Oratorio come laboratorio di talenti

La Nota pastorale della Cei, dal titolo ”Il laboratorio dei talenti”, si muove nell’ottica della ”pastorale integrata” e come antidoto al ”relativismo pervasivo” dei processi educativi. Grande spazio è riservato alla relazione educativa e al ruolo dei sacerdoti. Infine non manca l’apertura al digitale

 

Nel linguaggio comune, la parola oratorio “richiama un’esperienza di vita buona legata ai tempi della giovinezza”. Oggi, forti di 450 anni di esperienza educativa, gli oratori sono una realtà cui guardano con crescente attenzione non solo la comunità ecclesiale, ma anche le istituzioni civili, come dimostrano diversi interventi legislativi. Parte da questa “fotografia” la Nota pastorale della Cei sugli oratori, dal titolo “Il laboratorio dei talenti”. Il documento, elaborato dalla Commissione episcopale per la famiglia e la vita e dalla Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, si propone di “riconoscere e sostenere il peculiare valore dell’oratorio nell’accompagnamento della crescita umana e spirituale delle nuove generazioni” e di “proporre alle comunità parrocchiali, e in modo particolare agli educatori e animatori, alcuni orientamenti”. L’ottica scelta è quella della “pastorale integrata”, come antidoto al “relativismo pervasivo” dei processi educativi. La “sfida” è “far diventare gli oratori spazi di accoglienza e di dialogo, dei veri ponti tra l’istituzionale e l’informale, tra la ricerca emotiva di Dio e la proposta di un incontro concreto con Lui, tra la realtà locale e le sfide planetarie, tra il virtuale e il reale, tra il tempo della spensieratezza e quello dell’assunzione di responsabilità”. 

Ponti tra la chiesa e la strada. Gli oratori non nascono come progetti “fatti a tavolino” ma dalla capacità di “lasciarsi provocare e mettere in discussione dalle urgenze e dai bisogni del proprio tempo”, con la stessa passione dei grandi “maestri dell’educazione”: san Filippo Neri, san Giovanni Bosco, san Carlo Borromeo… Gli oratori non solo limitati “al recupero, all’istruzione o all’assistenza”, ma sanno “valorizzare e abitare la qualità etica dei linguaggi e delle sensibilità giovanili”, coniugando “prevenzione sociale, accompagnamento familiare e avviamento al lavoro”. In quest’ottica, oggi gli oratori “devono essere rilanciati anche per diventare sempre più ponti tra la Chiesa e la strada”, come li definiva Giovanni Paolo II. 

Cittadini responsabili. Se la “prossimità” è lo stile dell’oratorio, uno dei suoi obiettivi primari è contribuire “alla crescita di cittadini responsabili”. Di qui l’importanza di “valorizzare il ruolo delle famiglie e sostenerlo, sviluppando un dialogo aperto e costruttivo” e facendo dell’oratorio un “ambiente di condivisione e di aggregazione giovanile, dove i genitori trovano un fecondo supporto per la crescita integrale e il discernimento vocazionale dei propri figli”. Rispetto agli altri luoghi formativi, l’oratorio “si caratterizza per la specifica identità cristiana”, ed “attraverso i linguaggi del mondo giovanile promuove il primato della persona e la sua dignità, favorendo un atteggiamento di accoglienza e di attenzione, soprattutto verso i più bisognosi”, ma anche verso giovani appartenenti ad altre culture e religioni. 

Un laboratorio anche “digitale”. “Un variegato e permanente laboratorio di interazione tra fede e vita”: questa la definizione di oratorio presente nel testo, in cui si raccomanda di offrire ai giovani “percorsi differenziati” che sappiano attingere a tutti i linguaggi e gli ambienti giovanili, compreso il web e i “new media”, con un occhio speciale ai “nativi digitali”. Soprattutto a loro, l’oratorio “garantisce uno spazio reale di confronto con il virtuale per capirne profondamente potenzialità e limiti”. 

Il primato della relazione. Ma l’oratorio “educa ed evangelizza” soprattutto “attraverso relazioni personali autentiche e significative”, che sono la sua “vera forza”, perché “nessuna attività può sostituire il primato della relazione personale”. “Anche laddove i social network sembrano semplicemente prolungare e rafforzare rapporti di amicizia – si raccomanda nel documento – appare necessario aiutare i giovani che abitano il mondo della rete a scendere in profondità coltivando relazioni vere e sincere”, in un tempo “segnato dalla consumazione immediata del presente e dal continuo cambiamento, dalla frammentazione delle esperienze”. Servono “relazioni autorevoli”, per “aiutare i ragazzi a fare sintesi”, e l’oratorio può diventare “il luogo unificante del vissuto”, aiutando chi lo frequenta “a superare il rischio, oggi tutt’altro che ipotetico, della frammentazione e della dispersione”. 

Accoglienza e “restituzione”. L’”accoglienza” è la cifra dell’oratorio, il suo “potere di attrazione”, ma “non può mai comportare disimpegno o svendita dei valori educativi”. La prospettiva adottata è quella della “restituzione”: “tutti, in modi e situazioni diverse, hanno ricevuto del bene da qualcuno. Tutti, quindi, ognuno secondo le proprie possibilità e capacità, sono chiamati a restituire tale bene diventando dono per gli altri”. Famiglia, scuola, sport sono i luoghi principali attorno a cui costruire “alleanze educative”, anche per fare dell’oratorio un “laboratorio di cultura” e “partecipare al dibattito pubblico sui temi e compiti educativi della società civile e della comunità ecclesiale”. 

Non solo sport. Per creare quel tipico “clima di famiglia” che ne ha accompagnato l’evoluzione, i sacerdoti – e non solo quelli giovani, perché “l’efficacia educativa non coincide con la vicinanza generazionale fra educatori e ragazzi” – devono “stare” in oratorio, per “offrire un accompagnamento umano e spirituale ai ragazzi e agli educatori”. Servono inoltre “figure stabili di riferimento”, come “laici preparati”. Tra le proposte più consolidate dell’oratorio, c’è l’attività sportiva, che nel nostro territorio si avvale anche della “presenza capillare” del Centro sportivo italiano, ma non mancano attività come musica, teatro, danza… Fin dalle origini, inoltre, l’oratorio “ha posto attenzione alle necessità e alle povertà delle nuove generazioni”: un ruolo di “prevenzione”, più che di contrasto del “disagio sociale”, nel quale gli oratori sono sollecitati a perseverare, grazie alla loro capacità di “stare anche sulla strada”.

 
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Un documento «tra memoria e profezia». Per tornare a focalizzare l’attenzione su una realtà che «in termini di servizi e di opportunità» offrono «alla società civile» un contributo che è quantificabile in 210 milioni di euro. Una realtà in cui «con poco si fa tanto» e dove i giovani possono trovare «ricreazione e formazione». 

Si parla della nota “Il laboratorio dei talenti” che, elaborata dalla Commissione per la cultura e le comunicazioni sociali e dalla Commissione per la famiglia e la vita della Conferenza episcopale italiana, rilancia funzioni e progettualità degli oratori, una realtà attorno alla quale, negli ultimi anni, è tornata a focalizzarsi l’attenzione delle famiglie. Una realtà articolata in circa seimila “luoghi” in tutto il Paese, e che oggi, come ha sottolineato il sottosegretario della Cei monsignor Domenico Pompili, presentando ieri il testo a Roma con i vescovi Claudio Giuliodori ed Enrico Solmi, presidenti delle due Commissioni, vanno «sostenuti» per «ridare visibilità e sostenibilità ai nostri ambienti di periferia e di città».

È stato Pompili a ricordare, citando il libro di Giuseppe Rusconi L’impegno, il “valore” in termini economici del servizio offerto dagli oratori, osservando inoltre come «dietro la ripresa dell’interesse intorno agli oratori non c’è semplicemente un’emergenza, ma la sfida di sempre è quella di offrire un contesto che sia promettente per la relazione interpersonale, in una stagione a forte impatto digitale e quindi debilitata sotto il profilo della fisicità». In questo senso, oggi l’oratorio va oltre la «nostalgia di una esperienza fatta di polverosi campi di calcio, teatro e musica, amicizie ed escursioni al mare o in montagna», legata all’adolescenza. Al contrario, sulla linea tracciata dagli orientamenti pastorali per il decennio in corso, centrati sull’emergenza educativa, può essere «un territorio fisico che insieme alla casa e al quartiere sia un luogo di radicamento, a partire dal quale proiettarsi in un mondo più ampio senza perdere il senso del legame, delle radici, della gratitudine e senza dissolvere l’identità coltivandola grazie alle nuove aperture tecnologiche». 

Non è allora un caso, come sottolineato da Giuliodori, se oggi «la domanda delle famiglie è fortissima». Dagli anni Settanta, e fino agli inizi dei Novanta, «c’è stata una stagione – ha ricordato il vescovo – in cui lo sviluppo sociale ha fatto nascere tante attività, ma molto parcellizzate, costringendo i genitori a correre per portare i loro ragazzi a far sport, musica, a imparare le lingue. Tante proposte – ha aggiunto – che sono competenze offerte ai ragazzi, ma quello che mancava era l’apporto di una educazione integrale». Oggi, invece, «i genitori si sono accorti che i propri figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere». Di qui il rilancio dell’attenzione all’oratorio, dove «ci sono attività strutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona e alla sua libera espressività», come risposta all’esigenza «di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi». Opportunità, insomma, e insieme sfida; tanto più esaltante, nel porre per la prima volta a confronto una realtà “antica” come l’oratorio con la generazione dei nativi digitali, cosa che impone, per Giuliodori, un’attenta formazione dei formatori che «possa partire anche dai seminari». In tutto questo, gli oratori restano «un luogo libero di accoglienza e gratuità – ha osservato Solmi – dove i ragazzi possono andare senza spendere, dove trovano mamme e insegnanti disponibili, dove possono giocare in modo libero e non griffato, con quello che hanno addosso». Per il presule il «punto di forza» degli oratori è «la relazione che nasce dai talenti che ognuno mette in campo», a partire da «un progetto molto preciso della comunità, che ha alle spalle una lunga tradizione e che va giocato per l’oggi». «Se l’oratorio funziona, ci vuole la rete, ma funziona anche se manca la rete», ha rilevato Solmi, riferendosi «sia alla rete del campo di calcio che alla “rete massmediale”», elemento da «intercettare per stare al passo con i “nativi digitali”».

Salvatore Mazza

in: Avvenire del 6/04/13

 

Una risorsa nella crisi

Il vescovo Giuliodori: “I genitori si sono accorti che i propri figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere”. C’è “l’esigenza di uno spazio” per “una crescita integrale dei ragazzi”. Il vescovo Solmi: “L’oratorio è un luogo dove con poco si fa tanto”, e nonostante la “contrazione” dei contributi resta “un luogo libero di accoglienza e gratuità”. Monsignor Pompili: “Sostenere gli oratori per ridare visibilità e sostenibilità ai nostri ambienti di periferia e di città”

In tempi di crisi, non solo economica e finanziaria, la “domanda” delle famiglie verso gli oratori “è fortissima”. Sembrerebbe un dato in controtendenza, e invece molti genitori italiani si sono stancati di correre sempre dietro ai figli per fare loro da “tassisti” per le molteplici attività – gli sport, la musica, le lingue – e preferiscono affidarli a chi sa dare “lezioni di vita” attraverso un’idea di educazione a 360°, che parte dalla persona e si nutre degli ideali del Vangelo. Senza paura, nello stesso tempo, di cimentarsi nelle nuove tecnologie per parlare “faccia a faccia” con i nativi digitali, e di svolgere perfino un buon “servizio pubblico”, visto il notevole contributo offerto, attraverso una gamma molto variegata di attività, alla società civile. È la “fotografia” dei 6 mila oratori italiani, scattata durante la conferenza stampa di presentazione della Nota Cei “Il laboratorio dei talenti”. Dei seimila oratori italiani, circa tremila si trovano in Lombardia. D’estate, al loro interno attività come il “Grest” (acronimo che sta per gruppo estivo) fanno registrare il tutto esaurito, accogliendo a giugno e luglio circa un milione e mezzo tra bambini e adolescenti. Oltre al Centro sportivo italiano, gli oratori italiani – la cui “colonna portante” sono gli operatori volontari – si avvolgono della collaborazione di associazioni come Anspi, “Noi associazione”, Foi. Senza contare l’Azione Cattolica, che promuove nelle parrocchie attività di animazione che si ispirano al modello dell’oratorio, e i numerosissimi religiose e religiose.

“Sinergia” tra Chiesa e società civile. Ammonta a circa 210 milioni di euro il contributo che gli oratori, “in termini di servizi e di opportunità”, offrono alla “società civile”. A ricordarlo – citando il libro “L’impegno” di Giuseppe Rusconi – è stato monsignor Domenico Pompili, sottosegretario della Cei, introducendo la conferenza stampa di presentazione della Nota sugli oratori dal titolo “Il laboratorio dei talenti”, elaborata dalla Commissione per la cultura e le comunicazioni sociali e dalla Commissione per la famiglia e la vita. “Sostenere” gli oratori per “ridare visibilità e sostenibilità ai nostri ambienti di periferia e di città”, l’invito del sottosegretario della Cei, secondo il quale “dietro la ripresa dell’interesse intorno agli oratori non c’è semplicemente un’emergenza. La sfida di sempre è quella di offrire un contesto che sia promettente per la relazione interpersonale, in una stagione a forte impatto digitale e quindi debilitata sotto il profilo della fisicità”. L’oratorio, oggi, va oltre la “nostalgia di un’esperienza fatta di polverosi campi di calcio, teatro e musica, amicizie ed escursioni al mare o in montagna”, legata all’adolescenza: può essere, invece, “un territorio fisico che insieme alla casa e al quartiere sia un luogo di radicamento, a partire dal quale proiettarsi in un mondo più ampio senza perdere il senso del legame, delle radici, della gratitudine e senza dissolvere l’identità coltivandola grazie alle nuove aperture tecnologiche”.

L’oratorio “non è un’attività economica”, e dunque “non risente direttamente della crisi”, ma è pur vero che in questi tempi di crisi “la domanda delle famiglie è fortissima”. Lo ha detto monsignor Claudio Giuliodori, presidente della Commissione Cei per la cultura e le comunicazioni sociali, rispondendo alle domande dei giornalisti. “C’è stata una stagione, negli anni Settanta, Ottanta e anche inizio Novanta – ha ricordato il vescovo – in cui lo sviluppo sociale ha fatto nascere tante attività, ma molto parcellizzate, costringendo i giovani a correre per portare i loro ragazzi a far sport, musica, a imparare le lingue. Tante proposte che sono competenze offerte ai ragazzi, ma quello che mancava era l’apporto di un’educazione integrale”. Oggi, invece, “i genitori si sono accorti che i propri figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere”. Di qui il rilancio dell’attenzione all’oratorio, dove “ci sono attività strutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona e alla sua libera espressività”. Cresce, insomma, nelle famiglie “l’esigenza di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi”. 

