Ragione e Fede:

l’approccio scolastico dell’IRC

Proponiamo due interventi del Convegno sul tema “Ragione e Fede: l’approccio scolastico dell’Irc” tenutosi a bari dal 15 al 17, sul contributo che l’Irc può offrire ai percorsi della ricerca scolastica intorno alla ragionevolezza della fede cattolica e ai diversi confini che caratterizzano la ragione umana e il Mistero che la accoglie.

 

Il binomio fede-ragione non sempre ha goduto di buona letteratura e oggi porta il peso di una eredità che lo fa oscillare, come valore, tra il vecchio arnese ormai utilizzabile con difficoltà e lo strumento guardato con sospetto perché adatto solo per riproporre scontati progetti apologetici. Se – come giusto – tale binomio viene guardato con gli occhi dello storia, esso mostra di meritare qualche precisazione che ne aggiorni la problematica al contesto contemporaneo. L’intento – volutamente circoscritto – della presente proposta di riflessione è quello di raccogliere un aspetto di tale contesto e di declinarne qualche conseguenza in ordine al rapporto tra fede e ragione ancora più specificamente considerato nell’ambito scolastico dell’insegnamento della religione cattolica. A quest’ultimo riguardo, trovo pertinente precisare che una riflessione introduttiva al convegno deve esimersi da una trattazione tecnica della specifica problematica fede-ragione, la cui necessità è imprescindibile ma che deve situarsi in un orizzonte più vasto che vedrei delineato dalle categorie di religione e di cultura, colte nel loro rapporto e nella loro reciprocità. Proprio quest’ultimo orizzonte ci colloca in maniera appropriata sia nel contesto storico-sociale contemporaneo sia nell’ambito dell’insegnamento scolastico della religione cattolica.

Infatti, tale insegnamento ha l’onere di giustificare la sua specificità come proposta formativa necessaria nel quadro delle finalità e dell’ordinamento della scuola pubblica nel nostro Paese. Ora tale necessità sembra minacciata in radice non solo dallo spirito critico – supposto alternativo alla fede – che deve caratterizzare una formazione intellettuale e umana libera e aperta, ma soprattutto dal contesto sociale profondamente mutato degli ultimi anni, che vede affermato il pluralismo delle religioni e delle credenze, come pure delle etiche e delle forme di convivenza sociale nonché della loro istituzionalizzazione. Una risposta a tali questioni, che si limiti a rimandare formalmente al dettato costituzionale e alla legislazione scolastica, rischia di avere poca tenuta se non trova argomenti più sostanziali che ne impediscano la vanificazione nella deriva di interpretazioni insanabilmente divergenti.

Di fronte a tali questioni, avvertiamo l’esigenza impellente di ritrovare le ragioni della convivenza civile e della sua storia allo scopo di salvaguardare l’unità del corpo sociale insieme all’integrità del singolo individuo. Pur riconoscendo la complessità di tale compito, accresciuta dall’essere ormai inseriti in un dinamismo globale, tuttavia non possiamo perderle di vista – quelle ragioni – e, anzi, dobbiamo alimentarle non ultimo attraverso un’offerta scolastica adeguata alle esigenze di preparazione alla vita delle nuove generazioni. Ma al suo interno, tale esigenza ne contiene una più profonda, concernente la capacità della fede non solo di reggere il confronto con la razionalità critica e con la cultura del pluralismo, ma addirittura di assumerle in maniera costruttiva e propositiva.

Un primo ordine di considerazioni può essere collegato proprio alla lettura della situazione socio-culturale e religiosa del nostro Paese; un secondo dovrebbe mostrare la capacità della fede di interpretare tale situazione attraverso la categoria di religione nel suo rapporto con quella di cultura; infine, sarà possibile evidenziare la relazione intrinseca che la fede mantiene con la ragione ben oltre quanto comunemente si ritiene, così da poter segnalare i compiti che ne conseguono nel nostro specifico orizzonte di responsabilità. 

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Muovendo dalla convinzione relativa alla scuola come luogo di frontiera fra fede, religione e ragione e dalla marginalità (perifericità) dell’IRC e della teologia nell’attuale contesto di frammentazione si propongono tre passaggi tendenti a mostrare come tale contesto, pur con le sue criticità, offra delle inedite e affascinanti opportunità in ordine alla ricerca del senso, alla valenza veritativa e pubblica della fede e al dialogo interdisciplinare e interreligioso attraverso l’adozione di un orizzonte armonico nella formazione dei giovani cui l’IRC si rivolge.

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Nuovi movimenti religiosi…

una sfida per la chiesa cattolica

Un fenomeno sottostimato ma in rapida espansione, un vero e proprio “boom”. Non usano mezzi termini gli studiosi per descrivere la diffusione negli ultimi anni dei “movimenti evangelicali, pentecostali e carismatici”.

È il termine “tecnico” usato nel mondo accademico per definire le “sette” o “i nuovi movimenti religiosi”. Un fenomeno trasversale a tutte le Chiese cristiane e difficilmente quantificabile, sebbene si stimi che i membri delle Chiese pentecostali nel mondo siano più di 400 milioni. A questo fenomeno è dedicata una Conferenza internazionale che ha preso avvio oggi a Roma ed è promossa dalla Conferenza episcopale tedesca. “Evangelicali, pentecostali, carismatici: nuovi movimenti religiosi, una sfida per la Chiesa cattolica”, il titolo della conferenza alla quale prendono parte rappresentanti del Vaticano, delle Conferenze episcopali e di molte diocesi, nonché studiosi del settore. A coordinare i lavori è la Conferenza episcopale tedesca che ha istituito negli anni Novanta un gruppo di ricerca per lo studio delle sette e dei nuovi movimenti religiosi. L’idea nasce da un’intuizione dell’allora presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, cardinale Walter Kasper. 

Fenomeno globale. “La scomparsa della religione a lungo attesa e data per certa non si è materializzata. Al contrario: in tutto il mondo, si osserva piuttosto un vero e proprio boom di religioni”. Si apre con questa constatazione la ricerca presentata dal professore di Munster, Karl Gabriel, che subito aggiunge: “Questo fenomeno globale di rinnovamento religioso ruota però intorno a gruppi che sono tradizionalmente indicati come ‘sette’”. La crescita della cristianità nel mondo è dunque ampiamente dovuta ai nuovi movimenti religiosi. In America Latina – fa notare lo studioso – le Chiese pentecostali sono cresciute a “un ritmo mozzafiato” per diversi anni. L’Africa del Sud è testimone di un’espansione del cristianesimo carismatico. E anche in Asia orientale, compresa la Cina, le forme carismatiche del cristianesimo sono in crescita. 

Che cosa si cela dietro questo fenomeno? La lista di fattori endogeni di crescita è lunga: concorrono sicuramente anche gli “sconvolgimenti sociali ed economici del Sud del mondo” e i nuovi movimenti offrono ai propri seguaci “identità e significato”, “rafforzano l’autostima”, “permettono alle persone di sentirsi a casa”. La ricerca commissionata dalla Conferenza episcopale tedesca e presentata a Roma ha preso in visione 4 Paesi: Costa Rica, Filippine, Ungheria e Sud Africa. Nel capitolo riservato al Costa Rica, interessante è il coinvolgimento delle donne in questo fenomeno, perché sono soprattutto loro a essere maggiormente attratte da questo tipo di proposta religiosa e le ragioni vanno anche ricercate nelle condizioni di precarietà in cui spesso si trovano a vivere. 

Il dialogo. “La realtà pentecostale e carismatica è una realtà trasversale che è entrata praticamente in tutte le tradizioni cristiane. Si parla già da un decennio di una pentecostalizzazione del cristianesimo”. Così spiega a margine del convegno mons. Juan Usma Gomez, esperto conoscitore del movimento pentecostale per il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Il fenomeno è “fonte di preoccupazione per tutti i vescovi in diversi continenti”. E il Pontificio Consiglio ha affrontato la questione perché “cosciente dell’importanza di conoscere i pentecostali e di dare una risposta concreta alla comunità cattolica locale”. Mons. Usma fa notare come dal 1972 è stato avviato il dialogo internazionale cattolico-pentecostale che ha permesso di “superare pregiudizi e idee preconcette” ma anche di “affrontare temi difficili come il proselitismo e la conversione”.

Quale il segreto di tanto successo? “Magari si potesse dare una risposta semplice”, dice mons. Usma. “Vi sono molte risposte. Alcune sono positive: riescono a dare il senso di Dio, rinnovata spiritualità, stile attraente e consono ai tempi odierni. Altre sono negative: proselitismo, inganno, promesse di beni spirituali e di prosperità materiale”. Possono influire anche “debolezza psicologica e ingenuità”. “Ad ogni modo essi riescono a offrire un’esperienza di Dio nei loro seguaci”. Una certa “demonizzazione” verso questo fenomeno, aggiunge mons. Usma, “ha impedito ai cattolici di capire la loro forza e fatto sottostimare il loro potere di fare seguaci”. Come allora affrontare la questione? “Conoscendolo e facendosi conoscere. È cioè importante conoscerli e far conoscere loro il vero volto della Chiesa cattolica e dei cattolici”.

