dei buoni cristiani, lavorando secondo il sistema che Don Bosco ci ha consegnato, basato sulla ragione, sulla religione e sull’amorevolezza. 

Nel discorso d’inizio anno accademico 2012/2013, Lei ha sottolineato l’importanza della pastorale universitaria durante il percorso formativo degli studenti. Quali sono i compiti principali di tale attività affinché i giovani possano essere aiutati a capire la loro vocazione? 

Mons. Enrico dal Covolo: La pastorale universitaria è soprattutto un accompagnamento. “You to you”, a “tu per tu” coi giovani affinché, in questa esperienza accademica, siano facilitati a scoprire il disegno globale, il progetto di vita che il Signore indica a loro. Non è un cammino facile, si tratta di procedere con il discernimento e si tratta di rendere capaci i giovani di porsi la domanda giusta, la sola domanda: “Signore, che cosa vuoi che io faccia con la mia vita?”. Io spesso raccomando ai giovani che i loro progetti personali siano sovrastati, siano guidati da questa domanda: “Signore, che cosa vuoi che io faccia con la mia vita?”. Proprio per questo, durante l’anno accademico, abbiamo avviato un’esperienza senza dubbio molto interessante di pastorale universitaria: la nuova convivenza di casa Zaccheo. Una casa al centro di Roma dove dodici nostri giovani, ragazzi e ragazze dell’università, si sono messi insieme per un progetto di vita comunitaria all’insegna precisamente di questa domanda centrale: “Signore che cosa vuoi che io faccia con la mia vita? ”. 

Il Santo Padre, Papa Benedetto XVI, ha dedicato quest’anno alla Fede. In questo contesto Lei ha stabilito che il corrente anno accademico fosse dedicato alla comunicazione della fede. Cosa si intende per comunicazione della Fede nei tempi odierni?

Mons. Enrico dal Covolo: Qui devo fare delle precisazioni. Il progetto del quadriennio del mio rettorato è segnato da quattro parole chiavi: la prima è l’“emergenza educativa”, e questo ha contraddistinto l’anno accademico 2010/2011. La seconda parola è la “formazione dei formatori” come risposta appunto alla emergenza educativa; questo impegno ha sottolineato in modo speciale l’anno accademico 2011/2012. Poi ci sono altre due vie che io ritengo prioritarie, due mezzi particolarmente efficaci per raggiungere l’obiettivo che ci siamo proposti, che è appunto la formazione dei formatori come risposta all’emergenza educativa. E queste due vie, questi due mezzi privilegiati, sono “la pastorale universitaria”, di cui abbiamo già parlato ed a cui dedicheremo il prossimo anno accademico 2013/2014, e “la comunicazione”, di cui ci stiamo occupando in modo speciale in quest’anno 2012/2013. Ma questo è anche l’Anno della Fede, e così abbiamo pensato di intitolare questo anno accademico 2012/2013 proprio come l’anno della comunicazione della Fede. Così facendo, abbiamo anche inteso superare un possibile equivoco. 

Trasmettere la Fede certamente è importante e decisivo, ma noi non vorremmo che con il termine “trasmettere la Fede” si alludesse soltanto e semplicemente a un problema di contenuti da trasmettere, cioè all’aspetto oggettivo della fede. Noi siamo convinti, secondo la grande lezione dei Padri, che esiste anche un aspetto soggettivo, che va testimoniato, accanto a quello oggettivo, che va trasmesso. Quindi, le due cose insieme, trasmettere e testimoniare, ci hanno fatto scegliere questa espressione “comunicare la Fede”, comunicarla nella sua interezza sia per quanto riguarda gli aspetti oggettivi, cioè il catechismo, sia per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, cioè la testimonianza personale della Fede cristiana.  

Com’è il rapporto della Chiesa con i nuovi mezzi di comunicazione? 

Mons. Enrico dal Covolo: Il rapporto è di grande apertura. Basti leggere i messaggi come l’ultimo del Papa per la giornata mondiale delle comunicazioni. Sono messaggi di ampio respiro. Dall’altra parte però devo ammettere che siamo ancora all’inizio. Bisogna che dedichiamo più tempo ed energie a questo ambito. E’ proprio per questo che noi, il 14 di febbraio, avvieremo un’altra iniziativa. Inaugureremo un master di “Digital Journalism”, frequentato da circa trenta corsisti che verranno istruiti dai migliori esperti della comunicazione digitale. Questo master durerà fino al mese di dicembre dell’anno in corso, a cavallo tra i due anni accademici. E’ un programma molto ambizioso. Noi lo proponiamo al servizio della società e della cultura, ma anche per una motivazione ecclesiale.

