Benvenuto Papa Francesco!!!
«Un cristiano sul trono di Pietro». Così Hannah Arendt, per parlare di papa Giovanni, inventò per il New Yorker uno di quei titoli così taglienti ma altrettanto immediati e indimenticabili. Non per denigrare “gli altri” che sono saliti sul soglio di Pietro ma perché i vari titoli che si applicavano al papa finivano per lasciare l’essere cristiano in fondo o fuori dalla lista delle qualità papali.
Mai avremmo immaginato che ci sarebbe stato concesso di nuovo di vedere «un cristiano sul trono di Pietro» e con nome impegnativo di Francesco. Dopo la gioia dell’ Habemus papam, l’emozione delle sue prime parole e dei suoi primi gesti che profumano di vangelo, sono andato a ricercare qualche notizia in più sulla sua vita e il suo ministero di padre gesuita e di vescovo.
Quello che mi ha colpito più di tutto è stato il suo motto: Miserando atque Eligendo, tradotto alla lettera sarebbe “guardò con misericordia e lo scelse”. E possiamo dire che i cardinali (che nelle sue prime parole ha chiamato “fratelli” e non “signori”) l’hanno preso in parola!
Queste due parole sono in realtà prese di peso dall’ Omelia 21 di Beda il Venerabile, proposta dalla liturgia per l’ufficio delle letture della festa dell’apostolo Matteo, il pubblicano pentito, l’apostolo che prima era esattore delle tasse.
Vidit ergo Iesus publicanum, et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi, Sequere me. Sequere autem dixit imitare. Sequere dixit non tam incessu pedum, quam executione morum.
Così scrive dunque, in traduzione italiana, Beda a commento del brano del Vangelo di Matteo:
Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi» (Mt 9, 9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: «Seguimi». Gli disse «Seguimi», cioè imitami. Seguimi, disse, non tanto col movimento dei piedi, quanto con la pratica della vita. Infatti «chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato» (1Gv 2,6).
«Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori!» (Matteo 9,13). Il peccatore è chiamato a seguire il Signore perché gli ha rimesso il peccato e l’ha accolto. Dio non è legge, ma amore; non è sanzione e punizione, ma perdono e “medicina di misericordia”.
Il peccato non esclude dal Regno. Rappresenta anzi un “privilegio” in due sensi: Dio ama di più il peccatore, perché ha più bisogno, e anche il peccatore lo amerà di più, perché ha ricevuto maggiore amore (Luca 7,36-50). Il peccatore, più è lontano, più ha diritto di misericordia e maggiori sono i doveri di Dio nei suoi confronti. Inoltre il suo peccato non gli impedisce l’esperienza di Dio: anzi, proprio in esso lo chiama per il suo vero nome, che è Gesù, Dio-salva (Matteo 1,21).
Fedele al suo motto episcopale, la prima giornata di Papa Francesco è iniziata nel segno della misericordia. Infatti così si è rivolto ai penitenzieri della Basilica di Santa Maria maggiore: «Voi siete i confessori – ha aggiunto il Papa – quindi siate misericordiosi verso le anime. Ne hanno bisogno». Ecco Papa Francesco. Il nome che porta è una responsabilità grande, una duplice eredità porta questo nome: la semplicità e la radicalità evangelica di Francesco d’Assisi e l’arditezza missionaria di Francesco Saverio (il compagno missionario di Ignazio di Loyola). Davvero grande è la speranza che si apre con questo pontificato.
Agostino Greco
L’istituto di Catechetica della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università
Salesiana di Roma promuove un Convegno di due giorni con gli Insegnanti di religione
di ogni ordine e grado, che avrà luogo a Roma il 13 – 14 aprile 2013,
con sede presso l’Istituto Salesiano S. Cuore in Via Marsala 42.
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che: la prenotazione delle camere all’istituto Sacro Cuore scade il 15 marzo ‘13 e l’iscrizione al Corso scade il 28 marzo 2013.
Per utile informazione notiamo che la quota di Iscrizione al Corso comprende anche il saggio:
Insegnamento della religione. Competenza e professionalità. Prontuario dell’Insegnante di Religione, di prossima edizione presso la Elle Di Ci.
Per comodità aggiungiamo i soliti, indispensabili riferimenti:
Le iscrizioni
devono pervenire via Fax o Mail alla Segreteria dell’Istituto di Catechetica, mediante
· Invio della scheda di iscrizione unitamente alla ricevuta comprovante il versamento della quota di iscrizione (70 Euro)
· Direttamente presso la Segreteria dell’Istituto di Catechetica all’Università Salesiana nei termini indicati
Tel 06 87290.651; 06 87290808
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La prenotazione delle camere
dovrà avvenire direttamente presso l’ufficio Ospitalità dell’Istituto Sacro Cuore
Mail: sacrocuoreosp@tiscali.it
Tel. 06 49.27.22.88 – Fax: 06 – 44.63.352
Prima lettura: Isaia 43,16-21
Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi». |
Il brano fa parte del secondo Isaia, la cui raccolta comprende i capitoli 40-55, divisi in due serie di vaticini: gli inni di JHWH e di Israele (40-48) e gli inni di Sion Gerusalemme (49-55). Il testo della lettura descrive la restaurazione di Israele come un nuovo esodo che supera in grandiosità quello dell’Egitto. La pericope contiene una sintesi dei principali temi del profeta.
Israele celebra sempre i prodigi dell’antico Esodo come il passaggio del Mar Rosso e la sconfitta degli Egiziani; quei prodigi non sono nulla in confronto a ciò che Dio sta preparando: gli esiliati ritorneranno direttamente attraverso il deserto, trasformato in oasi. Le immagini della descrizione profetica sono molto belle. Il profeta ha il dono di far rinascere la speranza. L’inizio allude all’esodo dall’Egitto; le nuove gesta che stanno per essere descritte ne sono una sublimazione. «Non ricordate più le cose passate» è espressione che segna il transito dal passato al futuro immediato; il ricordo è di per sé legge fondamentale; ricordare, trasmettere di generazione in generazione, proclamare le azioni di Dio; da questo nasce il senso della storia; però la memoria non deve essere una fuga psicologica nostalgica verso il passato ma deve aprirsi verso il futuro: è la profezia; la memoria si cambia in speranza; il paradosso della descrizione sottolinea la superiorità dell’avvenire e prepara gli uditori a farne l’esperienza: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (Is 43,19-20).
La cosa nuova che sta germogliando, che Dio sta operando è la fine della prigionia; si tratta di un evento inatteso, senza precedenti; il nuovo prodigio sarà mirabile; come nell’esodo antico il mare era stato reso asciutto, così ora il deserto riceverà fiumi di acqua, così che tutti potranno essere dissetati. Anche le bestie selvatiche saranno pacificate; il paradiso degli animali è la raffigurazione della giustizia che regnerà nel mondo. La frase finale: «Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi» rivela che il nuovo esodo non produce una condizione magica di salvezza; la storia continua; la proclamazione della lode ha significato soltanto in un progresso storico.
Seconda lettura: Filippesi 3,8-14
Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. |
Il tratto della lettura si trova nel punto in cui san Paolo polemizza contro i Giudei o i Giudeocristiani, che ritengono indispensabile la pratica della circoncisione anche per chi crede in Cristo. Ora la nuova fede è unione totale a Cristo nella più grande libertà spirituale. Anche la più scrupolosa osservanza della legge è solo pratica umana, che appartiene alla sfera della carne. L’incontro di Paolo con Gesù è il suo unico centro di orientamento e di interesse; tutto il resto non vale.
San Paolo, che apparteneva all’ebraismo, ha reputato i vantaggi che gliene potevano provenire come una perdita a confronto del guadagno della persona di Gesù Cristo che egli ha incontrato. La conoscenza di Cristo accordata all’apostolo sulla via di Damasco ha iniziato un rapporto tra lui e Cristo che è infinitamente superiore a tutti i privilegi del passato. Ciò che prima egli teneva in grandissima considerazione ora è diventato come spazzatura, come immondizie. Lo scopo è guadagnare Cristo; ciò significa avere di lui non soltanto una conoscenza intellettuale, ma una comunione di vita intima; la quale viene significata con l’espressione: essere trovato in lui. Questa identificazione mistica con Cristo fa si che l’apostolo è rivestito dalla giustizia della fede la quale proviene dal dono di Dio. Le parole che seguono descrivono la relazione di Paolo con Cristo; egli desidera arrivare a conoscere la potenza della sua risurrezione, ad avere la partecipazione alla sofferenza del Signore per comunicare alla sua condizione di risuscitato.
Una tale tensione di assimilazione a Cristo non diventerà perfetta che al momento della morte: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (Fil 3,8-14)». Questa descrizione che san Paolo fa per se stesso costituisce la fenomenologia della vita di fede, della vita cristiana; essa è un continuo tendere alla meta più alta, mai raggiungibile perfettamente fin che siamo nell’esilio terreno; l’influsso di Cristo pone il credente nella situazione di assimilarsi a lui, di identificarsi in un certo modo con lui, nelle sofferenze e poi nella risurrezione di cui i sacramenti hanno già deposto il germe; l’ultimo traguardo sarà raggiunto dopo la vita terrena, nella esistenza futura.
Vangelo: Giovanni 8,1-11
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». |
Esegesi
Il brano della lettura che contiene il racconto dell’incontro di Gesù con la donna adultera, è collocato nella prima parte del vangelo, denominata: libro dei segni. Tuttavia l’opinione comune degli studiosi è che questo racconto non sia giovanneo. Esso infatti interrompe la sequenza dei discorsi tenuti nella festa delle capanne, è omesso da molti testimoni importanti, era sconosciuto ai santi padri e manca in molte versioni antiche. Lo stile letterario è affine a quello di Luca e si pensa che probabilmente faceva parte del suo vangelo. Una delle ragioni per cui può essere stato collocato qui sta nel fatto che l’episodio è una illustrazione di quanto Gesù dirà in Gv 8,15: «Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno».