Una sfida per le chiese

I dati sono da capogiro: secondo gli studiosi, dall’anno 2000 i carismatici e i pentecostali in tutto il mondo stanno aumentando al ritmo di circa 19 milioni ogni anno. E il Centro di ricerca “per lo Studio del cristianesimo globale” (Stati Uniti) afferma che nel 2000 i credenti carismatici/pentecostali erano già circa 582 milioni. Si prevede che entro il 2025 arriveranno a quota 800 milioni e che entro il 2050 i pentecostali potrebbero raggiungere il numero dei credenti indù nel mondo. Insomma, da movimento essenzialmente nuovo alla fine del XIX secolo, il pentecostalismo è diventato il movimento sociale o religioso con il maggior successo del ventesimo secolo. Questi i “numeri” con cui uno dei massimi esperti del fenomeno, Philip Jenkins, della “Baylor University”, ha aperto la sua relazione intervenendo oggi a Roma a una conferenza internazionale sui nuovi movimenti religiosi organizzata dalla Conferenza episcopale tedesca. Una tre giorni di dibattito e confronto alla quale hanno partecipato rappresentanti del Vaticano, membri delle Conferenze episcopali nazionali e studiosi. Scopo dell’incontro quello di delineare il fenomeno e cercare di dare orientamenti per azioni pastorali alle Chiese locali. Maria Chiara Biagioni, per il Sir, ha seguito l’incontro.

Le ragioni di un successo. La ricerca presentata da Jenkins ha cercato di capire che cosa si nasconde dietro al fenomeno del pentecostalismo il cui successo nel mondo va ricercato anche a partire dal contesto demografico mondiale: a fronte di una popolazione in rapida crescita in regioni del mondo come Africa, Asia e America Latina, l’Europa – demograficamente parlando – è in rapido declino. Questi nuovi movimenti religiosi, inoltre, fanno presa nelle aeree periferiche delle grandi metropoli, abitate soprattutto negli ultimi anni da milioni di migranti in fuga dalle zone rurali. In queste condizioni non solo di estrema povertà ma anche di “forte senso di estraneità”, questi movimenti offrono accoglienza, supporto, cura spirituale. È un fenomeno facilmente registrabile nelle favelas brasiliane e può spiegare, per esempio, il successo a San Paolo di un gruppo evangelicale dal nome “Renascer em Cristo” che riesce a riunire ogni anno ad aprile per la “Marcia per Gesù” dai 2 ai 3 milioni di persone. Non si può, dunque, approcciare questa realtà, senza tenere conto di questo aspetto fondamentale dei nuovi movimenti religiosi: quello di dare “rifugio” alle persone. Più ancora, una “famiglia”, dove “i suoi membri si aiutano vicendevolmente per superare le difficoltà della povertà”. Molto forte poi anche è il fattore “miracoli” e “guarigioni” soprattutto in contesti dove la povertà è causa di privazioni, malattie, fame, inquinamento, droga e prostituzione. “In contesti simili – nota Jenkins – è facile capire perché la gente si fa facilmente prendere dall’affermazione di essere sotto l’assedio delle forze demoniache, e che solo l’intervento divino può salvare”. 

Un fenomeno “non preso in considerazione a sufficienza”. Così il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, descrive al Sir la realtà dei nuovi movimenti religiosi, pentecostali ed evangelicali. “Questo fenomeno – dice – mostra che è in atto un grande cambiamento nel paesaggio ecumenico e che si affacciano nel dialogo nuovi partner”. E sulla possibilità di avviare un dialogo con una “galassia” così complessa, il cardinale Koch risponde: “Noi possiamo avere un dialogo solo con coloro che esprimono il desiderio di avere un dialogo”, facendo notare come “alcuni gruppi pentecostali si definiscono anti-ecumenici e anti-cattolici”. La strada del dialogo in questi contesti viaggia, comunque sia, a livello nazionale e locale. “Occorre prendere in seria considerazione questo fenomeno – ripete il cardinale -. Credo che sia questa la sfida principale e pone una domanda: che cosa facciamo? Perché la gente che appartiene alle nostre Chiese, non solo cattolica ma anche protestanti, si allontana? È una grande domanda, una grande sfida per noi”. “Le ragioni degli abbandoni sono molto differenti tra loro”. È però assolutamente necessario conoscerle e interrogarsi sulla “realtà del cristianesimo e della Chiesa cattolica in quel determinato Paese”. Quale orientamento pastorale suggeriscono questi movimenti? “In primo luogo – afferma il presidente del Pontificio Consiglio – un nuovo slancio missionario ma per essere missionari dobbiamo prima essere noi stessi convinti della nostra fede. E questa deve essere semplice, vera, buona e bella”.

 

III DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 5,27-32.40-41

In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono». Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.

Questo compito di pascere gli agnelli, ossia di dare come cibo al popolo la dottrina predicata da Cristo, viene contestato espressamente a Pietro e agli apostoli dalle autorità di Gerusalemme. Un primo incidente si era già verificato in precedenza, quando Pietro e Giovanni guarirono lo storpio che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del Tempio (At 3). In quell’occasione, mentre Pietro teneva un discorso, sopraggiunsero i sacerdoti e il comandante delle guardie del Tempio per arrestare i due apostoli, che avevano suscitato la fede in circa cinquemila uomini (At 4,1-4). Pietro non esitò a parlare con franchezza di Gesù davanti alle autorità, ricevendo soltanto il solenne ammonimento di non evangelizzare più (4,13-17). Pietro e Giovanni, però, altrettanto decisamente risposero: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi piuttosto che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (4,19-20).

     Tenendo presente quest’antefatto, divengono più chiare le parole di rimprovero che il sommo sacerdote rivolge agli apostoli. Ma costoro riprendono l’argomento della volta precedente: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (5,29). Senz’altro viene da porsi quest’interrogativo: come mai un gruppo di persone sprovvedute, o almeno così giudicate, ha tale franchezza nel parlare ai capi del popolo, toccando il tasto ancora dolente della morte di Gesù? Da dove nasce questo coraggio di «obiettare»? L’unica risposta accettabile e che non necessita di molti commenti proviene dalle loro stesse parole: «E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono» 5,32). Lo Spirito quindi è l’anima di queste persone, a cui un giorno il Maestro disse: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc12,11-12). E nemmeno la fustigazione li fece recedere, piuttosto considerarono un onore e perfetta letizia l’essere stati percossi a causa di Gesù Cristo e del suo Vangelo (cf. Mt 5,10-11 e Gc 1,2-4).

 

Seconda lettura: Apocalisse 5,11-14

Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.

 L’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto ha dominato sempre l’attività degli apostoli. Essi però aggiungono che «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati» (At 5,31 ). Quest’innalzamento nella gloria il libro dell’Apocalisse ce lo descrive con il suo tipico linguaggio simbolico. Gesù è chiamato Agnello, e come tale entra in scena al v. 6 del capitolo 5. Egli è al contempo «ritto», per indicare che è risorto e possiede tutta la forza che gli deriva dalla risurrezione, e «come immolato» (anche se sarebbe meglio tradurre «come ammazzato»), per sottolineare che egli ha pure tutte le virtualità che provengono dalla sua passione e morte. In virtù di tutto ciò, l’Agnello è in grado di «prendere il libro e di aprirne i sigilli» (5,9), ossia di saper leggere il piano di Dio.

     Il veggente assiste a uno spettacolo straordinario: un numero infinito di angeli, insieme agli esseri viventi e ai vegliardi, che lodano l’Agnello, di cui si ricorda ancora una volta la sua passione e morte violenta, ma in più si dice che è degno di ricevere una serie di prerogative e riconoscimenti. L’aggettivo «degno» non deve trarre in inganno: esso non si riferisce a valori morali, bensì alla capacità, da lui detenuta, di ricevere da Dio la potenza di agire, la ricchezza delle risorse divine, la sapienza nel condurre la storia e la forza di vincere il male, e dagli uomini l’onore, cioè la riconoscenza della sua azione di salvezza, insieme alla gloria e alla benedizione nella preghiera e nella liturgia.

     Ciò in effetti avviene al v. 13, quando ogni essere creato nei cieli (gli angeli), sulla terra (gli uomini), sotto terra (i morti) e sul mare (coloro che, uomini o angeli, hanno dimostrato di saper vincere il male, di cui il mare sarebbe la sede) elevano l’inno di lode a Dio, il grande dominatore della storia e della natura, che perciò siede sul trono, e all’Agnello, che ha concretamente realizzato le condizioni di questo dominio divino. Le creature, quindi, consapevoli che Dio e Cristo-Agnello hanno donato loro tutto quello di cui bisognavano per vincere il male, a modo loro nella lode colma di gratitudine tentano di restituire ciò che hanno ricevuto.

 

Vangelo: Giovanni 21,1-19

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

 

Esegesi

     Il primo versetto della pericope evangelica inquadra bene il taglio da conferire alla sua lettura: «Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così». Il verbo «manifestare» (in greco faneroo), poi, ricorre successivamente al v. 14, quasi a conclusione della prima parte di quest’ultimo incontro tra Gesù e i suoi discepoli: «Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti». In realtà, questo termine non è nuovo nel Vangelo di Giovanni, viene usato in 1,31 quando Giovanni Battista spiega che l’obiettivo della propria missione è «far conoscere» il Cristo; in 2,11 viene detto che Gesù «manifestò» la sua gloria nel segno compiuto a Cana; in 3,21 Gesù conclude il dialogo con Nicodemo affermando che chi compie la verità cammina verso la luce, allo scopo di «far apparire» che le sue opere sono fatte in Dio; in 7,4 viene tentato a «manifestarsi», cioè a compiere qualche segno grandioso; in 9,3 giustifica la cecità del cieco nato con l’opportunità di «manifestare» le opere di Dio; in 17,6 Gesù riassume la sua missione dicendo che «ha manifestato» il nome del Padre all’umanità. Questa volta, invece, Gesù non deve manifestare altro che se stesso in quanto risorto.

