Autore: editore
Per una società a misura di famiglia
Zaccheo, scendi subito!
Come secondo spunto di riflessione sulla figura di Gesù proponiamo nell’ambito della spiritualità l’incontro con Zaccheo: dà la misura del significato che assume per un uomo l’incontro con Gesù.
Zaccheo, scendi subito!
L’incontro: Zaccheo (Lc. 19, 1-10)
Certo Zaccheo non si è risparmiato…
La ‘arrampicata’ sul Sicomoro non era un gesto di grande dignità per un uomo del suo rango… In fretta scese e lo accolse pieno di gioia.
Ma neppure Gesù lesina i suoi gesti.
Zaccheo è un uomo disprezzato ed inviso; quanti in Gerico sarebbero onorati e vorrebbero Gesù in casa propria; ma egli sceglie la casa di Zaccheo; predilige la sua compagnia, pranza con lui.
Singolare e suggestiva scena di incontro…
Di cui i… benpensanti si rammaricano. Tutti mormoravano: “E’ andato ad alloggiare da un peccatore!”
La gioia di Zaccheo trabocca. La passione per i soldi è finita; irrompe la compassione e la premura per i diseredati; la volontà di risarcire con munificenza quanti ha defraudato.
Gesù l’ha privilegiato. Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto, risuona alta nella casa del pubblicano la risposta.
Forse quest’uomo viveva attanagliato dal guadagno; Gesù che appare sulla scena lo incuriosisce, forse lo muove a riflessione…
Bisogna vederlo, questo Gesù! Bando alle remore per il decoro e l’onorabilità: il sicomoro consente uno sguardo privilegiato sopra e oltre la folla, e Zaccheo vi si arrampica senza troppi indugi…
Un gesto che dice qualcosa di più della pura curiosità: quella di Zaccheo è attesa, forse indefinita, ma profonda e coinvolgente.
I gesti di Gesù, le sue parole, la sua considerazione; la scelta di dimorare nella sua casa non lo convince, lo sconvolge; gli cambia la vita.
Il denaro, il possesso, al vertice delle sue ambizioni, è sacrificato con trasporto, con una magnanimità piena di gioia.
L’incontro con Gesù cambia tutto per Zaccheo: il confronto con le cose e le persone; cambia la vita, la fa testimone di pienezza e di disponibilità: la rende felice!
Il significato
Zaccheo è cambiato: ha trovato la risposta; l’unica vera e appagante.
Il banchetto intende proclamarlo con la gioia prorompente, la partecipazione corale, la condivisione nell’amicizia…
La Sua presenza , i segni toccanti della Sua predilezione sono una ricompensa che non ha l’eguale. Zaccheo ha cambiato vita; ha pagato a prezzo esorbitante la sua conversione; ha incrociato l’unico con cui condividere tutto con la passione del primo o forse meglio dell’unico appuntamento, che la vita si attende.
La felicità di Zaccheo tace della gioia di Gesù.
Oggi la salvezza è entrata in questa casa perché anch’ egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’ uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto (9-10).
Dio, Gesù, non vanno dimenticati, né va trascurata la gioia che l’incontro sottende anche in loro: forse soprattutto in loro. Il Vangelo ne dà conferma:
– Il Padre che abbraccia il figlio scapestrato al ritorno;
– Il pastore che ritrova la pecorella;
– Gesù che accoglie la peccatrice in casa di Simone…
Dicono la gioia di Dio: cosa può attendersi Gesù di più appassionante che vedere l’esattore esoso ed inviso distribuire i propri beni e spalancare la sua casa; che accogliere la donna perduta e disprezzata al banchetto della festa e alla pienezza dell’incontro?
A confronto con il mistero.
L’esperienza ermeneutica nella ricerca religiosa
Il linguaggio su Dio è segnato naturalmente dalla sensibilità culturale del tempo. Molti sono i modi di dire Dio privilegiati nella tradizione. In ambito occidentale e cattolico è prevalso l’aspetto razionale. Specialmente il riferimento alla constatazione immediata della realtà sensibile – sensuconstat – è stato alla base di una rigorosa argomentazione – la prova – dell’esistenza di Dio.
L’orizzonte ermeneutico, che questi interventi privilegiano, sposta l’attenzione dalla dimostrazione razionale alla significatività esistenziale. A fondamento si questa impostazione sta un concetto di verità fortemente innovativo; tende a ripensare l’accesso stesso alla verità; a interpretarla in dimensione ermeneutica, come emergenza e manifestazione del reale.
In ambito religioso la stessa impostazione impone un’esplorazione attenta del vissuto credente. La riflessione tende cioè ad esplorare il rapporto con Dio in tutta la provocazione esistenziale che comporta: è meno preoccupata della fondazione razionale, del resto indispensabile, mostrandosi invece più sollecitata a misurare la novità appassionante di un rapporto che affiora nell’esistenza, la celebra e ne risulta a sua volta celebrato.
1.1. Il processo interpretativo nell’esperienza[1]
– Ho l’impressione che il mio orologio vada a rilento.
– Attendo che il campanile batta le ore e verifico.
– Sì, ritarda di alcuni minuti…
– Dovrò farlo regolare!
Ho constatato un piccolo disguido; ho preso coscienza che il mio orologio non funziona regolarmente. Ho deciso di farlo controllare. Un fatto semplicissimo, un’esperienza consueta che già consente di interpretare un processo normale in atto.
I casi sono di solito più complessi e coinvolgenti, magari rivelativi di situazioni drammatiche che incombono. Ancor più frequentemente si danno atteggiamenti esistenziali, banalizzati dalla consuetudine quotidiana. Prendiamo il caso della moglie che pensa al marito in termini di sicurezza economica: è colui che dispone di una somma notevole in banca o che al 27 del mese porta la busta… Può darsi che riflettendo con calma si renda conto di averlo ridotto ad una pura funzione materiale e sappia prendere coscienza che la sua presenza è fonte di sicurezza, ragione di dialogo, di comunicazione. Può anche darsi che la moglie arrivi finalmente a ricuperare il significato esistenziale pieno di lui come persona, scelta a compagno di vita, partecipe di un progetto magari ambizioso, che orienta l’esistenza reciproca. Questa donna va man mano scoprendo il significato autentico di una presenza che la routine rischia di semplificare eccessivamente. Può ricuperare la dimensione esistenzialmente appassionante di un rapporto umano restituito alla sua verità.