Abbiamo avvertito un’urgenza: molte riviste, bollettini parrocchiali o riviste diocesane ormai sono in difficoltà con il supporto cartaceo ed è sempre meno possibile, anche per i costi che la cosa comporta, andare avanti in questa direzione. Sempre più si avverte l’urgenza di passare al digitale. Noi vorremmo abilitare questa trentina di persone in modo che possano anche offrire un competente servizio nella gestione di questa particolare emergenza che si è creata all’interno della Chiesa.  

I nuovi modi di comunicare la Fede come incidono sulla vocazione dei giovani e sulla loro percezione di essa? (Ovvero, come è cambiato, se è cambiato, il modo di vivere la vocazione?)

Mons. Enrico dal Covolo: Bisogna ricordare ciò che molto giustamente ha detto il Papa nel messaggio per la pace nel 2012. In quel messaggio si evocava il legame strettissimo che esiste tra educazione e comunicazione. Diceva il Papa che l’educazione è comunicazione, quindi ci sono ampie zone di interferenza diretta ed esplicita. La stessa cosa può essere detta riguardo alla vocazione e alla comunicazione: cioè l’esistenza di ampie aree di interferenza reciproca. Quando pongo la domanda giusta, ovvero: “Signore che cosa vuoi che io faccia?”, è chiaro che invito il giovane ad aprirsi generosamente alla comunicazione, ad aprirsi all’altro. Certo, all’altro con la “A” maiuscola, ma anche agli altri che sono il nostro prossimo.  

Lei, ha compiuto recentemente un viaggio in Medio Oriente presso gli istituti che sono affiliati alla Lateranense. Ha avuto modo di incontrare i giovani e di parlare con loro?

Mons. Enrico dal Covolo: Naturalmente, perché una delle istanze previste era proprio il colloquio diretto con gli studenti. Così li ho radunati insieme, e ho avuto anche delle occasioni di colloquio a “tu per tu” con molti di loro. Mi sono accorto con grande soddisfazione e con grande speranza durante questo viaggio in Medio Oriente che i giovani dei nostri centri affiliati studiano bene e con un obiettivo ben chiaro, cioè quello di essere capaci di incidere per edificare una società, una civiltà migliore. E quando dico migliore intendo dire soprattutto sul versante della pace, del dialogo culturale e interreligioso, al fine di costruire un tessuto sociale meno sofferente, meno conflittuale. Credo che in questo momento tra i valori più sentiti dai giovani in Medio Oriente, ci sia, in assoluto, il valore della pace. Certamente con tutto quello che lo circonda come l’educarsi ad essere efficaci promotori di pace; da qui anche lo studio appassionato della dottrina sociale della Chiesa che si va compiendo in questi centri. Fondamentale è anche il dialogo interreligioso perché c’è la convinzione in questi giovani, che io ritengo giusta, che il dialogo migliore e più efficace sia quello che si può costruire proprio su basi culturali solide: è proprio qui che si gioca la possibilità dell’incontro rispettoso e tollerante. Purtroppo con le frange estremiste o fondamentaliste questo non è possibile.

Quindi sono questi i valori principali con cui si identificano i giovani cristiani in Terra Santa?

Mons. Enrico dal Covolo: Soprattutto il valore della pace! Ma ci sono intorno anche molti altri valori per il conseguimento di questa. Una capacità di servizio e di dono di sé. Mi colpisce molto e mi entusiasma il fatto che questi giovani non studino tanto per se stessi, cioè non si chiudano nella torre d’avorio di una cultura asettica, ma cerchino al contrario di mettere le nozioni, lo studio che fanno, al servizio di questo progetto sociale di convivenza migliore.

In Medio Oriente è particolarmente importante – come ha accennato anche Lei – il dialogo interreligioso nel nuovo processo di evangelizzazione. Questo è naturalmente un precipuo compito anche dei giovani cristiani. Come affrontano tale tema questi istituti affiliati alla Lateranense?

