CENA DEL SIGNORE

Prima lettura: Esodo 12,1-8.11-14

Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne. 

Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”. 

 

Il brano dell’Esodo, che la liturgia ci fa leggere oggi è uno dei testi che fonda la festa della pasqua (pesach) ebraica, che viene celebrata ancora oggi, come «memoriale» della liberazione dall’Egitto e che Gesù, la sua famiglia e i suoi apostoli hanno celebrato secondo le tradizioni che si rifacevano alla Torà di Mosè.

     Nella Torà (Pentateuco) sono numerosi i testi che «fondano» la pasqua, mentre accenni alla pasqua si trovano anche nelle altre parti del tanach (nome della Bibbia ebraica, dalle iniziali delle tre parti fondamentali in cui è divisa: Torà = insegnamento, legge; Neviim, = profeti; Ketuvim = agiografi). Il capitolo 12 dell’Esodo dedica alla Pasqua due parti i vv. 1-28 e 41-50. In questi testi è esplicito il collegamento con l’opera del Signore, che libera il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto e a cui viene esplicitamente dato il comando di celebrarne il memoriale: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14). La celebrazione di un rito ciclico, proprio dei pastori, che gli ebrei del tempo dei patriarchi celebravano come gli altri popoli vicini dediti alla pastorizia, in primavera, per chiedere a Dio la benedizione e la fecondità del gregge, diventa il rito «memoriale» dell’intervento di Dio nella storia.

     Sempre in questo capitolo sono indicate le modalità essenziali, per riuscire a far entrare la nuova generazione dentro al significato di questa celebrazione: «Quando poi sarete entrati nel paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito: Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della pasqua per il Signore».

     Il passaggio di generazione in generazione avviene in forma di domande dei figli e di risposte dei padri. Il modo di ricordare, attraverso gesti simbolici susciterà la curiosità dei più giovani e sarà il punto di partenza per il racconto delle opere compiute da Dio per liberare il suo popolo e avviarlo verso la terra promessa, proprio il racconto di tali opere in risposta alle domande dei figli costituisce il nucleo del «memoriale» celebrato nel Seder pasquale dagli ebrei ancora oggi, in continuità con la prima pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto.

     La pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto è la pasqua avvenuta, potremmo dire, sotto il segno del miracolo, le pasque celebrate in seguito sono «memoriale». Chi partecipa al memoriale deve considerare se stesso come se proprio lui fosse uscito dall’Egitto, ma il miracolo è per ora solo spirituale, dato solo nel racconto e nei gesti simbolici. Il rito deve essere perenne: esso è un «memoriale» rende efficace per i presenti l’azione salvifica di Dio ed è teso al sabato messianico, che non avrà più tramonto.

     L’andamento in tre tempi del «memoriale» ebraico è lo stesso di quello cristiano: i cristiani fanno memoria della morte e risurrezione di Gesù in questo tempo intermedio, partecipano cioè nel rito dell’opera salvifica di Gesù in attesa della domenica del Regno, quando sarà finito il tempo intermedio nel quale dobbiamo avvalerci del racconto e dei segni.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 11,23-26

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». 

Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

 Il brano di Paolo è uno dei quattro testi neotestamentari, che presentano direttamente il racconto di quella che siamo soliti chiamare l’«istituzione dell’eucaristia». Gli altri tre sono Lc 22,14-20; Mt 26,20-29; Mc 14,17-25. In realtà il termine eucaristia non c’è negli scritti apostolici; esso inizia solo con la Didaché e in Ignazio di Antiochia (110 d.C.) comincia ad avere un senso sacramentale. I termini per indicare la prassi eucaristica nel Nuovo Testamento sono cena del Signore (cf. 1Cor 10,14,22; 11, 17,33) e frazione del pane (cfAt 2,42.46; 20,7.11).

     Il testo di Paolo che si legge oggi è un testo che presuppone già una tradizione liturgica. Esso è legato a quello di Luca e si fa risalire alla tradizione antiochena, mentre Marco e Matteo, apparentati fra loro, risalgono alla tradizione gerosolimitana.

     In Paolo e Luca sono rilevanti tre aspetti: l’invito a «fare memoria» (1Cor 11,24.25; Lc 22,19 solo sul pane); il riferimento all’alleanza (1Cor 11,25, Lc 22,20); la dimensione del dono personale di Gesù espresso da «questo è il mio corpo, che è per voi» (1Cor 11,24; Lc 22,19) e dal sangue versato per voi (Lc 22,20). È da notare anche il ‘voi’, che si riferisce direttamente ai presenti alla celebrazione e che è molto insistito nel racconto di Luca.

     L’eucaristia è «fare memoria» vale a dire compiere il rito, ma soprattutto accettare la logica del servizio proposta dalla lavanda dei piedi.

     Il calice è la nuova alleanza, vale a dire un’alleanza vera voluta da Dio e che deve essere accettata dai discepoli di Gesù. Il termine analogico è sempre l’alleanza del Sinai; lì c’è l’iniziativa di Dio che ha liberato il popolo e gli dà una norma di condotta; il popolo deve rispondere accettando l’alleanza, vale a dire mettendo in pratica i precetti. La fedeltà all’alleanza è sicura da parte di Dio, è difficile da parte del popolo. Dio, però, non lo abbandona e continuamente lo richiama, soprattutto attraverso i profeti rammentando loro la sua misericordia e la sua fedeltà, nonostante le sofferenze e l’apparente abbandono.

     Dalla fede che il gesto di Gesù è un’alleanza reale con Dio, un dono di Dio come quella stipulata con Israele, l’alleanza è chiamata «nuova», con riferimento a Geremia: «Ecco verranno giorni in cui con la casa di Israele e la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova…» (Ger 31,31-34).

     L’eucaristia è soprattutto dono di sé di Gesù, che deve diventare dono di sé dei discepoli che la celebrano.

 

Vangelo: Giovanni 13,1-15 

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. 

Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri». Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».  

 

Esegesi 

            Il primo versetto del brano di Giovanni fa da introduzione ai capitoli 13-17, che vengono generalmente denominati «discorsi di addio». Il redattore ha unificato i discorsi tenuti da Gesù ai suoi introducendoli nella cornice dell’ultima cena con loro. Giovanni non parla di cena pasquale come i sinottici, ma dell’ultima cena di Gesù con i discepoli, che cronologicamente pone «prima della festa di Pasqua». Il problema della datazione dell’ultima cena e della crocifissione, presentata in modo differente dai sinottici e da Giovanni, è stato affrontato da molti studiosi, ma è impossibile raggiungere una intesa che non lasci dubbi. D’altro canto l’interesse dei Vangeli non è cronachistico; il racconto è rivolto all’annuncio della rivelazione salvifica di Gesù, che nella morte e risurrezione trova il suo punto culminante.     

     In particolare, il brano che leggiamo oggi si muove su due binari uno è quello di rivelarci qualcosa della natura divina di Gesù e dell’azione salvifica insita nella sua morte, discorso che si farà più evidente nei capitoli che narrano la passione, l’altro è quello di mostrare ai discepoli il tipo di condotta richiesto, per essere veramente considerati tali.

     Gesù è presentato pienamente consapevole della sua passione: il participio «sapendo» è ripetuto ai versetti 1 e 3. Egli conosce la «sua ora», cioè quella della morte, presentata come l’ora «di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1); egli ha piena coscienza dei poteri che gli sono stati dati dal Padre dal quale è venuto e al quale ritorna (Gv 13,3).

     L’evangelista pone gli avvenimenti che seguono nell’orizzonte dell’amore sconfinato di Gesù: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).

     In contrasto con questo amore senza limiti c’è il tradimento di Giuda, che è ispirato dal diavolo, il vero nemico, che Gesù deve sconfiggere (Gv 13,2). È giunto il momento dell’azione del «principe di questo mondo», che anche se apparentemente contrario, non ha nessun potere su Gesù (Gv 14,30); il giudizio sul «principe di questo mondo» è già stato pronunciato (Gv 16,11).

     Sempre nella linea di rivelarci qualcosa del mistero della persona di Gesù e illustrare il valore salvifico della sua missione nel mondo eseguita secondo il volere del Padre, va il colloquio con Pietro. Il gesto di Gesù è a prima vista incomprensibile sia dal punto di vista delle convenzioni sociali, sia perché è il simbolo dell’abbassamento di Gesù, che viene dal Padre, e quindi è di natura divina.

     Gesù è consapevole che, se il livello morale del gesto, più che da capire sarà difficile da imitare; l’abbassamento, la «kenosi» del Verbo di Dio non si accetta se non con l’opera dello Spirito Santo: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7).

     L’insistenza sulla natura divina di Gesù, sul suo potere, che gli viene dal Padre, sulla sua qualità di maestro e Signore porta a dare al gesto della lavanda dei piedi la profondità di «segno» nel senso pregnante del termine che sintetizza la logica di tutta la vita di Gesù e rende il suo comando di fare come ha fatto lui un impegno inderogabile per i discepoli. «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,14).

     Non si tratta semplicemente di compiere un rito liturgico, ma di testimoniarne la logica; il rito serve a ricordare che il Maestro ha chiesto di vivere una vita di servizio dandone l’esempio fino all’amore totale della morte di Croce; i discepoli devono comportarsi di conseguenza. Infatti «il servo non è più grande del suo padrone, né l’apostolo è più grande di colui che l’ha mandato» (Gv 13,16). Questo insegnamento, insiste Gesù, non si deve solo capire, ma la comprensione è vera solo se lo si mette in pratica: «Se capite queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17).

Meditazione

Nella cornice evocativa del pasto rituale della Pasqua ebraica, si apre il racconto della cena di Gesù con i suoi discepoli, momento simbolico che introduce il racconto della passione in tutte le narrazioni evangeliche. Due gesti contrastanti sembrano staccarsi in questo contesto così umanamente intenso, due gesti che sorprendentemente rivelano la profondità dell’amore di Cristo: il tradimento di Giuda e il dono che Gesù fa di se stesso ai suoi. Unico, in qualche modo, è il verbo che accomuna questi due gesti apparentemente molto lontani: si tratta del verbo consegnare (paradidonai in greco). Con sfumature differenti (può significare anche ‘abbandonare’, ‘dare in balia’, ‘tradire’), questo verbo domina tutto il racconto della passione, assumendo una forza paradossale soprattutto nel racconto dell’ultima cena. Il tradimento di Gesù da parte di uno dei dodici (aspetto messo in rilievo soprattutto nella liturgia bizantina, ma anche in quella ambrosiana) non è una semplice azione malvagia dell’uomo, una fatalità dovuta a quei giochi di potere, di invidia, di egoismo che si impossessano del cuore dell’uomo. Questo gesto si inserisce in un disegno più ampio che ha Dio come protagonista: è Dio che si consegna all’uomo. E in qualche modo, il tradimento del discepolo, nella sua triste verità umana, diventa un ‘vangelo’ poiché annunzia la grandezza dell’amore di Dio: mentre l’uomo consegna l’amico per meschinità, il Padre consegna il Figlio per amore. Ma, ancora più in profondità, è il Figlio stesso, nella sua incondizionata obbedienza, a consegnarsi, a donarsi, a spezzare la sua vita e a versare il suo sangue per la salvezza degli uomini.