La “rete” e l’intercultura. Tra le “novità” della Nota Cei, monsignor Giuliodori ha citato l’attenzione al mondo digitale, come “ambiente” in cui i nostri ragazzi sono immersi e con il quale vanno educati ad “interagire positivamente, senza esserne soggiogati, ma imparando ad essere protagonisti della nuova cultura dei media”, e l’approccio interculturale e interreligioso. “Il 10 per cento dei ragazzi che frequentano i nostri oratori – ha detto il vescovo – sono immigrati, e in molti casi rappresentano la maggioranza della popolazione oratoriale”. Un dato, questo, che “va tenuto presente” nella proposta dell’oratorio, che “non può perdere la sua identità, ma deve essere aperta a tutti nel rispetto delle diverse culture e sensibilità”. Sulla necessità, per l’oratorio, di “farsi prossimo” ai ragazzi, “senza invasione di capo, ma nella certezza che rimanda alle competenze educative della Chiesa”, si è soffermato monsignor Mario Lusek, direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale del tempo libero, del turismo e dello sport. Della tendenza degli oratori a “diffondersi anche al Sud”, magari con tipologie che si ispirano ad essi, ha parlato don Mimmo Beneventi, vice responsabile del Servizio Cei per la pastorale giovanile, 

Tanto con poco. L’oratorio è “un luogo dove con poco si fa tanto”, e nonostante la “contrazione” dei contributi in loro favore restano “un luogo libero di accoglienza e gratuità, dove i ragazzi possono andare senza spendere, dove trovano mamme e insegnanti disponibili, dove possono giocare in modo libero e non griffato, con quello che hanno addosso”. È la descrizione dei 6mila oratori italiani, dove domina “tutto un mondo di volontari silenziosi”, fatta da monsignor Enrico Solmi, presidente della Commissione Cei per la famiglia e la vita. Il loro punto di forza: “la relazione che nasce dai talenti che ognuno mette in campo”, a partire da “un progetto molto preciso della comunità, che ha alle spalle una lunga tradizione e che va giocato per l’oggi”. “Se l’oratorio funziona, ci vuole la rete, ma funziona anche se manca la rete”, ha affermato il vescovo riferendosi sia alla rete del campo di calcio che alla “rete massmediale”, elemento da intercettare per stare al passo con i “nativi digitali”. In oratorio, è la tesi di monsignor Solmi, “le cose funzionano quando vediamo che con poco si fa tanto”. Indispensabile, per il relatore, l’”alleanza educativa” con la famiglia: “Gli oratori sono i luoghi dove sono accolti i figli di tutti, anche quelli che hanno un disagio magari proprio in famiglia, e che nell’oratorio trovano un luogo per uscire da un clima pesante che li rimbalza da un genitore all’altro”.

Sir del 5/04/13

Proposte forti per tempi fragili

In ogni angolo d’Italia, l’oratorio è uno dei capisaldi dell’azione educativa e formativa cristiana. Alcune esperienze significative a Bergamo, Pesaro e a Olivarella, frazione di San Filippo del Mela (Messina

Dal Nord al Sud, l’oratorio è davvero “il laboratorio dei talenti”, come lo definisce – nel titolo – la nota pastorale Cei diffusa oggi. Innumerevoli gli esempi che rispondono a quei “criteri di discernimento” indicati nel documento, rispetto a formazione e responsabilità degli educatori, rapporto con la pastorale giovanile, catechesi, alleanze educative, impegno delle aggregazioni ecclesiali, sfida dell’integrazione sociale e culturale, animazione, avendo chiara l’identità dell’oratorio.

Lo stile dell’accoglienza. “È una questione di stile”, sintetizza al Sir don Cristiano Re, che a Bergamo è responsabile dell’oratorio nella parrocchia di Santa Caterina vergine e martire. Lo stile proposto al migliaio di bambini, ragazzi, giovani e adulti che lo frequentano è innanzitutto quello “dell’accoglienza”, perseguito attraverso una “diversificazione delle proposte per le diverse età”. E l’identità cristiana? È ben presente, sottolinea il sacerdote, in quel “raccordo tra la fede e la vita che si fa testimonianza: proprio in quanto cristiani c’impegniamo a incontrare tutti con gratuità e accoglienza, secondo lo stile evangelico, in modo gioioso e sereno”. Grazie a quest’annuncio trasmesso con le opere “negli anni diversi ragazzi e adulti hanno deciso d’intraprendere un percorso di fede più serio oppure hanno chiesto i sacramenti dell’iniziazione cristiana”. Da non dimenticare, evidenzia, il “legame strettissimo con la società sportiva parrocchiale”, a riprova che – come ricorda la nota Cei – lo sport “costituisce una delle più grandi risorse educative”; infine, il “lavoro di rete condotto con le diverse agenzie formative del territorio”, che trova concretezza in un centro polivalente realizzato in spazi del Comune “per l’età evolutiva e le famiglie”.

Una stanza della casa. Rivolto ai giovani, coinvolge “tutte le età” pure l’oratorio della parrocchia di Santa Maria di Loreto a Pesaro, come spiega il parroco, don Giuseppe Fabbrini, che è pure referente diocesano per i 24 oratori attualmente presenti nel territorio pesarese. “L’oratorio – precisa – è per i giovani, gli stessi che hanno cominciato a frequentarlo da piccoli e ora s’impegnano con il loro ‘ministero di fatto’ di animatori ed educatori”. Per definire questo cammino che vede proprio nell’oratorio un “luogo di educazione alla fede e alla vita”, al parroco piace usare l’immagine della “spiritualità dell’educatore”, laddove “il vero educatore è colui che ha una speranza affidabile, vive un cammino di fede personale e comunitario”. Attivo da una decina d’anni, l’oratorio parrocchiale viene presentato alla comunità come “una stanza in più della casa”, ed è così che bambini, ragazzi, giovani e adulti vengono invitati a sentirsi a casa tra le sue pareti. In inverno la proposta è di “momenti d’incontro, laboratori, corsi formativi per gli animatori e svago”, mentre a giugno si trasforma in un grande centro estivo che apre le porte a circa 500 bambini dai 5 anni in su. Pensando agli adolescenti e ai giovani, don Fabbrini è convinto che “l’oratorio nasca dall’iniziazione cristiana e ne sia un necessario e degno prolungamento” per crescere “integrando vita e fede”.

Per i giochi e la formazione cristiana. È opinione comune che la realtà dell’oratorio sia più sviluppata al Nord che al Sud. Eppure anche nel meridione si trovano esperienze “d’eccellenza”, come a Olivarella, frazione di San Filippo del Mela, nel Messinese. Qui, dal 2006, opera l’oratorio “Giovanni Paolo II”, di cui parla al Sir don Dario Mostaccio, che è pure responsabile diocesano della pastorale giovanile nella diocesi di Messina. “Ogni giorno siamo aperti e, complessivamente, dall’oratorio passano circa 300 persone”. Interessante la convivenza tra i più piccoli e “un gruppo di anziani – racconta don Mostaccio – che quotidianamente hanno qui un punto di ritrovo”. Costoro, tra una chiacchiera e una partita a carte, costituiscono una presenza importante, che “può dare un consiglio o, se serve, un rimprovero”, garantendo al tempo stesso la sorveglianza dei locali, affiancando nel loro impegno i catechisti e gli animatori. “Negli anni – prosegue il sacerdote – l’oratorio ha acquisito rilievo come interlocutore importante per l’amministrazione locale e le scuole”, mentre a ricordare l’identità dell’iniziativa e del progetto educativo vi è lo stretto legame con la parrocchia, così che “le attività di catechesi, il sabato, si svolgono nell’oratorio: negli stessi ambienti che durante la settimana bambini e ragazzi usano per i loro giochi, il sabato si fa formazione cristiana”. Da ultimo, don Mostaccio segnala il progetto “Insieme oggi per costruire il domani… al ‘GP2’”, realizzato grazie a un bando della Regione Sicilia e che “prevede varie attività: scuola di canto e chitarra, realizzazione di un musical, scuola di ‘calcio a 5’, laboratori artistici”. Un contributo per la socializzazione e la crescita dei più giovani, avendo presente l’importanza – ribadita nel documento Cei – di “relazioni personali autentiche e significative”, e al tempo stesso di una proposta educativa forte, in un tempo di legami fragili.

Sir del 5/04/13

II DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Apostoli 5,12-16

Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico  di Salomone;  nessuno degli altri osava associarsi a  loro,  ma il popolo li esaltava. Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.

 

È uno dei cosiddetti «sommari» degli Atti: quadretti che dipingono la comunità cristiana primitiva. È una comunità che evidentemente ha fatto esperienza della risurrezione di Cristo e lo manifesta nella concordia: tutti erano soliti stare insieme (v. 12). Una unità tra cristiani sostenuta dalla preghiera e dalla frazione del pane (2,42-46). La fede cristiana si manifesta nella carità e nella comunione gioiosa. L’attività taumaturgica di Gesù continua ora nella chiesa per mezzo degli apostoli (v. 12). Tra gli apostoli un posto particolare ha la figura di Pietro. In lui continuava in modo singolare ad essere presente la potenza di Cristo: almeno la sua ombra (v. 15) guariva. La gente si rendeva conto di una speciale presenza divina negli apostoli e li stimava, ma, forse per un sacro timore, nessuno degli altri osava associarsi a  loro (v. 13).

     La presenza dello Spirito del Risorto si manifestava nella serie di prodigi, che aiutavano gli umili ad accogliere la predicazione apostolica (vv. 15-16). Nella comunità cristiana primitiva, sotto la direzione di Pietro, sono presenti così i segni che chiamano alla fede: le guarigioni miracolose, prolungamento del mistero storico di Gesù, ma soprattutto il segno dell’unità dei fratelli nella fede del Cristo risorto.

 

Seconda lettura: Apocalisse 1,9-11.12-13.17-19

Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese». Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito». 

 

Il brano riporta la visione di Cristo glorioso avuta da Giovanni nel giorno del Signore (v. 10), la domenica, il giorno in cui la comunità cristiana si riunisce per l’ascolto della parola e per celebrare la risurrezione. Giovanni si sente fratello e compartecipe della comunità che sta in ascolto. Anche lui come le piccole comunità cristiane soffre la persecuzione per amore di Gesù Cristo: si trova a Patmos, una isola delle Sporadi a 75 Km a sud-ovest di Efeso. Egli riceve l’incarico di scrivere un libro per le sette chiese (v. 11). Il numero sette è simbolico: indica la totalità.

     Sta parlando quindi alla chiesa universale, che poi è presente nella chiesa locale, in modo particolare nell’assemblea liturgica. L’Apocalisse è un libro diretto a una comunità liturgica che lo interpreta. Richiamandosi a immagini presenti in Daniele e Ezechiele, Giovanni presenta Cristo come uno simile a un Figlio d’uomo, con le insegne del giudice escatologico. L’abito lungo fino ai piedi è simbolo della sua dignità sacerdotale, mentre la fascia d’oro esprime la sua regalità. La voce potente indica una rivelazione chiara senza ombra di dubbio. Gesù Cristo è in mezzo ai sette candelabri: egli è presente attivamente nella sua chiesa. Egli è alla destra di Dio, ma vive nella comunità cristiana. Giovanni e la sua comunità non devono temere, perché egli è il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Egli ha vinto definitivamente la morte e chi si appoggia a lui ha la vita. Nel libro che si leggerà nella comunità in ascolto si troveranno poi le cose viste, nella presente visione, quelle presenti, cioè le lettere alle sette chiese; quelle che devono accadere, le visioni sul futuro escatologico della chiesa (vv. 17-19).

 

Vangelo: Giovanni 20,19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

  Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

Esegesi 

     Dopo l’apparizione a Maria Maddalena, avvenuta all’aperto, in un giardino, Gesù appare ai suoi discepoli, chiusi per paura in una stanza. Essi ricevono lo Spirito Santo per poter annunciare la sua parola e perdonare i peccati agli uomini. La fede crescerà dall’ascolto della parola all’interno della comunità. Con questo brano Giovanni vuole sottolineare l’importanza della testimonianza per la fede pasquale.

     1) Incontro con i discepoli (20,19-23)

Avviene il primo giorno della settimana, nel giorno di Pasqua. Gesù torna ma non nel suo stato precedente: entra a porte chiuse. Si pone al centro della comunità cristiana: stette in mezzo loro (v. 1), come unico punto di riferimento. I discepoli lo possono vedere e riconoscere con lo sguardo della fede. Le conseguenze della nuova luce sono la «gioia» e la «pace», i doni messianici. Gesù dà loro l’incarico missionario: devono continuare la missione a lui affidata dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (v. 21). Ma solo uomini nuovi sono capaci di questo compito. Gesù dona loro lo Spirito Santo: soffiò su di loro (v. 20) come soffiò all’inizio la vita nuova al primo uomo. Il dono dello Spirito era stato anticipato simbolicamente dall’acqua e dal sangue usciti dal costato di Cristo (19,34). La missione degli apostoli avrà come obiettivo la remissione dei peccati (v. 23). Il potere viene dato al gruppo dei dodici, nominati nel versetto seguente (v. 24). Viene esercitato certamente nel sacramento della penitenza secondo il concilio di Trento per i peccati commessi dopo il battesimo. Non si esclude il perdono dei peccati mediante il sacramento del battesimo e la proclamazione dei vangelo.

     2) Apparizione presente Tommaso (Gv 20,24-29)

I dubbi di Tommaso esprimono l’esperienza del gruppo, dell’intera comunità apostolica, e la personale esperienza di Giovanni: «Colui… che abbiamo visto con i nostri occhi… contemplato… e toccato con le nostre mani» (1Gv 1,1-2). Anche questo incontro avviene nel primo giorno della settimana, giorno del Signore (Ap 1,10). In esso la comunità proclama con i discepoli: Abbiamo visto il Signore! (v. 25). Ma Tommaso non condivide la fede della comunità. Gesù si rende visibile per lui e lo convince di non essere un fantasma: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani» (v. 25). Bastò sentire le parole di Gesù, per credere, come per Maria bastò sentirsi chiamare per nome da lui. Tommaso fa la più bella confessione di fede del quarto Vangelo. L’esperienza della risurrezione era indispensabile per la Chiesa. I futuri discepoli di Gesù avrebbero dovuto credere senza vedere, ma accettando la testimonianza degli apostoli, che invece hanno visto. Anch’essi però saranno beati. Sperimenteranno la gioia dell’incontro con il Cristo risorto.

     3) Conclusione (Gv 20,30-31)

Segni non sono solo i miracoli, ma tutto quello che Gesù ha fatto e insegnato. Chi vuole conoscere altri segni si legga i vangeli sinottici. Tutti i segni dicono che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio (v. 31). I lettori vengono invitati ad accogliere la testimonianza degli apostoli senza esigere di toccare con mano per credere. Ora per i cristiani la testimonianza apostolica è scritta, contenuta nel vangelo, ma è una testimonianza di qualcuno che ha visto.