Questa ed altre possibili esemplificazioni tratte dalla consuetudine quotidiana lasciano affiorare l’impegno ad interpretare la vita concreta, le situazioni reali per quello che sottendono; orientano ad esplorare l’esperienza in tutto lo spessore che l’attraversa; consentono di avvertirne la risonanza esistenziale. Sollecitano una ricerca che tende a dare rilevanza autentica alla verità delle cose per tutto l’impatto che hanno sulla persona.
Rispetto alla riflessione tradizionale si è operato un cambiamento importante: la verità non è tanto adeguazione fra la cosa e la rappresentazione che la persona se ne fa; è piuttosto manifestazione, emergenza dello spessore che la situazione reale comporta, per tutto l’impatto che sottende all’esistenza.
L’esperienza si è rivelata portatrice di uno spessore singolare che le ricerche, soprattutto recenti sul linguaggio, hanno consentito di sondare.
1.2. La trascendenza presagita nel mistero
La singolare pienezza e novità in cui è percepita ed esplorata l’esistenza nella riflessione recente s’affaccia sull’orizzonte alternativo; evoca una presenza nascosta e fondante; fa appello alla trascendenza.
Un appello che tuttavia non è obbligante. Ciò che forse caratterizza l’incontro della riflessione recente – specialmente esistenziale e fenomenologica – con la trascendenza è una marcata connotazione di libertà. Non nel senso che risulti arbitrario affermarla o negarla; piuttosto perché il progetto stesso esistenziale è segnato dalla libertà: su questa base interpreta e si interpreta; si orienta e decide.
L’affermazione del fondamento non è logica conclusione di un ragionamento astratto: è esistenziale consapevolezza d’una presenza presagita e riconosciuta. L’uomo può sentirsi “gettato” nel mondo o “chiamato” all’esistenza. La trascendenza dell’essere è percepita in tutta la sua alterità: l’orma che di sé ha impresso nel mondo è ambivalente: lo rivela e lo nasconde. La ragione può trovarsi sconcertata dal nascondimento o sollecitata dalla rivelazione: denunciare l’assurdità e l’inconsistenza del progetto umano, dove non ne vede lo sbocco e ne misura lo scacco – essere per la morte – ; o presagirne il senso e la pienezza dove avverte di poterlo ancorare ad una presenza ultima e appagante – esistere per l’incontro –.
La prima condizione del linguaggio religioso è l’opzione per la trascendenza, come misteriosa presenza su cui il progetto dell’uomo può dispiegarsi in una vitalità che attinge a risorse inesauribili. Un’opzione tuttavia che non è mai affermazione astratta, ma percezione vissuta: garanzia di stabilità e di approdo.
Il linguaggio religioso esplora e comprende la realtà – anche quella materiale – animata e fermentata da una trascendenza che l’attraversa e la vivifica. “La natura è piena di dei”; il “logos” anima la realtà materiale già nell’originaria riflessione occidentale. «I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» nella più consapevole e perentoria attestazione biblica (Sal 19).
L’uomo può sentirsi “spaesato” in questa immensa dimora che lo accoglie; ma può anche sentirsi “ospitato” in una casa fatta sulla sua misura e che tuttavia non è opera delle sue mani. Perciò l’intera realtà è invito suadente a riconoscervi una presenza misteriosa e ad invocarla.
Il linguaggio religioso instaura dunque un rapporto nuovo con il mondo: l’uomo vi abita in attesa di un incontro, per prepararlo. Secondo l’immagine suggestiva che la Bibbia ci ha tramandato, l’uomo considera l’universo come un immenso giardino che gli è stato affidato, su cui ha piena signoria, per quanto la fatica di dissodarlo e di asservirlo non riempia la sua attesa, né le sue aspirazioni.
2. DIRE DIO NEL CONTESTO ATTUALE
2.1. Molteplicità delle manifestazioni di Dio
L’affermazione è data a partire da una doppia considerazione, che richiamiamo:
– la realtà, creata da Dio, ne porta il segno, è costitutivamente relazionata a Lui; cosicché la ricerca può legittimamente tentare di decifrare un rapporto già in atto;
– l’uomo è dotato di una risorsa capace di leggere in profondità le cose e svelarne la relazione con il creatore che le costituisce.
Dunque, presupposto fondamentale è l’atto creatore; l’intervento di Dio all’origine, di cui la realtà porta il segno.
Il presagio da cui muove la ricerca umana suppone quella traccia lasciata dal creatore sulla creatura al momento in cui l’ha costituita e continua ad alimentarne l’esistenza. Dire-Dio comporta quindi:
– che i segni della presenza creatrice siano impressi nella bellezza e nella maestà della natura, tanto da renderla potente e suggestivo richiamo ad una maestà definitiva;
– che la straordinaria forza evocativa di cui l’uomo dispone sia in grado di presagire e di chiamare per nome, insomma di rivelare la verità costitutiva della creazione.
La fede è depositaria di questo sguardo penetrante e rivelativo della verità delle cose: passa dai segni alla presenza; legge la verità della creazione nella misteriosa risorsa che la costituisce.
Il volto di Dio non corrisponde al volto dell’essere, ma è vero che il volto autentico dell’essere lo testimonia, lo lascia presagire. Cosicché la realtà anche materiale può segnalarlo ad una coscienza avvertita, capace di darvi risonanza.
Il ritorno all’interiorità, la chiara presa di coscienza del presagio che le cose sottendono, diventa traccia privilegiata all’incontro con Dio. Anche se va mantenuta la differenza fra ricerca filosofica e religiosa, in quanto l’una tende a darsi ragione e l’altra tende a vivere la pienezza dell’incontro. Anche se, e soprattutto, va salvaguardata la differenza fra essere e Dio.