E l’evangelista Giovanni non manca di sottolinearlo proprio all’inizio del racconto della cena pasquale, mettendo in rilievo la piena consapevolezza di Gesù nel vivere la sua drammatica passione: «prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda… di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle sue mani… si alzò da tavola…» (Gv 13,1-4).

     L’infinita gratuità dell’amore di Cristo, sottolineata da Gv 13,1 con quella stupenda espressione, «amò i suoi sino alla fine», che rivela un amore oltre ogni limite, un amore inaudito e impensabile per l’uomo, è resa plasticamente visibile dai gesti della lavanda dei piedi e del pane e del vino donati. Questi gesti, che si trasformano nella memoria della Chiesa in ‘sacramento’ di una presenza e di un amore che salva, diventano il cuore stesso della liturgia del Giovedì santo. E la liturgia della Parola della messa in Coena Domini, nei testi scritturistici, ci offre una particolare angolatura che ci permette di cogliere questo mistero nella sua totalità. La descrizione del rituale del pasto pasquale ebraico (Es 12,1-14), la narrazione di ciò che Gesù ha compiuto nell’ultima cena (secondo il racconto di Gv 13,1-15) e la celebrazione dell’eucaristia in una comunità cristiana (riportata in ICor 11,23-26) si presentano quasi come un’unica narrazione che scorre misteriosamente nella storia sacra di ogni credente, diventando in essa la memoria viva e il luogo in cui si opera la salvezza. In ognuno dei tre racconti c’è un gesto, un simbolo, una realtà significata: un agnello ucciso e condiviso in un pasto (Es 12,3-8), un catino d’acqua e un asciugatoio usati da Gesù per lavare e asciugare i piedi dei discepoli (Gv 13,3-5), del pane e del vino distribuiti su di una mensa (1Cor 11,23-25). Tre simboli differenti che sorprendentemente formano un’unica icona: quella del dono, quella del volto di Colui che offre la vita per gli amici, l’icona della compassione di Dio per il suo popolo. Altri elementi significativi legano i tre racconti. Il tempo in cui sono collocate le tre scene è la notte, tempo simbolico della morte. E proprio nella notte (che inizia al momento del tramonto del sole) vengono collocati questi tre momenti simbolici che, per la loro forte carica comunicativa (sono gesti di condivisione e di dono) hanno la capacità di squarciare il buio della notte, quasi a capovolgerne il significato: «in quella notte io passerò… Io sono il Signore» (Es 12,12). Un secondo simbolo accomuna i tre racconti: quello del pasto. Nella notte si condivide un pasto: è un linguaggio squisitamente umano che ha la capacità di esprimere la dimensione comunitaria del dono di Dio. E infatti l’agnello viene consumato tra tutti i mèmbri della famiglia; durante il pasto Gesù compie l’umile gesto di servizio verso tutti i suoi discepoli; sulla mensa, nel pane e nel vino condivisi, è posto il mistero dell’amore di Gesù, come presenza perenne in mezzo ai suoi. C’è anche un terzo elemento che lega drammaticamente e misteriosamente le tre scene: quello del sangue, cioè della vita donata, simbolo della morte che apre alla vita (il sangue dell’agnello ucciso, il sangue che viene misteriosamente versato nel gesto di colui che lava i piedi ai discepoli, il sangue donato come comunione di vita nel calice). E, infine, in tutti e tre i racconti, i gesti compiuti non sono un episodio tra i tanti nella storia di un credente. Sono gesti che devono essere rivissuti, ripetuti, gesti che devono trasformarsi in vita per operare la salvezza: «questo sarà per voi un memoriale… lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14)… «vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15)… «ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26). In questi tre eventi è racchiusa la nostra memoria di credenti e tutta la nostra storia; in essi scopriamo continuamente il senso di ciò che facciamo, il senso di ogni evento, il senso della nostra fede; su questi si costruisce la comunione della Chiesa e in essi continuamente la Chiesa si comprende e si purifica.

     Ma con ogni probabilità, il racconto che maggiormente provoca la nostra vita di credenti, nella sua quotidianità e concretezza, è il gesto che Gesù compie verso i suoi discepoli e che la liturgia del Giovedì santo pone come momento di sintesi di tutto il mistero celebrato: «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua… e cominciò a lavare i piedi dei discepoli…» (Gv 13,5). Se nella nostra vita di uomini riusciamo ancora, in qualche modo, a spezzare il pane, sicuramente questo gesto, ci è estraneo: estraneo per cultura, estraneo per sentimenti, estraneo soprattutto per incapacità di comprenderlo. «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (v. 7). Quando incominciamo a capire questo gesto? Quando Gesù lo fa a noi, quando diventa vita in noi, quando noi diventiamo questo gesto per gli altri. Allora questo gesto così lontano dalla nostra cultura, dal nostro modo di vivere, dai nostri rapporti quotidiani, ci apre lo sguardo sull’amore folle di Dio. Ecco perché non possiamo capire questo gesto: è folle perché è totalmente gratuito. E tutto ciò che è folle e gratuito, può essere solo accolto come dono nella nostra vita. Colui che è Signore e maestro, si alza da tavola e ci insegna la bellezza dell’essere servi. Addirittura fa qualcosa di più: depone le vesti. Mentre l’uomo cerca sempre di indossare le vesti della potenza, tutte quelle maschere con cui vuole nascondere a se stesso e agli altri la sua povertà, il Signore depone la sua gloria per indossare l’abito della debolezza e della misericordia, della mitezza e dell’umiltà, l’abito del servo. E così vestito si china sul punto in cui l’uomo si confonde con la terra, il punto in cui l’uomo sperimenta tutta la fatica di essere creatura. Nessun uomo ha il coraggio di collocarsi così in basso. Ed è proprio in questo luogo limite, il luogo della terra dell’umanità, che il Signore rivela la sua potenza. Ed è quella che passa attraverso il gesto della compassione: lavare i piedi di chi è stanco e affaticato, renderli puliti e asciugarli perché l’uomo possa riprendere il cammino nella consolazione e nella certezza che qualcuno custodisce ogni suo passo, che qualcuno è sempre pronto a lavarli e ad asciugarli. In qualunque situazione umiliante l’uomo si trovi, scoprirà ai suoi piedi, al di sotto di lui, un volto ancora più umiliato del suo, il volto del suo Signore che è lì, pronto ad avvolgere i suoi piedi nella compassione.

     Ma il discepolo di Cristo non può dimenticare che tutti i gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena sono accompagnati da un imperativo: «fate questo in memoria di me… come ho fatto io fate anche voi…». Quei gesti non rimangono in quella sala del banchetto, su di una mensa o ai piedi del discepolo. E nemmeno rimangono come stupita memoria nel cuore. Da quella mensa e da quei discepoli essi ripartono, come un cammino ininterrotto lungo la storia, per fermarsi sulla mensa e ai piedi di ogni uomo. Il dono del pane e del vino, il dono della vita di Dio e il suo volto di compassione, hanno un suo luogo di verità: quando li ritroviamo, con lo stesso splendore, ai piedi di ogni fratello. E a quei piedi, se sapremo inginocchiarci, scopriremo accanto a noi il Signore e lui ci insegnerà ancora a lavarli e ad asciugarli, con la stessa tenerezza e umiltà con cui ha lavato e asciugato, in quella notte e in quella cena, i piedi dei suoi discepoli. «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo…».

 

Preghiere e racconti 

     Nel suo essere frutto della terra e del lavoro dell’uo­mo, della natura e della cultura, il pane esprime il biso­gno, ciò che davvero è necessario per vivere. Non a ca­so la parola «pane» indica cibo essenziale e non super­fluo: quando diciamo che «non c’è pane», evochiamo fame e carestia, cosi come del fenomeno migratorio non c’è spiegazione più tragicamente semplice dell’eviden­za che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame. Una corsa, quella cui assistiamo oggi – dalle sponde meridionali a quelle set­tentrionali del Mediterraneo – che segue il percorso compiuto proprio dalla cultura del pane quasi cinque­mila anni fa. Pane, allora, anche come cifra della nostra capacità di condivisione, della nostra disponibilità o me­no a spezzarlo perché tutti ne possano avere, pane che, secondo i racconti evangelici, basta per tutti solo  quan­do è spezzato e condiviso.

      E la civiltà del Mediterraneo ha sempre accostato al pane un altro frutto della terra e del lavoro umano: il vino. Anche qui, il gratuito accanto all’essenziale, il do­no accanto al necessario, la gioia accanto alla sostanza: il pane fa vivere, il vino dà gusto alla vita; il pane ritem­pra le forze, il vino rallegra il cuore; il pane fa corpo con il lavoro, il vino ne addolcisce le fatiche. Pane e vino sulla tavola sono lì a ricordarci la grandezza dell’uomo e a interpellare la nostra sensibilità: quanta fatica e quanta speranza sono raccolti in quei due semplici ali­menti, quanti volti appaiono dietro di loro! Il contadi­no e il mugnaio, il fornaio e il vignaiolo, e poi il bottaio e il mercante, le loro famiglie e i loro bambini, le ansie e le speranze di un anno, le grida della vendemmia e i canti della mietitura, il silenzio delle cantine e dei gra­nai, il rumore della mola e il pigiare nei tini … E ora so­no lì, raccolti sulla nostra tavola, a narrarci la qualità della nostra umanizzazione, a interpellarci su chi siamo e su come desideriamo che sia il nostro mondo.

      Forse anche per questo, come ha giustamente osser­vato Predrag Matvejevié, «la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade parallele o contigue o si­mili». Non a caso nell’ebraismo e nel cristianesimo il pane e il vino sono elementi essenziali della liturgia per eccellenza, il memoriale della Pasqua.

      Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristia­ne si riuniscono per celebrare il grande mistero della lo­ro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore». È cosi che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tut­to l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, del­la scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spi­rito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di que­sto mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

     (Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 42-44) 

Vi ho dato un esempio

«Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12). È giunta l’ora di mantenere la promessa che aveva fatto al beato Pietro e che aveva differita quando a lui che si era spaventato e gli aveva detto: «Non mi laverai i piedi in eterno», il Signore aveva risposto: «Quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi, lo comprenderai più tardi» (Gv 13,7). […] Ora, dunque, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: «Lo capirai più tardi». […] «Se dunque», dice, «io il Signore e il maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda. Vi ho dato infatti un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 13,14-15). Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi. Egli ti promise che l’avresti compreso più tardi, quando il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi. […] Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo. Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era, si alimenta il sentimento di umiltà. […] «Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io». Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede.

Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16). È questo l’esempio che ci ha dato il Signore. Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp. 1094.1098-1100)

Pane della condivisione

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Un giorno unico

Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino. Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta. Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta. Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima. Quella volta che facesti il primo sacrificio. Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia. La prima vittima.

(Ch. PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).

Giovedì Santo

Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto. Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15). Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.

Questi due gesti sono intimamente uniti. Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore. Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15). Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19). Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo. Ci chiama a una totale autodonazione.                                                              

Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi. Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.

Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate. E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me». Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.

(H.J.M. NOUWEN, In cammino verso la luce).

O Signore, dove mai potrei andare?

Io volgo il mio sguardo a te, o Signore. Tu hai pronunciato parole così piene di amore. Il tuo cuore ha parlato così chiaro. Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami. Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…

Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me. Voglio che tu condivida in pieno la mia vita. Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre. Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».

Ti sto di nuovo guardando, o Signore. Tu ti alzi e mi inviti alla mensa. Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me. «Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te». Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te». Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine. Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei. Mi doni il tuo stesso io. Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto. Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.

O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto?

(H.J.M. NOUWEN, Da cuore a cuore).

Ogni volta

Ogni volta che celebriamo l’eucaristia e riceviamo il pane e il vino, il corpo e il sangue di Gesù, la sua sofferenza e la sua morte diventano sofferenza e morte per noi. Siamo incorporati in Gesù. La passione diventa compassione, per noi. Veniamo incorporati a Gesù. Diventiamo parte del suo ‘corpo’ e in questa via quanto mai compassionevole, veniamo liberati dalla nostra più profonda solitudine. Per mezzo dell’eucaristia riusciamo ad appartenere a Gesù nella maniera più intima a lui che ha sofferto per noi, è morto per noi ed è di nuovo risorto, così che possiamo soffrire, morire e di nuovo risorgere con lui.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane).

Preghiera

Dio onnipotente ed eterno

la sera prima di soffrire,

il tuo figlio prediletto affidò alla chiesa

il sacrifico della nuova ed eterna alleanza

e istituì il convito del suo amore.

Fa’ che da questo mistero

possiamo ricevere

la pienezza di vita e di amore.

Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

 PER APPROFONDIRE:

Sett santa GIOVEDI SANTO (C)

Il Papa nella domenica delle palme: “Non lasciatevi rubare la speranza!”

Gesù ha risvegliato nel cuore tante speranze soprattutto tra la gente umile, semplice, povera, dimenticata, quella che non conta agli occhi del mondo. Lui ha saputo comprendere le miserie umane, ha mostrato il volto di misericordia di Dio e si è chinato per guarire il corpo e l’anima. Questo è Gesù, questo è il suo cuore, guarda a tutti noi, guarda le nostre malattie, i nostri peccati. È grande l’amore di Gesù”.
Nella festa delle Palme, domenica 24 marzo, Papa Francesco ha esortato innanzitutto alla gioia: come gli abitanti di Gerusalemme, “Anche noi abbiamo accolto Gesù; anche noi abbiamo espresso la gioia di accompagnarlo, di saperlo vicino, presente in noi e in mezzo a noi, come un amico, come un fratello, anche come re, cioè come faro luminoso della nostra vita. Gesù è Dio, ma si è abbassato a camminare con noi”, ha affermato il Santo Padre, offrendo così “la prima parola: gioia!”. Di qui l’invito: “Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi, nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti!”. E, ha aggiunto, “per favore non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù”, il quale “non entra nella Città Santa per ricevere gli onori riservati ai re terreni, a chi ha potere, a chi domina”, ma “per salire il Calvario carico di un legno”. Ed è “proprio qui che splende il suo essere Re secondo Dio: il suo trono regale è il legno della Croce!”.
Il pensiero del Papa è quindi andato ai giovani: “Voi ci portate la gioia della fede e ci dite che dobbiamo vivere la fede con un cuore giovane, sempre, un cuore giovane anche a settanta, ottant’anni! Con Cristo il cuore non invecchia mai!”.
“Voi – ha aggiunto – non avete vergogna della sua Croce! Anzi, la abbracciate, perché avete capito che è nel dono di sé che si ha la vera gioia e che è con l’amore che Dio ha vinto il male. Voi portate la Croce pellegrina attraverso tutti i continenti, per le strade del mondo! La portate rispondendo all’invito di Gesù ‘Andate e fate discepoli tutti i popoli’, che è il tema della Giornata della Gioventù di quest’anno. La portate per dire a tutti che sulla croce Gesù ha abbattuto il muro dell’inimicizia, che separa gli uomini e i popoli, e ha portato la riconciliazione e la pace”. Poi l’annuncio: “Anch’io mi metto in cammino con voi, da oggi, sulle orme del beato Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ormai siamo vicini alla prossima tappa di questo grande pellegrinaggio della Croce. Guardo con gioia al prossimo luglio, a Rio de Janeiro! Vi do appuntamento in quella grande città del Brasile! Preparatevi bene, soprattutto spiritualmente nelle vostre comunità, perché quell’incontro sia un segno di fede per il mondo intero”.
Proprio il 24 marzo di vent’anni fa nasceva il Servizio Nazionale per la pastorale giovanile. L’attuale responsabile, don Michele Falabretti, rispondendo al SIR, afferma che “trovare nuove strade e metodi affinché la Chiesa diventi casa abitabile di tutti i giovani” è una delle piste di lavoro che vedrà impegnato il Servizio nazionale per la Pastorale giovanile.
“Bisogna riconoscere – aggiunge – che i giovani del 1993 non sono quelli del 2013. La realtà giovanile va riletta. Venti anni fa i giovani andavano in parrocchia, oggi invece tengono in piedi più appartenenze senza sposarne una fino in fondo”. Per don Falabretti “questo aspetto cambia il modo di interagire con loro: oggi i giovani vanno e vengono, per questo la porta della Chiesa deve restare sempre aperta. Ci sono ragazzi, adolescenti che vengono ad eventi come la Gmg e poi non li vedi per settimane se non mesi. Qui si pone il tema dell’educare, permettere loro di andare ma anche essere capaci di incontrarli sulla strada e nei luoghi da loro frequentati”. Tra i prossimi impegni della Pastorale giovanile la Gmg di Rio de Janeiro, 4000 le iscrizioni italiane finora raccolte, ma la speranza di don Falabretti “è di aumentare sensibilmente il numero”. Magari anche sulla spinta di papa Francesco: “Con lui in pochi giorni è cambiata la visione della Chiesa” da parte di molti.

Sogniamo una scuola italiana più digitalizzata

Dall’analisi eseguita dall’Ocse su richiesta del Ministero dell’Istruzione e del Ministro Profumo emerge che  nel  “Piano Nazionale Scuola Digitale” avviato nel 2007, non mancano “punti di forza” ma siamo ancora molto indietro rispetto al serto dell’Europa.
Bisogna in sostanza aumentare i ritmi. Con questo passo per raggiungere i livelli di digitalizzazione scolastica che ha ora l’Inghilterra ci impiegheremmo altri 15 anni. In Inghilterra inffatti l’80 per cento delle classi può contate su strumenti didattici informatici e digitali rispetto al 14 per cento registrato nel nostro paese.

I dati rivelati dal Rapporto “Review of the Italian Strategy for Digital Schools”, e aggiornati al 31 agosto 2012, sono questi: 6 Pc ogni 100 studenti (13.650 in tutto), contro i 16 europei e il 6% delle scuole altamente digitalizzate (nel 2012) contro il 37% del resto d’Europa. L’Ocse stima, inoltre, che il budget allocato per la digitalizzazione di ogni studente sia pari a soli cinque euro e allo 0,31% dell’intero budget del Miur. 
Solo il 21,6% delle aule è attualmente dotato delle ‘Lim’ ,ovvero le lavagne interattive multimediali. Sono presenti sul territorio solamente 416 classi e 14 scuole del tipo 2.0. L’82% delle scuole possiede una connessione a Internet, ma solamente per il 54% delle classi si può dire lo stesso.
Il Ministro Francesco Profumo  affermato che bisognerebbe realizzare “un patto sociale tra scuole e famiglie” per poter “usare al meglio le poche risorse, con più intelligenza ed ingegneria”, infatti “è ormai un’utopia pensare che la scuola possa fornire tutto”. Un esempio, indicato da Profumo, è quello dei tablet che, se forniti dalle famiglie e connessi dalle scuole, potrebbero far risparmiare alle famiglie italiane il 30 per cento delle spese in libri di testo, che si aggirano intorno ai 300 euro all’anno. Insomma, mica spiccioli. 
La digitalizzazione degli italiani è tutto sommato buona. Il Ministro  ha riferito del buon esito delle iscrizioni online che dimostrerebbero, a suo parere, come si possa ormai contare sulla buona digitalizzazione delle famiglie italiane (almeno il 70%). Come sempre però le polemiche per i procedimenti messi in atto dal Miur non sono mancati.
Miglioramenti in vista per l’anno prossimo. Dal 21 per cento le Lim dovrebbero passare al 23 per cento delle aule. Aumenteranno probabilmente anche i Pc che saliranno a quota 112.500. Infine ci saranno anche più aule 2.0 e scuole 2.0 le prime dovrebbero diventare 3000 le altre salire a 16.
Insomma, qualcosa seppur lentamente si muove nelle scuole italiane. Anche se forse dovremmo scrollarci di dosso la nostra attaccatura alle tradizioni e inoltrarci un po’ di più nell’universo tecnologico.