 

Meditazione 

     In ciascuno dei tre anni del ciclo liturgico, nella seconda domenica di Pasqua viene proclamato il racconto giovanneo della duplice manifestazione del Risorto nel cenacolo: la prima, nella sera stessa della resurrezione, mentre Tommaso è assente; la seconda, otto giorni dopo, questa volta con Tommaso presente. È evidente la motivazione che sostiene questa scelta liturgica: siamo nell’ottavo giorno dalla domenica di Pasqua e ascoltiamo il racconto di quanto è avvenuto nella comunità apostolica a distanza di otto giorni. Vale tuttavia anche la considerazione inversa: non solo il tempo liturgico determina la scelta del testo evangelico, ma lo stesso racconto di Giovanni, nella sua scansione cronologica, è probabilmente determinato dalla scansione liturgica: il Risorto si rende presente nella comunità dei discepoli storici ‘otto giorni dopo’, così come la comunità dei discepoli di ogni generazione successiva si raduna ogni otto giorni per celebrare l’eucaristia nella memoria della Pasqua, e riconoscere in questo modo, nei segni sacramentali del pane e del vino e del suo stesso riunirsi, la presenza del Signore che fedelmente accompagna il cammino della Chiesa. La stessa figura di Tommaso, con il suo non esserci dapprima e il suo esserci dopo, mette ancora più in risalto questa fedeltà del Signore alla sua comunità. I discepoli possono essere presenti o assenti, la comunità può essere anche segnata dalle ferite di una mancanza; il Signore viene comunque e sta in mezzo ai suoi, donando la sua pace e il suo Spirito. Anche colui che inizialmente non c’era, e sembra chiudersi in un atteggiamento di incredulità, non rimane escluso dal desiderio che spinge il Risorto a riallacciare vincoli di comunione con i suoi, capaci di vincere non solo la separazione della morte, ma anche l’incredulità, o comunque la fatica del credere.

     Se il racconto del Vangelo di Giovanni ogni anno caratterizza questa seconda domenica di Pasqua, le altre due letture variano sempre. Nell’anno C ascoltiamo come seconda lettura un testo tratto dal primo capitolo dell’Apocalisse, che narra l’ultima manifestazione del Risorto consegnataci dal Nuovo Testamento, almeno nell’ordine canonico dei suoi libri. Il tempo, come accade nel Quarto Vangelo, è ancora liturgico. Infatti, il v. 10 ci ricorda che tutto quello che accade si colloca in un giorno preciso: «fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore». Questo è peraltro l’unico passo del Nuovo Testamento in cui questo giorno riceve già il suo nome cristiano: è il giorno del Signore, in dominica die nel latino della Vulgata, da cui il nostro termine ‘domenica’. Anche in questo caso, dunque, l’autore insiste nel ricordarci che l’incontro con il Risorto avviene di domenica, quando la comunità è convocata dalla memoria della Pasqua e la celebra facendo eucaristia. Il testo non si premura soltanto di precisare il tempo, ma anche il luogo in cui avviene l’incontro: l’isola di Patmos, che non è solo un luogo geografico, ma luogo simbolico dell’esilio, dove Giovanni si trova «a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (v. 9). È necessario considerare insieme queste due coordinate dell’esperienza: il luogo è quello della tribolazione, della prova nella fede, della persecuzione, ma già illuminato dal giorno del Signore, cioè dalla sua Pasqua.

     In questo luogo e in questo giorno Giovanni ha una visione: «fui preso dallo Spirito», racconta al v. 10. Tutto ciò che vede e scrive è dono dello Spirito, che diventa l’ambito in cui si muove e il respiro stesso della sua vita. Essere nello Spirito significa per Giovanni rileggere la propria esperienza, quella della sua comunità, nonché la storia più ampia del mondo, collocandosi dal punto di vista di Dio, secondo i suoi criteri e la sua logica, che rimane una logica pasquale. L’espressione – ‘rapito dallo Spirito’ – non vuole perciò indicare un’esperienza straordinaria che l’autore vive e che solo pochi altri possono sperimentare con lui. Allude al contrario a qualcosa di più ordinario, cui anche la nostra vita deve sentirsi chiamata: leggere la storia, ma nello Spirito di Dio, dunque con i suoi criteri di giudizio e di discernimento. Nello Spirito lo sguardo di Dio viene ad abitare e a trasformare il nostro stesso sguardo. Ci sono donati occhi nuovi, occhi ‘spirituali’, per giudicare il mondo così come lo giudica Dio stesso. Quella di Giovanni dovrebbe diventare l’esperienza che a nostra volta viviamo nel giorno del Signore: ogni volta che di domenica ci raduniamo per ascoltare la parola di Dio e condividere insieme il pane, la nostra vita dovrebbe aprirsi al dono dello Spirito e acquisire un modo diverso di stare nelle situazioni della storia personale e collettiva.

     C’è di conseguenza anche una conversione da vivere, che il racconto evidenzia con un linguaggio simbolico. «Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro» (vv. 12-13). Il verbo ‘voltarsi’ ricorre due volte, con enfasi. La visione sembra attraversare due distinte tappe: c’è una prima tappa, in cui Giovanni ode una voce che lo raggiunge da dietro; poi si volta e inizia una seconda tappa nella sua esperienza di Dio. Con questo linguaggio allusivo l’autore intende probabilmente evocare le due tappe della rivelazione di Dio: la prima, attraverso i profeti e le scritture del Primo Testamento, in cui si ascoltava Dio, ma ancora come ‘di spalle’; la seconda, quella definitiva, attraverso Gesù Cristo, che compie quanto era stato annunciato e preparato, e in cui possiamo udire Dio faccia a faccia. Il compimento della rivelazione tuttavia non avviene senza coinvolgere la libera risposta dell’uomo. Giovanni deve ‘voltarsi’ per avere la piena visione del Figlio dell’uomo; il verbo greco qui usato (epistréphein) è tipico per indicare la ‘conversione’ (et conversus sum, traduce la Vulgata). Soltanto dopo che si sarà voltato, e dunque convertito, solo dopo che avrà visto Gesù Cristo faccia a faccia, il senso delle Scritture diventerà chiaro per Giovanni. Conferma questa lettura l’uso di due verbi diversi per narrare il ‘vedere’ del profeta: nella visione ‘di spalle’ in greco ricorre blépo, che esprime la semplice percezione fisica (vv. 11.12); nella visione ‘di fronte’ c’è invece horáo, che esprime il vedere più profondo della fede (vv. 12.17). In questi versetti, dunque, l’Apocalisse descrive un duplice e corrispondente progresso: alla crescita oggettiva della rivelazione di Dio risponde la maturazione soggettiva e spirituale del credente, che può giungere a una comprensione piena delle Scritture, e del significato della storia che esse illuminano, a condizione di ‘voltarsi’, dunque convertirsi al Signore Gesù, che è l’oggetto fondamentale del suo vedere nella fede.

     È l’itinerario che anche Tommaso deve percorrere per passare dall’incredulità alla fede. La sua sarà una conversione piena, poiché la più alta professione di fede riportata dal vangelo di Giovanni l’ascoltiamo proprio dalle sue labbra: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Ed è anche esemplare il cammino che lo conduce alla fede: deve fissare lo sguardo sulle mani del Risorto trapassate dai chiodi, sul suo fianco aperto. Tommaso accoglie l’invito che l’evangelista rivolge a ogni lettore del suo racconto, quando concludendo la narrazione della morte di Gesù cita la Scrittura: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr. 19,37), testo che peraltro risuona anche nell’Apocalisse, pochi versetti prima di quelli che ascoltiamo in questa liturgia: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto» (Ap 1,7). Voltarsi verso Gesù per comprendere il suo mistero e la rivelazione che egli ci dona del Padre significa fare come Tommaso: voltare lo sguardo per contemplare i segni dell’amore crocifisso, che nell’acqua e nel sangue si effonde su di noi. Si è ‘presi dallo Spirito’, come accade al veggente dell’Apocalisse, quando comprendiamo che la rivelazione insuperabile di Dio, la sua parola definitiva, sgorgano proprio da quel costato trafitto, segno della vita di Dio che ci viene donata fino al compimento (cfr. Gv 13,1) perché possiamo anche noi divenire partecipi della vita eterna. Ogni paura è vinta: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap

1,18-19).

 

Preghiere e racconti 

Beati quelli che non hanno visto e credono

    Gesù entra a porte chiuse. Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta. […] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio. […] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo. Egli entra a porte chiuse. Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo. Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri di-scepoli. Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi. L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25). Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito. «I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice. Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.

    Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi. Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò. Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito. Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco. Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui. I vostri racconti esasperano la mia impazienza. La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento. Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce». Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo. Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa. Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione. Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso. «Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice. Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora. Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio. Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi. Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza. «Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente». Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto. Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29). Tommaso, porta la buona notizia della mia resurrezione a quelli che non hanno veduto. Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola. Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi. Annunciami: crederanno e mi adoreranno. Non esigeranno altre prove. Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede. In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».

(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).

L’ho cercato, ma non l’ho trovano        

    “Così dice la sposa: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato nel mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: avete visto l’amato del mio cuore? Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l’amato del mio cuore” (Ct 3,1-4).

 

    Mi colpisce anzitutto la duplice ripetizione: “L’ho cercato ma non l’ho trovato”. Che cosa concluderebbe l’animus, cioè quella parte di noi che è calcolatrice ed efficientista? Se non l’hai trovato, vuol dire che non è per te, che forse è troppo alto, che non sei fatto per lui, che sei sulla strada sbagliata.

    Invece l’anima, più profonda, intuisce.

    Ricordo il titolo di un libro scritto da un ateo, che riporta le parole del Cantico, in latino: “Quaesivi et non inveni”. E l’autore racconta la sua ricerca di Dio affermando di non essere riuscito razionalmente a trovarlo.

    Si è evidentemente fermano all’animus, lo ha cercato attraverso i ragionamenti esteriori e, a un certo punto, si è stancato. La personalità completa è quella che dice: “L’ho cercato e, dal momento che non l’ho trovato, lo cerco ancora di più, lo cerco con maggiore amore”.

    Non l’ho trovato vicino a me, e allora: “Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore” (Ct 3,2). Qui leggiamo l’estasi interiore, la presenza già nascosta di Dio che opera.

    Questo è importante per capire a fondo noi stessi. In noi c’è un dinamismo della ricerca di Dio, che opera anche quando non lo troviamo, e opera di più. Se diamo voce a tale dinamismo, che è già la grazia dello Spirito santo, il dito dello Spirito santo che scrive la lettera di Dio in noi, noi entriamo nella totalità della nostra persona, che è ricerca razionale e logica, ma poi ricerca affettiva, amorosa. Ed entriamo anche a conoscere meglio il mistero di Dio che è amore. Amore non significa soltanto efficienza, produzione di beni in serie; amore è libertà di Dio, capacità di amare ciascuno in modo diverso, gusto di nascondersi per farsi trovare. Quando arriviamo a comprendere qualcosa di questo mistero di Dio che è Trinità di amore, gioco di amore perenne in sé, che è dono, non ci stupiamo più scoprendo che Dio talora si nasconde a noi per acuire nel nostro cuore il desiderio di cercarlo e per darci la gioia di ritrovarlo.

    Dio è vitalità infinita, inventività continua nell’amore, libertà assoluta.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 52-53).

Mio Signore e mio Dio!

Tommaso, uno dei discepoli, non era forse un uomo, uno come tanti? Gli altri discepoli gli dicevano: Abbiamo visto il Signore, ma lui ribatteva: Se non lo toccherò, se non metterò il dito nel suo fianco, non crederò (Gv 20,25). Te lo annunziano dei messaggeri dell’evangelo e tu non credi? A loro ha creduto il mondo e il discepolo non crede. Di loro è stato detto: II loro messaggio si è diffuso su tutta la terra e le loro parole fino ai confini del mondo [Sal 18 (19),5]. Dalla loro bocca escono parole che giungono fino ai confini del mondo e tutto il mondo crede; tutti insieme annunciano la buona notizia a uno solo e questi non crede. Non era ancora il giorno fatto dal Signore [Sal 117 (118),24]; le tenebre erano ancora sull’abisso; nelle profondità del cuore umano c’erano le tenebre. Ma venga lui, il capo di quel giorno e gli dica con pazienza e mitezza, non con ira, perché egli è medico: «Vieni, vieni, tocca, e credi. Tu hai detto: Se non toccherò, se non metterò il mio dito, non crederò. Vieni, tocca, metti il dito. E non essere incredulo, ma credente. Vieni, metti il dito. Conoscevo le tue ferite; per te ho conservato la mia cicatrice». E Tommaso mettendo la mano raggiunse la pienezza della fede. E qual è questa pienezza? Che Cristo non venga creduto soltanto uomo, né soltanto Dio, ma uomo e Dio. Questa è la pienezza della fede, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi (Gv 1,14). E quel discepolo, dopo che gli furono presentate le cicatrici e le membra del suo Salvatore perché le toccasse, non appena le ebbe toccate, esclamò: Mio Signore e mio Dio (Gv 20,28). Toccò l’umanità, riconobbe la divinità; toccò la carne, volse gli occhi al Verbo, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi. Il Verbo ha sopportato che la sua carne fosse appesa al legno, che fosse fissata coi chiodi, che venisse trafitta dalla lancia, che fosse deposta nel sepolcro. Lo stesso Verbo risuscitò la sua carne, la presentò agli occhi dei discepoli perché la vedessero, la fece toccare con mani. Toccano ed esclamano: Mio Signore e mio Dio!

(AGOSTINO, Discorsi 258, 3, in Opere di sant’Agostino 32/2, pp. 826-828).

L’inquietudine della notte della fede

      Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’au­rora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’in­quietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così an­che noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tut­to quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.

    Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che vie­ne incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.

      Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dal­la fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contrad­dirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciar­si afferrare e toccare da noi. Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chie­sa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre doman­de non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66)

Il dubbio che porta al tramonto

Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione. Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.

Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa. Ben presto fu buio.

La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicchè non si poteva vedere assolutamente nulla. Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.

Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa. Nella caduta, l’alpinista poteva  appena vedere  delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità. Continuava a cadere…e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.

Rifletteva, ormai vicino alla morte. D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.

In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare:

”Dio mio, aiutami!”

Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò:

”Cosa vuoi che io faccia?”

“Mio Dio, salvami!”

“Credi realmente che io possa salvarti?”

“Sì, mio Signore. Lo credo”

Allora, recidi la corda che ti sostiene!”

Ci fu un momento di silenzio;

poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.

 

Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che  l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda…  A soli due metri dal suolo…

Tu sai Tommaso…

Pure per noi sia Pasqua, Signore:

vieni ed entra nei nostri cenacoli,

abbiamo tutti e di tutto paura,

paura di credere, paura a non credere…

 

Paura di essere liberi e grandi!

Vieni ed abbatti le porte dei cuori,

le diffidenze, i molti sospetti:

tutti cintati in antichi steccati!

 

Entra e ripeti ancora il saluto:

«Pace a tutti», perché sei risorto;

e più nessuno ti fermi: tu libero

di apparire a chi vuoi e ti crede!

 

Torna e alita ancora il tuo spirito

come il Padre alitò su Adamo:

e dal peccato sia sciolta la terra,

che tutti vedono in noi il Risorto.

 

Credere senza l’orgoglio di credere,

credere senza vedere e toccare!…

Tu sai, Tommaso, il dramma degli atei,

tu il più difficile a dirsi beato!

(D. M. Turoldo)

Ma io credo!

Signore, non ho visto,

come Pietro e Giovanni,

le bende per terra e il sudario

che ricopriva il tuo volto,

ma io credo!