La trascendenza di Dio – il suo essere totalmente altro dalla creazione – è la premessa per salvare la religione da ogni rischio di indebita identificazione di Dio con la realtà.
2.2. Presupposti dell’elaborazione esistenziale
– Il problema non è “la prova” ma “l’incontro”.
Per dire-Dio non è tanto questione di affermarne o dimostrarne l’esistenza, quanto di esplorare il rapporto sotteso, che vivifica e rende straordinario l’incontro.
La pista della razionalità rigorosa a base dell’affermazione dell’esistenza di Dio, per lunga tradizione perseguita con piena credibilità, lascia oggi margini di perplessità.
L’ambiguità sta nel termine stesso di “oggettività”. Sotteso, rischia di affiorare il sospetto di oggettività sensibile–verificabile. Il pregiudizio scientista di riportare ogni affermazione sensata alla verifica empirica o alla falsificabilità compromette radicalmente il discorso su Dio.
Assai più fidata e credibile, si è venuta impostando la ricerca esistenziale che ha saputo ancorarsi alla realtà e, di conseguenza, garantirsi la verità delle proprie conclusioni.
– Il pensiero e la realtà.
Il pensiero è di sua natura orientato alla realtà.[2] Che tuttavia non è affatto riducibile al dato sensibile, per quanto il dato sensibile stesso venga riconosciuto fondamentale per l’elaborazione del pensiero, nella sua prerogativa di spaziare su tutte le dimensioni della realtà, fino ad attingere il suo fondamento.
– L’esperienza del singolo a perno della riflessione.
Inoltre, nell’impostazione esistenziale l’esperienza del singolo assurge a perno della riflessione. Ma l’esperienza del singolo è iscritta in una storia di cui egli fa parte, che quindi l’individuo non può presumere di analizzare “oggettivamente”, con il distacco dello spettatore. Tanto più che nella considerazione dell’esperienza la storia risulta la “mia” storia, della quale faccio parte integrante, in cui sono coinvolto.
Allora ogni ricerca cessa di essere un problema che mi è estraneo; sono costretto a considerarlo un fatto che mi tocca da vicino, che non posso mai considerare oggettivo; cammina con me, si modifica man mano che mutano i miei punti di vista.
La realtà, che pure sono in grado di conoscere, assume uno spessore su cui il procedimento razionale anche rigoroso non ha presa: dovunque sono coinvolto, il problema si apre al mistero che fascia l’intera realtà. Di questo mi rendo conto proprio prendendo atto di me stesso.
– Il ridimensionamento dell’aspetto razionale.
Tanto più che, dovunque sono coinvolto, l’aspetto razionale risulta ridimensionato. Infatti, oltre lo sfondo della razionalità si impone la risonanza emotiva, si staglia netta e risolutiva l’esigenza della libertà. A livello esistenziale l’ultima parola sembra rivendicata non dalla chiarezza della comprensione ma dalla imprevedibilità della decisione.
Nel caso di Dio, la ragione conserva tutta la sua forza, ma non è risolutiva. L’argomentazione è importante, ma non obbligante. L’affermazione di Dio, con il peso enorme che sottende sulla vita del singolo, si gioca su un retroterra esistenziale di uno spessore straordinario. La responsabilità di ciascuno conserva margini di libertà decisivi.
2.3. Un volto alla trascendenza
Il tema della trascendenza resta da impostare in maniera esistenziale, cioè:
– come dato connaturale e costitutivo del vivere umano,
– insito nell’esistenza ed da questa emergente come presagio.
S’impone l’analisi di ciò che sono e dei richiami interiori da cui sono attraversato e che sono da esplorare e identificare.
Dentro questi potrò cogliere un richiamo che mi supera e che può trasfigurasi in appello e quindi in affermazione implicita di una presenza più intima a me di me stesso, cui sono sollecitato a rispondere.
Su questa pista l’affermazione di Dio assume un’altra logica.
Non è la ragione – il cosmo e l’argomentazione sul cosmo privilegiata dalle “vie” tradizionali – ma è la coscienza di quanto si vive, l’analisi dell’intuizione esistenziale che porta il richiamo di Dio e consente di affermarlo. Non il fatto di provarlo ma di “constatarlo” diventa decisivo; s’impone la correttezza dell’analisi soprattutto interiore, con i suoi apporti e i suoi limiti da evidenziare.
Dunque non è in gioco tanto una prova dell’esistenza di Dio, ma l’orma, il presagio della sua presenza da sondare, al cuore stesso della percezione del mistero.
È all’interno dell’analisi del mistero che la sua presenza può imporsi, nella libertà di accoglierlo o di negarlo. Si tratta dunque di una “prova” piuttosto singolare: si tratta di riconoscere il mistero nel quale sono immerso; di rendermi disponibile all’analisi delle condizioni reali di possibilità che vi danno consistenza.
Se l’uomo è immerso nel mistero ha ancora senso parlare di autonomia? Ha senso parlare di libertà: di accogliere o di rifiutate il mistero e colui che lo abita?
Emerge una libertà situata ed ancorata all’essere nel mistero. E tuttavia chiamata a deciderne il riconoscimento o il rifiuto; un atto che richiede la decisione di accogliere o di rifiutare e vi conferisce il suo significato esistenziale.
Non è la ragione che cerca Dio; è l’esistenza che anela all’incontro con Dio.
Donde la saggezza nel maestro dell’apologo orientale, dove si parla di un discepolo alla ricerca di Dio che domanda: «Come posso incontrare Dio?». Il maestro tace, nonostante la comprensibile insistenza del discepolo. «Andiamo al fiume», riprende finalmente il maestro. Si tuffano e mentre nuotano uno accanto all’altro, il maestro preme vigorosamente la testa del discepolo sott’acqua, vincendone la disperata resistenza. Tornati finalmente a riva il discepolo chiede sconcertato il significato del gesto. «Cosa cercavi disperatamente sott’acqua?», chiede il maestro. «L’aria», risponde pronto il discepolo. «Bene, così dovrai cercare Dio, se vuoi incontrarlo!», suona laconica ma perentoria la risposta del maestro.