Mons. Enrico dal Covolo: Lo affrontano in base alle caratteristiche proprie del Centro accademico a cui ci riferiamo. Comunque, un’istanza condivisa e comune è quella di una conoscenza reciproca maggiore, cioè conoscere meglio per esempio i testi di riferimento delle religioni di cui si parla, conoscere meglio le tradizioni di queste religioni, cercare di capire di più per capirsi di più. Noi abbiamo dei Centri che si occupano maggiormente del dialogo con l’una o con l’altra religione: per esempio nella Domus Galilaeae, presso la quale abbiamo un Istituto affiliato di studi teologici, il Seminario Redemptoris Mater, ci si è specializzati in modo particolare, su indicazione del Papa Beato Giovanni Paolo II, sul dialogo ebraico-cristiano. In tale contesto, quindi, viene portato specificamente avanti il filone di questo tipo di dialogo. Invece, come ulteriore esempio, nella Università Saint-Joseph di Beirut ho visto che si coltiva maggiormente il dialogo con la religione islamica. Queste sono le caratteristiche proprie di ogni Centro. Però possiamo dire che c’è una costante, un minimo denominatore comune ben condiviso che è questo: una conoscenza maggiore, un rispetto reciproco, il desiderio di capirsi di più.

Cosa si sente di augurare ai giovani che stanno cercando la loro vocazione?

Mons. Enrico dal Covolo: Quello che dico sempre! Non aver paura di accettare ciò che il Signore indica come la tua strada, anche se a prima vista questo potrebbe comportare grossi sacrifici, ma si deve partire dalla consapevolezza che la propria felicità più grande può realizzarsi solo in questa direzione, cioè che la nostra felicità più grande si realizza nell’obbedienza al progetto che Dio ha sopra di noi. Qualunque altra strada non conduce alla felicità piena. Anche quando il Signore fa delle proposte impegnative. Possiamo pensare alle vocazioni consacrate, alle vocazioni missionarie, alle vocazioni di speciale servizio nella Chiesa e nel popolo di Dio: certamente questo comporta tanti sacrifici, però – se una persona è chiamata a questa strada – questa è l’unica via per raggiungere la vera felicità, che io auguro sempre ai giovani. La vera felicità coincide con la santità: cioè essere felici di qua e di là.

Il 31 gennaio è stato celebrato San Giovanni Bosco. I salesiani come hanno festeggiato il loro fondatore che è stato un vero protettore dei giovani?

Mons. Enrico dal Covolo: Certamente in base alle proprie culture locali. Ho visto, seguendo i vari servizi dell’Agenzia notizie salesiane, c’è un tripudio di festeggiamenti in onore di Don Bosco direi molto ben marcati dalla situazione locale in cui avvengono tali festeggiamenti. C’è però una sorta di elemento comune che lega i festeggiamenti quest’anno, ovvero la preparazione a marce sempre più robuste verso il 2015, per i 200 anni di nascita del nostro Fondatore. Il rettore maggiore ha indicato questi anni, questo triennio che ci avvicina al 2015, come anni di preparazione specifica guidati da un programma. Ogni anno viene proposto un certo aspetto della spiritualità di Don Bosco e della sua santità, del suo carisma, da approfondire. E così il festeggiamento di quest’anno è orientato a sottolineare la caratteristica fondamentale della missione di Don Bosco: la pedagogia salesiana basata sul sistema preventivo. 

II DOMENICA DI QUARESIMA

 Prima lettura: Genesi 15,5-12.17-18

 In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate».

Nella seconda domenica di quaresima la liturgia ci propone nell’anno A la chiamata, nell’anno B il sacrificio di Isacco e nell’anno C l’alleanza. La vita di Abramo era completamente cambiata dopo che aveva sentito la chiamata del Signore (Gn 12). Si era fidato della sua parola. Era partito per una terra che non conosceva fidandosi di Dio che gli aveva promesso un figlio. Il tempo però era passato e la promessa non sembrava realizzarsi. Abramo sperimenta l’incertezza, l’oscurità della fede per il silenzio prolungato di Dio.

     Ma ora il Signore stesso prende l’iniziativa e gli parla: Guarda in cielo e conta le stelle(v. 5). Nonostante la sterilità avrà una discendenza come le stelle del cielo. Abramo ancora una volta credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia (v. 6). È l’”amen” della fede proclamata dai profeti. La fede è un “credente in” prima ancora di un “credere che”. È fondare la propria vita sulla parola del Signore. Come i sacerdoti usavano pronunciare un giudizio a riguardo della perfezione della vittima sacrificale (cf. Lv 7,18), ora il giudizio viene pronunciato da Dio a riguardo della decisione di fede di Abramo. Era quello il giusto rapporto della creatura con il suo creatore. Anche i profeti dicevano: “obbedire è meglio del sacrificio” (cf. 1Sam 15,22). Nell’interpretazione paolina “giustizia” è l’atto ultimo della storia della salvezza. Abramo diventa il primo dei credenti a sperimentare la giustizia di Dio, la riconciliazione con lui, a prescindere da ogni opera della legge, in quanto la circoncisione gli verrà chiesta solo più tardi. (c. 17).