Non ho visto la tua tomba vuota,

ma io credo!

Non ho messo, come Tommaso,

le mie dita nel posto dei chiodi,

né la mia mano nel tuo costato,

ma io credo!

Non ho condiviso il pane con te

nel villaggio di Emmaus,

ma io credo!

Non ho partecipato alla pesca miracolosa

sul lago di Tiberiade,

ma io credo!

Sono contento, Signore,

di non avere visto,

perché io credo!

(Credo Signore! Professioni di fede per ragazzi e giovani, Leumann, Elle Di Ci, 2001, 52).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009

L’educazione come costruzione di percorsi concreti alle comunità

Riproponiamo i concetti della suggestiva presentazione del libro di G. Morante “Itinerari per l’educazione ala vita di fede” a cura di D. Guido Benzi.

Il concetto di “itinerario” ha decisamente un gusto biblico, leggiamo infatti in Deuteronomio 8,2-5: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi  ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo mantello non ti siè logorato addosso e il tuo piede si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te”.

Questo passo dell’Antico Testamento mostra come la dimensione della fede sia un ripercorrere costantemente il rapporto, la relazione con Dio dispiegata nel tempo e segnata nell’esperienza, fino a riconoscere che “nella pienezza del tempo ” (Gal 4,4) Dio stesso ha voluto, in Gesù Cristo, con un Corpo entrare nella vicenda umana, farsi esperienza, compiere un itinerario.

Quest’ultima fatica di don Giuseppe Morante, figlio di Don Bosco, professore emerito dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, stimato e conosciuto catecheta a livello internazionale, è proprio dedicata al concetto di itinerario in chiave pedagogico-pastorale, nonchè catechistico. Lo sfondo sul quale si colloca è chiaramente quello del decennio educativo che i Vescovi italiani hanno indicato negli Orientamenti Pastorali Educare alla vita buona del Vangelo.
Al n.26 di tale documento si legge infatti come il concetto di “itinerario” appartenga alla dimensione educativa: “Cristiani si diventa, non si nasce”. Questo notissimo detto di Tertulliano sottolinea la necessità della dimensione propriamente educativa nella vita cristiana. Si tratta di un itinerario condiviso, in cui educatori ed educandi intrecciano un’esperienza umana e spirituale profonda e coinvolgente. Educare richiede un impegno nel tempo, che non può ridursi a interventi puramenti funzionali e frammentari; esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, che sono protagonisti della relazione educativa, prendono posizione e mettono in gioco la propria libertà. Essa si forma, cresce e matura solo nell’incontro con un’altra libertà; si verifica solo nelle relazioni personali e trova il suo fine adeguato nella loro maturazione”.

 Se, come mostra ampiamente don Morante nel primo capitolo del Libro, il tema dell’itinerario di fede ha avuto sempre un posto speciale nella riflessione pastorale delle chiese che sono in Italia, è stato tuttavia (come ricordato al n. 3 di Educare alla vita buona del Vangelo) con il Convegno di verona del 2006 che il concetto di tinerario ha avuto un grande risalto, laddove è emersa la scelta di disporre la pastorale in relazione alle dimensioni di vita della persona: “sono state focalizzate alcune scelte di fondo: il primato di Dio nella vita e nell’azione delle nostre Chiese, la testimonianza quale forma dell’esistenza cristiana e l’impegno in una pastorale che, convergendo sulll’unità della persona,
sia in grado di “rinnovarsi nel segno della speranza integrale, dell’attenzione alla vita, dell’unità tra le diverse vocazioni, le molteplici soggettività ecclesiali, le dimensioni fondamentali dell’esperienza cristiana. Al tempo stesso ha incontrato un consenso crescente l’opzione di declinare la testimonianza nel mondo secondo gli ambiti fondamentali dell’esistenza umana, cercando nelle esperienze quotidiane l’alfabeto per comporre le parole con le quali ripresentare al mondo l’amore infinito di Dio.

In tal modo si è fatta strada la consapevolezza che è proprio l’educazione la sfida che ci attende nei prossimi anni: “ci è chiesto un investimento educativo capace di rinnovare gli itinerari formativi, per renderli più adatti al tempo presente e significativi per la vita delle persone, con una nuova attenzione per gli adulti.
Il Santo Padre ci incoraggia in questa direzione, mettendo in evidenza l’urgenza di dedicarsi alla formazione delle nuove generazioni. Egli riconosce che l’educare, se mai staro facile, oggi assume caratteristiche più ardue; siamo di fronte a “una grande emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare ersone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita”.

Il tema degli itinerari è dunque un tema che interroga la formazione cristiana degli adulti e dei giovani come la catechesi dell’iniziazione cristiana dei piccoli, la pastorale prima ancora della catechesi, con la quale, tuttavia, Morante dialoga attentamente fino a mostrare come gli stessi Catechismi CEI suppongano una forte dimensione educativa che si dispiega – appunto – attraverso la capacità di suggerire percorsi concreti alla comunità.
Il testo, poi, con maestria, aiuta a collocarsi in questa mentalità e a sviluppare itinerari attenti alla dimensione sociale. Non mancano riferimenti alla formazione dei catechisti e all’inclusione delle persone disabili, due tematiche alle quali Morante ha dedicato – e con passione – molto del suo insegnamento.

A lui va la gratitudine per questo testo e per il suo impegno nella catechesi, a noi il prezioso percorso segnato da un libro che tanto può suggerire nei cammini operativi degli Uffici Catechistici diocesani e delle Parrocchie.
 
D. Guido Benzi,
Direttore Ufficio Catechistico Nazionale – CEI
 

Gli itinerari per l’educazione alla vita di fede

In ogni stadio della vita cristiana i battezzati hanno bisogno di una proposta adeguata alla loro vita spirituale, con una riflessione specifica che sostenga la fede nell’esperienza storica. 

Questo sussidio offre criteri, indicazioni, metodologie perchè i responsabili della comunità cristiana (diocesana e parrocchiale) possano avere degli aiuti teorico-pratici per orientare adeguatamente fanciulli, ragazzi, adolescenti, giovani, adulti… fino al raggiungimento di una personale maturità di fede. 
 
Il progetto catechetistico italiano ha affermato l’urgenza di itinerari, per facilitare la risposta umana al dono di Dio della fede.
Le indicazioni relative alla formazione dei catechisti per l’iniziazione cristiana dei fanciullie dei ragazzi infatti precisano: 
“La pastorale dell’iniziazione cristiana vive un tempo di cambiamento, da cui emerge l’urgenza di ricercare percorsi praticabili e rispondenti al cambiamento culturale”.
 
Sia il progetto catechistico italiano sia i catechismi che ne sono derivati offrono dei criteri ricavati dalle scienze dell’educazione. Si tratta infatti di ridire il Vangelo secondo le categorie dell’uomo contemporaneo, tenendo presente la perdita dell’identità cristiana nel nostro paese in questi ultimi decenni. Si tratta di recuperare questa identità, riproponendo la trasmissione della fede in modo chiaro, preciso e coinvolgente.
 

Gli itinerari di educazione alla fede, coordinate generali

Presentazione del libro

Il concetto di “itinerario” ha decisamente un gusto biblico, leggiamo infatti in Deuteronomio 8,2-5: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi  ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo mantello non ti siè logorato addosso e il tuo piede si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te”.

Questo passo dell’Antico Testamento mostra come la dimensione della fede sia un ripercorrere costantemente il rapporto, la relazione con Dio dispiegata nel tempo e segnata nell’esperienza, fino a riconoscere che “nella pienezza del tempo ” (Gal 4,4) Dio stesso ha voluto, in Gesù Cristo, con un Corpo entrare nella vicenda umana, farsi esperienza, compiere un itinerario.

Quest’ultima fatica di don Giuseppe Morante, figlio di Don Bosco, professore emerito dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, stimato e conosciuto catecheta a livello internazionale, è proprio dedicata al concetto di itinerario in chiave pedagogico-pastorale, nonchè catechistico. Lo sfondo sul quale si colloca è chiaramente quello del decennio educativo che i Vescovi italiani hanno indicato negli Orientamenti Pastorali Educare alla vita buona del Vangelo.
Al n.26 di tale documento si legge infatti come il concetto di “itinerario” appartenga alla dimensione educativa: “Cristiani si diventa, non si nasce”. Questo notissimo detto di Tertulliano sottolinea la necessità della dimensione propriamente educativa nella vita cristiana. Si tratta di un itinerario condiviso, in cui educatori ed educandi intrecciano un’esperienza umana e spirituale profonda e coinvolgente. Educare richiede un impegno nel tempo, che non può ridursi a interventi puramenti funzionali e frammentari; esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, che sono protagonisti della relazione educativa, prendono posizione e mettono in gioco la propria libertà. Essa si forma, cresce e matura solo nell’incontro con un’altra libertà; si verifica solo nelle relazioni personali e trova il suo fine adeguato nella loro maturazione”.

 Se, come mostra ampiamente don Morante nel primo capitolo del Libro, il tema dell’itinerario di fede ha avuto sempre un posto speciale nella riflessione pastorale delle chiese che sono in Italia, è stato tuttavia (come ricordato al n. 3 di Educare alla vita buona del Vangelo) con il Convegno di verona del 2006 che il concetto di tinerario ha avuto un grande risalto, laddove è emersa la scelta di disporre la pastorale in relazione alle dimensioni di vita della persona: “sono state focalizzate alcune scelte di fondo: il primato di Dio nella vita e nell’azione delle nostre Chiese, la testimonianza quale forma dell’esistenza cristiana e l’impegno in una pastorale che, convergendo sulll’unità della persona,
sia in grado di “rinnovarsi nel segno della speranza integrale, dell’attenzione alla vita, dell’unità tra le diverse vocazioni, le molteplici soggettività ecclesiali, le dimensioni fondamentali dell’esperienza cristiana. Al tempo stesso ha incontrato un consenso crescente l’opzione di declinare la testimonianza nel mondo secondo gli ambiti fondamentali dell’esistenza umana, cercando nelle esperienze quotidiane l’alfabeto per comporre le parole con le quali ripresentare al mondo l’amore infinito di Dio.

In tal modo si è fatta strada la consapevolezza che è proprio l’educazione la sfida che ci attende nei prossimi anni: “ci è chiesto un investimento educativo capace di rinnovare gli itinerari formativi, per renderli più adatti al tempo presente e significativi per la vita delle persone, con una nuova attenzione per gli adulti.
Il Santo Padre ci incoraggia in questa direzione, mettendo in evidenza l’urgenza di dedicarsi alla formazione delle nuove generazioni. Egli riconosce che l’educare, se mai staro facile, oggi assume caratteristiche più ardue; siamo di fronte a “una grande emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare ersone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita”.

Il tema degli itinerari è dunque un tema che interroga la formazione cristiana degli adulti e dei giovani come la catechesi dell’iniziazione cristiana dei piccoli, la pastorale prima ancora della catechesi, con la quale, tuttavia, Morante dialoga attentamente fino a mostrare come gli stessi Catechismi CEI suppongano una forte dimensione educativa che si dispiega – appunto – attraverso la capacità di suggerire percorsi concreti alla comunità.
Il testo, poi, con maestria, aiuta a collocarsi in questa mentalità e a sviluppare itinerari attenti alla dimensione sociale. Non mancano riferimenti alla formazione dei catechisti e all’inclusione delle persone disabili, due tematiche alle quali Morante ha dedicato – e con passione – molto del suo insegnamento.

A lui va la gratitudine per questo testo e per il suo impegno nella catechesi, a noi il prezioso percorso segnato da un libro che tanto può suggerire nei cammini operativi degli Uffici Catechistici diocesani e delle Parrocchie.
 
D. Guido Benzi,
Direttore Ufficio Catechistico Nazionale – CEI
 
 
 

L’amore inatteso

Dal 21 marzo è nelle sale il film “L’amore inatteso” di A. Giafferi, ottimamente giudicato dalla critica nelle anteprime di Roma e Milano, . La pellicola, arrivata in Italia grazie all’impegno di Microcinema, dell’ACEC, di TV2000 e dell’Ufficio Comunicazioni Sociali, è distribuita da Microcinema in collaborazione con ACEC. Il film è tratto dal best seller francese “Catholique Anonyme” di Thierry Bizot

 
La trama
Antoine è un brillante quarantenne. Sposato con Claire, padre di due figli, conduce una vita agiata in una Parigi illuminista e intellettuale. In seguito ad un colloquio con l’insegnante del figlio Arthur, Antoine inizia a frequentare, senza alcuna convinzione, la catechesi di una parrocchia. Poco alla volta quegli incontri, dopo la derisione e lo scetticismo iniziale, per Antoine diventano indispensabili per raggiungere un nuovo equilibrio e una nuova serenità.
 
Il percorso intrapreso modifica le relazioni con i suoi familiari e amici: in un ambiente in cui il tema religioso non è argomento di discussione, affrontarlo significa sottoporsi a un misto di commiserazione divertita e critica feroce.
Antoine si ritrova così a partecipare segretamente agli incontri bisettimanali di catechesi, sotto lo sguardo attonito e sospettoso della moglie Claire. L’unica a non giudicarlo sembra essere sua sorella Hortense, anima sensibile alle prese con le sue difficoltà personali, soprattutto affettive.
Nonostante la comune disapprovazione, Antoine continua senza enfasi e senza aspettative il suo percorso e così trova un amore inatteso: Dio. Trova la fede e ritrova se stesso in un semplice abbraccio con il figlio, riuscendo nel tempo anche a ricostruire i rapporti difficili con il padre e il fratello Alain.
Interpretato da Eric Caravaca, Arly Jover, Valérie Bonneton, Jean-Luc Bideau e Benjamin Biolay, il film tratta il tema della riscoperta delle fede attraverso la riscoperta di se stessi, ma lo fa con umorismo, senza cadere nel proselitismo. Un film sulla sorpresa di trovare un grande amore, che gioca e ride dei cliché e dei pregiudizi della Chiesa Cattolica, ma gioca e ride anche dei pregiudizi sulla Chiesa e sulla religione.
 
 
SCHEDA DEL FILM: L’AMORE INATTESO
 
(Qui a envie d’étre aimé ?)
Genere:Commedia
Regia: Anne Giafferi
Interpreti: Eric Caravaca (Antoine), Arly Jover (Claire), Valérie Bonneton (Hortense), Jean Luc Bideau (padre di Antoine), Benjamin Biolay (Alain), Philippe Duquesne (sacerdote), Quentin Grosset (Arthur)Arauna Bernheim Dennery (Emile), Agnès Sourdillon (Solange).
Nazionalità: Francia
Distribuzione: Microcinema
Anno di uscita: 2013
Origine: Francia (2011) 

Soggetto: tratto dal romanzo “Catholique Anonyme” di Thierry Bizot 

Sceneggiatura: Anne Giafferi 

Fotografia (Panoramica/a colori): Jean Francois Hansgens 

Musiche: Jean Michel Bernard 

Montagg.: Christophe Pinel 

Durata: 89′ 

Produzione: Guillaume Renouil, Thierry Bizot, Emmanuel Chain.