     Il verbo «manifestare» svolge una funzione importante nel capitolo 21: essendo presente nei vv. 1 e 14, esso ne delimita la prima parte, tutta dedicata al riconoscimento del Maestro, mentre i vv. 15-19 e 20-23 sono occupati da due dialoghi tra Gesù e Pietro, di cui la pericope proposta nella liturgia ci riporta solo il primo. Fatte queste premesse, siamo pronti ad addentrarci nel brano.

     Per l’evangelista Giovanni questa fu la terza e ultima apparizione di Gesù ai suoi discepoli (cf. 21,14), senza appunto contare quella a Maria Maddalena nel mattino stesso di Pasqua (20,11-18). Quanto tempo dopo l’apparizione a Tommaso (20,26-29) Gesù si sia nuovamente manifestato ai discepoli, il Vangelo non lo dice. Conosciamo però il luogo dell’avvenimento: non più Gerusalemme, teatro della passione, morte e risurrezione del Maestro, bensì «sul mare di Tiberiade» (21,1), zona dalla quale provenivano molti dei discepoli. I testimoni dell’accaduto, elencati al v. 2, sono sette dei Dodici discepoli, ma soltanto di cinque ci viene riferito il nome, ossia Simon Pietro, Tommaso, Natanaele e i due figli di Zebedeo. Possiamo però supporre che gli altri due siano il discepolo che Gesù amava, espressamente richiamato nel v. 7, e Andrea, fratello di Pietro. La narrazione evangelica esordisce mettendoci al corrente della decisione di Pietro, a cui si accodano anche gli altri. Ma l’iniziativa si conclude in verità con un radicale fallimento: «Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla » (v. 3).

     A questo punto entra in scena Gesù: quando era già l’alba, egli si presentò sulla riva. Benché gli apostoli si trovassero a poco più di novanta metri dalla riva (il testo greco parla di duecento cubiti, v. 8), non riconobbero che quella persona dalla terraferma era il Signore se non quando, ordinando di gettare le reti dalla parte destra della barca, si verificò il segno della «pesca miracolosa» e, quindi, il discepolo prediletto pronunciò la frase che forse tutti avevano in mente ma nessuno aveva il coraggio di pronunciare: «È il Signore!» (v. 7). La reazione di Pietro è immediata: si vestì, si gettò in acqua e guadagnò la riva, mentre gli altri la raggiunsero con la barca. I discepoli trovarono che era già stata preparata per loro una «colazione», a cui Gesù chiese di aggiungere del pesce appena preso. Ciò offre al narratore di volgere l’attenzione sulla rete che, tratta da Simon Pietro, non si ruppe, benché contenesse una gran quantità di pesci, ben centocinquantatre.

     Non ci soffermiamo sul tema del riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli, che è tipico di tutti i racconti pasquali e certamente già analizzato. Prestiamo invece attenzione alla figura di Pietro, il cui ruolo era stato in un certo qual senso definito quando Gesù lo incontrò: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: ‘Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti

chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)’» (1,42; cf. Mt 16,17-19). Prima di chiudere del tutto la sua vicenda terrena, Gesù vuole finalmente chiarire il suo progetto, che potremmo sintetizzare intorno a tre principi. In primo luogo, non esiste alcuno che possa realizzare qualcosa prescindendo da Lui, nemmeno Pietro. Lo dimostra la pesca infruttuosa intrapresa da questi e dagli altri: ci sembra sentire risuonare le parole di Lc 5,5: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla». In secondo luogo, è Pietro che si sobbarca la fatica di trarre a riva la rete piena di pesci, ossia è a lui in prima istanza che è data la responsabilità di essere «pescatore di uomini» (cf. Lc 5,10). Infine, la rete che non si rompe sottolinea il fatto che, autenticamente fondata sulla parola di Gesù e guidata da Pietro, la chiesa non si divide (il testo greco usa il verbo schízo, quasi a voler escludere «scismi»).

     Il dialogo dei vv. 15-19 esplicita la simbologia del racconto della manifestazione. Gesù chiede a Pietro per ben tre volte se lo ama, perché è sulla base di quest’amore totale e incondizionato che diventa concreta e fruttuosa l’esecuzione della missione. La missione viene esplicitata con il comando di pascere, come al v. 11 era stata indicata con il verbo «trarre». Ma le pecore e gli agnelli da pascere non appartengono a Pietro, bensì a Gesù, che ha offerto la propria vita per loro, al fine di riunirle e di proteggerle da chi vuole disperderle (cf. Gv 10,11-18). Ma pure a Pietro viene chiesto di offrire la vita per il gregge che Gesù gli ha affidato (vv. 18-19), perciò acquisisce un senso più chiaro quell’invito a seguirlo nel peso di pascere il gregge e di morire per esso.

 

Meditazione 

     Dopo averci fatto ascoltare il racconto della venuta del Risorto nel cenacolo, la liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci conduce presso il lago di Tiberiade per assistere alla terza e ultima manifestazione di Gesù narrataci da san Giovanni. È un manifestarsi di nuovo, come l’evangelista precisa al v. 1: «Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo». Dopo questi fatti, dopo tutto ciò che il Quarto Vangelo e i Sinottici ci hanno raccontato della vicenda storica e pasquale di Gesù, il Signore torna a manifestarsi nella ferialità della vita, laddove i discepoli sembrano tornare alle occupazioni di sempre. Con ogni probabilità il vangelo di Giovanni, nella sua prima redazione, si concludeva al capitolo 20; il capitolo 21 costituisce dunque un’aggiunta successiva da parte della comunità. Al di là di questi problemi storico-letterari, noi lettori ci troviamo di fronte a questo fatto sorprendente: nel momento in cui il vangelo si chiude, torna ad aprirsi. Il Signore si manifesta nuovamente nel tempo della Chiesa, anche dopo ‘quei fatti’ che appartengono alla memoria storica dei primi discepoli. Giovanni parla qui di manifestazione, un termine che non usa mai nei racconti di risurrezione del capitolo precedente. Quasi a suggerirci che si tratta di un manifestarsi diverso rispetto agli incontri vissuti con il Risorto dai suoi discepoli storici. Nello stesso tempo precisa che si tratta della «terza manifestazione», ricollegandola così alle apparizioni precedenti. È un manifestarsi del Risorto diverso, ma in continuità con gli incontri vissuti dai discepoli della prima ora. Il primo invito con cui questa pagina ci interpella è allora a vigilare per riconoscere questa manifestazione sempre nuova del Signore nella nostra vita e nella vita delle nostre comunità.

     Siamo già nella luce piena del tempo pasquale, eppure il racconto giovanneo ci conduce ancora nella notte, che non è solo la notte dell’infecondità di una pesca vana, ma anche la notte dell’assenza del Signore. Inoltre la barca, nell’insieme della tradizione evangelica, sembra essere luogo di prova e di purificazione della fede. Il Vangelo di Giovanni ci parla solo in un altro passo del lago di Tiberiade e di questa barca su cui i discepoli sono soli, senza il Signore; lo fa al capitolo sesto, dopo il segno dei pani, quando la barca si trova esposta al pericolo del mare agitato e del forte vento. La barca è dunque anche luogo di paura, di timore, di fronte al mare che simboleggia ogni forma con cui il male minaccia la vita degli uomini e la fede dei discepoli. La barca è il luogo in cui una piccola fede, una fede che è sempre ‘poca’, per dirla con Matteo, è chiamata a divenire una fede matura attraverso il fuoco purificatore della prova. Certo, nella tradizione la barca è anche un simbolo ecclesiale, ma la Chiesa non è appunto questo: una comunità in cui la piccola fede è chiamata a divenire una grande fede; in cui il non-sapere che era Gesù può divenire la conoscenza piena di chi grida «È il Signore!», in cui l’infecondità di una rete vuota si trasforma in una rete traboccante di centocinquantatre grossi pesci? Ma a quali condizioni è possibile vivere nella Chiesa questo passaggio che è sempre un passaggio pasquale? Il capitolo 21 non ci parla solo dell’incontro con il Risorto, ma anche del cammino di conversione e di purificazione della fede che occorre vivere per giungervi.