     Il Signore con un rito tradizionale in cui si tagliavano le bestie a metà, sigilla con Abramo un’alleanza: Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra (v. 7). Con essa egli gli rinnova la promessa della terra. I contraenti dovevano secondo l’uso passare attraverso gli animali tagliati imprecando la stessa sorte se venissero meno alla parola. Dio non permette ad Abramo di passare. Lui solo passa in mezzo agli animali come braciere fumante (v. 17), impegnandosi da solo a mantenere le promesse.

Seconda lettura: Filippesi 3,17-4,1

 Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!

Paolo in questa lettera parla alla comunità di Filippi della propria esperienza di Gesù Cristo, come sia stato lui afferrato sulla via di Damasco e come ora tutta la sua vita non sia altro che un correre dietro a lui, in attesa di stare sempre con lui in cielo. Allora si capisce come il brano della lettura odierna inizi con questa frase dell’apostolo: Fratelli, fatevi insieme miei imitatori (v. 17). Paolo era stato un giudeo praticante, ma ora tutte le pratiche ebraiche sono diventate una spazzatura di fronte all’esperienza dell’amore salvifico di Cristo manifestatosi nella sua croce.

     Anche i cristiani si mettano nello stesso cammino che sta dando la vita all’apostolo che ha portato loro la fede. Molti si comportano da nemici della croce di Cristo (v. 18). Molti non seguono il suo esempio. Il peccato continua a manifestarsi come potenza efficace. Il fallimento dei cristiani è l’abbandono della croce di Cristo. Nonostante la redenzione si dà ancora tiepidezza, tentazione, tradimento, perciò è importante stare attenti non solo alla predicazione dell’apostolo, ma anche al suo esempio. Alcuni preferiscono salvarsi con i propri sforzi, non accettando l’amore preveniente di Dio manifestatesi nel volto di Cristo in croce.  Ma il cammino della croce è l’unico che conduce al cielo: La nostra cittadinanza infatti è nei cieli (v. 20). La comunità cristiana tiene lo sguardo rivolto all’abitazione celeste. È lì che ci aspetta Cristo risorto. Egli trasfigurerà il nostro misero corpo (v. 21). In cielo ci sarà una nuova esistenza per l’uomo intero. L’uomo vivrà, non sarà più nella bassezza, ma nella gloria, configurato al corpo di risurrezione di Cristo, assiso alla destra di Dio. Vi è un evidente legame di questo passo con il vangelo odierno.

Vangelo: Luca 9,28-36

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

Esegesi

 Il ministero di Gesù in Galilea stava per concludersi con esito deludente. Inizia l’ultima parte dell’esodo di Gesù al Padre che si compirà a Gerusalemme sul monte Calvario. Il monte Tabor, che secondo la tradizione è il monte della trasfigurazione di Gesù, si sovrappone al Calvario per interpretare il senso della passione: La croce è gloriosa.

     Osserviamo chi partecipa a questa esperienza. Innanzitutto Gesù, che salì sul monte a pregare (v. 28). L’evento è così inserito totalmente nella sfera di Dio. L’unione con il Padre si manifesta anche visibilmente nel volto di Gesù che cambiò d’aspetto (v. 29). Come nella preghiera del Getsemani gli appare un angelo a confortarlo, anche ora appaiono due personaggi dell’Antico Testamento, Mosè ed Elia (v. 30), che parlavano con lui del suo esodo (v. 31). Un esodo non è una fine, ma una pasqua, un passaggio dalla sofferenza alla gioia, da questo mondo al Padre, un passaggio che dirà al mondo che egli è sempre vissuto in unione con il Padre.

     I discepoli non ci sono tutti, ma solo Pietro, Giovanni e Giacomo (v. 28). Tre sono sufficienti per dare una legittima testimonianza. Come nell’orto degli Ulivi essi sono oppressi dal sonno (v. 32). È un sonno che manifesta anche l’incomprensione del mistero di Gesù Cristo. Per questo in quei giorni, cioè durante la vita terrena di Gesù, non riferirono a nessuno ciò che avevano visto (v. 36). Dopo Pasqua tutto sarà chiaro e potranno testimoniare la gloria di Gesù. Hanno bisogno degli occhi del cuore per capire il senso della croce. Pietro cerca di rendere eterno quel momento paradisiaco, che forse gli ricordava la gioia della festa delle capanne. Invece Mosè ed Elia si separavano da lui (v. 33); l’antico si ritirava per far posto alla novità.