Giudizio: Consigliabile/problematico/dibattiti *
Tematiche: Bibbia; Famiglia – genitori figli; Libertà; Matrimonio – coppia; Scuola; Tematiche religiose;  
 
Soggetto: A Parigi, oggi. Antoine è un avvocato quarantenne di successo: una carriera brillante, una bella famiglia, con la moglie medico e due figli nel momento della crescita. Per un normale incontro informativo, Antoine va al colloquio con un insegnante del figlio. Nei giorni successivi il professore fa recapitare ad Antoine un invito. “Per educazione e curiosità intellettuale” più che per vero interesse, l’uomo va la sera in un locale parrocchiale dove vede riunite alcune persone. Un sacerdote, una comunità nemmeno troppo vivace, domande e risposte con toni bassi e quasi timidi. In quell’atmosfera qualcosa lo conquista. La lettura della Bibbia, i racconti di vita, le esperienze vissute fanno affiorare in lui alcune domande di cui non sospettava l’esistenza. I rapporti in famiglia cambiano, le sue assenze serali non sono ben viste dalla moglie che pensa a qualche tradimento. Antoine poi deve fronteggiare situazioni difficili sia con il fratello scapestrato sia con il padre che gli perdona tutto. Ma il nuovo cammino è ormai intrapreso, e Antoine ha la serietà di seguirne le suggestioni interiori senza togliere spazi alla moglie nè alla famiglia.
Valutazione Pastorale: All’origine c’è un romanzo autobiografico, “Catholique anonime”, pubblicato nel 2008 e scritto da Thierry Bizot, nella vita marito della Giafferi, attivo in ambito televisivo come produttore e sceneggiatore. Nello stesso settore si muove anche la moglie, autrice di copioni e regista di alcune serie e fiction, qui all’esordio sul grande schermo. L’esperienza descritta da Bizot (e dal copione) è certamente significativa. Si basa infatti sul fenomeno dei cosiddetti ‘ricomincianti’, che Enzo Bianchi definisce come “adulti già battezzati, quindi non catecumeni, che ritrovano il cammino di fede in occasione di un evento personale o familiare”. Quando entra per caso nella comunità, Antoine si tiene in disparte, alla fine della catechesi si sente uno di loro e nel finale può dire alla moglie: “Forse andrò a messa la domenica…”, sentendosi rispondere “Ci andrai senza di me, lo sai”. Scambio di battute nitido e rispettoso: la Francia laica non cede terreno ma lascia il giusto spazio a chi ritiene possibile un cammino differente, un modo di vedere la quotidianità con uno sguardo interiore, spirituale. Partendo da una base realistica, Giafferi ha il pregio di affidarsi ad una regia lineare e senza scosse, di toccare spigolosità e pudore con sfumature da favola: quasi a raccontare non quello che succede ma quello che vorremmo succedesse. Con una sincerità che sfiora la verità della Fede. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e molto utile per dibattiti. 
 
Utilizzazione: il film è da utilizzare in programmazione ordinaria e in frequenti occasioni successive a vari livelli di coinvolgimento: in famiglia e in ambito didattico. Preziosa opportunità per riflettere sul nostro definirci credenti in modo autentico, magari inattuale e perciò aderente allo ‘scandalo’ del Vangelo. 

Vocazione e formazione: dono e compito

Così come si celebra la Pasqua, il Rettor Maggiore ha dato alla Congregazione una nuova lettera circolare. “Vocazione e formazione: dono e compito”. Essa mira ad illustrare la bellezza e le esigenze della vocazione salesiana e la formazione, e al tempo stesso mostrano la situazione attuale di incoerenza professionale. La lettera si articola in due parti fondamentali.

Coerenza e fedeltà professionale
Il Rettor Maggiore sottolinea la necessità di aiutare i giovani confratelli ottenere coerenza professionale, e aiutare coloro che hanno già fatto una scelta definitiva per vivere la loro vocazione con fedeltà. La debolezza della vocazione è particolarmente evidente nelle statistiche che il Rettor Maggiore vuole far conoscere a tutta la Congregazione così le persone possono essere consapevoli dei problemi e poi aiutare assumendo responsabilità.

Ci sono due aspetti complementari noti, le cause di base di una mancanza di coerenza e di fedeltà:

  • un’idea sbagliata di vocazione, questo è a volte identificato con un progetto personale motivato dal bisogno di auto-realizzazione. Spesso ci sono motivazioni deboli o insufficienti per iniziare il viaggio nella vita consacrata salesiana, e talvolta una mancanza di consapevolezza cosciente, se le motivazioni sono ignorati, fragilità o infedeltà hanno maggiori probabilità di provocare.
  • La cultura in cui viviamo presenta opportunità ma anche rischi. La comprensione antropologica è una risorsa, ma anche una sfida per il cammino vocazionale. C’è bisogno di autenticità, il senso di libertà, storia, ricerca costante di esperienze, l’apprezzamento delle relazioni e dell’affettività, difficoltà di rinunciare a cose e rimanendo fedele – tutto questo in un contesto postmoderno e multiculturale. Questi aspetti antropologici, mentre impegnativo sono essenziali per una vita consacrata che vuole essere pienamente umana e quindi credibile.

vocazione e formazione
La vocazione è la base per il cammino di formazione e di formazione è lì per servire il pieno sviluppo della vocazione. Sono insieme un dono e un compito.

La vita di ogni individuo è una vocazione, quindi la vita è una risposta alla chiamata di Dio. La vocazione non è principalmente un progetto umano, ma il piano di Dio per ognuno di essi: si tratta di un piano per riconoscere, accettare e vivere. La scoperta della propria vocazione è alle origini di realizzare le nostre vite individuali, ci vuole una vita per vivere una vocazione. E ‘una chiamata a una missione affidata da Dio, non c’è vocazione senza missione. Questo è il motivo per missione, con vocazione, dà forma e contenuto alla formazione.

La formazione è un costante processo di identificazione con la vocazione ricevuta. È per questo che la lettera presenta l’identità della vocazione consacrata salesiana e la sua formazione si avvicina per garantire il processo di identificazione. L’acquisizione di identità è l’obiettivo della formazione.

Don Chávez ha ancora una volta propone, come obiettivi, gli elementi fondamentali della identità vocazionale salesiana: inviati ai giovani (configurazione a Cristo Buon Pastore), fratelli in una sola missione (vita comune come luogo e oggetto di formazione); consacrata da Dio (testimoniare la radicalità del Vangelo), la condivisione della vita e della missione (animazione di comunità apostoliche nello spirito di Don Bosco), nel cuore della Chiesa (costruirlo in su), l’apertura a circostanze reali per realizzare il carisma .

Per essere certi di acquisire identità e favorire il processo di identità vocazionale, il Rettor Maggiore ci ricorda che il “Rapporto” offre approcci specifici che abbiamo bisogno di adottare con maggiore consapevolezza e impegno. Si tratta di un caso di raggiungimento nelle profondità della persona, animando una esperienza, l’unità di formazione, garantendo un clima di formazione e di condivisione delle responsabilità di tutti, dando la formazione di qualità per esperienza quotidiana, qualifica il nostro accompagnamento, con particolare attenzione al discernimento.

Alla fine della lettera del Rettor Maggiore lancia un appello che la formazione, iniziale e permanente, essere una “priorità assolutamente vitale nella Congregazione” e si rivolge a Maria chiedendole di accompagnarci come ha fatto fin dall’inizio e nel corso della storia salesiana.

Lettera del Rettor Maggiore, no. 416, è, a parte il commento 2014 Strenna a venire, l’ultima lettera tematica nel mandato Don Chávez ‘.

Visualizza il testo completo:

LETTERE DEL RETTOR MAGGIORE – ACG 416

Pubblicato il 29/03/2013

«Cristo, mia speranza, è risorto» BUONA PASQUA!!!

Giunga a te e ai tuoi cari
la voce esultante della Chiesa,
con le parole che l’antico inno
pone sulle labbra di Maria Maddalena,
la prima ad incontrare Gesù risorto
il mattino di Pasqua.
Ella corse dagli altri discepoli e,
col cuore in gola,
annunciò loro:
“Ho visto il Signore!” (Gv 20,18).
 
BUONA PASQUA DI RISURREZIONE!
ISTITUTO DI CATECHETICA

PASQUA DI RISURREZIONE

Prima lettura: Atti 10,34a.37-43

In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.  E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.

     E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».

 

 

Il discorso in casa di Cornelio è l’ultimo dei discorsi cristologici di Pietro nel libro degli Atti (cf. 2,12-36; 3.11-26; 4,8-22).

     La catechesi su Gesù è ancora sulle sue linee essenziali: «consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret», cioè investito dello Spirito di Dio (battesimo) e insignito di particolari poteri taumaturgici Gesù si era presentato a Israele. Partendo dalla Galilea aveva percorso «tutta la Giudea».

     L’opera di Gesù è riassunta da pochi verbi; qualcuno di meno di quelli di Mt 4,23: «passò» per le contrade della Palestina, «beneficando» e «risanando» gli uomini dalle possessioni diaboliche ovvero dalle loro malattie. Sono omessi i due verbi di Matteo «predicava» e «insegnava nelle loro sinagoghe».

     Ma il suo agire dimostrava che «Dio era con lui», in altre parole era l’«Emmanuele» predetto dal profeta Isaia (7,14), traduceva con i fatti la bontà di Dio in mezzo agli uomini.

     Gesù ha svolto la sua missione davanti a tutto il popolo poiché davanti a tutti ha parlato e compiuto i suoi prodigi, ma per quanto riguarda il prodigio conclusivo e dimostrativo della sua missione, la risurrezione dai morti, ha voluto un gruppo scelto di testimoni con i quali si è a lungo trattenuto, dando sufficienti prove della realtà del suo nuovo stato di vita.

     Gli apostoli sono quelli che possono attestare la sopravvivenza di Gesù dopo che i nemici l’avevano messo in croce. Essi l’hanno visto prima di morire e l’hanno rivisto vivo dopo la morte; possono perciò assicurare che è risorto, che non è rimasto nella tomba.

     La sorte di Gesù si è rovesciata; egli è stato giudicato e condannato, ma dalla risurrezione è diventato lui il giudice di tutti, di quanti sono attualmente vivi e di quelli che sono già morti. Tutti si sono confrontati o saranno chiamati a confrontarsi con lui per ricevere il premio o la condanna delle loro buone o cattive azioni. Se si vuole evitare un incontro spiacevole con lui occorre credere, cioè ripercorrere la strada che egli ha percorso.

     Pietro sta parlando in casa di Cornelio, un ufficiale romano, e ad ascoltarlo sono i suoi familiari, alcuni «congiunti e amici intimi» (10,14), tutta gente che non faceva parte del popolo della promessa, quindi della salvezza, ma si trattava di una discriminazione che con Gesù era destinata a cadere.

     L’apostolo l’aveva già intravisto nella visione avuta a Joppe (10,9-15) e compreso meglio dal racconto di Cornelio (10,30-35); ora ne ha una conferma dal cielo mentre gli è dato costatare che lo Spirito di Dio sta discendendo su coloro che l’ascoltavano, per la maggior parte incirconcisi.

     Era la Pentecoste dei gentili che richiamava quella sui rappresentanti d’Israele che era già avvenuta (At 2,1-12).

 

Seconda lettura: Colossesi 3,1-4

 Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.

 

La comunità di Colossi è alle prese con i primi confronti o le prime contaminazioni con la cultura del mondo circostante, giudaico e greco.

     I giudei dell’Asia minore, alla pari dei greci, parlano di potenze cosmiche intermedie tra Dio e gli uomini, di signorie, potestà, dominazioni. Per l’autore esse possono rimanere solo che siano subordinate all’unico Signore, Cristo (1,15-20; 2,9-15).

     Gesù ha affrancato l’uomo da qualsiasi giogo, come lo ha reso libero da rituali inutili, da «feste, noviluni, sabati», «cibi e bevande» (2,8,16-17).

     Il cristiano è chiamato a ripercorrere il cammino di Cristo, un’esperienza di morte e di vita, di mortificazione e di risurrezione. Si tratta di morire agli «elementi di questo mondo», di finire con tutte quelle pratiche, astinenze imposte in nome di un’«affettata», falsa «religiosità, umiltà e austerità riguardo al corpo» (2,23).

     Il cristiano è un uomo nuovo e il suo mondo non è tanto di quaggiù, quanto del cielo, di lassù. Nel battesimo egli è disceso nel fonte e risalendo ha lasciato nell’acqua la sua vecchia appartenenza con tutte le sue inclinazioni peccaminose e ha assunto l’immagine del Cristo glorioso.

     Egli vive ancora sulla terra ma è un essere di un altro mondo, per questo deve assumere comportamenti degni della sua nuova condizione. Occorre «cercare» e «pensare alle cose di lassù», ciò che è consono con il mondo e il modo di vivere del Cristo risorto.

     L’autore non specifica quali sono le cose di lassù e quali quelle della terra, ma lo dice subito dopo quando chiede di «mortificare quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi» che designa con il termine «vizi». E aggiunge: «Voi deponeste tutte queste cose, ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene» (3,5-8). Tutte azioni che appartenevano, è detto sinteticamente, all’«uomo vecchio» in contrapposizione al l’«uomo nuovo che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore» (3,9-10).

     I comportamenti dell’uomo nuovo che si avvicina a quello celeste sono invece caratterizzati da «sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Al di sopra di tutto vi è poi la carità che è il vincolo di perfezione» (3,12-14).

     La vita cristiana è sempre un preludio di quella celeste che è segnata dal Cristo glorificato. Allora verrà sublimata anche quella di coloro che credono in lui.

     La vita terrestre si spiega solo alla luce della sua apoteosi celeste.

 

Vangelo: Giovanni 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.  Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.  Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.  Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

Esegesi 

     Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna particolare: Maria di Magdala. Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato trafugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.

     Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane. Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia. Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte. Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni. Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).

     «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8). Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore. Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche. Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le persone in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa. Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto. Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).

Meditazione

La scoperta del sepolcro vuoto il primo giorno dopo il sabato nel van­gelo di Giovanni, che troviamo come brano evangelico nella celebra­zione del giorno di Pasqua, non va letta come una cronaca di ciò che avvenne il giorno della risurrezione del Signore, bensì come un itine­rario di fede verso l’incontro con lui che i discepoli di ogni tempo possono e devono vivere. Il tema dominante nel brano giovanneo non è la dimostrazione della veridicità storica della risurrezione, ma lo sguardo della fede che arriva a riconoscere la centralità per la vita della Chiesa della vita nuova sbocciata nel giardino il primo giorno dopo il sabato. Protagonisti di questo itinerario di fede sono Maria Maddalena, la prima testimone della tomba vuota, Pietro e il discepolo che Gesù amava.

Il brano degli Atti degli Apostoli (prima lettura) riporta il quinto discorso di Pietro, che lega gli eventi pasquali all’intera esistenza di Gesù a partire dal battesimo predicato da Giovanni. I discepoli che hanno vissuto con Gesù non sono solo testimoni della sua risurrezio­ne, ma della sua intera esistenza. In questo modo viene sottolineato come tutta la vita di Gesù è stata segnata dalla logica pasquale del dono di sé.