Alessandra Raimondi

DOMENICA DELLE PALME

Prima lettura: Isaia 50,4-7

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso.     

 

Dopo la gioiosa processione iniziale, con le palme benedette, questa prima lettura introduce la partecipazione alle sofferenze e ai sentimenti di Cristo, nella passione. È la parte iniziale del terzo carme di Isaia sul «Servo sofferente», una «confessione», sul tipo «di alcune composizioni di Geremia e dei Salmi di lamento individuale».

     Dapprima il Servo ricorda, in modo appassionato, la missione ricevuta di sostenere gli sfiduciati, quali erano i rimpatriati dall’esilio babilonese, alla fine del VI secolo a.C., in mezzo a tante difficoltà e ostilità. Poi proclama come l’ha vissuta, grazie ai doni del Signore di una lingua e di un orecchio «da iniziati», cioè degli introdotti e pienamente dediti all’ascolto e alla proclamazione della parola di Dio. Ciò implica un impegno profondo e costante anche suo. Anzi, ha richiesto la più dura testimonianza della vita, per le persecuzioni, espresse col piegare il dorso ai flagellatori, e per le umiliazioni subite, che si possono prendere alla lettera, fatte di insulti, sputi in faccia e depilazioni infamanti.

     Di fronte a tutto questo, il Servo riafferma i suoi più profondi sentimenti. Non si tira indietro, ma affronta con coraggio le prove. È sicuro che Dio lo assiste, per questo non ha confusioni e incertezze, ma rende la faccia dura e impavida come roccia.

     La lettura si ferma qui, forse per restare a quanto è più consono ai sentimenti di Cristo nella passione che segue. Nei versetti che completano il carme, il Servo sfida pure gli avversari sulla giustezza delle sue posizioni ed è sicuro che saranno confusi da Dio e logorati come veste intaccata dalle tarme. Non sono sentimenti teneri ma neppure estranei a Cristo. Forse i cristiani d’oggi dovrebbero riscoprire il modo e il coraggio di ripeterli.

 

Seconda lettura: Filippesi 2,6-11

Cristo Gesù, pur essendo di natura divina,

non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore,
a gloria di Dio Padre.

 

La lettera ai Filippesi indirizzata alla prima comunità cristiana fondata da Paolo in Europa, ha in quest’inno cristologico il perno del suo messaggio, carico di stimoli per la vita cristiana di tutti e di sempre. L’apostolo si trova in catene (Fil 1,7.14), fortemente impegnato a vivere il mistero di Cristo morto e risorto, che va predicando. Brama di «cono-scere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti». Dai Filippesi ha accettato più volte aiuti materiali come partecipazione della sua tribolazione (Fil 4,14-16) e li ringrazia. Ma molto di più desidera che siano partecipi della sua adesione a Cristo, da «cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27) e da cristiani che vivono in comunione (Fil 2,1-4). Per questo è inscindibile dal brano odierno l’invito che lo introduce: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Esso vale anche per noi, oggi, proprio come cittadini e come cristiani.

     Può darsi che Paolo stesso sia l’autore di questa composizione ritmata. Ma più probabilmente l’ha presa dalla liturgia preesistente e l’ha adattata ai suoi intendimenti. È chiaro lo schema in due parti simmetriche, una discendente nella kènosys e l’altra ascendente nella esaltazione.

     Con la kènosys, svuotamento (vv. 6-8), Cristo scende dal trono più alto all’abisso più profondo, per gradini vertiginosi. Al contrario di Adamo, presuntuoso di essere come Dio, egli passa dalla reale «uguaglianza con Dio» alla «condizione di servo»; quindi da regnante supremo a servo obbediente; in una obbedienza non ordinaria, ma fino alla morte; e una morte non qualunque, ma in croce, come si usava per gli schiavi e per i delinquenti peggiori…

     Con la esaltazione (vv. 9-11), Dio gli fa risalire tutti i gradini. Vi sono coinvolte tutte le creature ed è conseguente, anzi intrinseca, all’annientamento. A Cristo da, anzitutto un Nome, cioè una realtà e missione al di sopra di ogni altro; quindi sottomette a lui tutti gli esseri buoni e cattivi, nei cieli, sulla terra e sotto terra; e, nel riconoscimento della signoria universale di lui, da ad ogni persona la possibilità di ritrovare e di vivere la gloria della paternità divina.

     Di seguito, Paolo indica ai Filippesi alcune conseguenze pratiche da tirare, che valgono anche per noi se le attualizziamo, rapportandole alla vita nella società e nella Chiesa di oggi.

 

Vangelo: Luca 22,14-23,56 

C Quando fu l’ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: + “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. C E preso un calice, rese grazie e disse: + “Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finche non venga il regno di Dio”.

Fate questo in memoria di me

C Poi preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: + “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. C Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice dicendo: + “Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”.

Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito

“Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!”. C Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò.

Io sto in mezzo a voi come colui che serve

Sorse anche una discussione, chi di loro poteva essere considerato il più grande. Egli disse: + “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.

Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli

Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”. C E Pietro gli disse: P “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”. C Gli rispose: + “Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi”.

Deve compiersi in me questa parola della Scrittura

C Poi disse: + “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?”. C Risposero: P “Nulla”. C Ed egli soggiunse: + “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: ‘‘E fu annoverato tra i malfattori’’. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine”. C Ed essi dissero: P “Signore, ecco qui due spade”. C Ma egli rispose: + “Basta!”.

In preda all’angoscia, pregava più intensamente

C Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: + “Pregate, per non entrare in tentazione”. C Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: + “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. C Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: + “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”.

Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?

C Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: + “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?”. C Allora quelli che eran con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: P “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. C E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: + “Lasciate, basta così!”. C E toccandogli l’orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che gli eran venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: + “Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre”.

Uscito, Pietro pianse amaramente

C Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: P “Anche questi era con lui”. C Ma egli negò dicendo: P “Donna, non lo conosco!”. C Poco dopo un altro lo vide e disse: P “Anche tu sei di loro!”. C Ma Pietro rispose: P “No, non lo sono!”. C Passata circa un’ora, un altro insisteva: P “In verità anche questo era con lui; è anche lui un Galileo”. C Ma Pietro disse: P “O uomo, non so quello che dici”. C E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E uscito, pianse amaramente.

Indovina: chi ti ha colpito?

Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, lo bendavano e gli dicevano: P “Indovina: chi ti ha colpito?”. C E molti altri insulti dicevano contro di lui.

Lo condussero davanti al sinedrio

Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: P “Se tu sei il Cristo, diccelo”. C Gesù rispose: + “Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma da questo momento starà il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio”. C Allora tutti esclamarono: P “Tu dunque sei il Figlio di Dio?”. C Ed egli disse loro: + “Lo dite voi stessi: io lo sono”. C Risposero: P “Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca”.

Non trovo nessuna colpa in quest’uomo

C [Tutta l’assemblea si alzò, lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: P “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”. C Pilato lo interrogò: P “Sei tu il re dei Giudei?”. C Ed egli rispose: + “Tu lo dici”. C Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: P “Non trovo nessuna colpa in quest’uomo”. C Ma essi insistevano: P “Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui”. C Udito ciò, Pilato domandò se era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.
Erode con i suoi soldati insulta Gesù

Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. C’erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c’era stata inimicizia tra loro.

Pilato abbandona Gesù alla loro volontà

Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, disse: P “Mi avete portato quest’uomo come sobillatore del popolo; ecco, l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; e neanche Erode, infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò”. C Ma essi si misero a gridare tutti insieme: P “A morte costui! Dacci libero Barabba!”. C Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. Ma essi urlavano: P “Crocifiggilo, crocifiggilo!”. C Ed egli, per la terza volta, disse loro: P “Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò”. C Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.

Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me

Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: + “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! E ai colli: Copriteci! Perché, se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”. C Venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati.

Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno

Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: + “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”.  C Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte.

Questi è il re dei Giudei

Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: P “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”. C Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: P “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. C C’era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.
Oggi sarai con me nel paradiso

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: P “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. C Ma l’altro lo rimproverava: P “Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. C E aggiunse: P “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. C Gli rispose: + “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”.

Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito

C Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: + “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. C Detto questo spirò.

Qui si genuflette e si fa una breve pausa.

Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: P “Veramente quest’uomo era giusto”. C Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti.]

Giuseppe pone il corpo di Gesù in una tomba scavata nella roccia

C’era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. Non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Egli era di Arimatea, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio. Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto. Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo, secondo il comandamento.

 

Esegesi

     Essendo qui impossibile l’analisi esegetica dell’intero racconto della passione, che è sostanzialmente conforme a quello degli altri evangelisti, ci limitiamo a segnalare alcune particolarità di questo racconto, che ci consentono di capire i principali messaggi religiosi ad esso collegati da Luca. Si tratta soprattutto di omissioni e di aggiunte, rispetto al testo di Marco, da cui certamente il racconto di Luca dipende. Sottolineeremo soltanto le variazioni più significative e di più facile interpretazione.

     Tra le variazioni apportate al racconto marciano della passione, si deve considerare quello che contiene l’insegnamento di Gesù su chi sia il più grande tra i suoi discepoli, che Luca sposta qui, nella cornice dell’ultima cena: 22,24-27.

     Questo testo Marco lo riporta in 10,41-45 e Matteo in 20,24-28. Lo spostamento serve a Luca per sottolineare l’idea che la passione e morte di Gesù non si deve considerare affatto come una sconfitta, ma è un elemento integrante della via della salvezza.

     Elemento aggiuntivo è il brano detto delle due spade: 22,35-38. In esso Gesù annunzia con molta chiarezza ai discepoli che, con la passione del loro maestro, comincia anche per loro il tempo delle difficoltà e dei contrasti. Per dare maggior forza alle sue parole, Gesù stabilisce una contrapposizione tra la missione in Galilea, descritta in Lc 9,1-6 («non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, … né denaro,…»), e la missione che essi dovranno svolgere nel futuro: «…ora chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha una spada, venda il mantello e ne compri una». Gli apostoli non capiscono il senso metaforico dell’accenno alla spada e ne mettono due a disposizione del maestro. Ma Gesù interrompe il discorso con un basta! Il brano è servito a Luca per ricordare che anche la condizione della sua Chiesa sarà caratterizzata da contrasto e persecuzione.