3. UN LINGUAGGIO PER SONDARE IL MISTERO
3.1. Un volto al presagio
Al cuore della ricerca sta dunque l’esistenza, espressa in una molteplicità di situazioni, consapevole dello spessore che l’attraversa. In particolare segnata dal rapporto con la trascendenza, che la riflessione dichiara oscura e che la fede privilegia. Si impone la domanda: quale linguaggio interpreta la trascendenza stessa e la esprime; come accedervi?
3.2. Lo spessore dell’esperienza
Il singolo ha fame, cerca un’abitazione, desidera essere accolto… Il vissuto immediato ha uno spessore straordinario, che precede ogni riflessione: è esperito prima di essere capito e decifrato. E prima di venire decifrato ha già un senso esaustivo, nella gioia di vivere, di partecipare, di trovare soddisfazione ai bisogni più elementari e continui; tanto più se l’esperienza dischiude un rapporto di persone che si cercano e si amano.
Non è mai misurabile l’attesa e la speranza con cui due persone si aspettano e si incontrano. Com’è difficile descrivere il margine di delusione e di amarezza che segna un incontro, anche riuscito! Torna la verità di un’aspirazione interiore che la vita costantemente delude. Che può assurgere a grande allusione, a presagio di trascendenza, radice esistenziale ultima della ricerca religiosa.
Sfumature e spessore che si ribellano alla razionalizzazione disegnano uno spazio che il linguaggio tenta di interpretare; che comunque resta sempre insondabile.
La ricerca scientifica può facilmente definire il proprio ambito e identificare la propria demarcazione.[3] La chiave e il segreto della scienza, sta proprio nel definire con chiarezza un aspetto specifico da verificare, che risulti falsificabile.
La riflessione esistenziale, invece, si apre sull’intero orizzonte della vita. La sua demarcazione raccoglie e organizza aspetti molteplici, di cui la puntualizzazione razionale è solo l’iceberg; soggiacenti ci sono diramazioni e componenti illimitate e perciò indecifrabili. La ricerca scientifica può essere rigorosa; la riflessione esistenziale – che non prescinda dal vissuto – si rifiuta al rigore della razionalizzazione. L’esperienza empirica è verificabile; l’esperienza esistenziale è inverificabile.[4]
La scienza procede nell’ignoto; la filosofia, la religione, l’arte… si addentrano nel mistero. Esplorano ambiti diversi, si avvalgono di un linguaggio specifico, per lo più reciprocamente incomparabile.
Si tratta allora di mettere in atto un procedimento coerente e integrale: esplorare l’esperienza per sondarne tutti i richiami; anche quello specificamente religioso, dove emerge e si impone alla considerazione.
È un procedimento che potremmo definire “esistenziale”, senza volerlo ancorare obbligatoriamente a qualcuna delle scuole che hanno segnato recentemente questa riflessione. Il nodo della ricerca sta in un’esigenza di analisi aperta dell’esperienza, senza prevenzioni o strettoie, per raccogliere tutte le sollecitazioni che vi affiorano.
La prima sollecitazione riguarda la condizione stessa da cui la ricerca prende l’avvio. L’analisi dell’esperienza tiene conto che vi siamo coinvolti in prima persona: non può costituire una ricerca distaccata e oggettiva.
Inoltre, a sua volta, l’esperienza comporta una gamma innumerevole di rimandi, che le conferiscono uno spessore pressoché impenetrabile. Risalendo man mano i rimandi, di cui è intessuta, ci si affaccia ad un mondo che sconfina nel mistero.
Si può dire che ne portiamo l’intuizione profonda e suggestiva ad un tempo: riportata al suo asse si concentra sulla domanda: chi sono? Precisamente questo interrogativo induce a riconoscere che la mia esistenza resta avvolta di mistero: alla sua origine e soprattutto, in forma più conturbante, nel suo destino.
3.3. Il rifiuto della finitudine
La riflessione attorno a qualunque esperienza umana profonda avverte richiami penetranti e non eludibili. E questo, a partire dalle sensazioni più consuete:
– la salute che oggi si gode non è esente da una sottile trepidazione per il futuro immediato e lontano;
– l’amore come disponibilità e attesa non è mai garantito del tutto: l’indifferenza o il tradimento lo insidiano;
– le realizzazioni più ambiziose nell’ambito dell’essere come dell’avere lasciano sempre un margine inappagato.
Anche più profonda e tenace è l’insoddisfazione per la statura conseguita, per la sincerità e la trasparenza con cui si vive. Lo scarto fra la vita e la speranza, fra il desiderio e l’attuazione, fra l’attesa e la risposta sembrano dilatarsi man mano che l’esistenza avanza.
Buber l’ha rilevato con chiarezza: l’ha soprattutto attribuito alla situazione contemporanea – alla sensibilità tipica di un’epoca storica –, in cui l’uomo risulta privo di una “casa” che gli consenta stabilità. E certo ha colto nel segno dove ha voluto sottolineare che la nostra è epoca di transizione, che vede scompaginati i riferimenti tradizionali e sconcertate le prospettive.
E tuttavia la sua annotazione non si riduce al dato esteriore. Una casa, per quanto grande e spaziosa non è la risposta; anzi non è neppure la domanda: è solo un simbolo. Già il saggio antico ha visto bene, dove ha misurato l’irraggiungibilità di una condizione interiore finalmente placata e paga (Marco Aurelio).
Questa serenità definitiva è aspirazione che il saggio non sa tacitare. Attraversa l’esistenza e, forse più veramente, la fermenta. Rileva quel margine di inquietudine, di insoddisfazione che si apre sulla dignità dell’uomo: mai pago, più grande di qualunque statura conseguita, proprio perché non c’è statura che esaurisca la sua misura.