Nella Lettera ai Colossesi (seconda lettura) si proclama che la risur­rezione del Signore è ormai un fatto che riguarda la vita di tutti i cre­denti, che sono «risorti con Cristo» (Col 3,1). Questa realtà illumina di luce nuova la loro esistenza e deve segnare concretamente la loro vita.

Quando era ancora buio

Il primo tratto dell’itinerario di fede che il brano evangelico vuole farci compiere è affidato alla figura di Maria Maddalena. Essa si reca al sepolcro spinta dal legame che aveva con il Maestro defunto. È ancora buio e siamo nel primo giorno della settimana, che nella Scrittura è anche il primo giorno della creazione. Nel testo troviamo il verbo vede­re (blepo), che nel vangelo di Giovanni appartiene al vocabolario della fede. Questo sguardo di Maria, avvolto dal buio esteriore e interiore nel quale essa si trova, è un ,modo di guardare che sta ancora all’inizio del cammino di fede. È ancora segnato da «una visione materiale, una visione che non comprende» (Bruno Maggioni). Il cammino di fede consiste nel far maturare questo sguardo, che deve passare dall’osserva­zione di elementi di cui sfugge il senso all’affidamento. Maria non entra nemmeno nel sepolcro, ma corre dai discepoli e la sua incom­prensione emerge dalle parole che rivolge loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro» ( Gv 20,2).

Alle parole di Maria due discepoli corrono alla tomba. Sono Pietro e il discepolo amato. Pietro lo conosciamo, svolge in tutti i vangeli un ruolo molto particolare. Ma chi è il discepolo amato? Lo troviamo nei racconti della passione e morte di Gesù (Gv 13,23; 19,26), ma prima non compare mai. Non ha un nome e viene indicato solo attraverso la relazione che ha con Gesù. È un discepolo, ma non uno qualunque: è il discepolo che Gesù amava. Il suo nome è lo sguardo di Gesù su di lui.

L’evangelista sottolinea la fretta con cui accadono questi fatti. I due discepoli corrono al sepolcro e uno dei due, il discepolo amato, corre più forte e raggiunge per primo la tomba. Non entra, ma si china e vede (blepo). Come testimonia l’uso dello stesso verbo nel testo greco, la sua esperienza è simile a quella di Maria Maddalena. Anche qui siamo davanti all’esperienza di un vedere materiale che non sa penetra­re la realtà per coglierne un senso ulteriore. Tuttavia egli vede qualcosa di più di Maria: si avvicina alla tomba vuota, si china e vede le tele che ricoprivano il cadavere del Signore ‘giacenti’.

Poi alla tomba giunge anche Pietro. A differenza dell’altro discepo­lo, egli entra nella tomba e vede (theoreo) le bende e il sudario. Qui Giovanni usa un verbo che indica qualcosa di diverso rispetto a quello usato nei casi precedenti. Non siamo ancora alla meta del cammino, «non è ancora lo sguardo della fede, ma è pur sempre uno sguardo attento, che suscita il problema e rende perplessi» (Maggioni).

Infine, entra anche l’altro discepolo. Davanti ai suoi occhi trova le stesse cose viste da Pietro, ma di lui si dice che vide (orao) e cre­dette (potremmo anche dire: ‘vedendo credette’) . A indicare la vista troviamo qui un terzo verbo, orao, che indica «il vedere penetrante di chi sa cogliere il significato profondo di ciò che materialmente appare» (Maggioni). E il tipo di visione che all’inizio del vangelo viene promessa ai discepoli (Gv 1,39.50-51) e che verrà donata a Tommaso, quando gli apparirà il Signore risorto ‘otto giorni dopo’. Per questo valore, un tale modo di ‘vedere’ è affiancato dal verbo `credere’.

La vista della fede

Usando questi verbi diversi per indicare l’unica esperienza del vedere è come se l’evangelista Giovanni volesse indicarci un itinerario di fede. I personaggi vedono in modo differente l’uno dall’altro e anche a seconda della loro vicinanza alla tomba vuota: solo quando entra nel sepolcro vuoto il discepolo che Gesù amava riesce ad avere lo sguardo della fede. I discepoli fanno dapprima l’esperienza di un grande vuoto, l’esperienza di un’assenza. Vedono solo i segni dell’assente. Ma entran­do nella profondità di quel vuoto e di quell’assenza, lo sguardo può divenire capace di ‘vedere’ veramente il senso di ciò che è accaduto.

Non va dimenticato un particolare decisivo: colui che arriva allo sguardo della fede non è, per ora, né Maria Maddalena — di lei il van­gelo di Giovanni parlerà più avanti — né Pietro, bensì quel discepolo senza nome che viene chiamato ‘il discepolo che Gesù amava’. Non bastano ‘i segni dell’assenza’, occorrono ‘gli occhi dell’amato’ per arri­vare allo sguardo della fede.

Questo discepolo senza nome è certamente una figura misteriosa, ma è anche una ‘figura aperta’ (Maggioni), che può rimandare alla figura del discepolo ideale al quale ogni discepolo di Gesù deve tende­re. Ancor più interessante è la sua qualifica: egli è colui che Gesù amava. Potremmo dire allora che è l’essere amati da Gesù che rende `chiaroveggenti’. Ancor prima di essere discepoli che amano il Signore, occorre accorgersi che è lui ad amarci per primo. Sarà la scoperta anche di Maria, quando incontrerà il suo Signore, nel giardino della risurrezione. Lo riconoscerà quando si sentirà chiamare per nome.

Preghiere e racconti 

Al discepolo che Gesù amava non appaiono angeli; nella cavità sepolcrale vede brillanti le bende.
“La notte è inoltrata, il giorno è ormai vicino”; gli occhi del discepolo stanno per aprirsi alla fede. “Le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende”.
Come nella precedente icona, un albero verde annuncia la nuova primavera di vita e ne capta il profumo nell’aria. E’ un momento trepido, un incontro appassionato: la visione inebria di senso e di grazia il riserbo del discepolo amico. Poi viene Pietro…, il destinatario dell’annuncio, la “pietra” del nuovo edificio.
(testi di fr. Espedito D’Agostini in ” Via lucis”, p.16, Servitium editrice)

Per il mattino di Pasqua

I

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Andrò in giro per le strade

zuffolando, così,

fino a che gli altri dicano: è pazzo!

E mi fermerò soprattutto coi bambini

a giocare in periferia,

e poi lascerò un fiore                                    

ad ogni finestra dei poveri

e saluterò chiunque incontrerò per via

inchinandomi fino a terra.

E poi suonerò con le mie mani

le campane sulla torre

a più riprese

finché non sarò esausto.

E a chiunque venga

– anche al ricco – dirò:

siedi pure alla mia mensa

(anche il ricco è un povero uomo).

E dirò a tutti:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

 

II

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Tutto è suo dono

eccetto il nostro peccato.

Ecco, gli darò un’icona

dove lui – bambino – guarda

agli occhi di sua madre:

così dimenticherà ogni cosa.

Gli raccoglierò dal prato

una goccia di rugiada

– è già primavera

ancora primavera

una cosa insperata

non meritata

una cosa che non ha parole;

e poi gli dirò d’indovinare

se sia una lacrima

o una perla di sole

o una goccia di rugiada.

E dirò alla gente:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

 

III

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Non credo più neppure alle mie lacrime,

queste gioie sono tutte povere:

metterò un garofano rosso sul balcone

canterò una canzone

tutta per lui solo.

Andrò nel bosco questa notte

e abbraccerò gli alberi

e starò in ascolto dell’usignolo,

quell’usignolo che canta sempre solo

da mezzanotte all’alba.

E poi andrò a lavarmi nel fiume

e all’alba passerò sulle porte

di tutti i miei fratelli

e dirò a ogni casa: «pace!»

e poi cospargerò la terra

d’acqua benedetta in direzione

dei quattro punti dell’universo,

poi non lascerò mai morire

la lampada dell’altare

e ogni domenica mi vestirò di bianco.

 

IV

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

E non piangerò più

non piangerò più inutilmente;

dirò solo: avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso

poi non dirò più niente.

(D. M. TUROLDO, O sensi miei…, Milano, Rizzoli, 1993).

Il giorno di Pasqua

Restiamocene tranquilli, a occhi chiusi, un istante prima che si levi l’alba del giorno della Risurrezione. È ancora notte fonda, ma già in due o tre case di Gerusalemme c’è qualcuno in movimento. Lumi che si accendono, donne frettolose che si pettinano e vestono. Il Sabato è finito, ed una stella incomparabile, approfittando di tutto quel firmamento che sta abdicando attorno a lei, irradia il volto della nostra prima domenica. Il gallo del calzolaio si prepara ad accettare la sfida che gli è stata lanciata dal compagno dell’altra sponda del Cedron. Non è più la Pasqua degli Ebrei: è la Pasqua dei cristiani! Guardate, ascoltate! Nel silenzio ebraico, all’incrocio di tre strade, avviene un incontro di donne velate che si interrogano sottovoce: «Chi toglierà per noi la pietra dal sepolcro?». Chi la toglierà? Il profumo che esse portano con loro si incarica di rispondere! E così la speranza irresistibile che è nel loro cuore, e l’emanazione di ingredienti mistici nel cuor della notte, preparati dalle mani stesse dell’aurora. Secoli riuniti, santa composizione, la cui dilatazione progressiva come ha poco fa vinto il sonno, così ora si mette in marcia per trionfare della morte! Degli altri avvenimenti di quell’immensa mattina, l’eco smarrita e incoerente dei quattro Vangeli fa ancora risuonare, ad ogni nuova primavera, tutte le chiese della cristianità.

(P. CLAUDEL, Credo in Dio, Torino, SEI, 1964).

Sulle tracce di Gesù

II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri. Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre. Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo peccatore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.

Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7). Questa espressione, infatti, rievoca le professioni di fede della Chiesa primitiva. Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Signore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.

Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico. Egli mangia con i discepoli.

L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive. Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.

Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità. Il pasto descritto nel cap. 21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico. Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento. Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle. Allude all’ultima cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiaramente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.

(C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, 258-259).

Cantiamo: Alleluia!

Bisogna che «questo corpo corruttibile» – non un altro – «si rivesta di incorruttibilità, e questo corpo mortale» – non un altro – «si rivesta di immortalità. Allora s’avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Allora si avvererà la parola della Scrittura», parola di gente non più in lotta, ma in trionfo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Cantiamo: Alleluia! (cfr. 1Cor 15,53-55). […] Cantiamo «Alleluia» anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono sia dagli altri sia da noi stessi. Dice l’Apostolo: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze» (1Cor 10,13). Anche adesso, dunque, cantiamo «Alleluia». L’uomo resta ancora preda del peccato, ma Dio è fedele. E non si dice che Dio non permetterà che siate tentati, ma: «Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; al contrario, insieme con la tentazione, vi farà trovare una via d’uscita perché possiate reggere». Sei in balìa della tentazione, ma Dio ti farà trovare una via per uscirne e non perire nella tentazione. […]

Oh! Felice alleluia quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena sicurezza, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente tribolata, là da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nella realtà; qui in via, lassù in patria. Cantiamo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere la gioia del riposo, ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, nella retta fede, in una vita buona.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 256,2-3, NBA XXXII/2, pp. 816-818).

 

Pasqua è…

Credere che anche i ladroni possono andare in Paradiso. Dico ladroni perché mi pare che aggiungere “buoni” sia pleonastico.

È credere che in tre giorni possono accadere cose che non sono accadute in trenta secoli.

È credere che i soldi non comprano mai nessuno e se  lo comprano è per distruggerlo.

È credere che anche gli amici veri possono tradire altri amici veri. La causa: troppa sicurezza nel reputarsi “veri”.

È accettare di iscrivere il dolore dentro la storia della nostra vita, accettarlo come compagno. C’è un dolore che annulla l’uomo e c’è un dolore che annulla gli errori dell’uomo.

È uscire dalla metropoli e percorrere i sentieri oltre le mura: sentieri di silenzio, faticosi, scoscesi, puliti, stretti.

È credersi Giuda e Pietro, cireneo e soldato, Pilato e Maddalena, sepolcro e giardino, terremoto e sindone, legno e sangue, mors e alleluja.

È smettere di farsi parola per incominciare a farsi pane, vino, mensa, cenacolo, fuoco, amore.

È incontrarsi con il giardiniere e scoprirlo Cristo; incontrarsi con un viandante e scoprirlo Cristo; incontrarsi con i vecchi compagni e scoprirli Cristo; incontrarsi con i pescatori e …mangiare con Cristo.

È asciguarsi il volto pieno di lacrime e …meravigliarsi che dalle lacrime possano nascere …le risurrezioni.

(Antonio Mazzi).

Andate presto, andate a dire… 

Voi che l’avete intuito per grazia

correte su tutte le piazze

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che la notte è passata.

Andate a dire che per tutto c’è un senso.

Andate a dire che l’inverno è fecondo.

Andate a dire che il sangue è un lavacro.

Andate a dire che il pianto è rugiada.

Andate a dire che ogni stilla è una stella.

Andate a dire: le piaghe risanano.

Andate a dire: per aspera ad astra.

Andate a dire: per crucem ad lucem.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte di porta in porta

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che il deserto fiorisce.

Andate a dire che l’Amore ha ormai vinto.

Andate a dire che la gioia non è sogno.

Andate a dire che la festa è già pronta.

Andate a dire che il bello è anche vero.

Andate a dire che è a portata di mano.

Andate a dire che è qui, Pasqua nostra.

Andate a dire che la storia ha uno sbocco.

Andate a dire: liberate, lottate.

Andate a dire che ogni impegno è un culto.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte, correte per tutta la terra

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che ogni croce è un trono.

Andate a dire che ogni tomba è una culla.

Andate a dire che il dolore è salvezza.

Andate a dire che il povero è in testa.

Andate a dire che il mondo ha un futuro.

Andate a dire che il cosmo è un tempio.

Andate a dire che ogni bimbo sorride.

Andate a dire che è possibile l’uomo.

Andate a dire, voi tribolati.

Andate a dire, voi torturati.

Andate a dire, voi ammalati.

Andate a dire, voi perseguitati.

Andate a dire, voi prostrati.

Andate a dire, voi disperati.

Andate a dire, comunque sofferenti.

Andate a dire, offerenti-sorridenti.

Andate a dire su tutte le piazze.

Andate a dire di porta in porta.

Andate a dire in fondo alle strade.

Andate a dire per tutta la terra.

Andate a dire gridandolo agli astri.

Andate a dire che la gioia ha un volto.

Proprio quello sfigurato dalla morte.

Proprio quello trasfigurato nella Pasqua.

Oggi, proprio ora, qui andate a dire.

Andate a dire.

Ed è subito pace.

Perché è subito Pasqua.