I nemici di Gesù cercano di metterlo in difficoltà proponendogli un caso difficile, in modo che qualunque sia la sua risposta possa essere rivolta contro di lui. «Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo» (Gv 8,3-5). È un caso di adulterio; la legge puniva di morte tale trasgressione. Coloro che interpellano Gesù pensavano di avere buon gioco contro di lui; se avesse detto che la colpevole non doveva essere lapidata, l’avrebbero accusato come violatore della legge; se l’avesse condannata, si poteva accusarlo di durezza di cuore, di mancanza di misericordia.
Gesù di fronte alla proposizione del caso si mette a scrivere in terra; questo gesto ha dato luogo a molte congetture; con esso molto probabilmente il Signore intende mostrare il proprio disinteresse per quanto stava accadendo. È caratteristico che Gesù si rifiuti di trattare il caso come una questione puramente legale; egli trasferisce il caso sul livello pratico; quando si trattava di una sentenza capitale il testimone a carico doveva essere il primo a dare inizio all’esecuzione secondo la prescrizione: «La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire; poi la mano di tutto il popolo» (Dt 17,7). Gesù invita gli astanti a pensare anzitutto se la loro coscienza li proclama degni di essere giudici e condannatori: «Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra» (Gv 8,7-8). Rendendosi conto della ineccepibilità della risposta di Gesù e avvertendo anche un senso di vergogna per avere cercato di sfruttare l’umiliazione di una donna allo scopo di mettere in difficoltà Gesù, gli accusatori si allontanano cominciando dai più vecchi.
A questo punto si delinea l’incontro tra Gesù e la donna; è l’incontro dell’innocenza con chi ha commesso peccato: la scena diventa una illustrazione plastica dell’invito al pentimento. Dio odia il peccato e ama il peccatore; tale atteggiamento si attua in Gesù. Il quale, benché non giudichi e non condanni, invita la donna a non peccare più: «Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,9-11). La legge condanna il peccato non perché gli uomini si giudichino a vicenda, ma perché essi sentano il bisogno di essere salvati da Dio. Gesù porta in sé questa salvezza: odia infinitamente il peccato, ama infinitamente il peccatore. Questo è possibile soltanto a Dio.
Meditazione
Il volto di Dio che la parabola di Lc 15,11-32 ci ha rivelato nell’abbraccio accogliente del padre misericordioso (il testo evangelico della IV domenica di Quaresima) si riflette nello sguardo e nella parola che Gesù rivolge a una donna adultera in procinto di essere condannata alla lapidazione dagli scribi e dai farisei, secondo i dettami della legge mosaica. Il perdono che Gesù offre a questa donna è come un cammino rinnovato, una rigenerazione, una possibilità inaspettata di salvezza. Solo Dio ha il coraggio di dimenticare ciò che è passato e aprire «nel deserto una strada» (Is 43,19) che conduce al luogo della vita e della pace. La parola di Gesù è come un balsamo che ridà alla donna peccatrice la forza per camminare nuovamente verso la vita: «neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). Lo sguardo di quella donna, attraverso la potenza e la gratuità del perdono, è ormai proiettato verso un futuro carico di speranza; il peccato che la tratteneva prigioniera è alle spalle, è passato, è stato consumato dalla misericordia di Gesù. Sulle labbra di quella donna si potrebbero porre le parole con cui Paolo esprime la dinamica della sua vita, ormai afferrata dall’amore di Cristo: «dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta… mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12-14).
Il racconto di Gv 8,1-11 è realmente una parabola che ci rivela la capacità di Dio di creare e rinnovare la vita dell’uomo. La promessa di Dio ai deportati di Israele a Babilonia, riportata nel testo di Isaia (prima lettura), trova come una realizzazione personale nel cammino di vita che Gesù apre a una donna peccatrice: «Non ricordate più le cose passate – dice il Signore attraverso il suo profeta – non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19). E sotto il segno della novità è, infatti, tutto l’episodio dell’incontro di Gesù con la donna adultera. Sorprendentemente questa pericope, inserita nel racconto di Giovanni, ma mancante in molti manoscritti del quarto vangelo, ci è stata conservata come un racconto a se stante, irriducibile alle tradizioni evangeliche che noi conosciamo.
Pur presentando agganci con lo stile narrativo di Luca (si pensi all’episodio quasi speculare dell’incontro di Gesù con la peccatrice nella casa di Simone in Lc 7,36-50), questo racconto è carico di originalità, nella forma, ma soprattutto nel contenuto. E probabilmente il comportamento di Gesù è apparso scandaloso alla stessa comunità cristiana, se ha faticato a inserirlo nel canone dei vangeli. Certamente, in questo racconto si cammina sul filo del rasoio. Si ha quasi l’impressione che la gravità di un comportamento moralmente negativo non venga presa in seria considerazione dalle parole di Gesù. Ma tutto, in questo racconto, conduce a un luogo di rivelazione: il cuore di Dio colmo di compassione. Si può allora dire – e questo di per sé è già un messaggio fondamentale – che l’agire inaudito di Gesù, il perdono e la misericordia che emergono nell’incontro con i peccatori, sono il riflesso di quel volto di Dio a cui la stessa comunità cristiana è chiamata a convertirsi. Il testo di Gv 8 diventa come una icona che deve plasmare e motivare non solo il cammino personale di conversione, ma la prassi ecclesiale di fronte a ogni peccatore. Anche la comunità dei credenti deve incessantemente mettersi alla scuola di Colui che ha detto: «voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno» (Gv 8,15).
Possiamo cogliere il centro del racconto proprio a partire da Gesù, dal suo sguardo su coloro che gli stanno di fronte (gli scribi, i farisei, la donna adultera), dalle sue parole, dai suoi silenzi (essenziali e autorevoli), dai suoi gesti, misteriosi ed eloquenti allo stesso tempo. Parole, silenzi, gesti, sguardo, hanno il peso del giudizio di Dio e, nella misura in cui vengono accolti e lasciati macerare nel cuore, aprono l’orizzonte interiore spostando il nostro sguardo dalla realtà del peccato (che non viene assolutamente minimizzata) al volto stesso di Dio. E ancora una volta ci viene rivelata l’autentica traiettoria della conversione, la forza che permette un cammino di liberazione dal peccato: il perdono inaspettato e totalmente gratuito di Dio.
E in questa dinamica di liberazione, in questo paradossale esodo interiore, sono invitati a entrare sia la donna adultera che gli scribi e i farisei. Ci soffermiamo soprattutto sul confronto tra Gesù e gli scribi e i farisei. Coloro che conducono davanti a Gesù una donna, colta in flagrante adulterio, possiedono già una chiave di lettura della situazione in cui quella donna è stata coinvolta. Si tratta della legge di Mosè, un testo della Scrittura che prevede una soluzione drastica per questa sorta di peccato: la lapidazione (cfr. Lv 20,10 e Dt 22,21). La sicurezza di questi uomini (hanno la parola di Dio dalla loro parte) contrasta con il fatto che esigono da Gesù un coinvolgimento, un’interpretazione del caso. Perché rivolgere a Gesù quella domanda – «ora Mosè nella legge ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (v. 5) – quando il ‘caso’ era già risolto nella Legge? C’è forse un desiderio di uscire dalle strettoie legalistiche per percorrere una via nuova oppure c’è l’intenzione di mettere alla prova Gesù, metterlo in contrasto con Mosè?
Questi maestri si aspettano che Gesù rompa il silenzio iniziando la sua risposta con quella parola che spesso hanno udito: «Mosè vi ha detto… ma io vi dico…». Ciò che Gesù fa, invece, è sorprendente e mette costoro con le spalle al muro. In due successivi momenti, ritmati dal silenzio e dalla parola, Gesù riesce a creare il vuoto attorno a questi uomini e, quasi sospendendoli su di esso come su di un abisso, li obbliga a spostare lo sguardo sul loro cuore, sul loro comportamento, sul loro modo di giudicare, sul loro modo di rapportarsi a Dio. E tutto avviene attraverso un gesto e una parola. Un gesto misterioso ripetuto due volte, un gesto che ha suscitato molte interpretazioni: «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra… e chinatesi di nuovo, scriveva per terra» (vv. 6,8). È un gesto profetico, simbolicamente carico della forza del giudizio di Dio su ogni uomo, un gesto che potrebbe tradurre questa parola di Geremia: «coloro che si allontanano da me, saranno scritti per terra» (Ger 17,13). Gesù non pronuncia alcun giudizio contro questi uomini così sicuri della loro giustizia; li rimanda al tribunale della loro coscienza perché in esso facciano la verità. E la parola che finalmente Gesù pronuncia, rompendo quel silenzio carico di attesa, è come una spada che penetra nel cuore di questi uomini: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). Gesù non nega il giudizio di Dio o la Legge e neppure chiede pietà per la donna, scusandola o difendendola per un peccato che sicuramente ha commesso; vuole che ciascuno rivolga il giudizio della parola di Dio anzitutto verso se stesso. Adulteri o no, tutti siamo peccatori e bisognosi di conversione e di perdono.
Gesù vuole che il giudizio di Dio sia di Dio, non dell’uomo; l’uomo non può arrogarsi questo diritto. E in Dio il giudizio non è mai senza una possibilità di salvezza, perché Dio non vuole la morte ma la vita. E il cerchio mortale attorno a quella donna viene così spez-zato, aprendosi alla vita: «quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani» (v. 9), «accusati dalla loro coscienza», come aggiunge un manoscritto. Ora Gesù è solo di fronte alla donna adultera. E per quella donna la solitudine del peccato che quasi la rendeva anonima (è semplicemente una ‘adultera’; è identificata con il suo peccato, è prigioniera di esso) si apre all’incontro con la misericordia.