     Il racconto dell’agonia nell’orto degli ulivi (22,39-45), sostanzialmente conforme a quello di Marco e Matteo, se ne differenzia per elementi omessi e per altri aggiunti. Mentre non si attenua in nulla l’angoscia sofferta da Gesù durante la sua preghiera, arrivando essa addirittura a un sudore come gocce di sangue (v. 44); nulla è detto del bisogno di Gesù di sentire vicini a sé i discepoli oranti; egli prega solo, lontano dai suoi e, alla fine, «Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo» (v. 43). Con queste variazioni, risplende maggiormente, pur nella sofferenza intensa, la maestà solitaria di Gesù.

     Notevoli variazioni, rispetto al testo di Marco-Matteo, ci sono in Luca nella descrizione del comportamento di Pilato. Di costui l’evangelista sembra voler sottolineare una certa dignità e compostezza. Udite le molte e confuse accuse mosse contro Gesù dalla folla, egli si limita a porre una lapidaria domanda all’accusato: «Sei tu il re dei Giudei?» (23,3). La risposta ricevuta gli basta per decretare l’inconsistenza di quelle accuse e dichiara senz’altro:

«Non trovo nessuna colpa in quest’uomo» (23,5-7). Messa poi in evidenza la inconsistente fatuità di erode, Luca ritorna a parlare di Pilato, ribadendo la sua correttezza di magistrato romano, che vuol chiudere il caso con una dichiarazione solenne dell’innocenza di Gesù, appoggiato anche all’opinione di Erode. Pensa di rabbonire quei forsennati dicendo loro: «Perciò dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò» (23,13-16). Alla fine, Luca non può negare che Pilato cedette alla richiesta dei nemici di Gesù, ma gli risparmia l’umiliante scena del lavarsi le mani, riportata in Mt 27,24. Questo comportamento di Luca sembra sia determinato dalla sua volontà di attenuare i motivi di tensione tra la comunità cristiana e le autorità romane.

     Questo stesso motivo ha forse indotto l’evangelista  a omettere  di riferire la flagellazione e i maltrattamenti dei soldati, nel corso della sua detenzione (Mc 15,15-20 e Mt 27,26-31). Questa omissione cambia il senso dell’episodio di Cireneo (Lc 23,26): esso non è più motivato dallo spossamento di Gesù (così in Marco e Matteo) e l’uomo che porta la croce per Gesù appare qui piuttosto come uno scudiero che segue il suo cavaliere.

     Nel viaggio verso il Calvario, secondo Luca Gesù cammina dritto davanti alla folla con la consueta maestà, tanto che è in grado di parlare alle donne con accento profetico, rifiutando la loro compassione e annunziando che ben più miseranda è la condizione di chi lo rifiuta. Questo episodio (23,27-31) è tra quelli che Luca aggiunge al racconto della passione, in armonia con la sua volontà di non sminuire mai l’atteggiamento maestoso di Gesù.

     Luca non smette di sottolineare il comportamento maestoso e regale di Gesù anche quando egli è inchiodato e innalzato sulla croce. La sua regale maestà l’evangelista la esprime soprattutto con le parole di lui.

     Luca omette di riferirci il grido angoscioso del crocifisso «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34 e Mt 27,46), mentre riporta tre sue frasi piene di maestà. La prima frase è quella con cui Gesù invoca il perdono per tutti quelli che lo hanno respinto e condotto alla croce, perché «non sanno quello che fanno» (23,34). La seconda è la risposta al ladrone crocifisso con lui, che si ravvede all’ultimo momento e gli si affida: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (23,42). La terza è quella con cui Gesù esprime, gridando «a gran voce», il suo totale abbandono nel Padre: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23,46).

     Alle parole pronunziate da Gesù sulla croce sembra che Luca abbia voluto affidare il significato ultimo di quella crocifissione e dell’intero suo vangelo.

     Nelle parole con cui Gesù prega perché il Padre perdoni. Luca afferma che tutti quelli che lo hanno respinto e condannato sono responsabili di una vera colpa, che ha bisogno del perdono divino, ma contemporaneamente afferma che quella colpa non coincide con un giudizio di condanna definitiva. Tutti quelli che, con diversa gradazione di responsabilità, lo hanno condotto in croce possono prendere parte, a condizione che si convertano, ai frutti della salvezza portata da lui, tanto i pagani quanto i figli dell’antico Israele. Inoltre, la preghiera di Gesù per i suoi nemici manifesta l’amore di Dio per i peccatori (quale è espresso da Luca nelle tre parabole della misericordia del c. 15) e presenta insieme, in concreto, un modello di comportamento per tutti i cristiani (quale è enunciato in Lc 6,27-35).

     Le parole con cui Gesù risponde al ladrone convertito contengono un messaggio correttivo dell’attesa giudaica del Messia. «Gesù, ricordati di me quando entrerai (o verrai) nel tuo regno», dice il ladrone, esprimendosi con puro linguaggio biblico e pensando, come tutti i giudei del suo tempo, che il regno messianico si sarebbe realizzato solo alla fine dei tempi. La risposta di Gesù, che riconosce possibile la conversione e la salvezza per tutti i peccatori fino all’ultimo respiro, afferma che il regno di Dio e la salvezza non sono eventi dell’indeterminato futuro, ma cominciano oggi. Questa parola era già risuonata sulla bocca degli angeli annunzianti la buona novella ai pastori di Betlemme («Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore»: Lc 2,11) e sulla bocca dello stesso Gesù all’inizio del suo ministero pubblico nella sinagoga di Nazaret («Oggi si è adempiuta questa scrittura»: Lc 4,21).

     L’ultima frase che Luca attribuisce a Gesù sulla croce mette il sigillo sulla sua presentazione generale della persona del redentore, che soffre e muore senza mai sminuire od offuscare la sua maestà regale. Volutamente sembra che Luca abbia sostituito le parole attribuite a Gesù da Marco e Matteo: mentre questi gli pongono sulle labbra il versetto iniziale del Salmo 22, Luca deriva il suo testo dal Salmo 30 versetto 6, dove non c’è ombra di abbandono da parte di Dio ed è anzi espressa la certezza della sua vicinanza. In tal modo, Gesù è presentato come il supremo modello del giusto, che gli uomini maltrattano e offendono, ma sperimenta sempre la protezione divina. Nelle ultime parole del crocifisso, ai lettori del terzo vangelo è offerto il motivo ispiratore di un comportamento simile a quello del protomartire Stefano, che morì dicendo queste stesse parole (At 7,59-60).    

Meditazione

     Nel racconto della passione secondo san Luca compare un personaggio, che non incontriamo negli altri racconti evangelici, il quale può offrire il giusto angolo prospettico dal quale guardare a quello che l’evangelista definisce lo ‘spettacolo’ della Croce (cfr. Lc 23,48). È il cosiddetto ‘buon ladrone’, con il quale Gesù ha un ultimo intenso dialogo proprio nell’imminenza della morte. Il terzo vangelo, peraltro, sottolinea con insistenza che Gesù è crocifisso tra due malfattori. Soltanto Luca parla della loro presenza durante la via che sale al Calvario: «insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori» (23,32). Nel versetto successivo insiste precisando: «quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra». Egli vede realizzarsi in questo evento il versetto di Isaia che Gesù ha citato durante l’ultima cena applicandolo a sé e al destino che lo attendeva: «e fu annoverato tra gli empi» (Lc 22,37; cfr. Is 53,12d). Crocifisso in mezzo a due malfattori, Gesù ora viene davvero annoverato tra gli iniqui. Luca, tuttavia, non intende solo mostrare il realizzarsi della profezia; gli preme soprattutto mettere in luce il suo significato salvifico. Il dialogo con il buon ladrone ha proprio questo intento teologico: rivelare il senso salvifico che questo modo di morire in mezzo a due peccatori possiede. Assume perciò, nel contesto del racconto della passione, un valore sintetico e interpretativo di come l’evangelista comprenda e descriva tutto l’evento pasquale.

     A introdurre il dialogo è il buon ladrone stesso, che per prima cosa si rivolge non a Gesù, ma al suo compagno per rimproverarlo di non avere il giusto atteggiamento di fronte a Dio, che ora egli inizia ad assumere. Anche questo ‘buon ladrone’ non ha avuto finora timore degli uomini, al punto da compiere azioni gravi che lo conducono a subire la condanna capitale, ma in questo momento giunge ad avere timore di Dio. Ovviamente ‘timore’ non va inteso nel senso di ‘paura’ o ‘terrore’ (ad esempio della morte, o del giudizio), ma nel suo significato squisitamente biblico: avere il giusto senso di Dio, in particolare della sua giustizia. Rimanendo davanti a Dio con ‘timore’ egli riconosce da un lato la propria colpevolezza e il proprio peccato – noi siamo condannati giustamente (cfr. v. 41) – dall’altro l’innocenza e la giustizia di Gesù. Questi due aspetti vanno insieme e non possono essere separati: contemplare la giustizia di Gesù illumina la nostra vita e ci porta a riconoscere il nostro peccato; d’altro lato, circolarmente, la consapevolezza del nostro peccato fa risaltare la giustizia di Gesù in cui si manifesta la giustizia stessa del Padre. Avere timore di Dio significa vivere insieme questi due atteggiamenti, consentendo all’uno di illuminare e rendere possibile l’altro. Si apre così per questo personaggio la via verso un pentimento che si esprime poi in un’invocazione molto breve e molto ricca nella sua essenzialità: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (v. 42). Gesù: è l’unica ricorrenza in tutto il Nuovo Testamento in cui leggiamo il nome di Gesù al vocativo, senza che venga aggiunto qualche altro titolo. Nessun altro personaggio si rivolge a Gesù con la stessa familiarità di questo ladrone, accomunato a lui dalla medesima terribile pena. Non è però soltanto la confidenza a farlo parlare in questo modo. Gesù significa ‘Dio salva’ e negli Atti degli Apostoli Luca afferma che questo è il solo nome in cui si può trovare salvezza. Il buon ladrone, anziché oltraggiare, schernire, bestemmiare, invoca in Gesù la salvezza di Dio, e lo fa proprio mentre Gesù non sta salvando se stesso, e rimane insieme a lui sul medesimo patibolo infame.