Nell’apologo così semplice e suggestivo posto a perno dell’interpretazione che Pico della Mirandola propone nel suo celebre discorso sull’uomo, resta adombrata la ragione definitiva dell’anelito inappagato.
Affidato dal Creatore alla propria completa responsabilità non gli è stato assegnato nessun limite come invalicabile: piuttosto gli è stata data una consegna di perfezione illimitata.[5] Il Vangelo lo ribadisce con perentoria chiarezza: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Un compito esigente e una consegna ambiziosa: segnano l’esistenza così profondamente che l’ultimo ritocco non è mai dato; perciò ogni realizzazione risulta parziale e insoddisfacente: lascia sempre un margine non raggiunto, eppure proposto e perciò ambito.
La riflessione credente ne ha fatto da sempre – non solo nel cristianesimo – il riferimento decisivo. Le parole di Agostino – «il nostro cuore è inquieto finché non si placa in Te» – hanno trasferito in linguaggio lucido e consapevole la sensazione che in termini indefiniti e vaghi attraversa l’esperienza di tutti.
4. UN MISTERO DA ESPLORARE
Il procedimento che si innesta è allora un percorso induttivo che prende sul serio l’esperienza umana e vi presagisce dimensioni molteplici; alcune delle quali si portano sul versante del mistero e della trascendenza.
Tale procedimento, affidato alla riflessione, può concludere legittimamente ad una presenza trascendente insita nell’esistenza. Il credente è colui che vi ha dato la propria adesione con un gesto gratuito e libero; che tuttavia potrebbe anche essere ripercorso con rigore e trovare piena legittimità razionale.
Per il credente c’è chi accoglie la sua invocazione: lo sa; anche se non sarà mai in grado di verificare scientificamente o di dimostrare razionalmente che il suo appello è stato recepito. Su questa consapevolezza poggia l’atteggiamento di fede: fonda un rapporto singolarissimo che legittima il dialogo religioso oltre i limiti della scienza e oltre le strettoie della filosofia.
Tutte le indagini che l’uomo fa sulla natura non s’imbatteranno mai nella constatazione di una presenza che per definizione è trascendente e quindi altra da ogni rilevamento empirico possibile. Così, tutte le ragioni che si adducono possono solo legittimare l’affermazione della trascendenza. Caso mai, quando questa venga postulata come orizzonte alternativo, le analisi scientifiche e le considerazioni razionali potranno darvi ulteriore conferma e comprensione. Come è chiaro che precisamente l’orizzonte di fede popola la natura e investe la ragione di un riferimento altrimenti inavvertito.[6]
4.1. Quale linguaggio per sondare il mistero?
Anche in queste annotazioni, il linguaggio si è progressivamente portato su aspetti specifici.
Si è innanzitutto trasferito dal confronto con la realtà esteriore, constatata nella sensazione, all’interiorità della persona, esplorata nelle intuizioni che la segnano e non trovano legittima spiegazione nella persona stessa; donde il passaggio razionalmente richiesto di portarsi su un versante alternativo, postulato più che constatato.
Dio non risulta tanto garantito dalla dimostrazione razionale; è richiesto piuttosto dall’esplorazione esistenziale. La trascendenza è chiamata in causa perché l’esistenza non si giustifica, né è in grado di spiegare se stessa.
E tuttavia è vero che questa realtà, cui sembra indispensabile fare appello non si può constatare, non si avverte direttamente. Appare avvolta di “mistero”. E impone la domanda se sia possibile identificarla, chiamarla per nome…
Comunque è chiaro che i nomi di cui disponiamo non le si addicono.
Il linguaggio è dunque sfidato su una dimensione specifica, sulla quale falliscono i procedimenti propri dell’indagine scientifica e dell’argomentazione razionale.
Il linguaggio religioso punta al… mistero e presume di poterne parlare in termini che abbiano senso.
Negativamente è chiamato in causa perché gli altri linguaggi risultano spuntati; l’esistenza è assillata da spiegazioni che i vari versanti della ricerca umana non sono in grado di soddisfare.
Più profondamente l’uomo è sollecitato da una presenza che resta avvolta di mistero; gli parla in maniera profonda e suadente, ma non lo costringe; gli si rivela in un richiamo ineludibile, proposto tuttavia alla sua vita; suscettibile di adesione e di rifiuto. L’orizzonte della ricerca religiosa si colloca così sul fronte del mistero; il suo compito resta quello di darvi volto e nome.
Le indicazioni forse più pertinenti ci vengono dalla riflessione religiosa recente.[7] Si tratta di chiamare per nome, di conferire volto ad una presenza che si impone come mistero in cui la vita è immersa.
La dimensione religiosa sembra affiorare dove l’uomo prende coscienza di una presenza arcana con cui è in una relazione radicale e ultima. Dove tale intuizione viene decifrata e si tenta di chiamarla per nome sembra potervi conferire volto personale e appagante; rappresentare il riferimento e custodire la risposta.
L’esperienza concreta che viviamo può essere ripercorsa sull’onda del richiamo interiore, come sulla traccia delle acquisizioni culturali di cui disponiamo.
4.2. La traccia privilegiata
L’atto religioso analizzato nella sua più profonda istanza è aspirazione al rapporto personale: è attesa di risposta definitiva.[8] Per lo più, esso soggiace all’esperienza consueta di incontro: anzi, dove il rapporto a tu per tu viene analizzato nelle sue sottese aspirazioni lì è presagita e invocata una presenza trascendente, una capacità di interpretazione e di risposta che nessun tu finito è in grado di dare. Di più: dove l’analisi si fa radicale e interpreta l’esistenza nella sua origine e nel suo destino ogni riferimento finito denuncia la propria insufficienza.
La riflessione si porta obbligatoriamente sul versante trascendente e ultimo. L’invocazione non trova risposta che in un Tu assoluto.
Cosicché l’esplorazione del rapporto religioso non può che percorrere la pista obbligata del rapporto interpersonale. Solo nell’esplorazione del rapporto corretto con un tu – e nel caso con un Tu assoluto – la religione parla in termini singolarmente nuovi e persuasivi.