     Venne una nube e li coprì con la sua ombra (v. 34). La nube è un segno della presenza di Dio, che conferma in questo caso di essere dalla parte di Gesù, cioè che la salvezza si realizza mediante il suo esodo. La voce divina interpreta il significato della trasfigurazione di Gesù. Questi è il Figlio mio, l’eletto (=scelto), parola che evoca la figura del servo di JHWH (Is 42,1). Il Messia è legato alla sofferenza e alla croce. Il comando: ascoltatelo (v. 35) si rifà a Dt 18,15, che invita ad ascoltare il profeta definitivo di Dio, che porta a compimento la Legge (Mosè) e i profeti (Elia).

Meditazione

     Ogni anno liturgico ci fa ascoltare, nella seconda domenica di Quaresima, il racconto della Trasfigurazione del Signore. Il cammino quaresimale sembra così interrompersi, o meglio giungere già alla sua meta, facendoci contemplare la gloria pasquale che traspare dal corpo luminoso del Signore trasfigurato. Dopo il cammino nel deserto della prova (nella prima domenica di Quaresima) oggi saliamo con Gesù e i suoi tre discepoli più intimi sul Tabor. Anche noi probabilmente saremmo tentati con Pietro di arrestare qui la nostra sequela costruendo tre tende, ma di fatto l’esperienza del Tabor non costituisce la meta finale del cammino; ci suggerisce piuttosto quali siano le condizioni e gli atteggiamenti interiori che consentono a Gesù, come a ogni suo discepolo, di proseguire il viaggio – l’esodo lo definisce Luca nel suo racconto – verso Gerusalemme e verso la Pasqua. Più che interrompere il cammino quaresimale, la Trasfigurazione ce ne svela il significato più nascosto, permettendoci di assaporare già il suo frutto.

     Il brano della lettera ai Filippesi che ascoltiamo come seconda lettura ci suggerisce un angolo prospettico in cui rileggere l’esperienza del Tabor. Paolo polemizza con coloro che «si comportano da nemici della croce di Cristo» (3,18). Probabilmente allude a quanti pretendono che l’obbligo della circoncisione e dell’osservanza integrale della Legge di Mosè venga imposto anche ai cristiani provenienti dal mondo pagano. Se per l’autentica esperienza di Dio sono ancora indispensabili i precetti della Torah, allora viene svuotata di significato la Croce, che per Paolo è invece la rivelazione luminosa di una salvezza che ci raggiunge gratuitamente, non in forza delle nostre opere, ma dell’amore di Dio che nel Figlio crocifisso ci libera dal peccato e dalla morte. Noi oggi avvertiamo come molto distanti da noi queste tematiche: non abbiamo più il problema della circoncisione o dell’osservanza della legge mosaica. Eppure le parole di Paolo conservano la loro attualità, perché dietro la posizione di chi si comporta da nemico della croce di Cristo, egli scorge l’atteggiamento di chiunque, in vario modo, presume di potersi salvare in forza delle proprie opere, confidando in se stesso e nelle proprie pratiche religiose. Paolo definirebbe questo atteggiamento un confidare nelle «opere della carne», anziché gloriarsi, o vantarsi di Gesù Cristo, confidando in lui e nella sua grazia. Infatti, all’atteggiamento dei nemici della croce di Cristo, Paolo contrappone quello di coloro che aspettano «come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3, 20-21). Anziché confidare in una salvezza da conquistare con l’opera delle proprie mani, occorre attendere colui che nel suo amore ha la possibilità di trasfigurare la nostra vita rendendola conforme alla sua.

     Tale è anche la fede di Abramo di cui ci parla la prima lettura tratta dal libro della Genesi. «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (v. 6). Abramo crede al Signore e si fida del segno che gli viene donato: «poi lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”; e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”» (v. 5). La garanzia della promessa di Dio è un cielo stellato. Ad Abramo che chiede un erede, Dio promette molto di più: una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Dio sottolinea l’‘eccesso’ della sua promessa con l’espressione «se riesci a contarle», che sembra anzitutto mostrare quanto il progetto di Dio sia infinitamente più grande dell’attesa di Abramo. Sovrasta la sua speranza quanto il cielo sovrasta la terra. Inoltre, questo cielo stellato che nessuno può contare ricorda ad Abramo che egli dovrà fidarsi della promessa senza poterla verificare. Contare una realtà significa poter esercitare un controllo su di essa. Abramo, al contrario, deve contemplare le stelle senza poterle contare; deve cioè fidarsi del-la promessa senza cercare di dominarla. In una parola, deve semplicemente credere. Ed è ciò che Abramo fa, come afferma il v. 6: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia». A rendere l’uomo giusto non sono le opere della carne – il confidare in se stessi e nelle proprie possibilità – ma è la fede, come disponibilità ad affidarsi all’opera che Dio compie in noi. Non pretendendo peraltro di avere altra certezza se non quella offerta dalla Parola stessa. In altri termini, non avendo altra garanzia che un cielo stellato, che non puoi contare. Si tratta sempre della garanzia di un affidamento, non di un possesso.