Con una espressione lapidaria, sant’Agostino così dice: «rimasero solo loro due: la misera e la misericordia». E il dialogo tra Gesù e quella donna rivela la profondità del cuore di Dio: è un dialogo in cui ogni parola trasmette compassione, pace, libertà, gioia; un dialogo in cui ogni parola è carica della serietà dell’amore di Dio e attende dall’uomo una risposta responsabile e fedele. La parola di Gesù non è la parola di chi semplicemente invita a dimenticare e a fuggire un passato fatto di morte e di schiavitù, ma una parola che impegna a guardare la propria vita con serietà, con gli occhi di Dio, e ad aprirla a un orizzonte di grazia e di misericordia. Quella donna perdonata perché non condannata ma salvata («neppure io ti condanno»), d’ora in poi dovrà vivere in conformità con la liberazione ricevuta («va’ e d’ora in poi non peccare più»). L’essere perdonati gratuitamente, senza condizioni, è la forza per riprendere il cammino. Possiamo mettere sulle labbra di questa donna, sulle nostre labbra di peccatori perdonati, queste parole tratte dal Sal 103,10-14 e dal Sal 32,1.11: «Il Signore non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe… egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere»… «Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato… Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! Voi tutti, retti di cuore, ridete di gioia».
Preghiere e racconti
Un brigante del deserto venne un giorno a morire davanti alle porte del monastero di Scete.
Dio mi perdonerà -disse al fratello che era subito accorso.
Perché ne sei sicuro? -chiese questi.
Perché è il suo mestiere.
(R. KERN, Arguzie e facezie dei Padri del deserto, Torino, 21987, 87).
Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose in cui io dubito e sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero anche me.
San Francesco d’Assisi, in una commovente lettera ad un ministro/ superiore, dava le seguenti istruzioni circa eventuali debolezze personali dei suoi frati: «E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di tali fratelli».
(Francesco d’Assisi, Lettera a un Ministro, 7-10).
Benché, Signore, non abbia quasi mai infilato la perla dell’obbedienza alla tua legge, benché non abbia spesso lavato la polvere del peccato dal mio volto, io non dispero della tua bontà, della tua generosità, del tuo perdono. Confesso il mio grande peccato; tormentami, se tu lo vorrai; accarezzami, se tu lo vorrai. Io so però che tu desideri abbracciarmi.
(Ornar Khayyam, poeta persiano).
Cari fratelli e sorelle! Siamo giunti alla Quinta Domenica di Quaresima, nella quale la liturgia ci propone, quest’anno, l’episodio evangelico di Gesù che salva una donna adultera dalla condanna a morte (Gv 8,1-11). Mentre sta insegnando nel Tempio, gli scribi e i farisei conducono a Gesù una donna sorpresa in adulterio, per la quale la legge mosaica prevedeva la lapidazione. Quegli uomini chiedono a Gesù di giudicare la peccatrice con lo scopo di “metterlo alla prova” e di spingerlo a fare un passo falso. La scena è carica di drammaticità: dalle parole di Gesù dipende la vita di quella persona, ma anche la sua stessa vita. Gli accusatori ipocriti, infatti, fingono di affidargli il giudizio, mentre in realtà è proprio Lui che vogliono accusare e giudicare. Gesù, invece, è “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14): Egli sa che cosa c’è nel cuore di ogni uomo, vuole condannare il peccato, ma salvare il peccatore, e smascherare l’ipocrisia. L’evangelista san Giovanni dà risalto ad un particolare: mentre gli accusatori lo interrogano con insistenza, Gesù si china e si mette a scrivere col dito per terra. Osserva sant’Agostino che quel gesto mostra Cristo come il legislatore divino: infatti, Dio scrisse la legge col suo dito sulle tavole di pietra (cfr Comm. al Vang. di Giov., 33, 5). Gesù dunque è il Legislatore, è la Giustizia in persona. E qual è la sua sentenza? “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Queste parole sono piene della forza disarmante della verità, che abbatte il muro dell’ipocrisia e apre le coscienze ad una giustizia più grande, quella dell’amore, in cui consiste il pieno compimento di ogni precetto (cfr Rm 13,8-10). E’ la giustizia che ha salvato anche Saulo di Tarso, trasformandolo in san Paolo (cfr Fil 3,8-14). Quando gli accusatori “se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”, Gesù, assolvendo la donna dal suo peccato, la introduce in una nuova vita, orientata al bene: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». È la stessa grazia che farà dire all’Apostolo: “So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,14).Dio desidera per noi soltanto il bene e la vita; Egli provvede alla salute della nostra anima per mezzo dei suoi ministri, liberandoci dal male col Sacramento della Riconciliazione, affinché nessuno vada perduto, ma tutti abbiano modo di convertirsi.
Cari amici, impariamo dal Signore Gesù a non giudicare e a non condannare il prossimo. Impariamo ad essere intransigenti con il peccato – a partire dal nostro! – e indulgenti con le persone. Ci aiuti in questo la santa Madre di Dio che, esente da ogni colpa, è mediatrice di grazia per ogni peccatore pentito.
(Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 21.03.2010).
– Se tu conoscessi i tuoi peccati, ti perderesti d’animo.
– Allora mi perderò d’animo, o Signore, se me li rivelerai.
– No, tu non ti dispererai, perché tu li conoscerai nel momento stesso in cui ti saranno perdonati.
(Pascal)
«Un giorno stavo parlando con uno studente nel mio studio, e sul cavalletto avevo appena finito di dipingere un volto di Cristo di grandi dimensioni. Ho chiesto allo studente:
-Secondo te, chi guarda Cristo?
-Guarda me.
Poi gli ho detto di alzarsi, di continuare a guardare Cristo e, passo per passo, lentamente, venire dalla mia parte. Gli ho chiesto di nuovo:
-Adesso sei da solo, hai la testa piena di pensieri cattivi, violenti. E Cristo?
-Mi guarda, risponde.
Al passo successivo gli dico:
-Sei con i tuoi amici, ubriaco, di sabato sera. E Cristo?
-Mi guarda, risponde ancora.
Ancora un altro passo gli chiedo:
-Ora sei con la tua fidanzata, e vivi la sessualità nel modo in cui hai parlato, che ti turba la memoria. E Cristo?
-Mi guarda con una grande compassione.
-Ecco, gli dico, quando sentirai addosso in tutte le circostanze della tua vita questo sguardo compassionevole e misericordioso di Cristo, sarai una persona veramente spirituale, sarai di nuovo completamente integro, vicino a ciò che possiamo chiamare pace interiore, serenità dell’anima, felicità della vita».
(M.I. RUPNIK, Paternità spirituale: un cammino regale per l’integrazione personale.« Nella nuova evangelizzazione dell’Est e dell’Ovest», in CENTRO ALETTI (ed.), In colloquio. Alla scoperta della paternità spirituale, Roma, LIPA, 1995, 203-204).
«Allora i farisei e gli scribi gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: Maestro, questa donna è stata colta in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che cosa dici? Questo dicevano per metterlo alla prova, onde avere di che accusarlo» (Gv 8,3-6). Che cosa rispose il Signore Gesù? Che cosa rispose la Verità? Che cosa rispose la Sapienza? Che cosa rispose la stessa giustizia contro la quale era rivolta la calunnia? Non disse: «Non sia lapidata» Si sarebbe messo contro la legge. Ma si guarda bene anche dal dire: «Sia lapidata!». Egli era venuto non per perdere ciò che aveva trovato, ma per cercare ciò che era perduto. Che cosa rispose dunque? Considerate che risposta colma di giustizia e insieme di mansuetudine e di verità.
Dice: Chi di voi è senza peccato, getti per primo una pietra contro di lei (Gv 8,7). O risposta della Sapienza! Come li costrinse a rientrare in se stessi! Stavano fuori, intenti a calunniare gli altri, invece di scrutare se stessi; vedevano l’adultera, ma non la capivano […] Se Gesù dicesse: «Non lapidate l’adultera!», verrebbe accusato come ingiusto. Se dicesse: «Lapidatela!», non si mostrerebbe mansueto. Dica quel che deve dire colui che è mansueto e giusto: Chi di voi è senza peccato, getti per primo una pietra contro di lei. Questa è la voce della giustizia: «Si punisca la peccatrice, ma non per mano di peccatori; si adempia la legge ma non per opera di trasgressori della legge». Questa è veramente la voce della giustizia. E quelli colpiti dalla sua giustizia come da una grande freccia, guardando dentro di sé e trovandosi colpevoli, uno dopo l’altro, tutti se ne andarono (Gv 8,9). Rimasero in due: la misera e la misericordia […] Gesù poi dopo aver respinto gli avversari della donna con la voce della giustizia, levando verso di lei gli occhi della mansuetudine, le chiese: Nessuno ti ha condannato? Essa rispose: Signore, nessuno. Ed egli: Neppure io ti condanno, neppure io dal quale forse hai temuto di essere condannata, perché in me non hai trovata nessun peccato. Neppure io ti condanno. Come, Signore? Favorisci il peccato? No. Ascoltate ciò che segue : Va’e d’ora innanzi non peccare più. Il Signore condanna il peccato, non il peccatore.
(AGOSTINO, Commento al vangelo di Giovanni 33, 5-6, in Opere di sant’Agostino, pp. 706-710).
Gesù, misericordia del Padre, venuto a incontrare la nostra miseria sulle strade del mondo, nelle piazze di ogni città. Tu dalle braccia infinite sempre aperte a riaccogliere chi era perduto, volgiti a noi, nell’impeto della tua pietà. Noi non vogliamo essere «scribi e farisei», accusatori dei nostri fratelli, ma spesso ci troviamo ma lanciare sugli altri la pietra del nostro peccato.
Gesù, Signore del sovrano silenzio, in mezzo al tumulto delle nostre passioni rendici capaci di tacere davanti a te mentre, nuda e piena di vergogna, l’anima nostra si confessa semplicemente lasciandosi guardare dai tuoi occhi di mite pastore. Chi ci condannerà se tu ci assolvi? Chi ci disprezzerà se tu ci ami? Tu solo rimani con noi, o Innocente, o Puro, o Santo che non puoi vedere il male. Eccoci purificati dal tuo perdono: noi non vogliamo più peccare. Confermaci nella fedeltà dell’amore. Amen.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
———
– M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.
– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Si avvicina ormai la data del convegno “La ricerca a servizio dell’educazione”. Il contributo dell’Università Pontificia Salesiana e dei Centri Associati”, che avrà luogo il 13 marzo prossimo, un’intera Giornata in cui verrà presentata la ricerca completata o in atto sulle problematiche dell’educazione dei giovani, con inizio alle ore 9.00 e chiusura alle 19.00.