Viene così identificato l’orientamento attuale della ricerca concentrata sull’analisi del rapporto interiore con una trascendenza personale, dialogante.
Il che apre anche la riflessione al problema della rivelazione. Dove la trascendenza assume carattere personale la possibilità di una rivelazione diretta e positiva è legittimata.
Si tratterà, allora, di evidenziare quali siano i connotati di un linguaggio relazionale e interpersonale, di caratterizzarli correttamente dove il rapporto è con il Tu assoluto. Il linguaggio dovrà quindi cercare l’impostazione corretta.
Rimane inoltre fondata anche la legittimità di una ricerca che avverta nella cultura la manifestazione esplicita del richiamo religioso, che potrebbe o addirittura dovrebbe essere anche segnato di impronta personale. La presenza del dato cristiano non è solo questione che tocca il credente. È un problema che la ricerca si pone e che è suo compito esplorare, come avremo modo di rilevare nei prossimi interventi.
[1] Il termine esperienza è generico; lo assumiamo in tutto lo spessore che comporta e che analisi puntuali e attente, anche recentemente, hanno rilevato. Richiamo in particolare le pp. di Gadamer dedicate a Il concetto di esperienza e l’essenza dell’esperienza ermeneutica, in G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani 1995, pp. 401ss.
[2] È la rivendicazione costante anche della riflessione esistenziale; cf, ad es. uno dei suoi pensatori più accreditati, G. Marcel, Giornale metafisico, Roma, Abete, 1976, p. 248.
[3] Popper ha identificato un criterio oggi sostanzialmente accettato: «Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema… un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza: K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi 1970, p. 22.
[4] Prini ha giustamente definito la ricerca di Marcel metodologia dell’inverificabile: P. Prini, Gabriel Marcel e la metodologia dell’inverificabile, Roma, Studium 1968; ne ha con questo identificato l’aspetto qualificante, ma ha anche indicato un aspetto qualificante della stessa riflessione filosofica.
[5] “La natura illimitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte.
Tu non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà di consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi ciò che è nel mondo. Non Ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti, tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine.” G. PICO DELLA MIRANDOLA, Discorso sulla dignità dell’uomo, Brescia, La Scuola, 1987, pp. 5-7:
[6] Sulla traccia di annotazioni come queste trovo irrilevanti talune discussioni sul rapporto fede-ragione. Mi sembrano perfettamente pertinenti le riflessioni di K. Popper, Dopo la società aperta, Roma, Armando 2009, p. 117.
[7] Sono stati valorizzati in questa ricerca proprio quegli Autori che hanno esplorato con singolare originalità l’esperienza religiosa.
[8] Cf M. Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Bern, Franke 1968, pp. 364ss.
V DOMENICA DI PASQUA
Prima lettura: Atti 14,21-27
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede. |
Paolo e i suoi collaboratori sono presentati come missionari itineranti, che predicano la parola di Dio. Essi non prendono dimora stabile in nessuna comunità, ma vanno di paese in paese.
Quando è necessario essi ritornano nelle comunità evangelizzate per «fortificare» (lett. confermare) nella fede i discepoli. «Confermare» è un termine che diventa tipico nel linguaggio missionario delle primitive comunità cristiane (cf. At 15,32-41; 16,5; Rom 1,11; 1 Ts 3,2.13). Il tema della conferma della fede si trova già nel Vangelo lucano: «confermare i fratelli» è la missione affidata da Gesù a Pietro (cf. Lc 22,32).
Le tribolazioni sono la grande tentazione della fede per i discepoli. Le sofferenze possono portare alla disperazione e indurre a non avere più fiducia nell’avvento del regno di Dio e a rinunciare a lavorare per esso.
Il regno di Dio è indicato qui come una realtà escatologica, nella quale si entra «attraverso molte tribolazioni». È presentato come realtà futura, nella quale i discepoli devono ancora entrare. Chiesa e regno non si identificano: essi sono nella Chiesa, ma non ancora nel Regno. Sono ancora nel regime della «fede» e della «speranza», che si possono perdere a causa delle tribolazioni…
Paolo e Barnaba si preoccupano di dare una struttura stabile alla comunità e costituiscono degli «anziani», che le governino, mentre loro continuano ad andare in nuovi paesi a predicare la parola di Dio. Paolo e Barnaba stanno compiendo la missione fra i pagani, che numerosi hanno abbracciato la fede. Il giungere alla fede nel Signore è un dono gratuito di Dio, come essi riconoscono e dichiarano davanti alla comunità (cf. At 14,27).
Seconda lettura: Apocalisse 21,1-5
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». |
La sezione dell’apocalisse che inizia col capitolo 21 e termina a 22,5, è l’ultimo grande affresco della profezia di Giovanni. Si tratta di una conclusione radiosa, conseguenza di un intervento diretto e creatore di Dio. I versetti che leggiamo oggi sono l’introduzione a questa sezione. Essi vanno letti non come una previsione del futuro, ma come una esortazione alla speranza e all’attesa dell’intervento definitivo di salvezza di Dio.
Giovanni ha la visione di un cielo nuovo e una terra nuova. Si tratta di una novità dovuta all’intervento creatore di Dio, come lo era stato all’inizio, non solo di una trasformazione, infatti il cielo e la terra di prima «erano scomparsi». Il riferimento è ad Isaia (65,17; cf. 66,22). «Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra».
La visione continua con quella della «Gerusalemme nuova». In Isaia Dio promette «farò di Gerusalemme una gioia del suo popolo, un gaudio». La salvezza escatologica della visione di Giovanni è universale e particolare al tempo stesso. Rispecchia il movimento creatore e salvatore di Dio che attraversa tutta la rivelazione biblica. Dio è creatore dell’universo e Padre di tutte le creature che popolano la terra, ma Dio al tempo stesso si sceglie un popolo, Israele, e una città, Gerusalemme, come possesso e dimora amati e riservati in modo particolare per sé.