     Questa è la fede che anche Pietro, Giacomo, Giovanni devono ricevere dall’esperienza che vivono sul Tabor. Pietro vorrebbe costruire tre capanne, in qualche modo per bloccare l’esperienza di Dio in ciò che può personalmente dominare, edificare con le proprie mani, tenere sotto il controllo dei propri occhi. Al contrario, Pietro viene rinviato, dalle parole del Padre, all’affidamento dell’ascolto e alla perseveranza della sequela. «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (v. 35). Queste parole risuonano sul Tabor «circa otto giorni dopo questi discorsi», come precisa l’evangelista introducendo il racconto (v. 28). Il riferimento non può che andare a ciò che Gesù ha iniziato a dire ai discepoli subito prima, annunciando il suo destino di passione e invitando Pietro e i suoi compagni a seguirlo lungo la stessa via: «se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (9,23). L’imperativo dell’ascolto è l’imperativo della sequela: si devono ascoltare le parole di Gesù per seguirlo lungo la stessa strada che conduce a Gerusalemme, dove Gesù vivrà l’esodo pasquale del quale conversa con Mosè ed Elia, cioè con la Legge e i Profeti, con tutte le Scritture. È nella luce della parola di Dio che Gesù comprende il significato del suo cammino e trova il sostegno per viverlo. Ed è nella luce delle stesse Scritture che possono farlo anche i discepoli. La gloria di Gesù la si contempla non tentando di circoscriverla nelle tre capanne costruite da mani di uomo, ma seguendolo fino a Gerusalemme, fino ai piedi della croce. Solo lì si manifesterà pienamente la gloria del Figlio di Dio di cui la Trasfigurazione rimane un’anticipazione profetica.

     Anche per Gesù e i suoi discepoli, dopo l’esperienza straordinaria del Tabor, riprende il cammino nella discesa dal monte, forse con la stessa fatica di prima, anzi con una fatica che si fa ancora più grave, giacché ora la via si precisa sempre più come orientata verso Gerusalemme e verso la croce. Ma ora diviene un cammino che può essere vissuto con un cuore trasfigurato dall’incontro con Dio. Questo è stato vero innanzitutto per l’esperienza di fede che ha vissuto Gesù stesso. La scena della Trasfigurazione ci rivela infatti la gloria e la luce in cui Gesù ha potuto vivere fino in fondo, nella fedeltà e nella perseveranza, nell’ascolto della Parola e nell’obbedienza al Padre, il suo cammino esodico e pasquale. Rivela non semplicemente la gloria e la luce che lo attendevano al termine del cammino, ma la gloria nella cui luce ha potuto egli stesso camminare verso la Pasqua. Mentre attorno a lui tutto si oscurava, egli aveva la sorgente della luce dentro di sé, e proprio questa luce intima, segreta, gloriosa, ha continuato a illuminare i suoi passi anche nella notte. E l’aveva dentro di sé, ci ricorda il racconto di Luca, perché ha vegliato nella preghiera e ha conversato con le Scritture. Chi non prega e non ascolta la parola di Dio, come inizialmente accade a Pietro, rimane nella notte e viene sopraffatto dal sonno.

Preghiere e racconti

La Trasfigurazione

L’icona della Trasfigurazione ci rimanda al tema della divinizzazione dell’uomo, tanto caro alla tradizione dell’Oriente cristiano. I colori usati emanano e rivelano la luce taborica. Questa immagine manifesta lo splendore divino e rispecchia il principio per cui un’icona non si guarda, ma si contempla. Anticamente, questa era la prima icona che un allievo iconografo scriveva per apprendere il segreto della sua missione: penetrare nel Mistero di Dio e dischiudere gli occhi alla sua luce, al fine di rendere gli altri partecipi di questa grazia.