Si continua intanto a raccogliere le adesioni di quanti, studenti ed esterni, vogliono prenderne parte.
Quella educativa è ormai diventata secondo quanto ha affermato in varie occasioni Papa Benedetto XVI, una emergenza urgente. L’Università Pontificia Salesiana, il cui specifico è l’educazione, si pone come da carisma che gli è proprio, sul solco dell’impegno educativo. In questo secondo anno di preparazione al Bicentenario della nascita di San Giovanni Bosco, fondatore dei salesiani e radice da cui è scaturita la Famiglia Salesiana e il Movimento di persone che hanno a cuore l’educazione integrale della gioventù, l’Università Salesiana ha accolto questa urgenza che ha reso concreta organizzando il Convegno sul tema dell’educazione.
La giornata si struttura attorno a cinque aree di ricerca in cui altrettanti studiosi e specialisti dell’ambito, docenti dell’Università Salesiana, presenteranno il loro lavoro di ricerca. A ciascuna delle cinque relazioni reagirà un discussant che riproporrà gli elementi più significativi e aprire il dibattito in sala che chiude ognuno dei momenti.
Apre la presentazione delle cinque aree di ricerca il Rettore dell’UPS, prof. Carlo Nanni, con un intervento introduttivo. La prima area di ricerca, Educazione ed evangelizzazione, si caratterizza per la interdisciplinarietà.
Il prof. Francis Vincent Anthony, docente della Facoltà di Teologia e coordinatore del CIR presenta una ricerca dal titolo “Evangelizzatori dei Giovani Oggi”;
farà seguito l’intervento del prof. Antonino Romano, docente dell’Istituto Teologico San Tommaso di Messina e docente invitato all’UPS, per introdurre il dibattito in sala.
La seconda area di ricerca è nell’ambito della Educazione Interculturale. Il prof. Vito Orlando, della facoltà di Scienze dell’Educazione, espone i risultati della ricerca da lui condotta con il titolo “Attenzione ai migranti e prospettive per la missione salesiana nella società multiculturale d’Europa”;
al prof. Luca Pandolfi, docente dell’Università Pontificia Urbaniana e dell’UPS, è affidata la sintesi analitica della ricerca che apre al dibattito in sala.
Dopo la pausa del pranzo, il Convegno riprende con la presentazione dei risultati della terza area di ricerca, Adolescenza e relazioni interpersonali, con un intervento del prof. Antonio Dellagiulia, docente della Facoltà di Scienze dell’Educazione, dal titolo “Il tessitore instancabile: l’adolescente e le sue relazioni significative alla luce della teoria dell’attaccamento”,
a cui farà risonanza l’intervento della prof. Susanna Bianchini dell’IFREP/UPS, che avvia il terzo momento di interventi nel dibattito tra i presenti in sala. La quarta area di ricerca riguarda le relazioni tra Adolescenti e Famiglia.
Titolo della ricerca, presentata dal prof. Paolo Gambini, decano della Facoltà di Scienze dell’Educazione, è “Famiglia e bullismo in adolescenza”;
il commento sintetico e introduttivo al dibattito che segue è affidato al prof. Zbigniew Formella, docente della stessa Facoltà dell’UPS.
Infine, la quinta e ultima area di ricerca si centra sul tema della Pedagogia Sociale con la presentazione della ricerca Area di ricerca “Capitale sociale, agire educativo e nuovo welfare” condotta dal prof. Lorenzo Biagi, docente dello IUSVE di Venezia-Mestre, di cui sarà discussant il prof. Vincenzo Salerno, docente della stessa Istituzione Universitaria associata all’UPS.
Fa seguito la serie di interventi liberi in sala. Al prof. Michele Pellerey, docente emerito dell’UPS e suo antico Rettore, è affidata la sintesi della giornata con il suo intervento conclusivo.
Il Convegno è aperto agli studenti dell’Università e a quanti vogliono liberamente partecipare a vario titolo.
L’iscrizione è gratuita ma obbligatoria e va effettuata attraverso la cedolina che si trova nel materiale raccolto dal link pubblicato sulla pagina-web dell’Università Salesiana www.unisal.it.
Attraverso la stessa cedola, è possibile prenotare il pernottamento e il pranzo presso la struttura dell’Università sino a esaurimento delle disponibilità. La cedola regolarmente compilata va spedita o consegnata secondo le modalità indicate dal pieghevole o dalle informazioni che si trovano disponibili sul link su indicato.
Lo stesso link sarà arricchito di informazioni e documenti che si renderanno pubblici durante il tempo che intercorre sino alla celebrazione del Convegno il 13 marzo 2013.
L’iscrizione va fatta comunque anche senza le suddette prenotazioni consegnando a mano la cedola agli addetti alla reception.
Per ulteriori informazioni visitate il sito-web unisal.it, o chiamate al numero 06.872901 chiedendo del responsabile dell’Ufficio stampa; o scrivendo a ufficiostampaups@unisal.it; Fax. 06.87290318.
L’INTERVENTO DI MONS. CROCIATA
Consulta UNESU, 7 marzo 2013
✠ Mariano Crociata
Con piacere sono qui insieme a voi per inaugurare i lavori della nuova Consulta dell’Ufficio Nazionale per l’Educazione, la Scuola e l’Università. Rivolgo a ciascuno un saluto cordiale unito alla gratitudine per aver accolto l’invito a far parte di questo importante organismo dell’Ufficio, sotto la cui responsabilità prende inizio oggi un cammino di collaborazione che auspico fattivo e fecondo. Alla Consulta è demandato, infatti, il compito di aiutare l’Ufficio Nazionale a svolgere quel servizio che è delineato nelle indicazioni del Regolamento che ne disciplina ambito di competenza e di attività. Sono fiducioso che il contributo vostro e degli organismi e delle aggregazioni che rappresentate permetterà di perseguire efficacemente gli obiettivi pastorali, culturali e sociali che la Chiesa in Italia si assume nell’orizzonte educativo e formativo delle nuove generazioni. A tal fine è necessario mettere in atto una circolarità virtuosa tra realtà territoriali e centro nazionale. Quest’ultimo è a servizio di una vitalità, innanzitutto pastorale, che è propria delle comunità locali, delle aggregazioni e delle istituzioni. Da queste dovete far giungere esigenze, attese, proposte, esperienze perché nello scambio tra di voi, nell’accoglienza delle indicazioni dei Vescovi, mediate dal servizio dell’Ufficio nazionale, e nei servizi che quest’ultimo mette in atto possa ravvivarsi e crescere l’iniziativa pastorale della Chiesa in Italia nell’ambito della scuola e dell’università. C’è bisogno di un rilancio di questo impegno, che vede nell’Ufficio il promotore di un’azione che ravvivi, rilanci, coordini quanto credenti e comunità sono chiamati a portare avanti perché l’annuncio e la testimonianza della fede crescano tra coloro che vivono e operano nella scuola e nell’università.
Il servizio dell’Ufficio si dirige sia alla scuola che all’università, come espressione di una attenzione piena all’integrale dinamica educativa che interessa ragazzi e giovani, vero e proprio centro di interesse della comunità ecclesiale e oggetto di studio e di attività di questo organismo della Conferenza Episcopale Italiana. Ci sta a cuore l’educazione, con ciò che essa significa da un punto di vista indivisibilmente umano e cristiano: l’incontro con il Signore nella comunità ecclesiale e la crescita della persona verso la maturità attraverso la trasmissione di quel patrimonio di fede e di cultura, che nel nostro Paese può assicurare la consegna della grazia della vita e della fede nel passaggio da una generazione all’altra.
In questa prospettiva, la nostra Conferenza Episcopale intende raccogliere l’appello che si leva in maniera pressante soprattutto dal mondo della scuola a motivo di non poche difficoltà che essa si trova ad affrontare. Di qui l’invito a promuovere un percorso straordinario di riflessione e di mobilitazione che si rivolge innanzitutto ai cattolici che operano nella scuola, ma guarda con non minore attenzione a quanti vi studiano, vi insegnano e vi lavorano, attuando così anche in questo campo e nelle nuove circostanze quel servizio per il bene comune che definisce le condizioni di rapporto della Chiesa con la società e le sue istituzioni. Di fatto, sono state già poste le premesse di tale percorso di riflessione che ha come protagonisti Commissioni episcopali e uffici della Segreteria Generale interessati per affinità di competenza.
Il punto di partenza immediato è dato dalla situazione drammatica nella quale versano in particolare le circa settemila scuole paritarie cattoliche, nel quadro di un mondo scolastico problematico nel suo complesso. Di anno in anno sono diverse decine le scuole costrette a chiudere. Tale situazione dipende in gran parte, anche se non esclusivamente, dalla mancanza di fondi: una carenza cronica che va interpretata come un sintomo della difficoltà ad apprezzare e a vivere la libertà di scelta educativa. La sensazione diffusa che la scuola stia “andando a fondo” – come qualcuno scrive – rischia di alimentare reazioni accese, comprensibili a fronte delle difficoltà presenti, ma che non devono rimanere sterili rivendicazioni. Bisogna trovare una via d’uscita, che certamente non è quella di procedere ciascuno per conto proprio. La scuola statale, d’altra parte, nella quale pure opera una moltitudine di cattolici, non manca di faticare per onorare la propria responsabilità educativa. La necessità di testimoniare l’interesse per la scuola come luogo educativo di tutti suggerisce un’iniziativa di ampio respiro, che sia in grado di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema. Un grande incontro popolare, possibilmente con il Santo Padre, può rappresentare la formula migliore per offrire una tale testimonianza.
Su queste premesse si è pensato di costruire un percorso di sensibilizzazione e di mobilitazione, lungo il quale la Chiesa che è in Italia intende cercare un equilibrio tra esigenze diverse: la volontà di offrire il proprio servizio pastorale per il bene comune; l’urgenza di un intervento che venga in soccorso del mondo della scuola, in particolare di quella paritaria cattolica; la prudenza dettata dalla complessità degli effetti mediatici di una manifestazione pubblica.