La nuova Gerusalemme è presentata nella visione «come una sposa adorna per il suo sposo» (cf. Is 52,1; 61,10).
Nella terra e cielo nuovi Dio ha la sua dimora stabile. Questo fa la differenza con il cielo e la terra di prima dove Dio aveva dimora, ma nascosta «dalla tenda». Solo in visione e da parte di alcuni scelti da lui per delle missioni particolari, come Mosé, ci poteva essere un contatto per così dire, più diretto. La dimora definitiva di Dio fra gli uomini sarà lo svelamento di quella stessa presenza di Dio nella tenda in mezzo o alla guida del suo popolo in questo mondo che deve passare. La dimora, in greco skené, ha le stesse consonanti della parola ebraica skekinà, che indica l’immanenza di Dio che sta insieme al suo popolo e condivide, se così si può dire, la sua stessa vita tanto da andare in esilio con lui.
Il segno della dimora definitiva di Dio col suo popolo e l’umanità “giusta” sarà l’assenza di ogni sofferenza, morte, lutto, dolore (cf. Is 35,10; 65,19; Ger 31,16).
Vangelo: Giovanni 13,31-33a.34-35
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». |
Esegesi
Nei primi due versetti della pericope che leggiamo oggi Gesù parla della glorificazione del «Figlio dell’uomo» ormai avvenuta e annuncia che Dio è glorificato in lui.
Giovanni collega il discorso della glorificazione di Gesù con il dono dello Spirito. In 7,39 afferma che non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. I credenti ricevono lo Spirito del Signore glorificato, e solo dopo questo dono «si ricordano» (12,16) e capiscono le parole di Gesù.
La glorificazione del Figlio è opera del Padre, al quale appartiene la gloria. I segni miracolosi compiuti da Gesù presentano questo movimento dinamico: essi avvengono a gloria di Dio e le persone che vi assistono lodano il Padre, Dio di Israele (cf. Mt 9,8; 15,31; Mc 2,12;). Gesù insiste su questa dinamica intrinseca alla glorificazione del Padre, che a sua volta glorifica il Figlio e che è glorificato attraverso il Figlio (Gv 8,54). C’è un intreccio inestricabile fra le due glorificazioni, ma il termine ultimo è sempre il Padre. «Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,28). «Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).
Per Giovanni la glorificazione di Gesù è strettamente legata alla passione. Egli dice infatti all’annuncio della passione: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23). Gesù si sottomette a passione per amore, in obbedienza al Padre. Egli dà l’esempio dell’amore più grande: «dare la vita». «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questa è la misura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni verso gli altri.
«Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati». Gesù propone sé stesso come esempio di adempimento in misura totale del comandamento grande di Lev 19,18: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ne sottolinea l’attualità ai discepoli: «Vi do’ un comandamento nuovo», un comandamento che va messo in pratica sempre in forma nuova a seconda delle circostanze in cui una persona si trova. La novità per i discepoli è il dovere di imitare Gesù nel suo dono senza misura.
Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli affettuosamente «figlioletti» (teknía). Questo termine ricorre solo qui nel vangelo di Giovanni, ma è un’espressione tipica della Prima Lettera a lui attribuita (1Gv 2,12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21), che ravvicina al genere letterario sapienziale dei Proverbi (cf. Pv 1,8; 2,1; 3,1; 4,1; 8,32): un padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti. Il diminutivo «figlioletti», anziché il più usuale «figli», indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento.
Meditazione
La pericope evangelica che la liturgia propone nella quinta domenica di Pasqua dell’anno C è, come sempre, tolta dal suo contesto biblico per ‘rivivere’ in un nuovo contesto che è quello liturgico. Senza contraddire il contesto biblico, cerchiamo di far risuonare questo testo di Giovanni all’interno della celebrazione pasquale che la Chiesa vive nei Cinquanta giorni, i quali costituiscono un unico grande giorno di festa.
Nella pagina degli Atti degli Apostoli (prima lettura) troviamo la narrazione della missione di Paolo e Barnaba, in particolare di come essi cercarono di dare solidità e struttura alle comunità da loro fondate, istituendo in ogni Chiesa alcuni anziani. Quello che ci viene qui narrato è dunque uno sforzo di evangelizzazione, accompagnato dalla preoccupazione di organizzare anche in modo ‘istituzionale’ le comunità locali — e tuttavia si afferma che quando i due apostoli ritornarono ad Antiochia, la comunità dalla quale erano partiti, «riferirono tutto ciò che Dio aveva operato per mezzo loro» (At 14,27). Ecco un aspetto pasquale al quale la Chiesa sempre si deve convertire: imparare a vedere sempre, nella sua vita, la presenza dell’azione di Dio.
Il brano tratto dal libro dell’Apocalisse (seconda lettura) ci può aiutare a cogliere il contesto pasquale sullo sfondo del quale interpretare le parole di Gesù che troviamo nel vangelo.
Ecco: faccio nuove tutte le cose!
L’Apocalisse riprende un’immagine molto bella, già usata in precedenza per parlare della fine della storia (cfr. Ap 7,17): Dio che asciuga ogni lacrima dal volto dell’umanità. E aggiunge qui un elenco di situazioni concrete che alla fine e nel fine della storia non ci saranno: «Non vi sarà più morte né lutto e grida e dolore» (Ap 21,5). Le lacrime che saranno asciugate non sono quelle dei grandi eventi della storia, ma quelle dei lutti e delle tribolazioni che ogni uomo e ogni donna hanno vissuto nella loro concreta esistenza.
Nel fine e nella fine della storia, nel disegno di Dio, queste realtà non ci sono più. Dio non le ha mai volute e alla fine della storia le cancella, perché il suo desiderio originario alla fine non può che vincere contro ogni ‘nemico’. Il brano termina con un’affermazione che ci proietta nel testo evangelico: «Ecco: faccio nuove tutte le cose». La storia conoscerà una svolta, ma tale svolta è opera di Dio. A partire da questo annuncio, spostiamo la nostra attenzione sul brano evangelico, per contemplare come, dove e quando quest’azione di Dio trova conferma, quando la Parola di Dio si dimostra degna di fede/fedele e veritiera (cfr. Ap 21,5).