     Quanti altri personaggi del vangelo di Luca si sono accostati al profeta itinerante in Galilea, potente in parole e opere, con la fede che chiedeva una liberazione dal male? Gesù li aveva accolti rispondendo ‘la tua fede ti ha salvato’. Ma ora questo ladrone rivolge la sua invocazione a un Gesù che sembra impossibilitato a salvare persino se stesso. Il racconto di Luca suscita così una domanda fondamentale: da dove e come nasce questa fede? In Luca la voce in cui si ricapitola e si esprime la pienezza della fede è proprio quella del buon ladrone. C’è quindi una differenza rispetto al racconto di Marco, in cui la pienezza della fede risuona piuttosto nelle parole del centurione, il quale «avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39). Per Marco la fede matura risuona nelle parole di un centurione romano, vale a dire di un pagano. In Luca in un peccatore, in modo coerente con l’intero suo vangelo che ha cura di rimarcare come durante la sua vita Gesù abbia mangiato con i peccatori e sia stato accolto dalla loro fede. Pensiamo ad esempio alla peccatrice che gli cosparge di olio e di lacrime i piedi nella casa di Simone il fariseo (cfr. Lc 7,36-50), o a Zaccheo, il pubblicano di Gerico, che in Gesù accoglie la salvezza di Dio mentre tutti mormorano: «è entrato in casa di un peccatore!» (cfr. Lc 19,1-10). Zaccheo è proprio l’ultimo personaggio che Gesù incontra nel suo cammino verso Gerusalemme: un peccatore che viene cercato e salvato da Gesù. «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (19,10), dichiara Gesù nella sua casa. Il significato di queste parole diviene chiaro sulla croce: Gesù è venuto a cercare e a salvare anche questo ladrone, e con lui ciascuno di noi. Ci ha cercati non solo fino a entrare nella casa di un pubblicano – il che era vietato a un pio e osservante giudeo – ma fino a salire con noi, lui l’unico giusto, sulla croce del nostro ostinato peccato. Ecco perché Gesù non risponde alla triplice sfida che gli viene lanciata di salvare se stesso. O meglio, lo fa con le parole che rivolge al buon ladrone. Non salva se stesso perché è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto, e lo ha fatto fino al punto di perdere se stesso, fino a non salvare se stesso dalla croce e dalla morte.

     Rimane però aperta la domanda iniziale. Come può questo ladrone giungere a questa fede? Cosa significa riconoscere in Gesù la salvezza? Che tipo di salvezza è quella che si manifesta in un giusto crocifisso? Per rispondere a tali interrogativi dobbiamo ricordare ancora la citazione di Isaia 53: «e fu annoverato tra gli empi». La fede del buon ladrone rivela il significato salvifico di questo accettare la morte insieme agli iniqui. Gesù, condividendo il destino dei peccatori, prende su di sé il loro peccato per donare loro la sua giustizia. Anche per questo motivo in Luca il centurione romano esclama, diversamente dal racconto di Marco: «veramente quest’uomo era giusto». Giusto perché ci rende giusti, assumendo il nostro peccato per comunicarci la sua giustizia. La salvezza consiste nel riconoscere questa misericordia che ci giustifica raggiungendoci nel nostro peccato e facendosi solidale con il nostro destino di peccatori. La fede del ladrone, che per Luca rappresenta la figura esemplare della fede di ogni discepolo, riconosce la salvezza di Dio proprio nella misericordia con cui Gesù accetta liberamente di morire come lui e insieme a lui.

     Nel racconto di Luca la vita di Gesù è interamente abbracciata da un oggi, che per la prima volta risuona nel racconto della nascita e per l’ultima volta in quello della morte. È  interessante notare il gioco delle preposizioni che risuona nei due testi. Nella nascita gli angeli annunciano: «oggi è nato per voi un salvatore» (cfr. Lc 2,7). Nella morte Gesù promette: «oggi sarai con me». La vita di Gesù segna questo passaggio: dal per voi al con me. Egli nasce per noi perché noi possiamo essere definitivamente con lui. Ecco l’oggi della salvezza!

     Vita est enim esse cum Christo, quia ubi Christus ibi regnum. «La vita è essere con Cristo, perché dove c’è Cristo, lì c’è il regno» (Ambrogio di Milano).

           

Preghiere e racconti

Confessare l’unica gloria: Cristo Crocifisso

«Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia, avessimo il coraggio di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l’unica gloria: Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti.»

(Papa Francesco, omelia del 14 marzo 2013).

Uno stemma che è un programma

Postato in General il 14 marzo, 2013

 

Nello stemma episcopale di papa Jorge Mario Bergoglio ci sono tre parole latine di non immediata comprensione: “Miserando atque eligendo”.

Ma se si va a vedere da dove sono riprese si scoprono tratti importanti del programma di vita e di ministero di papa Francesco.

In questa piccola caccia al tesoro è d’aiuto una nota del dotto teologo Inos Biffi su “L’Osservatore Romano” del 15 marzo.

Il motto proviene da un’omelia di san Beda il Venerabile (672-735), monaco di Wearmouth e di Jarrow, autore di opere esegetiche, omiletiche e storiche, tra cui la “Historia ecclesiastica gentis Anglorum”, per cui è chiamato il “Padre della storia inglese”.

Nell’omelia, la ventunesima di quelle che ci sono giunte, Beda commenta il passo del Vangelo che racconta la vocazione ad apostolo di Matteo, pubblico peccatore.

Nel brano da cui è ricavato il motto si legge:

“Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: ‘Seguimi’ (Matteo, 9, 9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con amore misericordioso in vista della sua elezione, gli disse: ‘Seguimi’. Gli disse ‘Seguimi’, cioè imitami. ‘Seguimi’, disse, non tanto col movimento dei piedi, quanto con la pratica della vita. Infatti ‘chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato’ (1 Giovanni, 2, 6)”.

In latino, il brano inizia così:

“Vidit ergo Iesus publicanum, et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi, Sequere me. Sequere autem dixit imitare. Sequere dixit non tam incessu pedum, quam exsecutione morum”.

Includere nello stemma il motto “Miserando atque eligendo” significa dunque mettersi al posto di Matteo, da Gesù guardato con misericordia e chiamato, nonostante i suoi peccati.

Ma l’importante è il seguito del passo citato. Dove Beda spiega cosa comporta seguire ed imitare Gesù:

“Non ambire le cose terrene; non ricercare i guadagni effimeri; fuggire gli onori meschini; abbracciare volentieri tutto il disprezzo del mondo per la gloria celeste; essere di giovamento a tutti; amare le ingiurie e non recarne a nessuno; sopportare con pazienza quelle ricevute; ricercare sempre la gloria del Creatore e non mai la propria. Praticare queste cose e altre simili vuol dire seguire le orme di Cristo”.

Conclude Inos Biffi:

“È il programma di san Francesco d’Assisi, iscritto nello stemma di papa Francesco. E intuiamo che sarà il programma del suo ministero, come vescovo di Roma e pastore della Chiesa universale”.

Come vivere la settimana Santa

La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.

Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare. L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino. Questa scena infatti, che vorrebbe essere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme degli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù. Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.

Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”. Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato. In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».

Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusalemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.

La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore. L’entrata in Gerusalemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo. Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo saputo della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23). Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).

Andremo alla casa del Signore

Mi rallegrai quando mi dissero:

«Andremo alla casa del Signore».

E ora i nostri piedi

sono nell’interno delle tue porte,

Gerusalemme!

Gerusalemme costruita come città,

in sé ben compatta!

Là salivano le tribù, le tribù del Signore,

secondo il precetto dato a Israele

di lodarvi il nome del Signore.

Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio,

i seggi della casa di Davide.

Augurate la pace a Gerusalemme:

vivano in prosperità quanti ti amano!

Sia pace fra le tue mura,

prosperità fra i tuoi palazzi.

Per amore dei miei fratelli e amici

dirò: Sia pace in te!

Per amore della casa del Signore, nostro Dio,

chiederò: Sia bene per te!

(Salmo 121)

Osanna nel più alto dei cieli!

Dopo la risurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni, il Signore trovò un asinello che era stato preparato dai discepoli, come racconta l’evangelista Matteo (cfr. Mt 21,1-11), montò su di esso ed entrò in Gerusalemme secondo la profezia di Zaccaria, che aveva predetto: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, giunge a te il tuo re, re di giustizia e di salvezza; mite cavalca il piccolo di un’asina» (Zc 9,9). Attraverso queste parole il profeta voleva indicare che Cristo è il re profetizzato, l’unico vero re di Israele. Il tuo re — dice – non mette paura a quelli che lo vedono, non è duro né malvagio, non conduce con sé soldati armati di scudo o guardie del corpo, né una quantità di fanti e di cavalieri, superbo, pronto a riscuotere imposte e tasse, a imporre schiavitù e servitù ignobili e dannose, ma sue insegne, invece, sono l’umiltà, la povertà, la sobrietà. Montato su un asino, infatti, faceva il suo ingresso senza ostentare alcuno sfarzo mondano. Per questo egli è il solo re giusto, che salva nella giustizia, mansueto perché la mansuetudine è l’attributo che più gli è proprio. Ed è lo stesso Signore che dice di sé: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore». Colui dunque che risuscitò Lazzaro dai morti, re montato su un asino, entrava allora in Gerusalemme e subito tutta la gente, bambini, uomini, adulti e vecchi, stesero per terra i loro mantelli e, presi dei rami di palma, simbolo di vittoria, gli andavano incontro come all’autore della vita e al vincitore della morte, gli si prostravano davanti, lo scortavano e non solo all’esterno, ma anche dentro il recinto del tempio, e a una sola voce cantavano: «Osanna al figlio di David! Osanna nel più alto dei cieli!» (Mt 21,9). «Osanna» è un inno che si eleva a Dio; infatti tradotto significa: «Salvaci, Signore!»; e la parte che segue «nell’alto dei cieli» significa che l’inno è cantato non solo sulla terra, non solo dagli uomini, ma anche nell’alto dei cieli dagli angeli del cielo.

(GREGORIO PALAMAS, Omelie 15, PC 151,184B-185).

Settimana Santa

Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte

Tu hai fatto che sorgesse una luce;

nell’abisso della solitudine più profonda

abita ormai per sempre la protezione potente

del tuo amore;

in mezzo al tuo nascondimento

possiamo cantare l’Alleluja dei salvati.

Concedici l’umile semplicità della fede,

che non si lascia fuorviare

quando tu chiami nelle ore del buio, dell’abbandono,

quando tutto sembra apparire problematico;

concedi in questo tempo nel quale attorno a te si combatte una lotta mortale,

luce sufficiente per non perderti;

luce sufficiente perché noi possiamo darne

a quanti ne hanno ancora più bisogno.

Fai brillare il mistero della tua gioia pasquale,

come aurora del mattino, nei nostri giorni,

concedici di poter essere veramente uomini pasquali

in mezzo al sabato della storia.