Nella comunicazione mediatica, l’interesse cattolico per l’educazione viene spesso ridotto alla richiesta di fondi, peraltro presentata come una sottrazione di fondi pubblici. Anche tale obiettiva esigenza, pure ampiamente legittima, va perciò inserita nel quadro di una cornice più ampia, che esprime qualcosa che ci compete e ci sta a cuore e che dice l’interesse ecclesiale per l’educazione e la formazione di tutti. Il nostro impegno nasce da un interesse costitutivamente aperto alla speranza: con questo atteggiamento la Chiesa sollecita i propri fedeli, ma anche la società tutta e le sue istituzioni a prendersi cura del futuro delle nuove generazioni con maggiore impegno. Solo all’interno di una tale premura per il bene dell’educazione e della scuola di tutti, può passare il messaggio di una legittima, e anzi doverosa, attenzione alla scuola paritaria.
In vista di un percorso del genere, bisogna tenere conto del fatto che anche il “mondo cattolico” è attraversato da radicati pregiudizi nei confronti delle scuole paritarie, oltre che da un più generale senso di sfiducia e di rassegnazione nei confronti della questione educativa.
Risulta, pertanto, necessaria una riflessione comune sul tema, che eviti il pericolo di essere ricondotta a una lettura “preformata” da interessi esterni alla Chiesa stessa. C’è bisogno, allora, di immaginare un’iniziativa condivisa che si rivolga a tutto il mondo della scuola e della formazione professionale, che guardi all’educazione come questione di tutti.
Data la complessità dei temi, è stato costituito un gruppo che ha maturato la convinzione che la proposta più efficace consista nel costruire un cammino di sensibilizzazione nelle diocesi e nelle realtà ecclesiali, che culmini in una grande mobilitazione di piazza nella primavera del 2014.
Una prima tappa del cammino di preparazione sarà un incontro con i rappresentanti del mondo della scuola e della formazione professionale, da tenere agli inizi del prossimo maggio 2013. L’incontro dovrebbe vedere la partecipazione di rappresentanti molto qualificati della scuola e anche della CEI, così da favorire, oltre che un serio approfondimento, un’adeguata risonanza presso tutti coloro che sono impegnati nella vita della scuola. Questo primo incontro dovrebbe diventare un laboratorio dei cattolici che operano nella scuola pubblica (statale e paritaria) e puntare a due scopi: da un lato raccogliere la richiesta di ascolto che si leva dalle scuole e dalle associazioni, dall’altro creare un luogo di elaborazione di una soggettività comune dei cattolici sui temi della scuola stessa. Proprio a motivo del suo ruolo, mi rivolgo a voi, membri della nuova Consulta dell’UNESU, che rappresentate il perno attorno al quale raccogliere un tavolo di confronto e di progetto.
Il percorso prevede una attenzione specifica nel corso della prossima Settimana sociale (settembre 2013) e infine la grande mobilitazione prevista per la primavera 2014, come momento significativo del cammino che la Chiesa in Italia sta avviando in vista del Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze, che si terrà nell’autunno del 2015.
Attorno a queste tappe principali, sarà importante promuovere altre iniziative nel territorio, come convegni culturali ed eventi pubblici locali e regionali. Una possibilità già prevedibile è quella di coordinare la marcia delle scuole cattoliche, che nell’edizione del 2014 potrebbe avere un tema comune, legato al progetto delineato.
Tutto il percorso dovrebbe prendere la forma e avere l’obiettivo di innescare un movimento culturale, che metta a tema la nostra visione della scuola e dell’uomo, e più in particolare la centralità della relazione educativa nella crescita della persona umana. Naturalmente tra i soggetti andranno inclusi – oltre ad associazioni e movimenti che si occupano specificamente della scuola – le diocesi, le parrocchie, il mondo dei religiosi. Occorre favorire la più grande convergenza rispetto a un percorso comune.
Nel quadro generale dei compiti dell’Ufficio e della sua Consulta e con l’iniziativa straordinaria che vi ho presentato, sono fiducioso che l’organismo che oggi avvia la propria attività possa portare nei prossimi anni frutti significativi di efficace presenza pastorale della Chiesa nel mondo della scuola e dell’università. È il mio auspicio con cui accompagno fin da ora l’augurio di buon lavoro.
Per aumentare il punteggio della vostra squadra e concorrere al Premio del Pubblico, create un VIDEO che illustri le idee del vostro progetto e caricatelo sul sito prima della chiusura del concorso. Coinvolgete tutti i vostri amici nella votazione del video preferito. Possono esprimere il loro voto fino a mezzanotte del 30/06/2013!
Terminata l’iscrizione, troverete tutti i documenti che vi servono (liberatorie, autorizzazioni, schema di ricevuta per il Caf, lettera di presentazione per i giovani registrati a firma del Servizio, etc.) da scaricare nella sezione del profilo. I progetti saranno valutati da una giuria in base agli obiettivi e ai criteri fissati nel bando.
I contenuti del video che suggeriamo sono:
Nel caso in cui le scuole vincitrici del premio del pubblico siano di Roma, il premio può essere convertito in un viaggio in un’altra città italiana da concordare con il Servizio Promozione.
Prima lettura: Giosuè 5,9-12
In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. |
Aria di novità, di ‘riconciliazione’ si respira nella prima lettura. Si conclude la lunga esperienza di permanenza nel deserto e si prepara l’ingresso nella Terra Promessa. È come un ritorno a casa, un incontrare Dio in modo rinnovato. Il capitolo inizia con la circoncisione di tutto il popolo: Giosuè lo vuole preparare al passo decisivo.
La lettura inizia con una proclamazione ufficiale di avvenuta riconciliazione, perché Dio dice a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». È conclusa la ‘lunga quaresima’ della peregrinazione; è stato un tempo di purificazione e di esperienza di Dio. Il popolo, ora rinnovato e riconciliato da Dio stesso, può celebrare la Pasqua nella terra promessa. Un mistico abbraccio unisce nuovamente Dio al suo popolo.
Un segno concreto è dato dalla possibilità di mangiare «i frutti della terra di Canaan», la loro nuova terra. Si apre un nuovo periodo, una nuova epoca, di cui la Pasqua segna l’avvio.
Seconda lettura: 2Corinzi 5,17-21
Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. |
Il tema della riconciliazione domina anche la seconda lettura e si inserisce perfettamente nella liturgia odierna.
Dopo una premessa in cui Paolo ribadisce di operare rettamente perché sta sempre alla presenza di Dio, e dopo il rifiuto di cercare ancora una raccomandazione, passa ora a trattare un tema teologico di primaria importanza, quello della riconciliazione.
Nell’affrontare l’argomento, Paolo indica due principi ispiratori che sono anche due guide: il principio cristologico e il principio ecclesiologico. Con il primo si afferma che tutto viene da Dio in Cristo, con il secondo che a Paolo e agli apostoli («noi», 5,19) è affidato il ministero della riconciliazione.
È bello constatare che all’inizio della trattazione sta una attestazione di amore di Cristo: pensando a lui, morto per tutti gli uomini, si imposta correttamente il tema preso in esame. La morte di Cristo apre una certezza di vita che si fonda sulla sua risurrezione: «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (5,15). Prima di offrire agli altri il dono preziosissimo della riconciliazione, Paolo sente di goderne come di un beneficio grande che ha trasformato la sua vita. Ogni altra conoscenza deve scomparire, per lasciare posto all’esperienza di un inserimento nel Cristo pasquale. L’appartenenza a Cristo genera una inedita condizione di vita, bene espressa dal concetto di «creatura nuova»; il greco, a differenza della lingua italiana, usa un termine proprio per indicare una novità qualitativa (kainós) distinguendola da una novità puramente cronologica (néos).
Se è Dio «che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo» (5,19), a lui spetta ogni precedenza e l’iniziativa della riconciliazione. Si esclude così ogni possibilità di appropriazione da parte dell’uomo, beneficiario del dono di Dio. Ma è lo stesso Dio a chiedere collaborazione agli uomini, cosicché il principio teologico-cristologico sfocia in quello ecclesiale: «Era Dio infatti […], affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta» (5,19-20).
La necessità della riconciliazione suppone la peccaminosità dell’uomo. Un compito dell’apostolo sarà appunto di richiamare le strutture di peccato che impediscono all’uomo di costruire una nuova personalità con Cristo: la riconciliazione, infatti, è un atto creativo che risistema una creatura fragile e vittima del peccato. Occorre prendere coscienza del proprio stato e aprirsi all’amore di Dio manifestato in Cristo; questo significa l’accorato appello: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (5,20).
Vangelo: Luca 15,1-3.11-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». |
Esegesi
L’introduzione dei vv. 1-3 fornisce una preziosa chiave ermeneutica al cap. 15 in generale e al nostro testo in particolare. Essi denunciano l’atteggiamento ostile dei farisei che non comprendono perché Gesù sia così accogliente con i peccatori. La parabola è una splendida icona del comportamento di Dio che si riflette puntualmente nel comportamento di Gesù.
Da un punto di vista organizzativo del materiale, osserviamo che dopo una introduzione che mette in scena i personaggi (vv. 11-12), la parabola si articola in due atti di due scene ciascuno, il primo dominato dal figlio minore e dal padre (vv. 13-24), il secondo dal figlio maggiore e dal padre (vv. 25-32); nel secondo atto si rivelerà molto importante se non addirittura decisiva la relazione fratello-fratello.
Introduzione: il padre e due figli (vv. 11-12). Un inizio sobrio ed essenziale presenta i personaggi, il padre e i suoi due figli. I tre creano due tipi di relazioni, la prima quella di padre-figlio sdoppiata in padre-figlio minore e padre-figlio maggiore e la seconda quella di fratello-fratello, relazione non espressa se non verso la fine del racconto e tuttavia di capitale importanza. Dopo i personaggi, ecco l’antefatto che causa il tutto: la richiesta del figlio più giovane di entrare in possesso anzitempo del patrimonio paterno. Il padre, inspiegabilmente, accondiscende, senza reagire negativamente e senza opporre resistenza. Sembrerebbe un uomo indifferente e distaccato. Poiché il seguito mostrerà esattamente il contrario, dobbiamo concludere che egli ha un rispetto sommo del figlio, anche prevedendo un suo sbaglio.