     Tra i molti spunti che il testo offrirebbe, ne cogliamo solamente uno. Il capitolo si apre con la decisione di Pietro: «io vado a pescare». Se in queste parole c’è l’aspetto positivo di una responsabilità vissuta in prima persona, capace di suscitare la collaborazione e l’operosità di altri – «Veniamo anche noi con te» (v. 3) – in esse si nasconde comunque la tentazione di un’impresa autonoma e autoreferenziale, vissuta nell’assenza del Signore. Non perché lui non ci sia, ma perché non lo si riconosce presente, e soprattutto perché non si ha abbastanza cura nel porre in relazione il nostro operare con la sua Parola, i criteri del nostro agire con i suoi criteri. È la tentazione di un agire autoreferenziale e autonomo che, per quanto vissuto in nome del Signore, rischia di rendere marginale o non incidente la sua presenza. Quando e laddove il Signore si rende presente con la sua parola, egli esige e rende possibile la nostra conversione. Infatti, in quella notte in cui il Signore rimane assente e c’è soltanto la propria autonoma decisione, i discepoli «non presero nulla». Giovanni usa il verbo piàzo, che significa più precisamente ‘arrestare’. È il medesimo verbo che l’evangelista utilizza più volte nel suo racconto per descrivere il tentativo vano da parte delle autorità giudaiche di arrestare Gesù, perché non era ancora giunta la sua ‘ora’. È vano il tentativo di arrestare Gesù, solo lui può liberamente consegnare se stesso in un amore più forte e radicale dell’odio di chi tenta di catturarlo. Come non si arresta Gesù, così è vano ogni tentativo di vivere il proprio ministero di pescatore di uomini nella modalità di un potere, in qualsiasi forma esso venga esercitato, che tenta o pretende di arrestare, di catturare, di bloccare, di trattenere. Occorre entrare in una logica diversa, che è appunto la logica pasquale di chi non si lascia arrestare, e neppure ‘cattura’ gli altri, ma si consegna nell’amore.

     Al v. 6 l’evangelista annota che, dopo il segno della pesca miracolosa, i discepoli non potevano più tirare la rete per la gran quantità di pesci. Sono sette e non riescono. Al v. 11 narra invece che «Simon Pietro salì sulla barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti la rete non si spezzò». Pietro, riesce a fare ora, da solo, quello che prima, in sette, non erano riusciti a fare. Perché ora può? Il racconto risponde a questo interrogativo in modo simbolico: ora può, perché si è gettato in mare. Il mare nella Bibbia è metafora di male, sofferenza, pericolo, morte… In questo mare Pietro si getta, con un gesto che ha un marcato valore battesimale: immergersi nelle acque significa immergersi nella morte del Signore per divenire partecipi della sua risurrezione. Ed è pro-prio il gettarsi nelle acque per essere pienamente partecipe del mistero pasquale, che consente a Pietro di divenire davvero, in modo autentico, quel pescatore di uomini a cui già nel suo primo incontro il Signore Gesù lo aveva chiamato. Il simbolismo battesimale è rafforzato anche dal verbo ‘salire’ del v. 11, che però nel testo originario rimane senza complemento di luogo. Il traduttore aggiunge «salì sulla barca», ma in greco non è detto; Pietro semplicemente risale dalle acque, ed è ancora un modo per alludere al battesimo che ci immerge nelle acque per renderci partecipi della morte di Gesù, e poi da esse ci fa risali- re, rendendoci partecipi della sua risurrezione. Solamente questa conformazione battesimale alla Pasqua di Gesù può consentire a Pietro non solo di vedere la sua rete riempirsi, ma di trarre i pesci fuori dal mare, dalle acque impetuose, per condurli alla terra ferma dell’incontro con il Signore Risorto. Per descrivere Pietro che trae la rete dal mare, Giovanni usa lo stesso verbo greco (hélko) con cui Gesù afferma solennemente al capitolo 12: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32). È attraverso la sua Pasqua che Gesù ci attira a sé, ed è attraverso la sua conformazione battesimale al mistero pasquale che anche Pietro può attrarre a Gesù tutti coloro che la sua rete trova e custodisce. Si possono liberare gli uomini dalle acque della morte solo accettando di immergersi in esse, di attraversare personalmente l’esperienza della compassione, condividendo il destino del proprio Maestro e Signore nelle sofferenze stesse dei suoi fratelli, dei quali bisogna prendersi cura.

Preghiere e racconti

«Simone mi ami tu?»

… Il gallo cantò per la terza volta.

Gesù uscì dalla sala…… e Simon Pietro,

seguendo il rumore, guarda dalla sua parte.

Lo vede e « pianse amaramente ».

Lo stesso Pietro che da quel momento

è diventato vergognoso e intimidito,

perennemente intimidito,

anche se non riusciva a trattenere i suoi slanci abituali,

li compiva, poi si fermava bloccato dalla vergogna,

dalla vergogna del ricordo…

…era là in disparte quella mattina sulla riva…

erano là tutti intorno quel mattino,

in silenzio timoroso, intimiditi

così che nessuno domandava qualche cosa

perché tutti sapevano

che era il Maestro.

Nella frescura di quell’ora mattutina

coi pesci – quei pesci che si agitavano ancora

alle loro spalle – dopo una notte arida di frutto

erano là a mangiare il pesce…

…il pesce preparato da Lui

che aveva pensato anche al loro mangiare

perché sarebbero tornati stanchi.

Il Signore si era steso vicino,

era lì vicino, a mangiare con loro.

Il Signore lo guardava.

Lui sguardava,

ma non guardava

perché aveva vergogna più del solito…

Il Signore forse l’avrà guardato intensamente

finché Pietro disagiato da quello sguardo fisso

si sarà voltato, come a dire « Che vuoi?». 

E Gesù, immediatamente,

senza porre frammento di tempo in mezzo:

«Simone, mi ami tu più di costoro?».

Lo diceva a chi l’aveva offeso,

lo diceva al temperamento più facile all’incoerenza, al traditore.

Dopo Giuda, lui.

Ma in lui era evidente che Cristo era.

« Signore, tu lo sai che ti amo».

Non poteva non voltare la faccia

e dire la sua risposta.

Non poteva.

Sarebbe stata una menzogna.

Gli voleva bene,

l’aveva tradito ma gli voleva bene.

Perciò si è voltato verso di Lui

e gli ha dato quella risposta che non era mai venuta meno,

eccetto che in quei momenti terribili.

Gli ha dato la risposta

per cui era continuamente

voltato verso di Lui, dovunque fosse,

fosse sulla barca, nel mare del mattino,

tra la folla sulla montagna,

quando era in casa e Lui non c’era… 

Non è vero che ti ho odiato,non è vero che non ti ho amato…

perché «tu lo sai, Signore, che ti amo».

Ma è il contrario di quello che hai fatto…

Io non so come sia, so che è così. 

« Simone, mi ami tu?».

Non ha detto

«Non peccare non tradire, non essere incoerente».

Non ha toccato nulla di questo.

Ha detto:« Simone, mi ami tu?».

Ognuno di noi

non riesce a sfuggire completamente

al fatto che Cristo è amabile

e ama noi esattamente così come siamo.

Cristo è chi si compiace di noi.

di me, dice san Pietro piangendo,

la Maddalena, la Samaritana, l’assassino.

Cristo è colui che si compiace di me e perciò mi perdona.

Mi ama e mi perdona.

(Luigi Giussani)

Mi ami tu?

Ecco che il Signore, dopo la sua resurrezione, appare di nuovo ai suoi discepoli. Interroga l’apostolo Pietro e spinge a confessare per tre volte il proprio amore colui che aveva rinnegato tre volte per timore. Cristo è risorto secondo la carne, Pietro secondo lo spirito. Mentre Cristo moriva soffrendo, Pietro moriva rinnegando. Il Signore Cristo resuscita dai morti e nel suo amore resuscita Pietro. Ha interrogato l’amore di colui che lo confessava e gli ha affidato le sue pecore. […] Il Signore Cristo volendo mostrarci in che modo gli uomini debbano provare che lo amano, lo rivela chiaramente: va amato nelle pecore che ci sono affidate. Mi ami tu? Ti amo. Pasci le mie pecore. E questo una volta, due volte, tre volte. Pietro non dice altro se non che lo ama. Il Signore non gli domanda altro se non se lo ama.

A Pietro che gli risponde non affida altro se non le sue pecore. Amiamoci a vicenda e ameremo Cristo. Cristo, infatti, eternamente Dio, è nato uomo nel tempo. È apparso agli uomini come uomo e figlio dell’uomo. Essendo Dio nell’uomo, opera molti miracoli. Ha molto sofferto, in quanto uomo, da parte degli uomini, ma è risorto dopo la morte perché era Dio nell’uomo. Ha passato sulla terra quaranta giorni come un uomo con gli uomini. Poi, sotto i loro occhi, è asceso al cielo come Dio nell’uomo e si è assiso alla destra del Padre. Tutto questo lo crediamo, non lo vediamo. Ci è stato ordinato di amare Cristo Signore che noi non vediamo e tutti noi proclamiamo: «Io amo Cristo». Ma se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi? (I Gv 4,20). Amando le pecore, mostra di amare il pastore, perché le pecore sono membra del Pastore.

(AGOSTINO, Discorso Morin Guelferbytanus 16, PLS 2,579-580).

Rispondere all’amore di Dio

Dio dice: «Ti amo di un amore eterno», e Gesù è venuto a insegnarci questo. Quando Gesù fu battezzato, si udì una voce che diceva: «Questo è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». È un’affermazione molto importante e Gesù vuole che noi l’ascoltiamo. Noi siamo i prediletti, non perché abbiamo fatto qualcosa, non perché abbiamo dato prova di noi stessi.

Sostanzialmente Dio ci ama qualunque cosa facciamo. Se questo è vero, per i pochi anni in cui siamo in questo mondo siamo invitati a dire, nel contesto della nostra esistenza: «Sì, o Dio, anch’io ti amo».