Concedici che attraverso i giorni luminosi ed oscuri

di questo tempo

possiamo sempre con animo lieto

trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.

Amen.

(J. Ratzinger)

Preghiera

Il tuo volto, Signore Gesù, è il volto del Dio dell’umiltà che ci ama fino a spogliarsi, fino a rendersi povero in mezzo a noi. Il tuo volto è il volto del nostro dolore, della nostra solitudine, della nostra angoscia, della nostra morte che tu hai voluto assumere perché non fossimo più soli e disperati.                                     

Fa’ che impariamo a riconoscere questa sconcertante rivelazione della tua onnipotenza, l’onnipotenza di chi ama fino a condividere la sofferenza, fino a lasciarsi crocifiggere per nostro amore. Insegnaci che cosa significa amare come tu ci ami, per accettare in silenzio di partecipare al tuo mistero di passione e morte e gustare con te e in te la gioia della vittoria piena e totale sulla divisione, sul peccato e sulla morte.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003. 

PER L’APPROFONDIMENTO

Sett Santa Vangelo delle PALME (C)

 

Papa Francesco: «Dialogo ecumenico, ferma volontà di proseguire il cammino»

Giornata all’insegna dell’ecumenismo, quella di oggi, per papa Francesco. Dopo la Messa di inizio pontificato, ieri, e il saluto dei Grandi della Terra, con l’esortazione a essere “custodi della creazione”, il Pontefice ha incontrato prima Bartolomeo I (con il Papa nella foto dell’Osservatore Romano), patriarca ecumenico di Costantinopoli, e a seguire il metropolita Hilarion del patriarcato di Mosca. Infine l’invito ai “delegati fraterni” a “vivere in pienezza la fede per servire la causa dell’unità dei cristiani».
 
Cari fratelli e sorelle,
È motivo di particolare gioia incontrarmi oggi con voi, Delegati delle Chiese Ortodosse, delle Chiese Ortodosse Orientali e delle Comunità ecclesiali d’Occidente. Vi ringrazio per avere voluto prendere parte alla celebrazione che ha segnato l’inizio del mio ministero di Vescovo di Roma e Successore di Pietro.
Ieri mattina, durante la Santa Messa, attraverso le vostre persone ho riconosciuto spiritualmente presenti le comunità che rappresentate. In questa manifestazione di fede mi è parso così di vivere in maniera ancor più pressante la preghiera per l’unità tra i credenti in Cristo e insieme di vederne in qualche modo prefigurata quella piena realizzazione, che dipende dal piano di Dio e dalla nostra leale collaborazione.
Inizio il mio ministero apostolico durante quest’anno che il mio venerato predecessore, Benedetto XVI, con intuizione veramente ispirata, ha proclamato per la Chiesa cattolica Anno della fede. 

Con questa iniziativa, che desidero continuare e spero sia di stimolo per il cammino di fede di tutti, egli ha voluto segnare il Cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II, proponendo una sorta di pellegrinaggio verso ciò che per ogni cristiano rappresenta l’essenziale: il rapporto personale e trasformante con Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza. Proprio nel desiderio di annunciare questo tesoro perennemente valido della fede agli uomini del nostro tempo, risiede il cuore del messaggio conciliare.

Insieme con voi non posso dimenticare quanto quel Concilio abbia significato per il cammino ecumenico. Mi piace ricordare le parole che il beato Giovanni XXIII, di cui ricorderemo tra breve il Cinquantesimo della scomparsa, pronunciò nel memorabile discorso di inaugurazione: «La Chiesa Cattolica ritiene suo dovere adoperarsi attivamente perché si compia il grande mistero di quell’unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre Celeste nell’imminenza del suo sacrificio; essa gode di pace soavissima, sapendo di essere intimamente unita a Cristo in quelle preghiere» (AAS 54 [1962], 793).
Sì, cari fratelli e sorelle in Cristo, sentiamoci tutti intimamente uniti alla preghiera del nostro Salvatore nell’Ultima Cena, alla sua invocazione: ut unum sint. Chiediamo al Padre misericordioso di vivere in pienezza quella fede che abbiamo ricevuto in dono nel giorno del nostro Battesimo, e di poterne dare testimonianza libera, gioiosa e coraggiosa. Sarà questo il nostro migliore servizio alla causa dell’unità tra i cristiani, un servizio di speranza per un mondo ancora segnato da divisioni, da contrasti e da rivalità. Più saremo fedeli alla sua volontà, nei pensieri, nelle parole e nelle opere, e più cammineremo realmente e sostanzialmente verso l’unità.
Da parte mia, desidero assicurare, sulla scia dei miei Predecessori, la ferma volontà di proseguire nel cammino del dialogo ecumenico e ringrazio sin d’ora il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, per l’aiuto che continuerà ad offrire, in mio nome, per questa nobilissima causa. Vi chiedo, cari fratelli e sorelle, di portare il mio cordiale saluto e l’assicurazione del mio ricordo nel Signore Gesù alle Chiese e Comunità cristiane che qui rappresentate, e domando a voi la carità di una speciale preghiera per la mia persona, affinché possa essere un Pastore secondo il cuore di Cristo.
Ed ora mi rivolgo a voi distinti rappresentanti del popolo ebraico, al quale ci lega uno specialissimo vincolo spirituale, dal momento che, come afferma il Concilio Vaticano II, «la Chiesa di Cristo riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè, e nei profeti» (Decr. Nostra aetate, 4). Vi ringrazio della vostra presenza e confido che, con l’aiuto dell’Altissimo, potremo proseguire proficuamente quel fraterno dialogo che il Concilio auspicava (cfr
ibid.) e che si è effettivamente realizzato, portando non pochi frutti, specialmente nel corso degli ultimi decenni.
Saluto poi e ringrazio cordialmente tutti voi, cari amici appartenenti ad altre tradizioni religiose; innanzitutto i Musulmani, che adorano Dio unico, vivente e misericordioso, e lo invocano nella preghiera, e voi tutti. Apprezzo molto la vostra presenza: in essa vedo un segno tangibile della volontà di crescere nella stima reciproca e nella cooperazione per il bene comune dell’umanità.
La Chiesa cattolica è consapevole dell’importanza che ha la promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose; lo attesta anche il prezioso lavoro che svolge il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Essa è ugualmente consapevole della responsabilità che tutti portiamo verso questo nostro mondo, verso l’intero creato, che dobbiamo amare. E noi possiamo fare molto per il bene di chi è più povero, di chi è debole e di chi soffre, per favorire la giustizia, per promuovere la riconciliazione, per costruire la pace. Ma, soprattutto, dobbiamo tenere viva nel mondo la sete dell’assoluto, non permettendo che prevalga una visione della persona umana ad una sola dimensione, secondo cui l’uomo si riduce a ciò che produce e a ciò che consuma: è questa una delle insidie più pericolose per il nostro tempo.
Sappiamo quanta violenza abbia prodotto nella storia recente il tentativo di eliminare Dio e il divino dall’orizzonte dell’umanità, e avvertiamo il valore di testimoniare nelle nostre società l’originaria apertura alla trascendenza che è insita nel cuore dell’uomo. In ciò, sentiamo vicini anche tutti quegli uomini e donne che, pur non riconoscendosi appartenenti ad alcuna tradizione religiosa, si sentono tuttavia in ricerca della verità, della bontà e della bellezza, di Dio, e che sono nostri preziosi alleati nell’impegno a difesa della dignità dell’uomo, nella costruzione di una convivenza pacifica fra i popoli e nel custodire con cura il creato.
Cari amici, grazie ancora per la vostra presenza. A tutti vada il mio cordiale saluto.

Papa Francesco

 

Papa Francesco: “Custodire e Custodirsi…”

“…custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!”

(omelia 19 marzo – papa Francesco)

Cari fratelli e sorelle! 
Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Messa di inizio del ministero petrino nella solennità di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale: è una coincidenza molto ricca di significato, ed è anche l’onomastico del mio venerato Predecessore: gli siamo vicini con la preghiera, piena di affetto e di riconoscenza. 
Con affetto saluto i Fratelli Cardinali e Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai Capi di Stato e di Governo, alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al Corpo Diplomatico.

Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II. 
Così: «San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello» (Esort. ap. Redemptoris Custos, 1). 

Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e con amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù.

Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!

La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. 

E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. 
E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. 
E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. 
E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio! 

E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità, di custodire, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna.

Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi!

Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza! 
E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza! 

Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? 
Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; (applausi) deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire! 

Nella seconda Lettura, san Paolo parla di Abramo, il quale «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18). Saldo nella speranza, contro ogni speranza! Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza. Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! 
E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio. 

Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il Vescovo di Roma è chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza: Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato! 
Chiedo l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero, e a voi tutti dico: pregate per me! 
Amen.

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Un Papa narratore che sa “farsi parabola”  del 20/03/13

Povertà di cose ma ricchezza in Dio

Le mamme hanno sempre ragione… All’annuncio dell’elezione del Santo Padre e alla scoperta della sua identità, la mia mamma mi ha scritto un sms che diceva così: “Lo Spirito Santo non legge il giornale. Evviva il Papa!”. Mi spiace solo che, siccome leggerà queste righe, stavolta devo darle ragione. Penso e spero, sorriderà… visti i nostri dialoghi spesso “vivaci”. Ma non è di questo che intendevo scrivere. Stamattina ho celebrato la Santa Messa per il Papa pregando per lui, per la Chiesa, per la sua missione. Soprattutto, ringraziando il Signore per il dono di questo Papa:

«Il mondo si troverà sempre più in una posizione in cui perfino i politici e gli uomini che esercitano una professione si troveranno a dire: “Se il Papa non esistesse, bisognerebbe inventarlo”» (Gilbert Keith Chesterton, La mia fede)

Lo ringrazio perché papa Francesco è un Papa povero per una Chiesa povera di cose… e piena di Dio. Una semplice Croce, nessuna mantellina, un nome che rimanda al santo che parlava di Madonna Povertà. Un Papa per una Chiesa che possa parlare alla gente semplice, alle tante persone che cercano conforto in mezzo a tante peripezie quotidiane. Lo ringrazio perché papa Francesco è un papa che prega e fa pregare… Mi ha molto colpito questa sua “azione pastorale” iniziale: un Padre nostro, un’Ave Maria e un Gloria. Come nei nostri oratori, quando a metà pomeriggio si prega insieme con le preghiere del buon cristiano. Come don Bosco, che al termine della giornata faceva pregare e dava un buon pensiero di “Buonanotte”. Soprattutto, sono rimasto stupito dalla sua umile richiesta di preghiere per lui. Il silenzio nella Piazza in quel momento è stato la parola più forte:

Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo io vi chiedo che voi pregate il Signore perchè mi benedica: la preghiera del popolo chiedendo la benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me.