Nell’episodio della Trasfigurazione Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta sopra il monte alto dove Dio si fa conoscere dall’uomo. Al centro dell’icona Gesù risplende, è avvolto in vesti candide ed è circondato da una nube luminosa. Egli benedice i discepoli e li introduce nell’esodo pasquale che compirà a Gerusalemme. In basso, quasi alle falde del monte, gli apostoli, costretti al suolo e incapaci di sostenere il bagliore della divinità, sono estasiati e turbati spettatori della Gloria di Dio.

Lo splendore e la magnificenza di Gesù ci rendono consapevoli della nostra meschinità e dell’infinita distanza che ci separa da Lui; possiamo, però, essere fiduciosi e sereni: la sua luce accompagna i nostri passi mentre scendiamo dal monte e riprendiamo il quotidiano cammino. L’evento della Trasfigurazione, custodito e meditato in cuore, ci  aiuterà ad affrontare le difficoltà della strada: la Gloria che gli apostoli hanno visto è la meta bellissima che ci attende!

Lasciare che il mio cuore

si sciolga

alla dolce tua presenza,

contemplare il tuo volto

e perdermi…

La tua bellezza mi trasfiguri

la tua luce mi invada

il tuo amore mi trasformi

così potrò percorrere le strade

della terra

irradiando Te.

Così sarà meno duro vivere

nell’attesa di essere con te

per sempre.

La Trasfigurazione di Gesù

Gesù voleva che i suoi discepoli in particolare quelli che avrebbero avuto la responsabilità di guidare la Chiesa nascente facessero un esperienza diretta della sua gloria divina per affrontare lo scandalo della croce. In effetti quando verrà l’ora del tradimento e Gesù si ritirerà a pregare nel Getsemani terrà vicini gli stessi Pietro Giacomo e Giovanni chiedendo loro di vegliare e pregare con Lui (cfr Mt 26 38). Essi non ce la faranno, ma la grazia di Cristo li sosterrà e li aiuterà a credere nella Risurrezione. Mi preme sottolineare che la Trasfigurazione di Gesù è stata sostanzialmente un’esperienza di preghiera (cfr. Lc 9, 28-29). La preghiera infatti raggiunge il suo culmine e perciò diventa fonte di luce interiore quando lo spirito dell’uomo aderisce a quello di Dio e le loro volontà si fondono quasi a formare un tutt’uno. Quando Gesù salì sul monte si immerse nella contemplazione del disegno d’amore del Padre che l’aveva mandato nel mondo per salvare l’umanità. […] Cari fratelli e sorelle vi esorto a trovare in questo tempo di Quaresima prolungati momenti di silenzio possibilmente di ritiro per rivedere la propria vita alla luce del disegno d’amore del Padre celeste. Lasciatevi guidare in questo più intenso ascolto di Dio dalla Vergine Maria maestra e modello di preghiera. Lei anche nel buio fitto della passione di Cristo non perse ma custodì nel suo animo la luce del Figlio divino. Per questo la invochiamo Madre della fiducia e della speranza.

(Benedetto XVI, Parole prima dell’Angelus, 08. 03. 2009).

 

Per fondare la nostra speranza

Era necessario che gli apostoli concepissero con tutto il cuore quella forte e beata fermezza e non tremassero davanti all’asprezza della croce che dovevano prendere; era necessario che non arrossissero del supplizio di Cristo, né che stimassero vergognosa per lui la pazienza con la quale doveva subire le sofferenze della passione senza perdere la gloria del suo potere. Così Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello (Lc 9,28), salì con loro su una montagna in disparte e manifestò loro lo splendore della sua gloria […] Senza dubbio la trasfigurazione aveva quale primo scopo quello di rimuovere dal cuore dei suoi discepoli lo scandalo della croce, affinché l’umiltà della Passione liberamente subita non turbasse la fede di coloro ai quali era stata rivelata la sublimità della dignità nascosta. Ma con non minore previdenza veniva fondata la speranza della santa chiesa, in modo che l’intero corpo di Cristo conoscesse quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e i mèmbri si ripromettessero di partecipare all’onore che aveva rifulso sul capo del corpo.

A questo proposito il Signore stesso aveva detto, parlando della maestosità della sua venuta: Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro (Mt 13,43), e il beato Paolo afferma la stessa cosa quando dice: «Io ritengo, infatti, che le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi (Rm 8,18) […] Pietro disse: Signore, è bello per noi stare qui. Se vuoi, facciamo tre tende, una per te, una per Mosè, una per Elia» (Mt 17,4). Il Signore non risponde a tale proposta, volendo mostrare non che era cattiva, ma che era fuori luogo, perché il mondo non poteva essere salvato se non dalla morte di Cristo e la fede dei credenti era chiamata dall’esempio di Cristo a comprendere che, senza giungere a dubitare della felicità promessa, dobbiamo tuttavia in mezzo alle tentazioni di questa vita, chiedere la pazienza prima della gloria, perché la felicità del regno non può precedere il tempo della sofferenza.