Proprio come Dio si prende cura di noi, è molto importante che noi ci prendiamo cura di Dio nel mondo. Se Dio è nato come un piccolo bambino, Dio non può camminare o parlare se qualcuno non insegna Dio. È questa la storia di Gesù, che per crescere ha bisogno degli esseri umani. Dio dice: «Voglio essere debole affinché tu possa amarmi. Quale modo migliore per aiutarti a rispondere al mio amore se non diventando debole affinché tu possa prenderti cura di me?». Dio diventa un Dio vacillante, che cade sotto la croce, che muore per noi e che ha un totale bisogno di amore. Dio fa questo affinché possiamo essergli più vicini. Il Dio che ci ama è un Dio che diviene vulnerabile, dipendente nella mangiatoia e dipendente sulla croce, un Dio che fondamentalmente ci chiede: «Sei qui per me?».

Dio – si potrebbe dire – aspetta la nostra risposta. In modo molto misterioso Dio ‘dipende’ da noi. Dio dice: «Voglio essere vulnerabile, ho bisogno del tuo amore. Ho desiderio di una tua dichiarazione d’amore». Dio è un Dio geloso nel senso che vuole il nostro amore e vuole che diciamo di sì. Per questo, alla fine del Vangelo di Giovanni, Gesù chiede a Pietro tre volte: «Mi ami tu?». Dio aspetta la nostra risposta. La vita ci offre infinite opportunità di dare questa risposta.

(Henri J.M. NOUWEN, La via della Pace, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 81-82).

Butto la rete

Signore,

la mia sola sicurezza sei tu

come il mare che ho davanti

e nel quale butto la rete della mia vita.

Anche se finora non ho pescato nulla

anche se a volte non ne ho la voglia

io so Signore che se avrò la forza

di buttare continuamente questa rete

troverò il senso della verità.

(E. OLIVERO, L amore ha già vinto. Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005).

Gli atti dell’amore

L’amore di Cristo per Pietro fu così senza limiti: nell’amare Pietro egli mostrò come si ama l’uomo che si vede. Egli non disse: «Pietro deve cambiare e diventare un altro uomo prima che io possa tornare ad amarlo». No, tutt’al contrario. Egli disse: «Pietro è Pietro e io lo amo; è il mio amore semmai che lo aiuterà a diventare un altro uomo!». Egli non ruppe quindi l’amicizia per riprenderla forse quando Pietro fosse diventato un altro uomo; no, egli conservò intatta la sua amicizia, e fu proprio questo che aiutò Pietro a diventare un altro uomo. Credi tu che, senza questa fedele amicizia di Cristo, Pietro sarebbe stato recuperato? A chi tocca aiutare chi sbaglia se non chi si dice amico, anche quando l’offesa è fatta contro l’amico?

L’amore di Cristo era illimitato, come l’amore deve essere quando si deve compiere il precetto di amare amando l’uomo che si vede. L’amore puramente umano è sempre pronto a regolare la sua condotta a seconda che l’amato abbia o non abbia perfezioni; mentre l’amore cristiano si concilia con tutte le imperfezioni e debolezze dell’amato e in tutti i suoi cambiamenti rimane con lui, amando l’uomo che vede. Se non fosse così, Cristo non sarebbe mai riuscito ad amare: infatti, dove avrebbe egli mai trovato l’uomo perfetto?

(S. KIERKEGAARD, Gli atti dell’amore, Milano, 1983, 341-344).

Mi ami? Una domanda cruciale

Per tre volte il Signore chiede a Pietro di proclamare il suo amore, di dichiararlo apertamente. È logico chiederci: perché l’ha fatto? Evidentemente l’ha fatto perché lo avvertiva come un bisogno molto importante di Pietro: tre volte Pietro l’aveva rinnegato, tre volte davanti a tutti lo invita a proclamare il suo amore.

È interessante questo particolare: a ogni proclamazione di amore segue una consegna precisa di Gesù. Gesù conferisce un compito e una responsabilità solenne: «Pasci le mie pecorelle», il che in sostanza significa: da’ la prova che mi ami, spendendoti per i tuoi fratelli, diventando strumento di salvezza per i tuoi fratelli. […] Alla terza dichiarazione solenne di Pietro, Gesù chiede veramente tutto: chiede nientemeno che l’offerta della vita. Disse: «Seguimi!». «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio».

Non è certo impossibile che il nostro amore se ne stia tranquillamente nel vago; dobbiamo sempre temere che resti ovattato di belle parole. Finché stiamo solo nel mondo delle belle parole, non siamo sicuri di amare veramente il Signore. E allora Gesù smantella le parole e aiuta a verificarle con la concretezza: «Pasci! ». Cioè: aiuta! salva! Che per Pietro significa: istruisci, organizza, cioè spenditi per i tuoi fratelli per amore verso di me, perché te lo dico io stesso.

È sempre incombente il pericolo che nella nostra preghiera del cuore non scendiamo alla concretezza. Gesù pretende la concretezza dell’amore.

Vigiliamo dunque sulla concretezza della nostra preghiera del cuore: dobbiamo alzarci dai piedi del Signore con in mano una verifica precisa del nostro amore, un dono preciso, una conversione precisa.

E dobbiamo essere attenti che non sia un dono scelto soltanto da noi, ma scelto veramente da lui, gradito a lui, voluto e specificato da lui: maturato cioè nella preghiera. […] Pietro probabilmente avrebbe dato altro al Signore; il Signore invece gli chiede di fare bene il Capo, un capo capace di pascere, cioè di nutrire il gregge, e un capo tanto impegnato col gregge da essere pronto a giocare anche la vita quando sarebbe scoppiata la persecuzione.

(A. GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Torino, Elle Di Ci, 1993, 205-207)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER LA MEDITAZIONE PERSONALE:

PASQUA III DI PASQUA C

La “Saggezza digitale” compito di riflessione per i cattolici

La rete e la carta. Due modalità di comunicazione il cui rapporto può apparire problematico e che in più di un caso vivono un conflitto. Ma nessuno può negare che il futuro della comunicazione passa attraverso un rapporto sempre più virtuoso tra la stampa e Internet. A dirlo sono le 186 testate cattoliche aderenti alla Fisc (Federazione italiana dei settimanali cattolici), riunite in convegno a Chioggia da oggi a sabato sul tema “Informazione in rete: carta stampata e web”. Presenti in circa 170 diocesi, queste testate (1 agenzia, 6 on line, 1 quotidiano, 2 bisettimanali, 128 settimanali, 18 quindicinali e 25 mensili) raggiungono gran parte del territorio nazionale e pure gli italiani all’estero, con 5 giornali loro dedicati. “Giornali di carta e Rete sono destinati a viaggiare insieme, non per combattersi, ma per richiamarsi a vicenda”, ha esordito il presidente nazionale della Fisc e direttore del “Corriere Cesenate”, Francesco Zanotti, aprendo i lavori. Mentre monsignor Vincenzo Tosello, direttore di “Nuova Scintilla” (Chioggia), ha ripercorso i cent’anni della testata, il cui anniversario viene celebrato con questo appuntamento. Infatti, il logo prescelto unisce la prima testata (“La Scintilla”) a una raffigurazione della versione attuale per tablet. 

Tra difficoltà e mutamenti. Certo, per la carta stampata non mancano le difficoltà, specie in questo periodo, motivo per cui serve “un’attenta analisi dei fenomeni in atto nel campo della rete e della multimedialità e nel contempo una lungimirante lettura dei possibili sviluppi al fine di orientare le scelte nell’ambito della stampa diocesana”, ha richiamato nella prolusione monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali. Il primo dei problemi è di natura economica: cala la pubblicità e “le vendite risentono della minore disponibilità di risorse economiche”. In secondo luogo, “la possibilità per ognuno di accedere all’informazione in tempo reale e gratuita su web, tv e radio”. A tal riguardo, ha sottolineato, “è cambiato il nostro modo di ricercare e apprendere informazioni”, “siamo bombardati e ‘inseguiti’ da un enorme flusso, potremmo dire un ‘torrente impetuoso’ d’informazioni, sempre a portata di mano attraverso un unico strumento: lo smartphone o il tablet”, mentre “la corsa all’acquisto tecnologico, sebbene rallentata, è l’unica ancora in continua crescita”.

La “saggezza digitale”. Conseguenza del “torrente” informativo del web è la mancanza di filtri e gerarchie tra le notizie. “Oggi domina il criterio della velocità”, ha osservato Giuliodori, interrogandosi “se non si stia sacrificando la qualità comunicativa, e quindi relazionale, sull’altare della quantità e dell’efficienza”. In altri termini non basta usare il digitale, ma bisogna conseguire una “saggezza digitale” – ovvero la “capacità di prendere decisioni più sagge in quanto potenziate dalla tecnologia”, secondo la definizione di Marc Prensky – ed è questo il “nuovo passo evolutivo del genere umano”, senza il quale “la società moderna corre il rischio di un’involuzione”. Un passo al quale i cattolici sono chiamati elaborando “strategie di marketing non soltanto commerciale, ma che potremmo definire preminentemente ad alto impatto antropologico, finalizzato a rilanciare con forza questo prezioso servizio la cui peculiarità è rappresentata dalla capacità di cogliere e comunicare i valori fondamentali”. “Chi, se non la stampa cattolica, potrà avere il compito difficile, ma assai urgente, di far comprendere l’importanza di un’etica della comunicazione?”. Questa la domanda posta dal presule ai rappresentanti delle testate cattoliche, invitandoli “a non perdere, cammin facendo, l’essenziale della nostra vocazione e missione”.