Ora sta a noi accompagnare il Santo Padre in questo cammino che ci ha invitato a fare insieme…

E adesso incominciamo questo cammino, Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le chiese. Un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi.  Con un cuore pieno di affabilità, entusiasmo ed umiltà. Quello di Papa Francesco.

Don Elio Cesari – SdB  –www.mgslombardiaemilia.it

Added by Giu Trapani on 14 marzo 2013.
Saved under coverEcclesiaHabemus Papam Francescotracce giovani di fede viva!

Messaggio del Rettor Maggiore per l’elezione di Papa Francesco

Ai Salesiani e membri tutti della Famiglia Salesiana

 

Ho avuto la grazia di essere stato a Piazza San Pietro gremita di migliaia e miglia di persone, particolarmente giovani, nel momento in cui abbiamo sentito il messaggio tanto atteso:

“Annuntio vobis gaudium magnum. 
Habemus Papam
Georgiumg Marium Bergoglio
qui sibi nomen imposuit
FRANCISCUM”.

Anche se il suo nome non era stato menzionato tra i papabili, e dunque causò perplessità in coloro che non sapevano di chi si trattava, l’accoglienza del Nuovo Successore di Pietro non si fece attendere e la risposta fu un grandissimo applauso, espressione di una grande gioia, accompagnata dai primi gridi: Francesco, Francesco, Francesco….

Ancora una volta, è stato lo Spirito Santo a guidare i Cardinali elettori nella elezione dell’Uomo che Dio stesso aveva scelto come Vicario di Cristo.

Assieme a tutti voi, cari fratelli e sorelle, membri tutti della Famiglia Salesiana, e giovani, rendo lode e grazie al Signore per il grandissimo dono che ci ha dato nella persona del Card. Jorge Mario Bergoglio, Jesuita, Arcivescovo di Buenos Aires, che avevo avuto la grazia di conoscere e trattare personalmente nella Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano ad Aparecida e, posteriormente, nella Beatificazione di Zeffirino Namuncurà.

L’elezione del suo nome, Francisco, è già significativa perché in certo senso raccoglie alcuni dei tratti più caratteristici del Nuovo Papa: la semplicità, la povertà, l’autenticità, e, al tempo stesso, diventa programmatica perché evidenzia alcuni degli elementi che oggi devono definire il volto della Chiesa e il suo rapporto con il Mondo.

Prima di impartire la prima benedizione ci ha chiesto di benedirlo. In un profondo silenzio ciascuno dal fondo del proprio cuore lo ha fatto lasciandosi guidare dallo Spirito. Oggi vi invito a invocare su di Lui l’abbondanza dei doni dello Spirito affinché abbia la Luce per discernere ciò che il Signore si attende della Sua Chiesa oggi e trovi l’Energia per portarlo alla vita.

Con spirito di fede e grande stima e devozione accogliamo il Papa Francesco, come lo avrebbe fatto don Bosco, e, mentre lo affidiamo alla cura e guida materna di Maria, le assicuriamo il nostro affetto, la nostra obbedienza e la più sincera e decisa collaborazione in questo tempo di Nuova Evangelizzazione.

Roma,13 Marzo 2013

don Pascual Chávez V., SDB
Rettor Maggiore

Nel nome di una missione

 Forse è la volta buona. Forse oggi, a distanza di mezzo secolo, il rinnovamento all’insegna del Vangelo che papa Giovanni XXIII e il Vaticano II avevano voluto e intrapreso, può finalmente diventare realtà. Forse i cardinali elettori hanno veramente ascoltato lo Spirito Santo, operazione che non contiene nulla di magico, ma è sol…o la pura disposizione della mente e del cuore a volere sempre e solo il bene, perché quando un uomo dispone la sua mente e il suo cuore nella ricerca del bene lo Spirito della santità agisce in lui, sia egli credente o non credente. E questo io sento che i cardinali elettori hanno fatto, allontanando ogni calcolo politico o diplomatico, ogni ragionamento all’insegna del potere, e scegliendo un uomo di Dio. Si è trattato di una scelta assolutamente inaspettata, il nome di Jorge Mario Bergoglio non figurava quasi mai tra le liste dei principali papabili. Ma si è trattato soprattutto di una scelta completamente innovativa: da ieri abbiamo il primo papa non europeo, il primo papa latino-americano, il primo papa che ha scelto di presentarsi al mondo come “vescovo di Roma” e soprattutto il primo papa che ha scelto di chiamarsi Francesco. Nell’unione di queste quattro assolute novità, unite alla preghiera che ha da subito caratterizzato la sua prima apparizione da papa, io intravedo quella speranza di rinnovamento all’insegna del Vaticano II che Francesco I può realizzare e di cui la Chiesa ha un immenso bisogno. Né si può tacere il fatto che Bergoglio nel Conclave del 2005 fu il principale antagonista di Ratzinger: i cardinali elettori quindi non solo non hanno scelto un ratzingeriano di ferro come Scola o come Schönborn, ma hanno scelto colui che a Ratzinger contese la maggioranza dei voti in Conclave. Questa scelta contiene un giudizio non del tutto positivo sugli otto anni di pontificato dell’attuale papa emerito. Ma ciò che maggiormente colpisce è il nome che il nuovo pontefice ha scelto per sé. Che cosa significa aver deciso di chiamarsi Francesco? Bergoglio non è un francescano, è un gesuita e se avesse seguito il suo cuore avrebbe dovuto chiamarsi Ignazio, visto che è sant’Ignazio di Loyola il fondatore dei gesuiti. Ma egli ha scelto di chiamarsi Francesco, sottolineando con questo non la sua storia personale (anche se chi lo conosce racconta che vive da sempre in assoluta semplicità, lontano dal lusso che la qualifica di arcivescovo di Buenos Aires gli permetterebbe) ma l’intento animatore del suo programma di governo all’insegna della testimonianza profetica e della radicalità evangelica. Francesco è il santo che più di ogni altro nel secondo millennio cristiano ha rappresentato l’ideale della purezza evangelica, l’ideale di vivere le beatitudini, lontano dalle seduzioni del potere e della gloria. Penso che tutti abbiano in mente l’affresco di Giotto nella Basilica superiore di Assisi che rappresenta il sogno di Innocenzo III: egli vede un uomo vestito con un semplice saio che sorregge una chiesa che sta per cadere,e ovviamente quell’uomo è Francesco il poverello di Dio, di cui a Innocenzo III in sogno viene anticipata la venuta. Ora a nessuno è dato sapere che cosa abbia sognato in queste notti Jorge Mario Bergoglio quando sentiva approssimarsi la scelta dei cardinali elettori su di lui, ma certamente il fatto che egli abbia scelto di chiamarsi Francesco indica nel modo più esplicito la sua chiara percezione della gravità della situazione che la Chiesa cattolica sta vivendo e soprattutto la sua convinzione riguardo alla via per uscirne: la radicalità evangelica, la povertà, la mitezza, la lontananza dal potere, l’amore per ogni uomo e per gli animali, la cura per tutto il creato. Il primo, indispensabile passo che la Chiesa deve compiere è tornare a credere al Vangelo anzitutto nelle sue strutture di comando: l’evangelizzazione, prima di riguardare il mondo, riguarda la gerarchia della Chiesa, in primo luogo la Curia, e dalla scelta effettuata sembra che i cardinali abbiano capito alla perfezione tutto ciò e abbiano individuato chi, tra di loro, era l’uomo giusto per questa svolta all’insegna della mitezza e insieme del rigore. Ieri, sentendo parlare per la prima volta il nuovo papa, mi ha molto colpito il suo rivolgersi ai fedeli e al mondo chiamandosi più di una volta “vescovo di Roma”. Anzi si può dire che ieri sera Bergoglio non si è presentato al mondo, infatti non ha detto una sola parola in spagnolo per la sua terra, non ha detto una sola parola in inglese rivolgendosi alla mondovisione. Si è presentato solo alla sua diocesi, alla città di Roma, e non a caso ha fatto il nome del suo vicario per la città, il cardinal Vallini, volendolo accanto a sé sul balcone. Questo è molto importante. Mostra infatti che le indicazioni del VaticanoII e soprattutto del Nuovo Testamento sono quanto mai chiare a papa Francesco I. Da papa egli vuole anzitutto essere un vescovo, il vescovo di una città, e anzi sa che può essere veramente papa in fedeltà al Vangelo e al Vaticano II solo nella misura in cui non cesserà mai di essere vescovo, cioè una guida concreta a contatto con i problemi reali della gente reale. Bergoglio è un gesuita, è mite e insieme austero, amante della semplicità, della povertà, di una vita all’insegna dell’essenziale, privo di decorazioni barocche e dal linguaggio semplice e asciutto. Assomiglia molto a Carlo Maria Martini, di cui certamente era amico. E forse quei 200 anni con cui Martini nella sua ultima profetica intervista dell’8 agosto scorso segnò la distanza tra la Chiesa e il mondo («la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni») con Francesco I sono destinati a essere colmati.
 
Vito Mancuso, La Repubblica 14 marzo 2013

Le prime parole di Papa Francesco

“Fratelli e sorelle buonasera. Voi sapete che il dovere del Conclave è di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo. Ma siamo qui… Vi ringrazio dell’accoglienza, alla comunità diocesana di Roma, al suo Vescovo, grazie. E prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca”.
Quindi ha recitato il Padre nostro, l’Ave Maria e il Gloria.
“E adesso – ha proseguito – incominciamo questo cammino, Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le chiese. Un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro, preghiamo per tutto il mondo, perchè ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo – mi aiuterà il mio cardinale vicario qui presente – sia fruttuoso per la evangelizzazione di questa sempre bella città… Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo io vi chiedo che voi pregate il Signore perchè mi benedica: la preghiera del popolo chiedendo la benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me”.
“Adesso darò la benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e donne di buona volontà”, ha proseguito, impartendo la benedizione in latino e concedendo l’indulgenza plenaria. “Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto, ci vediamo presto. Domani voglio andare a pregare la Madonna perchè custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo”.