Atto primo: il Padre e il minore (vv. 13-24). Questa parte, sebbene dominata dalle azioni del figlio, ha come sottofondo la presenza del padre.
Prima scena: il minore si allontana e ritorna dal Padre (vv. 13-20a). L’autore della parabola racchiude la prima scena tra un partire (v. 13) e un tornare (v. 20a), due verbi che esprimono un opposto movimento fisico, ma che riveleranno pure due momenti contrastanti nell’animo del giovane. La partenza per un paese lontano vuole significare la distanza dal padre, perfino la sottrazione ad una sua possibile influenza. Il figlio va all’estero (in Israele non si allevavano i porci, cf. invece il v. 15). La partenza avviene all’insegna delle più lusinghiere prospettive perché il figlio minore possiede gli elementi che solitamente la gente considera gli ingredienti della felicità: giovinezza, ricchezza e libertà (intesa qui negativamente come capacità di compiere tutto ciò che si vuole). Sciupato malamente il capitale, subentra l’imprevisto della carestia e quindi della fame. Il lavoro vergognoso per la mentalità ebraica e il disinteresse generale (cf. v. 16) fanno scattare nel giovane un pensiero di ritorno per avere il pane. Il bisogno materiale mette in moto un meccanismo, responsabile di due tipi di ritorno, uno morale e l’altro fisico:
— Il ritorno morale fatto di riconoscimento del proprio errore e di coscienza di aver perso il rapporto padre-figlio. Qui troviamo la grandezza morale di chi è capace di riconoscere e di ammettere il proprio sbaglio, con lucidità e senza reticenze; è lo slancio sincero e umile del giovane che si assume tutta la propria responsabilità; è la umile ammissione del suo errore che fa da contrappunto alla sfacciata presunzione che lo aveva spinto ad allontanarsi.
— Il ritorno materiale, fatto di risoluta decisione maturata alla luce di una riflessione che integrava la vita in una visione meno miope. La prima scena termina con questo ritorno alle persone e alle cose abbandonate, anche se con la coscienza di non possederle più come prima. Il ritorno motivato dal bisogno materiale rivela un atteggiamento di fiducia nel padre che — così egli spera — lo accoglierà come garzone e gli garantirà il sostentamento. Pur con tutto il bagaglio di esperienze negative e di sbagli che il giovane porta con sé, egli dimostra un aspetto non consueto che lo rende grande, in quanto è disposto a riconoscere il proprio errore e ad assumere tutte le conseguenze, prima fra tutte la perdita del suo rapporto di figlio.
Seconda scena. Incontro tra padre e figlio minore (vv. 20b-24). L’iniziale impressione di un padre insensibile o indifferente che lascia partire il figlio senza una parola o un estremo tentativo per trattenerlo, rivela ora tutta la sua infondatezza. Il padre era in attesa, segno che l’amore non si arrende mai, che crede nella vittoria del bene sul male, che spera nel fiorire dei buoni principi insegnati. Solo a questo punto inizia a svelarsi la vera attitudine del padre che con la sua sollecitudine nel correre incontro al figlio indica che lui viveva in perenne attesa che lo portava a sperare e a scrutare continuamente l’orizzonte. Merita speciale attenzione il termine tradotto in italiano con «compassione » (cf. lo stesso verso in Lc 7,33 e 10,33). La parola esprime una compassione profonda che interessa tutta la persona, una tenerezza materna: ecco perché manca la figura della madre: il padre è al contempo anche madre! A questo punto il giovane si esprime con le parole che aveva preparato e manifesta la sua convinzione che, dopo quello che è successo, non è più degno di essere chiamato figlio. Il padre rimane padre, forse lo è ancora di più in questo momento di accoglienza, ma lui non può rimanere figlio perché il suo passato grava su di lui come un’onta incancellabile. Egli vive più di passato che di presente o futuro. Il padre lascia parlare il figlio perché la confessione che esprime il pentimento fa bene, ha benefico effetto liberatorio. Non accetta però le conclusioni proposte dal figlio e non lo lascia terminare: il «Trattami come uno dei tuoi salariati» il figlio non riesce a dirlo, ovviamente perché interrotto dal padre che è attento più al presente e al futuro che non al passato, ora cancellato dal pentimento. Egli non rimprovera, non richiama il passato, perché sarebbe un’inutile riacutizzazione di una ferita non ancora rimarginata. Se il figlio ha maturato e dimostrato il suo pentimento, che bisogno c’è di insistere? La punizione più grave e il rimprovero più severo se li è dati il figlio che accetta di essere non-figlio.
Alle parole del figlio, il padre risponde con una serie di gesti che valgono assai più delle parole. Si rivolge ai servi perché si prendano cura del figlio, come avveniva per il passato, anzi, ancora di più. Il vestito bello (in greco stolè cioè il vestito lungo delle grandi occasioni) indica la situazione di solennità, i calzari che in quel tempo portavano solo poche persone, la dignità, l’anello sul quale era impresso il sigillo di famiglia, l’autorità, e infine l’uccisione del vitello e lo stare insieme a mensa, la gioia, della festa e della condivisione. Tale accoglienza, a dir poco trionfale, necessita una spiegazione: il padre ha lasciato partire il figlio e ora riceve tra le braccia questo mio figlio; aveva visto partire un giovane presuntuoso e arrogante e ora vede ritornare un uomo maturato dal dolore, dalla lontananza e dal pentimento. Nel padre si sprigiona la gioia per il figlio «cresciuto» e la festa che segue valorizza la nuova maturità raggiunta, il nuovo rapporto tra padre e figlio. In questa scena la parola figlio ritorna tre volte e sempre in crescendo: al v. 21 «figlio» appartiene al racconto, poi diventa «non tuo figlio» sulla bocca del giovane, per trasformarsi infine in «questo-mio-figlio» nelle parole del padre. Forse risulta non del tutto comprensibile il comportamento del padre, ma a lui Pascal presterebbe il suo celebre pensiero: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non riesce a comprendere».
Atto secondo: il padre e il maggiore (vv. 2 5-32): fa la sua comparsa l’altro figlio, il maggiore, che movimenta tutto il secondo atto rivelando i suoi sentimenti verso il padre e verso il fratello. Tuttavia anche in questo atto, come nel precedente, il ruolo principale spetterà al padre.
Prima scena: Il ritorno a casa del maggiore (vv. 25-28). Il figlio maggiore che torna a casa sente musica e danze. Interrogato un servo, viene a sapere del ritorno del fratello. La notizia, lungi dal procurargli gioia come era avvenuto per il padre, lo stizzisce: come è possibile che per quello scapestrato spendaccione si organizzi una festa? E più ancora, come è possibile che per lui sia stato ammazzato il vitello che veniva ingrassato per qualche grande occasione, in molti casi proprio per le nozze del primogenito? La sua è una reazione di ostilità e di rottura: «si indignò, e non voleva entrare». Incontriamo ora la seconda annota-zione psicologica, l’ira del maggiore, che contrasta con la commozione del padre nel riavere il figlio minore. Il ritorno del giovane provoca due reazioni contrastanti, la commozione per il padre, ira per il maggiore. La famiglia rimane ancora frantumata dal sentimento di isolamento e di rifiuto di uno dei mèmbri che non intende prendere parte alla festa.
Seconda scena: incontro tra padre e figlio maggiore (vv. 28-32). Il padre va incontro a lui come era andato incontro al minore. È sempre il padre a prendere l’iniziativa e a muovere il primo passo per raccorciare le distanze. Il figlio rivendica i suoi diritti proprio come il minore che chiedeva la parte di patrimonio per andarsene. Nelle sue parole si legge la orgogliosa sicurezza del suo perbenismo, la sua incondizionata e assoluta fedeltà, con un non troppo velato rimprovero al padre considerato come «padrone» dal pesante verbo «ti servo», tipico degli schiavi. Il lavoro, più che collaborazione e compartecipazione, sembra sia stato vissuto come servile dipendenza. Dopo l’accusa al padre, il discorso prosegue attaccando duramente il minore. Egli parla al padre di «questo tuo figlio», incapace di riconoscere l’altro come fratello che demolisce ritornando a un passato ormai sepolto per il padre. Questi riconosce le ragioni del maggiore: quanto egli afferma non è né falso né esagerato, perché di fatto egli ha sempre lavorato in casa. Le ragioni ci sono, d’accordo, ma non devono diventare pretesto per alzare palizzate di divisione. Il padre lo ascolta e poi gli rivolge la parola chiamandolo «figlio», ricordandogli così quella relazione di comunione che il maggiore ha sempre vissuta, forse senza capirla pienamente, sicuramente senza apprezzarla se ora, in un momento di tanta gioia, egli si estranea e mai si rivolge al padre chiamandolo con questo nome. «Figlio, tu sei sempre con me»: il padre difende la posizione privilegiata del maggiore; è una comunione di persone che si travasa naturalmente in una comunione di beni: « tutto ciò che è mio è tuo». Le parole del padre hanno smantellato la pretesa sicurezza del figlio, hanno messo a nudo che neppure lui ha compreso il padre perché non ne condivide i sentimenti e si estranea alla festa della comune riconciliazione. Le sue ragioni valgono, ma nel momento e nel modo in cui vengono rivendicate manifestano la intrinseca debolezza di relazione con il padre.
La festa autentica ci sarà quando il maggiore riconoscerà e accetterà l’altro non come «questo tuo figlio», bensì come «questo mio fratello». Se ciò avviene, non è detto, e la parabola rimane ‘aperta’ come monito per i farisei di tutti i tempi (cf. v. 2).