Sfida educativa. In gioco c’è “una sfida che è innanzitutto educativa”, come ricordano gli Orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il decennio. Di fronte a uno “sviluppo esponenziale dei mezzi di comunicazione”, “dev’essere potenziato – ha sottolineato il vescovo – l’impegno a svolgere un ruolo incisivo a livello culturale e sociale”. “Così – ha aggiunto – le nostre testate vivranno e si rafforzeranno se riusciranno a promuovere e a stimolare il dialogo nelle realtà locali, poiché la loro missione è soprattutto formativa e a servizio della comunità”. “La stampa cattolica – secondo Giuliodori – deve mantenere e potenziare la capacità di essere una bussola nel mondo dell’informazione”, “avere la forza e l’audacia di rivolgersi agli utenti dei nuovi media”, offrendo “un’informazione in grado di accompagnare il lettore attraverso gli spazi di riflessione, di confronto e approfondimento”, “generando una comunicazione efficace, capace anche di sedurre, ma soltanto per accompagnare lo sguardo, l’attenzione del lettore e il suo cuore verso un ‘oltre’”. Il presidente della Commissione Cei ha infine ricordato “l’eccellente esempio del quotidiano ‘Avvenire’ e di non pochi settimanali diocesani”, evidenziando che, “di fronte al bombardamento d’informazioni e d’immagini, la nostra stampa può rappresentare il mediatore capace di valorizzare, raccogliere e, se necessario, filtrare le notizie smascherando quelle false e accompagnando nella lettura critica dei nuovi ambienti digitali, dalle potenzialità straordinarie, ma anche pieni d’insidie”.

a cura di Francesco Rossi, inviato Sir a Chioggia

La svolta digitale

Carta stampata e web non sono certo in contraddizione, anche se effettivamente spesso sono ormai in concorrenza, fino al punto che i giornali cartacei paventano una sorta di ineluttabile declino sull’onda sempre più travolgente della Rete. Di fatto, le cose non sono così drammatiche, tanto è vero che sorgono e si affermano anche nuove testate a stampa. Il che significa che – in particolare nel mondo dell’informazione – il successo, o semplicemente il gradimento, dipendono, più che dallo strumento in sé, da cosa si ha da dire e da come lo si dice o lo si vuol dire.
Riflettere su questo tema, vitale per il presente e per il futuro della loro stessa esistenza, significa per i settimanali diocesani – molti dei quali, come il nostro, vantano oltre un secolo di vita e di servizio alla gente e al territorio – dotarsi di una marcia in più per arrivare, attraverso la potente Rete globale, a molte più persone, in differenti modalità, e molto più in là rispetto ai nostri confini.
Nel nostro caso “La Scintilla”, fondata cent’anni fa, già diventata settant’anni fa “Nuova Scintilla”, è chiamata a rinnovarsi ulteriormente, questa volta non tanto nel nome della testata ma nelle modalità di approccio ai lettori, che sono sempre più anche “navigatori” della Rete, o “internauti” come vengono sinteticamente definiti: un pubblico certamente più giovane rispetto alla cerchia consueta dei nostri abbonati, un pubblico per alcuni aspetti anche più esigente e più interattivo, grazie alle molteplici possibilità di comunicazione offerte, oltre che dai siti, dai vari social network in cui noi, come già vari altri settimanali diocesani, siamo presenti e attivi.
Si tratta, concretamente, di rivedere anche il modo di pensare il giornale cartaceo in stretto collegamento con i vari interventi in Rete o, addirittura, con una vera e propria edizione on-line, che già alcuni stanno realizzando. Senza nulla togliere al valore della carta stampata – che dalla propria storia plurisecolare di servizio informativo e formativo trae motivo di giusto orgoglio e, ci auguriamo, anche linfa per sempre nuove fioriture – è fuor di dubbio che siamo stimolati a perseguire nuovi traguardi, senza bloccarsi in una sorta di deleterio arroccamento e senza fermarsi impauriti dalla gravità e dall’urgenza del compito.
Il convegno che si svolge a Chioggia da oggi al 13 aprile, sulla scia di altri recenti incontri nazionali che hanno aiutato i mass media d’ispirazione cristiana a riflettere sull’incalzante realtà del web, vuol essere appunto una sorta di presa di coscienza collettiva delle nostre 186 testate federate nella Fisc per un impegno comune che metta insieme idee, progetti ed energie, in modo da rispondere meglio alle inevitabili e avvincenti sfide dell’era digitale.
Circa vent’anni fa (nell’ottobre del 1994), proprio da Chioggia, dove si svolgeva il convegno Fisc sul tema “Informazione e mercato”, veniva lanciata la formula delle “sinergie” per affrontare le esigenze del mercato editoriale trasformato dalle nuove tecnologie e dalle impellenti esigenze di allora. Ora da Chioggia può scaturire per i nostri settimanali – ce lo auguriamo, anche per la competenza dei relatori e per la concretezza del dibattito che s’intende portare avanti – un nuovo impulso per affrontare insieme l’attuale “era digitale”. Ciò comporterà tracciare alcune linee comuni e prospettare anche progetti comuni (alcuni già sono in cantiere), attraverso la conoscenza e lo scambio delle esperienze in atto, ma anche con l’ardire verso nuovi sviluppi.
Come siamo convinti che non sono strumenti contraddittori, ma eventualmente complementari, il cartaceo e l’on-line, così sappiamo che non c’è contraddizione ma integrazione tra informazione nel territorio – nostra peculiare vocazione – e sguardo globale – nostra esigenza originaria già iscritta nel Vangelo che annunciamo. Raccontare il territorio nel web diventa più impegnativo, per esigenze tempistiche e di sintesi, ma è anche più efficace e a più ampio raggio, esposti e, in un certo senso, costretti alla verifica più immediata dei contenuti e dei metodi della comunicazione. Stampa e web hanno molto da condividere e, allo stesso tempo, molto da offrire, insieme, al vasto mondo di lettori e navigatori, anch’essi sempre più coinvolti nell’essenziale opera informativa.

 (*) direttore “Nuova Scintilla”

Stampa e web, crescere insieme

Non ci sono nuovi media che scacciano i vecchi, ma gli uni e gli altri vanno valorizzati secondo le loro specifiche caratteristiche. A riflettere su questo “doppio binario” contribuirà il convegno nazionale della Federazione italiana dei settimanali cattolici (Fisc), che prenderà il via domani a Chioggia e ha per tema “Informazione in rete: carta stampata e web”. 186 le testate rappresentate dalla Fisc, tra cui “Nuova Scintilla”, il settimanale della diocesi che ospita il convegno, che festeggia i 100 anni dalla fondazione. Alla vigilia dell’appuntamento il Sir ha incontrato Francesco Zanotti, presidente nazionale della Fisc.

Quale messaggio intende dare la Federazione con un nuovo convegno dedicato al digitale?
“Vogliamo continuare a interrogarci su questo doppio versante della convivenza tra stampa e rete e sulle sfide che il web pone alla carta stampata. Dovremmo essere ‘inquieti’, coltivare quella sana inquietudine che ci rende desti e attenti al mondo in cui viviamo. Il rischio che corriamo, oggi più che mai, è quello di ‘sederci’ nelle redazioni mentre le notizie ci piovono addosso. La rete, invece, ci chiede con ancora più forza di essere originali. Le notizie si trovano se si sta in mezzo alla gente e, in un momento di risorse scarse, ci è chiesto un supplemento d’impegno”.

D’altra parte, proprio Internet favorisce questa “pioggia” d’informazioni…
“Non dobbiamo solo selezionare nel mare magnum delle notizie che ci arrivano. Come testate della Chiesa locale abbiamo una nostra originalità, prima di tutto nel territorio in cui ci troviamo, nelle nostre comunità, nelle storie della gente: possiamo raccontare la vita di parrocchie, gruppi, famiglie numerose, difficoltà e dolori vissuti in maniera esemplare. Noi possiamo leggere la realtà anche da un altro punto di vista. E lo possiamo fare pure attraverso la rete”.

Quindi, la rete è una risorsa per i giornali del territorio?
“Sì, dobbiamo solo evitare il rischio di una velocità che ci renda schiavi. Al contrario, è nostro compito specifico invitare alla riflessione, al ragionamento serio e pacato”. 

È possibile, a tal fine, coniugare cartaceo e web?
“Direi che è doveroso. Penso che si debba lavorare insieme tra cartaceo e web: sono due modalità per raggiungere pubblici diversi, o magari anche il medesimo, ma con approcci differenti. Oggi, per stare sulla rete, dobbiamo essere veloci e sintetici, pur sempre nel rispetto della notizia e della persona. È ciò che ci domanda chi va sui nostri siti. Mentre sulla carta stampata il lettore ci chiede un approfondimento, magari un commento. Inoltre il web ci consente ancora di più di diventare ‘rete’: una rete (di giornali del territorio) nella rete (digitale)”.