(Sabino Palumbieri, Via Paschalis, Elledici, 2000, pp. 28-29) 

Quelli che fanno suonare le campane

Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l’ultimo giorno andai in una scuola materna. C’erano tantissimi bambini di tre o quattro anni che si affollavano stupiti intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico. La maestra chiese: “Bambini, sapete chi è il vescovo?”. Tutti diedero delle risposte. Uno disse: “E’ quello che porta il cappello lungo in testa”; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa bellissima che a me piacque tanto: “il Vescovo è quello che fa suonare le campane”. Forse mi aveva visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane. Il vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica ma profondamente umana. Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono, potessero dare di voi una definizione così. Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo “quelli che fanno suonare le campane”: le campane della gioia di Pasqua, le campane della speranza.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

 

I macigni rotolati

 Ricorrerò alla suggestione del macigno che la mattina di Pasqua le donne, giunte nell’orto, videro rimosso dal sepolcro. Ognuno di noi ha il suo macigno. Una pietra enorme, messa all’imboccatura dell’anima, che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo, che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro. E’ il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione, del peccato. Siamo tombe alienate. Ognuna col suo sigillo di morte. Pasqua, allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi, e se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo del terremoto che contrassegnò la prima Pasqua di cristo. Pasqua è la festa dei macigni rotolati. E’ la festa del terremoto.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

L’affidamento dell’uomo a Dio                               

Nella Pasqua Gesù, da un lato, rivela il mistero dell’amore di Dio per l’uomo; dall’altro, celebra e attua nel modo umanamente più perfetto l’amore, l’obbedienza, l’affidamento dell’uomo a Dio. L’aspetto singolare, eccezionale, unico del sacrificio pasquale è che la rivelazione e la celebrazione – attuazione sono una sola cosa, così come nell’essere di Gesù, Dio e l’uomo, pur rimanendo distinti, diventano una sola cosa.

La Pasqua di Gesù, proprio perché è quella manifestazione-celebrazione dell’amore di Dio ora descritta, tende a raggiungere ogni uomo, sia per manifestargli l’amore di Dio, per annunciargli che il suo peccato è perdonato, per dargli speranza di vita e di gioia oltre la sofferenza e la morte, sia per attrarre ogni uomo nello stesso movimento di celebrazione del mistero, di adorazione di Dio, di conformazione alla volontà del Padre che ha animato tutta la vita di Gesù suggellata nella Pasqua.

L’eucaristia è appunto la modalità istituita da Gesù nell’ultima cena per attuare questa intrinseca intenzione salvifica della Pasqua.  

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).

Auguri di Pasqua

Fa’ di me, Signore, un arcobaleno di bene,

di speranza e di pace.

Un arcobaleno che per nessun motivo

annunci ingannevoli bontà,

speranze vane e false immagini di pace.

Un arcobaleno sospeso da Te nel cielo,

che annunci il tuo amore di Padre,

la risurrezione del tuo Figlio,

la meravigliosa azione del tuo Spirito Santo.

(H. Camera). 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

 

PASSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Isaia 52,13-53,12

 Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito. Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.

  Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

v Il brano di Isaia che leggiamo oggi è uno dei brani scritturistici a cui la tradizione cristiana si è rivolta per tentare di capire più a fondo il mistero di Gesù che muore in croce.

     Esso è denominato come il quarto carme del Servo del Signore (cf. Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12).

     Questi carmi sono una delle diverse riflessioni teologiche della Bibbia di fronte al problema tremendo della sofferenza del giusto, che mette in causa direttamente Dio.

     «Il vocabolario (quarantasei hapax legomena [vocaboli che si incontrano soltanto in questo testo] del Deuteroisaia) lo stile, la veemenza dei contrasti e dei sentimenti fanno di questo carme, anche dal punto di vista letterario — nonostante le difficoltà testuali ed esegetiche — un gioiello dell’Antico Testamento. La figura del Servo, che rappresenta il popolo di Israele in esilio, ricapitola in sé i tratti più caratteristici degli eroi e profeti dell’Antico Testamento: Mosè, Geremia, Giobbe, però sorpassa tutti questi personaggi, divenendo una figura escatologica». (S. VIRGULIN, Isaia, Nuovissima versione della Bibbia, Ed. Paoline, 1968, 344). Gli evangelisti e più esplicitamente la tradizione cristiana interpretarono l’opera e la morte di Gesù alla luce di questo carme.

     – 52,13-15. Il Signore presenta il servo trionfante. Dall’umiliazione assoluta egli è chiamato all’esaltazione così da stupire i re e le nazioni.

     – 53,1-9. La sezione comincia con un interrogativo retorico per attirare l’attenzione. Le sofferenze del servo sono descritte nei particolari con grande efficacia. La sua sofferenza lo faceva ritenere un castigato da Dio, percosso e umiliato. Egli non è stato colpito per essere castigato, ma per la salvezza degli altri: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti…. il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti».

     – 10-12. «Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori». Si ribadisce di nuovo che quanto è avvenuto al servo è stato voluto da Dio, ma si aggiunge che Dio stesso riabiliterà ed esalterà il suo servo, che ha espiato i peccati altrui: «il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli».

 

Seconda lettura: Ebrei 4,14-16; 5,7-9 

 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno. [Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

 

I due brani della lettera agli Ebrei scelti dalla liturgia di oggi presentano Gesù come sommo sacerdote, mediatore compassionevole per i nostri peccati. Non dobbiamo temere il giudizio divino, ci dice l’autore della lettera, stiamo saldi nella confessione della nostra fede e abbiamo fiducia in Gesù Cristo. Egli può capire la nostra debolezza avendo anche lui subito la prova della sofferenza.

     Dobbiamo quindi avere piena fiducia che avremo un aiuto opportuno per essere ascoltati da un giudice già propenso alla misericordia, presso il quale troveremo grazia. Assai efficace è l’immagine di accostarsi «al trono della grazia». Essa mi fa venire in mente una tradizione midrashica ebraica che narra che Dio per creare gli uomini si è alzato dal trono della giustizia per sedersi su quello della misericordia.

     Nei versetti 7-9 del capitolo 5, accostati direttamente dalla liturgia a 4,14-16 Gesù è presentato nel mistero della sua umanità e dell’abbassamento fino alla morte accettata in obbedienza a Dio, che poteva liberarlo e a cui aveva rivolto suppliche e grida. Dio lo ha esaudito, ma misteriosamente solo attraverso la prova suprema.

 

Vangelo: Giovanni 18,1-19,42

 – Catturarono Gesù e lo legarono

     In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».

 

– Lo condussero prima da Anna

Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».

Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava. Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.


– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono! 

Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.


– Il mio regno non è di questo mondo

Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?». E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.

 

– Salve, re dei Giudei!

Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».

Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».

All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».

– Via! Via! Crocifiggilo!

Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.


– Lo crocifissero e con lui altri due

Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».


– Si sono divisi tra loro le mie vesti

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati fecero così.

– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.


– E subito ne uscì sangue e acqua

Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».


– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.

 

Esegesi 

     La liturgia ci fa leggere oggi tutto il «libro della passione» di Giovanni, che inizia con l’andata di Gesù nel giardino (18,1) e termina al sepolcro nel giardino (19,41). L’inclusione sottolinea l’unità letteraria del racconto.

     All’interno di questa unità possiamo individuare cinque scene: 1. Gesù nel giardino e il suo arresto (18,1-11); 2. Gesù davanti ad Anna, episodio scandito all’esterno dalle negazioni di Pietro (18,12-27); 3. Gesù davanti a Pilato (18,28 19,16); 4. la crocifissione (19,17-30); 5. il colpo di lancia e la sepoltura (19,31-42).

     Molti elementi del racconto di Giovanni, oltre allo schema generale della passione, sono in comune con i sinottici, mi soffermo soltanto sugli elementi propri di Giovanni presenti in ciascuna delle sezioni individuate sopra.

     1. In 18,1-11: Gesù sa che cosa gli sta per accadere: si fa avanti spontaneamente e si rivela nella sua potenza. Alla sua risposta decisa: «Io sono» tutti indietreggiano e cadono a terra. Nonostante non si riesca a dare di ciò una spiegazione univoca, è evidente che l’evangelista vuole sottolineare il contrasto fra il coraggio di Gesù che si fa avanti, padrone della situazione e la paura di chi è venuto ad arrestarlo, che ha fatto pensare a molti studiosi allo stupore-paura che nella Bibbia coglie coloro che intuiscono di essere alla presenza di Dio.  Gesù intesse un colloquio con le guardie per escludere i suoi dal suo destino e l’evangelista commenta che così si è adempiuta la sua stessa parola: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (18,9 cf. 17,12; 6,39).

     Solo Giovanni dice il nome del servo del sommo sacerdote. Nelle parole dette a Pietro: «il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?». C’è una eco della preghiera di Gesù al Getzemani, che Giovanni non riporta, ma il tono della domanda sottolinea che quanto accade è un «dovere» comandato dal Padre, che Gesù accoglie senza tentennamenti 12-27. Entrano in azione i soldati romani e le guardie dei capi dei sacerdoti, che erano venuti con Giuda (cf. 18,3). Al versetto 12 il Vangelo non specifica più le guardie (o meglio secondo il termine greco tradotto dalla Vulgata con ministri, gli aiutanti, i servitori) dei sommi sacerdoti, ma usa il termine generico «giudei». È un uso particolare di questa parte del Vangelo di Giovanni. In 18,14 si dice che Caifa era quello che aveva consigliato ai «giudei», mentre nel capitolo 11, a cui si riferisce il nostro testo, Caifa sta parlando al sinedrio; in 19,6-7: gridano di crocifiggere Gesù i sommi sacerdoti, mentre rispondono a Pilato «i giudei»; in 19,14-15 avviene l’inverso: Pilato parla ai «giudei» e rispondono i «sommi sacerdoti».

     Proprio in riferimento al Vangelo di Giovanni — avvertono i documenti di applicazione della dichiarazione conciliare Nostra Aetate n. 4 — si deve fare attenzione a questo uso del termine giudei per non attribuire a tutti gli ebrei contemporanei di Gesù le colpe dei capi o di un gruppo particolare (cf. Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, IV, 1).

     La dichiarazione conciliare dice chiaramente: «Se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né  agli ebrei del nostro tempo».

     Solo Giovanni ricorda l’udienza di fronte ad Anna, mentre accenna soltanto al processo da Caifa (18,28) descritto ampiamente dai sinottici (Mt 26,57-68; Mc 14,53-65; Lc 22,54-71).

     Di Caifa, genero di Anna e «sommo sacerdote quell’anno» (18,13) il redattore ricorda che era colui che aveva detto: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo» (18,14; cf. 11,49-51). Si nota il sottile gioco stilistico di Giovanni che fa dire ai personaggi presentati una verità di cui non hanno affatto coscienza.

     Nel cortile del palazzo fa da cornice al dramma che sta vivendo Gesù il triplice rinnegamento di Pietro.

     Il processo davanti a Pilato è condotto dal quarto Vangelo nella linea della sottolineatura della regalità di Gesù. Pilato presenta Gesù con ironia e disprezzo con le parole: «Ecco il vostro re!» (19,14). Il colloquio fra Pilato e Gesù sottolinea la regalità particolare, diversa da quelle del potere di questo mondo. Gesù afferma che la sua missione nel mondo è quella di «dare testimonianza alla verità» (18,37). Al che Pilato replica con una domanda carica di scetticismo: «Che cos’è la verità?» (18,38). Pilato, di fronte a Gesù, che per lui non è che un oscuro giudeo, proveniente per di più dalla Galilea, la regione dove più attivi erano i gruppi ostili ai romani, non esita a metterlo a morte per evitare il rischio di avere problemi di ordine pubblico, che potrebbero mettere in forse il suo potere, sarà lui, però, che con la sua scritta sulla croce lo proclamerà re (19,19).

     Gesù, secondo Giovanni, porta la croce da sé. Questo è un altro particolare per sottolineare come Gesù sia padrone della situazione.

     Solo Giovanni riporta il colloquio con il discepolo prediletto e la madre. Pur nel dolore profondo che in quel momento doveva provare, Gesù si immedesima in quello della mamma, di fronte a un figlio che moriva a quel modo e le affida il discepolo come nuovo figlio, che riempia in qualche modo il vuoto lasciato da lui.

     «È compiuto!» sono secondo Giovanni le ultime parole di Gesù prima di morire. Esse sottolineano che quanto è avvenuto si è svolto secondo il disegno di Dio di cui Gesù era pienamente consapevole e che ha accettato in piena coscienza.

     Dopo il racconto del colpo di lancia, invece della rottura delle ginocchia, che era il metodo per accelerare la morte, ma che non era più necessario nel caso di Gesù, che era già spirato, l’evangelista invita a fissare su Gesù uno sguardo di fede. Quanto è avvenuto non è avvenuto casualmente, ma perché si «adempisse la Scrittura». Al di là delle citazioni, che non sono precise, il richiamo stesso alla Scrittura rende avvertiti che dobbiamo guardare a Gesù dentro al piano di Dio in essa rivelato.

Meditazione 

     «Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente» (Is 52,13). Sono queste le prime parole che sentiamo risuonare nella liturgia della Passione del Venerdì santo, dopo la prostrazione iniziale, compiuta in silenzio, seguita dall’orazione di apertura in cui si implora il Padre di ricordarsi della sua misericordia, santificando e proteggendo sempre la sua famiglia «per la quale il Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero pasquale». Già da subito è messo così in evidenza il carattere prettamente ‘pasquale’ di questa celebrazione: si fa memoria della morte del Signore ma nella prospettiva luminosa della sua vittoria sul peccato e sulla morte stessa. L’inizio della prima lettura dà dunque la tonalità giusta a questo giorno così centrale per la fede e la pietà cristiana. Prima di descrivere tutte le sofferenze e le violenze patite da questo misterioso Servo, il profeta Isaia dice che «avrà successo» e «sarà esaltato grandemente». Il suo destino di gloria ci è messo davanti come prima realtà forse per suggerirci l’angolatura corretta entro la quale comprendere questo testo. Ma che gloria è mai questa del Servo? Una gloria che passa attraverso una via dolorosa e tenebrosa; una gloria che si manifesta nell’affrontare il male con pazienza e mitezza («come agnello condotto al macello, come pecora muta…»: 53,7), nel subire ingiustizie di ogni sorta soffrendo da innocente, nel farsi carico in piena libertà delle colpe e delle iniquità altrui. La «luce» che vedrà dopo il suo «intimo tormento» (53,11) è la luce che emerge con forza da questa notte oscura e che irradia il suo splendore proprio sulle tenebre più fitte. Il Signore glorifica il Servo non liberandolo dal male e da una morte infame, ma facendosi a lui vicino e accogliendo l’offerta della sua vita per renderla feconda di salvezza per tutti.

     La tradizione cristiana, fin dai primi secoli, ha letto in questa figura il destino di passione e di gloria del Signore Gesù, tanto che il Nuovo Testamento in più occasioni riprende alla lettera questo canto per illuminare e interpretare la vicenda pasquale del Figlio di Dio (cfr. 1Pt 2,21-25; At 8,32-33; Mt 8,l7; Gv 1,29; Lc 22,37).