Meditazione
Una luce particolare, che emerge dai testi scritturistici di questa domenica, orienta il nostro sguardo verso un punto focale che dà unità alle varie tematiche che si intrecciano nella liturgia della Parola: si tratta del volto misericordioso di Dio, un volto che, attraverso il perdono, comunica la gioia della comunione ritrovata con l’uomo peccatore. «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20) è l’appello accorato che risuona in questa domenica. Dio allontana dal suo sguardo l’umiliazione che la schiavitù del peccato imprime sul volto dell’uomo, perché nel suo cuore prevale la compassione. Assicurando Giosuè della sua fedeltà al popolo di Israele, Dio dice: «oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto» (Gs 5,9a). E così il padre della parabola di Lc 15, 11-32, riabbracciando il figlio che si era allontanato, lo rassicura del suo amore dicendo: «portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare…» (v. 22). Mediante il suo perdono, Dio ridà all’uomo la dignità perduta, la dignità del figlio: dal volto di questo figlio perduto, cercato, atteso, ritrovato, scompaiono le ferite che ne deturpano il volto e riappare la fiducia e la libertà dei figli. Solo la gioia della festa può dare compimento e voce a questa comunione ritrovata: «bisognava far festa e rallegrarsi…» v. 32); è l’invito del padre al figlio maggiore per il fratello che è ritornato a casa. Il vitello grasso che il padre fa ammazzare per preparare il banchetto al figlio minore (v. 23) è il simbolo di quella Pasqua che viene celebrata al termine del lungo e faticoso cammino di liberazione del popolo di Israele dall’Egitto (Gs 5,10-12) ed è un’anticipazione del compimento nella Pasqua del Cristo, vero agnello immolato che riconcilia l’uomo con Dio: «tutto questo però – ci ricorda l’apostolo Paolo viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo…» (2Cor 5,18).
Nella liturgia della Parola di questa domenica, il testo che lascia trasparire con stupenda luminosità il volto compassionevole di Dio è sicuramente la parabola di Luca. È come un’icona, poiché Luca ha la capacità, nel suo racconto, di renderci quasi protagonisti di una vicenda allo stesso tempo squisitamente umana e paradossalmente divina. E, come protagonisti, siamo chiamati ad aprire lo sguardo per poter contemplare, attraverso questa parabola, il volto stesso di Dio, un volto che spesso ci illudiamo di conoscere, ma che continuamente richiede da noi un cammino di conversione per scoprirlo in tutta la sua inaudita bellezza. Accostarsi a questa parabola, significa lasciarsi catturare da un volto: «da qualsiasi angolatura si guardi questo racconto, ci si accorge che al centro c’è la figura del padre: lui davanti ai suoi i figli e i due figli davanti a lui. Il padre è la figura che dà unità all’intera narrazione. Le due vicende si scontrano con l’originalità della sua paternità» (B. Maggioni). E allora rileggiamo brevemente le due vicende tenendo fisso lo sguardo sul volto del padre: «un uomo aveva due figli…» (v. 1).
Il bisogno di autonomia, di indipendenza e libertà nei confronti del padre, orienta le scelte dei figlio più giovane. Ma questo desiderio, in sé molto umano e tipico per un giovane, si intreccia con una pretesa: «dammi la parte di patrimonio che mi spetta» (v. 12). E la pretesa di ciò che di fatto è un dono e che solo nella gratuità di una comunione (con quel padre che vuole dargli tutto ciò che ha) è possibile renderlo occasione di libertà e di vita. Possedere un dono (Luca usa un’espressione significativa ed emblematica per esprimere questo bisogno di avere per sé: «raccolte tutte le sue cose», v. 13) significa renderlo sterile e infecondo, ed è questo il risultato della vita di quel giovane. E Luca non manca di descrivere con precisione un fallimento in qualche modo annunciato (cfr. vv. 13-16): dissipazione, solitudine e lontananza che gradualmente conducono a una perdita della libertà, della dignità e, alla fine, della propria identità. Fuori metafora, tutto questo processo è la degradazione a cui conduce il peccato come lontananza dal volto di Dio. La domanda che Dio rivolge al primo uomo in Gen 3,9 – «dove sei?» – è l’interrogativo pungente che può aprire un cammino di ritorno: «Uomo dove sei? Uomo, dov’è il tuo luogo più vero, più profondo, dove puoi sentirti a casa? Dove cerchi la verità della tua vita, la verità del tuo volto?». L’uomo, quando distoglie il suo volto da Dio, perde il suo volto più autenticamente umano. In questo figlio lontano dal padre, distrutto e sfigurato nella sua dignità, ritorna il ricordo della casa del padre, della vita che in essa conduceva: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò… non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati» (vv. 18-19). Conversione? Non ancora. È un primo passo verso questo cammino.
C’è nostalgia, c’è vergogna, c’è la memoria di una certa felicità perduta; ma in questo figlio, che non si sente tale, manca ancora un ricordo o, meglio, una scoperta. Quella più importante: il ricordo e la scoperta del volto del padre. E questo avviene come dono da parte del padre: «quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò (v. 20). Quella lontananza che sembrava incolmabile e che, con la paura di essere rifiutati e giudicati, pesava nel cuore di quel figlio proprio nell’ultimo tratto di strada da percorrere, all’improvviso scompare. Ma è il padre che ha il coraggio di annullare quella distanza e lo fa con l’impazienza di chi a lungo ha atteso un incontro. La conversione del figlio è proprio questa: scoprire questo volto e sapere che di fronte ad esso lui, il figlio perduto e ritrovato, non ha mai cessato di esser tale, figlio amato. «Facciamo festa… e cominciarono a far festa» (vv. 23-24): la gioia è l’atteggiamento che traduce il cuore del padre di fronte a questo figlio, gioia gratuita e autentica non tanto per un figlio riavuto (non c’è possesso in questo padre) ma per un figlio amato.
La tristezza è invece ciò che caratterizza l’altro figlio, quello maggiore. Tristezza che si trasforma in rabbia covata, in indignazione e rifiuto, in incapacità di comprendere la gratuità del padre. «Ecco io ti servo da tanti anni…» (v. 29): in queste dure parole piene di pretesa, è riflesso il volto di questo figlio. È un servo che, nonostante una vita passata con il padre, non ha mai potuto conoscerne il volto. Ha servito attendendo di essere ripagato («non mi hai mai dato un capretto…»: v. 29); ha obbedito convinto di guadagnarsi una qualche giustizia. In fondo non ha amato il padre perché non lo ha mai sentito come tale.
Ma anche di fronte a questo figlio si rivela lo stesso volto di misericordia del padre. E questa rivelazione avviene anzitutto attraverso una parola: «Figlio…» (v. 31): davanti a questo padre, non c’è un servo, non c’è uno che è oppresso, ma c’è un figlio che è chiamato a gioire per un fratello ritrovato. E questo figlio che non si sente tale deve capire due cose: «tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31). È l’amore del padre, il suo dono, quella gratuità che diventa trasparenza nella festa per il figlio ritrovato, a rivelare il volto del padre e trasformare in figli quei due giovani che si sentivano solo servi. Questo deve diventare il cuore della loro conversione, perché, pur con percorsi differenti, tutti e due questi figli sono chiamati a conoscere chi è il loro padre.
Attraverso questa parabola, siamo orientati con forza alla gioia pasquale, perché è nella Pasqua di Cristo che ci viene rivelata, nella sua massima trasparenza, la compassione del volto di Dio. La veste più bella, l’anello al dito, i calzari, i segni del figlio, ci verranno donati nella notte in cui celebreremo la vittoria di Cristo sulla morte; e in questa notte l’agnello ucciso per far festa, per celebrare la liberazione, ci comunicherà tutta la gioia di un Padre che nel Figlio vuole essere in comunione con noi. Per ora si tratta di continuare questo cammino di ritorno, non dimenticando però, alla luce di questa parabola, che la vera conversione, la vera svolta nella nostra vita è anzitutto riscoprire il volto di un Padre che ci ama e, alla sua luce, essere consapevoli di ciò che possiamo diventare grazie a questo vol-to: «se uno è in Cristo è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).
Preghiere e racconti
La condizione umana è una condizione di debolezza, ecco perché ci sono le gommine sulle matite. Tutti compiono errori. Dio ha fornito solo animali e uccelli di istinti infallibili. Noi esseri umani dobbiamo imparare molte cose dalle prove e dagli errori.
Un vecchio saggio disse una volta: “Impara dagli errori degli altri: non vivrai abbastanza per compierli”.
Molti di noi danno per scontato che, se non avessimo mai compiuti errori, probabilmente non avremmo mai fatto scoperte. Certo, l’unico vero errore è quello dal quale si è imparato nulla. Gli errori sono esperienze istruttive. Dunque, benvenuti nel club!
Così come avviene per molte virtù, lo spirito di comprensione e tolleranza incomincia a casa propria. In un modo o nell’altro molti di noi devono giungere alla disperazione, prima di poter offrire a se stessi comprensione e gentilezza. Dobbiamo toccare il cosiddetto fondo prima di poterci di nuovo rialzare.
E allora, devo domandarmi: a che punto sono? Mi sono liberato dall’abitudine di rivangare gli errori del passato? Mi sono liberato dei sentimenti di imbarazzo per le mie colpe e le mie lamentele? Posso dire con onestà e in pace: “Questa è la persona che abitualmente ero, il mio vecchio io; non è la persona che sono ora, l’io nuovo e attuale?” Molti di noi non capiscono di aver imparato dagli errori passati, e di avere superato grazie ad essi alcune immaturità. Mi rendo conto che il “vecchio io” ha insegnato molte cose al “nuovo io”?
La trappola, qui, consiste nell’identificarmi con il lato oscuro della mia personalità e con i miei errori passati, nel pensare a me stesso com’ero una volta. Quasi come quella persona che da piccola era grassa, ma che da grande è diventata snella.
La domanda fondamentale è: penso a me stesso come grasso o come magro? Chiaramente, crescere significa cambiare, e cambiare significa “lasciar perdere”. È una cosa difficile o facile per te? Ricorda, dobbiamo cominciare con un’onestà spietata, o non potremo mai giungere alla verità. E senza verità, non c’è crescita né gioia.
(John POWELL, Esercizi di felicità, Effatà Editrice, 2004, Cantalupa (TO), 25-26).