Sull’utilizzo delle nuove tecnologie già da anni vengono proposte riflessioni: si pensi ai convegni della Chiesa italiana (da “Testimoni digitali” ad “Abitanti digitali”, solo per citare i più recenti), ai messaggi del Papa per la Giornata delle comunicazioni sociali, ai precedenti convegni della Fisc (“Territorio e Internet, due luoghi da abitare”, titolava l’incontro di Cesena nel 2011). Quale riscontro si trova a livello di stampa del territorio?
“Ciascuno opera con autonomia giocandosi la sua responsabilità: questo è il limite ma anche la forza della nostra Federazione. In questi appuntamenti vengono offerte delle possibilità e anche quest’ulteriore riflessione avviene perché abbiamo bisogno di confrontarci. Poi c’è da registrare anche una certa – comprensibile – cautela nei passi che si compiono. Ma ci muoviamo con fiducia e con quella speranza che fa parte della nostra esperienza quotidiana”.

A suo avviso, i media cattolici – e in particolare quelli del territorio – come stanno affrontando la crisi?
“Ognuno mette in campo la sua fantasia con iniziative locali, un’ancora maggiore presenza sul territorio, esperienze per avvicinare i gruppi e la città. C’è inoltre da rilevare che, pur in un contesto di difficoltà generalizzata, la stampa locale soffre in misura minore rispetto a quella nazionale. Sui motivi di speranza, infine, in questi ultimi tempi abbiamo visto l’inizio delle pubblicazioni di ‘A sua immagine’, del nuovo periodico dei Paolini ‘Credere’ e la riapertura del settimanale diocesano di Salerno, ‘Agire’: sono segnali che ci fanno capire come la carta stampata abbia ancora un ruolo da giocare”.

Resta aperta la questione dei fondi per l’editoria…
“È una spina nel fianco per le nostre imprese editoriali, alle quali non vengono date certezze. Prendono solo una piccola parte di questi fondi, ma sono importi comunque significativi per i nostri bilanci”. 

A Chioggia si festeggeranno i 100 anni del settimanale diocesano locale, “Nuova Scintilla”. Nell’epoca della globalizzazione qual è lo spazio che ha la comunicazione del territorio?
“Proprio il territorio è l’arma vincente. Siamo chiamati a essere attenti al locale e, contemporaneamente, al nazionale e sovranazionale, con lo sguardo rivolto pure verso l’alto per fare un’‘altra’ informazione, illuminata dall’esperienza di fede. Questo è ciò che ha spinto a dar vita alle nostre testate: uno sguardo valido oggi come allora”.

SIR del 11/04/13

Pajer Flavio, Escuela y Religión en Europa.

Un camino de cincuenta años

[1960-2010]

Pajer Flavio, Escuela y Religión en Europa. Un camino de cincuenta años [1960-2010], PPC, Madrid 2012, pp. 111.

 

Volumetto che presenta un’utile sintesi dell’evoluzione registratasi negli ultimi cinquant’anni in tema di insegnamento religioso (IR) nella scuola pubblica europea. In questa articolata storia si possono distinguere tre grandi fasi che vengono  illustrate nei tre capitoli centrali del testo. La prima fase si sviluppa negli anni dell’immediato postconcilio e vede la progressiva distinzione tra l’IR e la catechesi propriamente detta. È il tempo della «de-catechizzazione» dell’IR; fenomeno favorito da svariati fattori quali: la secolarizzazione delle società, l’affermazione della laicità dello stato, la formazione di società sempre più multietniche e multireligiose, la crescente incapacità delle agenzie educative e di socializzazione di trasmettere il tradizionale capitale simbolico di valori e costumi di vita, il ripensamento dell’educazione, la riflessione dei centri di studio teologico-pastorali, ecc. In questo variegato contesto si supera progressivamente l’IR confessionale-catechistico presente in tanti paesi europei, col supporto della riflessione teologica, psicologica e filosofica. Tale riflessione contribuisce alla nascita di un nuovo paradigma della pedagogia religiosa: dalla centralità della dottrina si passa alla centralità della persona; l’IR si fa ermeneutica dei problemi del soggetto. Si afferma un’ottica esistenziale o antropologica che sostituisce l’ottica essenziale o teologica. La seconda fase va approssimativamente dalla metà degli anni Sessanta alla caduta del Muro (1989). In quegli anni si realizza il processo di «scolarizzazione» dello studio della religione: l’IR sente la necessità di ri-legittimarsi, sia come disciplina nel contesto di un sistema scolastico sempre più rigoroso, sia come offerta culturale educativamente valida per i giovani in cerca di valori. L’istruzione religiosa intende offrire un suo specifico contributo in campo noetico e valoriale adeguandosi all’evoluzione di una scuola che è in perenne riforma. In questo contesto si afferma la distinzione ed insieme la complementarità  tra IR e catechesi. Si assiste quindi ad una progressiva attenuazione della confessionalità dell’IR: una confessionalità che è «negoziata» nei paesi ove vige il sistema concordatario tra Stato e Chiesa, «ricuperata» nei paesi dell’ex blocco sovietico, «assorbita» dall’etica civile negli stati di tradizione protestante. L’IR diventa disciplina curriculare, di cui si cura la fondazione epistemologica su basi diverse, quali la teologia, le scienze della religione, l’interdisciplinarità. La terza fase si sviluppa negli ultimi vent’anni ed è caratterizzata da un’«emergenza della diversità religiosa» che conduce inevitabilmente a formulare un nuovo paradigma per l’IR. Il pluralismo relativizza la centralità delle Chiese, e anche se un singolo Stato riconosce il valore della tradizione storica di una Chiesa particolare, questa non ha più il monopolio dell’IR nella scuola pubblica. In concreto, tale insegnamento è toccato dalle riforme curricolari dei sistemi educativi e scolastici, mentre i vari paesi e il Consiglio d’Europa si occupano di gestire, in modi diversi, la diversità religiosa. In particolare, gli organismi europei in questi ultimi anni hanno chiesto un IR corretto che educhi: alla cittadinanza e alla comprensione reciproca tra culture e religioni; al dialogo tra popoli e culture; allo studio serio del fatto religioso; ad una sensibilità non confessionale per il religioso, ecc. In prospettiva di futuro, poi, ad un IR svolto ormai in una società postmoderna si chiede di aprirsi dal pluralismo intracristiano alla multi religiosità; di collaborare al passaggio da una cittadinanza etnica ad una cittadinanza etica e al nascere di una scuola intesa come laboratorio di interculturalità. Il testo è corredato da utili tabelle riassuntive, da una aggiornata bibliografia e da un lessico che mostra all’evidenza l’estrema varietà dei termini con cui, oggi, nei vari stati europei si presentano l’IR e le sue alternative.

G. Biancardi

Educare alla cittadinanza responsabile

Lucida e severa analisi del segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, al convegno sulla formazione sociopolitica.
La presa d’atto: ”Carente la capacità di mobilitazione, di elaborazione di un progetto ispirato e assenza di strumenti socialmente e politicamente significativi”. Poi l’invito a ”non lasciarsi intimorire da momenti di appannamento” e a riprendere ”il lavorio nascosto della formazione e della maturazione di persone e di comunità”.
 
 
Dobbiamo riflettere attentamente sui limiti di una presenza sociale e politica dei cattolici oggi da più parti stigmatizzata. Non può essere il vortice disordinato delle opinioni, più o meno interessate e indirizzate a bella posta, a dettare l’agenda e i criteri dei nostri giudizi sulla rilevanza sociale e politica del cattolicesimo nel momento attuale; ma è certo che il deficit di incidenza diventa un indice anch’esso significativo quando è carente la capacità di mobilitazione, l’elaborazione di un progetto ispirato, l’assenza di strumenti socialmente e politicamente significativi per testimoniare e trasmettere il senso cristiano della vita sociale nelle sue varie articolazioni”.
A lanciare l’allarme è stato monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei, durante l’omelia per la celebrazione eucaristica che ha aperto a Roma il secondo giorno del convegno nazionale sulla formazione sociopolitica “Educare alla cittadinanza responsabile 2”.
Per il vescovo, “non bisogna lasciarsi intimorire da momenti di appannamento; ci sono fasi oscure da attraversare; ma non dobbiamo lasciarci sopraffare dalle difficoltà momentanee”: “Questo è il tempo opportuno del lavorio nascosto ma fecondo della formazione e della maturazione di persone e di comunità dotate di franchezza e della capacità di portare una fede motivata e solida dentro l’intreccio, talora perfino caotico, dell’intera comunità civile”.

Parte preziosa della Chiesa. Il segretario della Cei ha ricordato che “la franchezza e la fede, che ne è la premessa e il fondamento, hanno qualcosa da dire a noi credenti di oggi, soprattutto perché ci invitano a non avere paura di mettere a nudo la nostra poca fede e il nostro scarso coraggio”. “Sommersi da una cultura dai molti feticci, come quello della privacy – così verbosamente sbandierato e altrettanto prontamente mortificato nei fatti – dobbiamo rompere l’incantesimo di una perfino teorizzata dissociazione tra coscienza privata e vita sociale, tra comportamenti personali e ruolo pubblico”. Nel pomeriggio di ieri, mons. Crociata ha aperto i lavori con un saluto dedicato all’azione pastorale della Chiesa, “destinata a rimanere incompiuta se non sarà capace di integrare la dimensione sociale e politica”. “Ogni proposta di formazione si deve innestare in un più vasto percorso di educazione umana e di maturazione nella fede, e il lavoro che voi svolgete – ha aggiunto il segretario rivolgendosi ai direttori degli uffici diocesani di pastorale sociale, responsabili e operatori degli enti diocesani di formazione sociopolitica – somiglia tante volte alla pesca infruttuosa di cui parla l’evangelista Giovanni. La stagione che viviamo è anche motivo di grave riflessione per noi cattolici, perché rispecchia la grande difficoltà di delineare e lasciare intravedere, e tanto meno attuare adeguatamente, progetti ispirati alla nostra visione della persona e della società”. La Chiesa “vi sente parte preziosa, chiamata ad animare in senso cristiano il tempo che ci è stato donato di vivere”, abbracciando “tutte le dimensioni dell’umano”. Bisogna solo “avere fiducia che il lavoro di formazione svolto con intelligenza e passione non rimarrà senza frutto”.