     Dal canto suo, l’evangelista Giovanni rilegge in modo nuovo e originale il racconto della passione di Gesù. Rispetto ai sinottici omette molti importanti dettagli, premunendosi però di compensarli con numerose aggiunte proprie. Il Gesù giovanneo ci appare fin dall’inizio un uomo sovranamente libero, che va incontro alla sua morte con la coscienza di chi sa cosa gli sta capitando (cfr. Gv 18,4; 19,28) e che affronta gli eventi con estrema dignità e solenne maestà. Tutto è teso al compimento di quell’«ora», l’ora del dono e della glorificazione, della quale Giovanni ci ha parlato fin dai primi capitoli del suo vangelo (cfr. 2,4). Ciò che Gesù aveva annunciato attraverso l’immagine del buon pastore, ora non fa altro che metterlo in pratica: egli dà la sua vita per le sue pecore, e la dà liberamente – nessuno gliela toglie – perché ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo (cfr. 10,14-18). Questo lo si vede già nella prima scena, quella dell’arresto (18,1-11), in cui Gesù rinuncia a esercitare la sua potenza divina (se avesse voluto, avrebbe potuto benissimo difendersi, visto che al solo suono della sua voce le guardie «indietreggiarono e caddero a terra»: 18,6!) e si lascia catturare senza opporre resistenza. Nessuno infatti può mettergli le mani addosso se non è lui stesso a offrirsi spontaneamente. Le forze delle tenebre nulla possono contro colui che è la vera luce («la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta»: Gv 1,5). I soldati vengono «con lanterne e fiaccole» (18,3) a catturare colui che è «la luce del mondo» (8,12; 12,46; 3,19; 1,9): paradosso della sorte! Chi è nelle tenebre pretende di offuscare la luce, ma non sa che la luce sprigiona tutta la sua forza proprio in mezzo all’oscurità più fitta. La luce si lascia ‘prendere’ ma non smette di brillare, tanto che nel confronto cruciale con Pilato (sezione centrale e cuore del racconto giovanneo della passione) l’evangelista annota: «Era l’alba» (18,28). L’alba è l’ora del trionfo della luce sulle tenebre, è l’ora che si oppone alla notte del rifiuto e del tradimento (cfr.13,30!). Davanti a Pilato il vero vincitore è Gesù: è lui in realtà colui che giudica, è lui il vero re. Per Giovanni, che si colloca esplicitamente sul piano della testimonianza e della fede (cfr. 19,35), è evidente questo ‘capovolgimento’ delle parti. Gli occhi della fede vedono le cose diversamente e riescono a scorgere dietro le realtà immediatamente percepibili l’agire di Dio, che guida gli eventi per vie misteriose e umanamente alquanto incomprensibili.

     A questo proposito è emblematico l’episodio dell’iscrizione che Pilato fa affiggere alla croce (19,19-22). Nelle tre lingue ufficiali dell’epoca (ebraico, latino e greco) viene proclamata la regalità universale di Gesù: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» (v. 19). Ma questa iscrizione assume un senso ben diverso a seconda del punto di vista con cui viene interpretata. Agli occhi dei sommi sacerdoti non può che formulare una menzogna – la pretesa di Gesù di farsi re messianico – (tanto che cercarono in tutti i modi di farla correggere: v. 21); sulla bocca di Pilato ha un valore ironico ed esprime scherno e derisione (come la dichiarazione beffarda di 19,14: «Ecco il vostro re!»); mentre per l’autore del racconto, che rappresenta la comunità credente, essa rivela la vera identità del crocifisso. Gesù è veramente il re che muore sulla croce (peraltro Giovanni lo suggerisce di nuovo nel particolare della sepoltura, in quell’incredibile quantità di unguenti portata da Nicodemo per ungere il corpo di Gesù: «circa trenta chili di una mistura di mirra e àloe»: 19,29. Non è una misura comune: è una misura esagerata, degna di un re!) ed è solo guardando al modo in cui muore che si può comprendere la vera natura della sua regalità. La croce è davvero «il trono della grazia» (Eb 4,16), come si esprime la lettera agli Ebrei nel passo proposto come seconda lettura, dal quale «colui che è stato trafitto» (Gv 19,37) fa sgorgare copiosamente i doni del suo esercizio regale vissuto fino in fondo: il «sangue» della sua vita effusa in sacrificio per la salvezza del mondo e l’«acqua» feconda dello Spirito santo ormai consegnato definitivamente all’umanità intera (cfr. 19,34).

     La Chiesa in questa liturgia ci fa cantare il Salmo 30(31) che l’evangelista Luca pone sulle labbra di Gesù nell’ora della sua morte (cfr. Lc 23,46). In esso troviamo alcune immagini molto forti (che la nuova traduzione CEI ha cercato di riportare alla loro originaria vivacità e plasticità): «sono come un morto, lontano dal cuore; sono come un coccio da gettare» (Sal 30/31,13). In questo «coccio da gettare» ritroviamo tutto il paradosso del mistero della vita di Gesù: Gesù è divenuto ‘ciò che non serve più a nulla’ (un vaso rotto, appunto, da buttar via), rifiutato e dimenticato da tutti; ma proprio in questo suo essere «disprezzato e reietto» (Is 53,3) «divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9). Una vita ‘spezzata’ e ‘gettata via’ può rifiorire insperabilmente dentro il terreno di un amore che non muore…

 

Preghiere e racconti

 

Nelle tue mani

    «Dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, rese lo spirito» (Gv 19,30). […] A ragione Gesù dice che tutto è compiuto. Ora, però, la sua ora lo chiama a proclamare la Parola agli spiriti che sono negli inferi. Vi si reca per mostrare la sua signoria sui vivi e sui morti. E per noi che si è immerso nella morte e che subisce questa passione comune a tutta la nostra natura, cioè la sofferenza della carne, mentre, essendo Dio, è per natura la vita. Dopo aver spogliato gli inferi, vuole ricondurre la natura umana alla vita, lui che le Scritture chiamano «la primizia» (1Cor l5,24) di quanti si sono addormentati e «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1,18).

    Egli dunque, inclinò il capo, fatto normale nei morenti, perché lo spirito o l’anima che mantiene e governa il corpo lo lascia. Quanto a ciò che l’evangelista aggiunge: «rese lo spirito» (Gv 19,30) è un’espressione impiegata per parlare di qualcuno che si spegne e muore. Ma sembra che intenzionalmente, volutamente l’evangelista non abbia detto soltanto che Gesù era morto, ma che aveva consegnato il suo spirito nelle mani di Dio Padre, in accordo con quello che aveva detto di se stesso: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). La portata e il senso di queste parole sono per noi principio e fondamento di una gioiosa speranza.

    Si deve credere, infatti, che le anime sante, dopo essersi liberate dal loro corpo terrestre, sono affidate, tra le mani del Padre pieno d’amore, alla bontà e alla misericordia di Dio. […] Esse si affrettano a consegnarsi nelle mani del Padre di tutti e in quelle del nostro Salvatore, il Cristo, che ci ha mostrato questo itinerario. Egli ha consegnato la propria anima nelle mani di suo Padre affinché anche noi, mettendoci su questo cammino, possediamo una gloriosa speranza, sapendo e credendo fermamente che, dopo aver subito la morte del corpo, saremo tra le mani di Dio e in una condizione di molto preferibile a quella in cui abbiamo vissuto nella carne. E per questo che san Paolo scrive per noi che è meglio essere sciolti dal corpo per essere con Cristo (cfr. Fil 71,23).

(GIRILLO DI ALESSANDRIA, Commento al vangelo di Giovanni 12,30, PG 74,667C-670B)

 

«Non sciunt quod faciunt»

Persino sulla Croce, mentre compiva nell’angoscia la perfezione della sua Santa Umanità, Nostro Signore non si afferma vittima dell’ingiustizia: Non sciunt quod faciunt. Parole intelligibili dai bambini più piccoli, parole che si potrebbero dire infantili, ma che i demòni debbono ripetersi, dopo d’allora, senza comprenderle, con spavento crescente. Mentre si aspettavano la folgore, è come se una mano innocente avesse chiuso su loro i pozzi dell’abisso.

(G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano, Mondadori, 1994, 238-239).

Coraggio, fratello che soffri

Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.

Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio. La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre «collocazione provvisoria». Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra». Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.

Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.

Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.

Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.

(Don Tonino Bello)

 

Il Cristo di Velázquez

A che pensi Tu, morto, Cristo mio?

Perché qual vel di tenebrosa notte

la ricca chioma tua di nazareno

ricade cupa giù su la tua fronte?

Entro di te Tu guardi ove sta il regno

di Dio; dentro di te, là dove albeggia,

l’eterno sol dell’anime viventi.

Bianco è il suo corpo, sì com’è la sfera

del sol, padre di luce, che dà vita;

bianco è il tuo corpo al modo della luna

che morta ruota intorno alla sua madre,

la nostra stanca vagabonda terra;

bianco è il tuo corpo, bianco come l’ostia

del cielo nella notte sovrumana,

di quel cielo ch’è nero come il velo

della chioma tua ricca e cupa e folta

di nazareno.

Ché sei, Cristo, il solo

Uomo che di sua scelta soccombesse,

trionfando della morte, che fu resa

da te verace vita. E sol da allora

per Te codesta morte tua dà vita;

per Te la morte è fatta madre nostra;

per Te la morte è il dolce nostro anelo

che placa l’amarezza della vita.

Per te, l’Uomo che è morto e che non muore,

bianco siccome luna nella notte…

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 28-29).

 

Venerdì Santo

Venerdì Santo: giorno della croce, giorno di sofferenza, giorno di speranza, giorno di abbandono, giorno di vittoria, giorno di mestizia, giorno di gioia, giorno di conclusione, giorno di inizio.

Durante la liturgia a Trosly, Père Thomas e Père Gilbert staccarono dalla parete l’enorme croce che sta appesa dietro l’altare e la tennero sollevata, così che tutta la comunità poté andare a baciare il corpo morto di Cristo. Vennero tutti, più di quattrocento persone – uomini e donne disabili con i loro assistenti e amici. Tutti apparivano consapevoli di quello stavano facendo: esprimere il loro amore e la loro gratitudine per colui che aveva dato la propria vita per loro. Mentre stavano tutti radunati attorno alla croce e baciavano i piedi e la testa di Gesù, chiusi gli occhi e vidi il suo sacro corpo disteso e crocifisso sul nostro pianeta terra. Vidi l’immensa sofferenza dell’umanità lungo i secoli: persone che si uccidono a vicenda, persone che muoiono di fame o di malattia; persone cacciate dalle proprie case; persone che dormono nelle strade delle grandi città; persone che si attaccano le une alle altre nella disperazione; persone flagellate, torturate, bruciate e mutilate; persone isolate in appartamenti chiusi, in prigioni sotterranee, nei campi di lavori forzati; persone che implorano una parola dolce, una lettera amichevole, un abbraccio consolante, persone… che gridano tutte con voce angosciata: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Immaginando il corpo di Gesù nudo e lacerato, disteso sul nostro globo, mi sentivo pieno di orrore. Ma non appena aprii gli occhi, vidi Jacques, che porta sul volto i segni della sua sofferenza, mentre baciava il corpo con passione e le lacrime gli scendevano dagli occhi. Vidi Ivan, trasportato a spalle da Michael. Vidi Edith che avanzava nella sua sedia a rotelle. Man mano che venivano – diritti o claudicanti, vedenti o ciechi, udenti o sordi – vedevo l’interminabile processione dell’umanità che si radunava attorno al sacro corpo di Gesù coprendolo di lacrime e di baci, per poi allontanarsene lentamente, confortata e consolata da un così grande amore… Con gli occhi della mia mente vidi l’immensa folla di isolati, di individui angosciati che si allontanavano insieme dalla croce, uniti dall’amore che essi avevano visto con i loro stessi occhi e toccato con le loro stesse labbra. La croce dell’orrore divenne la croce della speranza, il corpo torturato divenne il corpo che da nuova vita; le ferite aperte diventarono fonte di perdono, di guarigione e di riconciliazione.

O mio Signore, che cosa ti posso dire?

Ci sono forse parole

che possono uscire dalla mia bocca?

Qualche pensiero? Qualche frase?

Tu sei morto per me

hai dato tutto a causa dei miei peccati,

non solo sei diventato uomo per me

ma hai anche sofferto

la più crudele delle morti per me.

C’è forse una risposta?

Mi piacerebbe trovare una risposta adatta.

Ma contemplando la tua santa passione e morte

posso soltanto confessare umilmente davanti a te,

che l’immensità del tuo amore divino

fa apparire del tutto inadeguata qualsiasi risposta.

Che io semplicemente stia davanti a te e ti guardi.

Il tuo corpo è lacerato, il tuo capo ferito,

le tue mani e i tuoi piedi

perforati dai chiodi

il tuo fianco aperto,

il tuo corpo morto

ora riposa tra le braccia di tua Madre.

Ora tutto è finito.

È terminato. È compiuto. È consumato.

Dolce Signore, grazioso Signore,

generoso Signore, Signore pronto al perdono,

ti adoro, ti lodo, ti rendo grazie.

Tu hai fatto nuove tutte le cose

Mediante la tua passione e la tua morte

La tua croce è stata piantata su questo mondo                                                                              

come nuovo segno di speranza.                                                                                             

Che io viva sempre sotto la tua croce, o Signore, e proclami la speranza della tua croce senza stancarmi.                                                                         

(H.J.M. NOUWEN, Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003).

 

Undicesima stazione

II panno umido sul viso mi ha dato un breve sollievo.

Sono caduto per la terza volta, qualche braccio soccorrevole mi ha sostenuto nel

rialzarmi, ma il peso per le membra che ho è troppo grave.

L’onta e il castigo della carne, questo alla loro ferocia piace molto.

Il supplizio della misconoscenza e del tradimento

alla loro perfidia è un piacere più sottile,

lo delibano i sommi sacerdoti.

Ma ora, Padre, sono ingiusto:

ci sono anime innocenti,

creature pietose che si angosciano,

non si danno pace. E questi, ti prego, prediligili.

Tra loro c’è mia madre,

ci sono uomini e donne di cuore che la

accompagnano,                                        

e molti altri addolorati e increduli.

Sempre, dal principio fino all’avvento del tuo regno,

il bene e il male si affrontano.

Oggi va al male, secondo appare a noi, la palma.

Tra gente come loro ho seminato le beatitudini,

erano meravigliati – alcuni un giorno capiranno,

ma io sarò morto e risorto

per tutti quelli che capito avranno

e per coloro che saranno rimasti chiusi nell’ottusità.

Tutti potranno essere salvi, così vuole l’Alleanza.

Ma dove andiamo, dove va questa trista processione?

Mi conducono a un’altura.

(M. LUZI, Via crucis, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 1999, 47-49).

 

Orazione finale

In piedi e con le braccia appena aperte,

tesa, perché non secchi, la man destra,

fa che la via sassosa della vita,

ascesa del Calvario, percorriamo

dai chiodi del dovere sostenuti,

e in piedi come Te, le braccia aperte

ansiosamente, noi moriamo; e dopo

alla gloria saliamo ancora in piedi

come Te, perché in piedi Iddio ci parli

e con le braccia aperte. Dammi, Cristo,

che quando alfine vagherò sperduto

uscendo dalla notte tenebrosa

ove sognando il cuore si impaura,

entri nel chiaro giorno sconfinato,

con gli occhi fissi sul tuo bianco corpo,

Figlio dell’uomo, Umanità perfetta,

nell’increata luce che non muore;

gli occhi, Signore, fissi nei tuoi occhi,

e in te, Cristo, perduto il guardo mio!

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 138-139)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.