«L’amore del Padre non è un atto di costrizione. Sebbene il Padre voglia guarirci da tutte le nostre tenebre interiori, siamo sempre liberi di fare la nostra scelta, di rimanere nelle tenebre o di entrare nella luce dell’amore di Dio. Dio è là. La luce di Dio è là. Il perdono di Dio è là. L’amore sconfinato di Dio è là. Ciò che è sicuro è che Dio è sempre là, sempre pronto a donare e perdonare, in modo assolutamente indipendente dalla nostra risposta. L’amore di Dio non dipende dal nostro pentimento o dai nostri cambiamenti ulteriori o esteriori.
Che io sia il figlio minore o il figlio maggiore, l’unico desiderio di Dio è di portarmi a casa. Arthur Freeman scrive: “Il padre ama ogni figlio e da ad ognuno la libertà di essere ciò che vuole, ma non può dar loro la libertà che non si sentiranno di assumere o che non comprenderanno adeguatamente. Il padre sembra rendersi conto, al di là dei costumi della società in cui vive, del bisogno dei propri figli di essere se stessi. Ma egli sa anche che hanno bisogno del suo amore e di una “casa”. Come si concluderà la storia dipende da loro. Il fatto che la parabola non abbia un finale garantisce che l’amore del padre non dipende da una conclusione appropriata del racconto. L’amore del padre dipende solo da lui e fa esclusivamente parte del suo carattere. Come dice Shakespeare in uno dei suoi sonetti: “L’amore non è amore se muta quando trova mutamenti”».
(H.J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 114-115).
«Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio. C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone. Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profondamente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emergere una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento. Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone. Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribellarmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga. Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».
(H.J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79)
Un padre ama i figli e li perdona solo perché sono i suoi figli, non perché sono buoni. I padri aspettano con ansia i figli, se questi un giorno lo abbandonano. E se così si comportano i padri terreni, quanto grande sarà il perdono e l’immensa misericordia del Signore? Dio è amore e generosità assoluta e gratuita. Fa splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti, e allestisce un banchetto memorabile, perché un figlio ingrato e scapestrato è tornato alla casa del Padre. Perciò, sappi che è importante amare Dio e tenerlo con te nel tuo cuore, ma che è ancor più importante lasciarsi amare da Dio ed essere nel suo cuore.
(Clemente Arranz Enjuto).
II figlio lontano si levò e venne da suo padre (Lc 15,20). Venne non attraverso un cammino del corpo, ma attraverso un cammino spirituale. Non ebbe bisogno di percorrere un lungo cammino, perché aveva trovato una via di salvezza più breve. Non ebbe bisogno di cercare il padre divino percorrendo molteplici strade, lui che lo cercò con la fede e lo trovò ovunque accanto a sé. Si levò e venne da suo padre. Quando era ancora lontano […] In che modo è lontano colui che viene? È lontano perché non è ancora arrivato. Viene, si incammina verso la conversione, ma non giunge ancora alla grazia; viene alla casa del padre, ma non giunge ancora alla gloria della sua condizione e del suo onore di prima. Il padre lo vide ed è per questo che il figlio potè slanciarvi verso di lui. Lo sguardo del padre rischiarò gli occhi del figlio e dissipò tutta l’oscurità che ravvolgeva a causa della colpa. Le tenebre della notte non sono nulla a confronto delle tenebre che nascono dalla confusione generata dal peccato […].
Il padre gli corse incontro non con un movimento fisico, ma in uno slancio di tenerezza. Gli si gettò al collo con il peso dell’amore, non con quello del corpo. Gli si gettò al collo non con un movimento delle viscere, ma con la passione delle viscere. Gli si gettò al collo per innalzare colui che giaceva a terra. Gli si gettò al collo per togliere con il peso dell’amore, il peso dei peccati. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi. Prendete sopra di voi il mio giogo che è leggero (Mt 11,28-30). Il figlio è aiutato da questo peso del padre, non ne è schiacciato. Gli si gettò al collo e lo baciò. È così che il padre giudica, è così che corregge, è così che copre di baci il suo figlio, non di percosse. La forza dell’amore non vede le colpe e perciò il padre con un bacio cancella i peccati, lo circonda con il suo abbraccio, non vuole mettere a nudo i crimini di suo figlio, non vuole disonorarlo. È così che il padre guarisce le ferite del figlio, in modo che nel figlio non restino nessuna cicatrice, nessun segno. Beato, dice il salmista, colui al quale sono perdonate le colpe e i cui peccati sono stati ricoperti [Sal 31 (32), 1].
(PIETRO CRISOLOGO, Discorsi 3,1-3, CCL 24, pp. 26-28).
Nella mia vita ho sperimentato molte bene quanto è difficile per me confidare di essere amato ed avere fiducia che l’intimità in cui ho bisogno e che desidero ardentemente è lì pronta per me. Più spesso vivo come se dovessi meritarmi l’amore, fare qualcosa e poi forse ottenere qualcosa in cambio. Questo atteggiamento abbraccia l’intera questione di ciò che nella vita spirituale viene chiamato “amore preveniente”. Credo davvero di essere amato anzitutto, indipendentemente da ciò che faccio o da ciò che compio? È una questione importante, perché fino a che penso che quello di cui ho bisogno me lo devo conquistare, meritare e ottenere con un duro lavoro, non riuscirò mai ad avere ciò di cui ho più bisogno e che desidero di più, che è un amore che non può essere guadagnato ma che è donato gratuitamente. Pertanto il mio ritorno è la mia disponibilità ad abbandonare la tendenza a ragionare in questo modo e a vivere sempre più secondo la mia vera identità di figlia o figlio prediletto di Dio.
Aiutami ad amare gli altri così come sono, o Signore, nello stesso modo in cui tu hai donato il tuo amore a me.
(H.J.M. NOUWEN, Dalla paura all’amore. Riflessioni quaresimali sulla parabola del figlio prodigo, Brescia, Queriniana, 2002, 59-60).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.
– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Carissimi fratelli, sorelle, membri tutti della Famiglia Salesiana, Amici di Don Bosco
Oggi la sede di Pietro è rimasta vuota, a motivo della rinuncia di Papa Benedetto XVI a proseguire nell’esercizio del ministero petrino, a lui affidato otto anni fa.
Noi, Famiglia di Don Bosco sparsa nel mondo, rimaniamo profondamente riconoscenti, anche per questo coraggioso atto di servizio del nostro carissimo Santo Padre, e lo accompagniamo con la nostra sincera simpatia e devozione e, come Egli stesso ci ha chiesto, con la nostra costante preghiera.
Papa Benedetto XVI, che ha manifestato tanti gesti di benevolenza e affetto verso la nostra Famiglia, è stato un vero dono di Dio alla sua Chiesa e al mondo attuale. Egli si è congedato affermando che non si è sentito solo, neppure nei momenti in cui sembrava che Dio dormisse. Vogliamo assicurare a Lui che non sarà mai solo, perché il suo splendido magistero e la sua imponente figura rimarranno nei nostri cuori. La storia farà vedere la sua grandezza umana, il suo vigore intellettuale, la sua profonda vita spirituale, il suo amore indiviso a Cristo, il suo magnifico servizio alla Chiesa e al Mondo.
La Chiesa di Dio non è orfana. Il Signore Gesù, suo Capo, e lo Spirito di Dio, suo Avvocato, la presiedono e la guidano continuamente.
Di cuore vi chiedo di unirvi a me nella preghiera ardente, insieme con Maria che condivide vita e preghiera con gli Apostoli, mentre aspettiamo con fiducia e serenità che Dio ci dia un nuovo pastore secondo il suo Cuore.
La conversione alla quale ci chiama la Parola di Dio in questo tempo quaresimale sia la migliore forma di impetrare a Dio questa grazia.
Con affetto e un ricordo nella Eucaristia.
Don Pascual Chávez V., SDB
Rettor Maggiore
L’Istituto di Catechetica, fedele alla tradizione, organizza anche quest’anno una giornata di studio per docenti e dottorandi, su un tema catechetico particolarmente rilevante.
Questa giornata si realizza nel 50° Anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II, nell’anno della fede, alcuni mesi dopo la celebrazione del Sinodo dei Vescovi su: La nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana.
Per questo motivo è stato scelto come tema: Il primo annuncio nel contesto della nuova evangelizzazione. Alla luce del recente Sinodo dei vescovi.
La giornata di studio si realizzerà il sabato 2 marzo 2013 presso l’Università Pontificia Salesiana, dalle 9.00 alle 17.00.
Abbiamo invitato per questa circostanza un esperto di fama internazionale, il Prof. Xavier Morlans i Molina, docente della Facoltà di Teologia di Catalunya (Barcellona), consultore del Pontificio Consiglio per la Nuova evangelizzazione.
Contenuto delle relazioni:
– Approssimazione pastorale, biblica e teologica al primo annuncio. Perché oggi la preoccupazione per il primo annuncio? Origine del primo annuncio: il kerygma apostolico.
– L’esperienza pastorale “Tornar a creure” (Ritornare a credere) nelle diocesi di Barcellona, Salsona e S. Feliu di Llobregat (2012-2013).
– Proposta di un piano di nuova evangelizzazione in base all’articolazione di primo annuncio, itinerari di (re-)iniziazione cristiana e scuole diocesane di evangelizzazione. (Cf. Proposte del Sinodo dei vescovi, specialmente le Propositiones: 9, 10, 40, 45 e 47).
Ad ogni relazione farà seguito un tempo di dialogo con il relatore.
Naturalmente saremo onorati della sua presenza e del contributo che potrà offrire alla riflessione su un tema così importante.
Le adesioni vanno comunicate via E-Mail, entro e non oltre il 15 febbraio 2013 a: pastore@unisal.it
Siamo lieti di offrirvi il pranzo. Se qualcuno dovesse arrivare la sera del 1° di marzo è pregato di segnalarlo per tempo, per garantire l’ospitalità nella struttura della Università.
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QUALCHE INFORMAZIONE SU:
Con viva cordialità e amicizia.
Corrado Pastore
Direttore dell’Istituto di Catechetica