Raggiungere l’uomo là dove è. Sul nesso tra temi sociali e fede cristiana si è soffermato don Paolo Asolan, docente di teologia pastorale alla Pontificia università lateranense: “Una visione cristiana compiuta non considera l’ambito sociale ed economico, e quindi anche politico, come corollario della pratica della carità; piuttosto, – ha detto – come suo connotato essenziale”. L’interesse per la dottrina sociale si collega al compito che “il Creatore affida ad Adamo, reso dal verbo ‘shamar’, che significa custodire”. In quest’ottica la Chiesa deve, dunque, “raggiungere l’uomo là dove nasce, studia, lavora, soffre, si ristora, per aiutare tutti gli uomini a scoprire la fecondità del Vangelo per la vita quotidiana, personale e sociale”. Secondo Asolan “è da rifiutare la concezione della Chiesa come agenzia fornitrice di servizi sociali sul territorio” perché “la fede cristiana non si limita ad alcune preziose forme di aiuto, ma tende a promuovere con impegno una autentica cultura di solidarietà. Non si rinchiude nel ruolo assistenziale, a cui la società comunemente la chiama, ma sviluppa un apporto originale e decisivo attraverso la sua Dottrina sociale”. 

Imparare a formare. Una proposta di metodo per le scuole di formazione politica è stata presentata da Leonardo Bechetti, docente di economia politica all’Università di Tor Vergata, per il quale “l’avvizzimento della capacità di fiducia spiega la crisi delle nazione”. Tra le cause che ostacolano la formazione politica, il “riduzionismo antropologico”, che riduce l’uomo alla sua “soddisfazione materiale”, quello organizzativo, che si avvale di un “modello d’impresa che mortifica la diversità organizzativa”, e quello “nella misura del valore”, che non tiene conto del fatto che la ricchezza delle nazioni “non coincide col flusso di beni e servizi economici creati ma con lo stock di beni spirituali, culturali, relazioni, naturali ed economici di una comunità”. Se ciò che serve è “un effettivo cambiamento di mentalità per cercare il vero, il bello e il buono”, occorre “sollecitare le istituzioni a cambiare, costruire indicatori, identificare vie di partecipazione economica e politica attraverso i quali tutti i cittadini possono essere protagonisti del cambiamento verso il bene comune” mediante, ad esempio, bilanci partecipati e gruppi di acquisto solidale. Tra le altre proposte, “identificare nelle esperienze delle amministrazioni locali le migliori pratiche organizzative e riflettere sulla nostra visione di Europa e di regole a livello internazionale per il bene comune”.

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Crociata: la fede abbracci tutte le dimensioni

«Dobbiamo riflettere attentamente sui limiti di una presenza sociale e politica dei cattolici oggi da più parti stigmatizzata». Così oggi si è espresso il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, in occasione della seconda giornata del convegno «Educare alla cittadinanza responsabile 2» che coinvolge le scuole di formazione sociopolitica.  

Parole che invitano a porsi alcuni interrogativi, soprattutto nel passaggio che richiama al centro del dibattito politico e sociale il ruolo dei cattolici nella società. «Non può essere il vortice disordinato delle opinioni, più o meno interessate e indirizzate a bella posta – ha proseguito il presule -, a dettare l’agenda e i criteri dei nostri giudizi sulla rilevanza sociale e politica del cattolicesimo nel momento attuale; ma è certo che il deficit di incidenza diventa un indice anch’esso significativo quando è carente la capacità di mobilitazione, l’elaborazione di un progetto ispirato, l’assenza di strumenti socialmente e politicamente significativi per testimoniare e trasmettere il senso cristiano della vita sociale nelle sue varie articolazioni». 

Un altro delicato passaggio, e al tempo stesso incisivo, il vescovo Crociata lo ha ricordato stamani, nell’omelia della Messa celebrata alla Domus Mariae a Roma, richiamando all’importanza della testimonianza della fede. «La franchezza e la fede, che ne è la premessa e il fondamento – ha osservato il presule – hanno qualcosa da dire a noi credenti di oggi, soprattutto perché ci invitano a non avere paura di mettere a nudo la nostra poca fede e il nostro scarso coraggio». 

«Sommersi da una cultura dai molti feticci, come quello della privacy – così verbosamente sbandierato e altrettanto prontamente mortificato nei fatti – dobbiamo rompere l’incantesimo di una perfino teorizzata dissociazione tra coscienza privata e vita sociale, tra comportamenti personali e ruolo pubblico», ha continuato Crociata. «Dallo sforzo verso una coerenza a tutto tondo deve scaturire un percorso che progressivamente superi l’emarginazione nel privato delle ispirazioni ideali – ha aggiunto – e attesti con coraggio le motivazioni che conducono a scelte e comportamenti dal palese rilievo sociale e pubblico». 

Per il vescovo, infine, «non bisogna lasciarsi intimorire da momenti di appannamento; ci sono fasi oscure da attraversare; ma non dobbiamo lasciarci sopraffare dalle difficoltà momentanee. Questo è il tempo opportuno del lavorio nascosto ma fecondo della formazione e della maturazione di persone e di comunità dotate di franchezza e della capacità di portare una fede motivata e solida dentro l’intreccio, talora perfino caotico, dell’intera comunità civile». 

Il saluto nella giornata di apertura del convegno. Dopo l’esortazione a «tenere vivo e coordinare l’impegno di formazione sociale e politica portato avanti in varie forme nelle nostre Chiese d’Italia» e l’impartizione della «benedizione su di voi e sui vostri lavori», il vescovo Mariano Crociato, segretario generale della Conferenza episcopale italiana ha salutato nella giornata inaugurale del convegno della scuole di formazione sociopolitica, con alcune riflessioni sulla «stagione che viviamo noi cattolici», che «rispecchia la grande difficoltà di delineare e lasciare intravedere, e tanto meno attuare adeguatamente, progetti ispirati alla nostra visione della persona e della società. Ma la molla che ci spinge non è armata da ingegnosa inventiva o da circostanze di favore, bensì predisposta innanzitutto dalla Parola che dice: gettate le reti e troverete». 

«La vostra presenza qui è il segno che avete accolto l’invito del Signore e continuerete a farlo» ha proseguito il vescovo Crociata. 

«Mentre ci rendiamo conto che ogni proposta di formazione si deve innestare in un più vasto percorso di educazione umana e di maturazione nella fede, ci rafforziamo nella convinzione che l’azione pastorale della Chiesa è destinata a rimanere incompiuta se non sarà capace di integrare la dimensione sociale e politica. Ciò corrisponde a una integrità di fede che, abbracciando tutte le dimensioni dell’umano, in esse è chiamata a esplicarsi e fare frutto». 

Nel finale dell’intervento di ieri, l’invito rivolto dal segretario generale della Cei a tutti i presenti al convegno dal titolo «Educare alla cittadinanza responsabile 2», a portare avanti quest’impegno con la grazia di Dio e il sostegno della Chiesa «che vi sente parte preziosa chiamata ad animare di senso cristiano il tempo che ci è stato donato di vivere».

Ilaria Solaini da Avvenire del 6/04/13

Seminario–«ICa» 2012

“Contributo dalla tradizione pedagogica del mondo catechistico salesiano al «Documento condiviso» per la catechesi in Italia della Cedac”.

 

–      José Luis Moral, “Situazione ermeneutica” della catechesi in Italia

–      Giampaolo Usai, Competenza scolastica come traguardo e punto di partenza

–      Cesare Bissoli, La componente biblica nel “documento condiviso”

–      Antonino Romano,  Il ministero del catechista

–      Claudia Giorgini, La catechesi con le persone con bisogni educativi speciali

 

– Altri contributi 1:

Il compito della catechesi nella NE (L. Meddi);

Apporto “sdb” al “documento condiviso“(G. Biancardi);

Educazione, catechesi e comunicazione- l’esperienza dell’UPS (R. Giannatelli);

Per una proposta del messaggio cristiano (R. Paganelli);

Nuovi linguaggi ed educazione alla fede (M.R. Atanasio);

Contributo storico-bibliografico (U. Gianetto).

 

  – Altri contributi 2:

Qualche osservazione sulla attuale iniziazione cristiana (De Vanna);

Iniziazione cristiana e oratorio salesiano (G. Venturi);

La sfida dell’intercultura (Z. Trenti);

L’attenzione vocazionale nel progetto catechistico (U. Gianetto);

Educare per evangelizzare… anche i disabili (G. Morante);

Scuola cattolica e catechesi (G. Di Giovanni);

Educazione e laicità (G. Tacconi).