(LEONE MAGNO, Discorsi 38,2-3.5, SC 74, pp. 16-19).

Il Tabor e il Getsemani

Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.                                                    

Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia,1980,140).

Ancora e sempre sul monte di luce 

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

 

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

 

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

 

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

 

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D.M. Turoldo).                

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003. 

Quale documento per valutare l’Insegnamento della Religione Cattolica?

Siamo a febbraio e in questo periodo molte famiglie stanno prendendo visione delle pagelle scolastiche per vedere i risultati dei propri figli. Anche se apparentemente può sembrare scontato, è utile sottolineare l’importanza che questo documento ha, sia per la formazione degli alunni che per le aspettative dei genitori. È così importante che ogni eventuale variazione di modelli precedentemente adottati deve passare al vaglio del Collegio dei Docenti, la massima autorità scolastica di un istituto, subito dopo quella del Dirigente Scolastico.

Quello che qui ci interessa analizzare è la scheda di valutazione per l’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) e per l’Attività Alternativa (AA).

Per avere una visione completa di quello che stiamo per descrivere, facciamo un passo indietro. All’atto di iscrizione le famiglie sono chiamate a scegliere, mediante un primo modello, se intendono avvalersi o meno dell’IRC. Solo a coloro che scelgono di non avvalersi dell’IRC viene fornito un secondo modello, dove i genitori dovranno specificare cosa intendano far fare ai loro figli. Le opzioni, valide per tutti gli alunni delle scuole di ogni ordine e grado, sono 4: si può scegliere di far frequentare l’attività alternativa che deve essere impartita e valutata da un docente; c’è la possibilità di svolgere uno studio individuale senza docente (tale attività non richiede valutazione); si può chiedere di studiare con l’assistenza di un insegnante (anche tale attività non va valutata) o si può addirittura scegliere di uscire dall’istituto.

Da quanto appena detto si evince che solo l’IRC e l’AA vadano valutate. A tal proposito, molte scuole hanno scelto di adottare una scheda di valutazione “bivalente”, valida cioè sia per chi si avvale dell’IRC sia per gli alunni che frequentano l’AA. Questo modello però, a nostro giudizio, non rispetta la reale collocazione dell’IRC all’interno dell’ordinamento scolastico così come il legislatore l’ha previsto.

Infatti il genitore che riceve tale documento di valutazione in mano percepisce, in maniera erronea, che l’IRC e l’AA siano sullo stesso piano, ma le cose non stanno così. Vediamo perché.

– L’IRC è una vera e propria materia al pari delle altre. La scuola è obbligata a proporre l’IRC, mentre, se ad esempio nessuno la scegliesse, non è obbligata ad organizzare l’AA.

– Per insegnare l’IRC c’è bisogno di una specifica laurea in scienze religiose o in teologia, mentre non esiste nessuna laurea in AA.

– Di conseguenza, non esiste nessuna classe di concorso per l’AA.

– L’IRC ha dei programmi nazionali, mentre il programma dell’AA viene approvato all’inizio dell’anno scolastico dal Collegio dei Docenti, solo se ci sono famiglie che ne facciano richiesta per i loro figli.

Alla luce di quanto detto, sembra anche illogica la scelta del metro di valutazione riportato sul fondo della pagella: giudizi sintetici per l’IRC (OTTIMO, DISTINTO, BUONO, SUFFICIENTE, NON SUFFICIENTE) e voti numerici, come si usa per le altre materie, per l’AA (10,9,8,7,6,5).

In altri istituti si è invece scelto di inserire la valutazione dell’AA insieme alle altre materie. Ma se l’IRC, che è una materia, viene valutata su una scheda a parte, perché la la valutazione dell’AA, che non è una materia, deve trovare posto accanto alle altre materie? Anche questa scelta ci sembra quindi immotivata e illogica.

Per valutare l’IRC e l’AA, l’unico modo corretto e rispondente alla vigente normativa scolastica ci sembra il seguente: si devono redigere due distinti documenti, uno da consegnare alle famiglie degli alunni che si avvalgono dell’IRC e un altro per le famiglie degli alunni che seguono l’AA.

(Articolo tratto da Àncora Online, il settimanale della Diocesi di San Benedetto del Tronto)

Per approfondimenti o informazioni: www.nicolarosetti.it