Anche il testo del Vangelo parla di una ‘cosa nuova’, un comandamento nuovo, che Gesù dona ai suoi discepoli. In realtà non si tratta di una novità dal punto di vista del contenuto: il comando dell’amore è già presente nell’Antico Testamento sia in riferimento a Dio (Dt 6,5), sia in riferimento al prossimo (Lv 19,18.34). La novità sta nel ‘come’. Si tratta di un comando, ‘amatevi’, che interessa l’avvenire, fondato sopra un fatto avvenuto nel passato: ‘come io ho amato voi’. L’amore dei discepoli è possibile perché sono stati preceduti dall’amore di Gesù: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). In Gv 15,9 Gesù descriverà così qual è l’amore con il quale egli ha amato i discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». È in questo amore, con il quale il Padre ha amato Gesù e che Gesù a sua volta ha indirizzato verso i suoi discepoli, che i discepoli stessi devono ‘rimanere’.
La novità di questo comandamento, allora, è la novità della Pasqua, nella quale Dio crea qualcosa di nuovo proprio in Gesù, primogenito dell’umanità e terra nuova che l’Apocalisse canta con stupore. Anche se collocato in un discorso di Gesù ambientato nella cena che ha preceduto la passione e quindi la Pasqua, questo testo, come ogni testo dei vangeli, viene trasfigurato dalla luce pasquale. Ma ci dice anche qualcosa di più circa la ‘novità’ che è stata resa possibile dalla Pasqua di Gesù e che ‘oggi’ la Chiesa può celebrare nel suo cammino nella storia dell’umanità.
Gloria, sequela, amore
Nel brano si susseguono tre temi molto significativi — la gloria, la sequela, il comandamento dell’amore — che corrispondono nel testo a suddivisioni ben riconoscibili, e anche a una scansione temporale ben precisa.
La gloria. Nell’Antico Testamento la ‘gloria’ — termine che in ebraico indica la ‘pesantezza’, la ‘consistenza’ — è il manifestarsi di Dio nella storia. La gloria è la presenza di Dio visibile nella storia dell’umanità. Nel testo di Giovanni si parla del Padre che è glorificato in Gesù e di Gesù che è glorificato da parte del Padre. In Gesù, nella sua Pasqua, continua dunque il medesimo ‘stile’ del Dio dell’Esodo, un Dio che agisce nella storia in favore del suo popolo e dell’umanità. Questo primo tema fa riferimento al tempo della Pasqua di Gesù.
La sequela. Il secondo tema è quello del seguire il Signore. Su esso sembra che ci sia incomprensione tra il maestro e i suoi (cfr. 13,36-38). Gesù afferma che ora i discepoli non lo possono seguire dove egli va, sulla sua via (Gv 13,33.36) e il v. 36 è ancora più chiaro: ora i discepoli non possono seguire Gesù. Lo potranno fare però in un secondo momento, dopo la sua Pasqua. Non possono amarsi vicendevolmente come Gesù li ha amati prima che egli li abbia amati fino alla fine (Gv 13,1). Devono accettare questo suo gesto estremo di amore per poter diventare capaci di essere veramente suoi discepoli e di seguirlo. Il tempo di cui si sta parlando è il presente dei discepoli, prima della Pasqua di Gesù.
Il comandamento dell’amore. Ora si capisce perché Gesù introduca a questo punto il tema del comandamento nuovo. Gesù indica qui la via che i discepoli devono percorrere per poterlo seguire, per andare dove lui va, cioè verso la Pasqua: è l’amore fino alla fine, a somiglianza del suo. Prima della Pasqua questo amore è ‘sconosciuto’ ai loro occhi e non sono in grado di percorrere quella via. Solo dopo, dopo la Pasqua di Gesù e il dono dello Spirito, potranno essere veramente discepoli.
La sequela non è frutto dell’impegno dei discepoli, ma è quella ‘cosa nuova’, quella via nel deserto che Dio ha aperto nella storia dell’umanità. Senza la strada aperta da Dio in Gesù, che è la via (Gv 14,6), non ci può essere sequela autentica. Allora questa parola di Gesù è situata in un ‘terzo tempo’, che viene dopo la sua Pasqua e il dono dello Spirito, e condurrà i discepoli alla verità tutta intera. È il tempo della Chiesa.
Preghiere e racconti
Affamati d’amore
Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno per essere ciò che i nostri figli si aspettano da noi, che un marito si aspetta dalla moglie e viceversa. E così siamo sempre meno in contatto gli uni con gli altri. Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di gentilezza. La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati.
(Madre Teresa di Calcutta)
«Vi do un comandamento nuovo».
Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità. È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti». E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli». Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo. Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò. Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].
E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità. Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità. Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza. In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli. Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imitate il mio amore. I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa. E niente educa alla virtù come la carità. Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.
(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).
Ama con umiltà e rispetto
La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.
(Thomas Merton).
«Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Mt 22,37-39).
Comincio a sperimentare che un amore di Dio totale e incondizionato rende possibile un amore del prossimo visibilissimo, sollecito e attento. Ciò che spesso io definisco ‘amore del prossimo’ si dimostra troppo spesso un’attrazione sperimentale, parziale o provvisoria, di solito molto instabile e fuggevole. Ma se il mio obiettivo è l’amore di Dio, si può sviluppare anche un profondo amore per il prossimo. Altre due considerazioni possono spiegarlo meglio.
Prima di tutto, nell’amore di Dio scopro ‘me stesso’ in modo nuovo. In secondo luogo, non scopriremo solo noi stessi nella nostra individualità, ma scopriremo anche i nostri fratelli umani perché è la gloria stessa di Dio che si manifesta nel suo popolo in una ricca varietà di forme e di modi. L’unicità del prossimo non si riferisce a quelle qualità peculiari, irrepetibili da individuo a individuo, ma al fatto che l’eterna bellezza e l’eterno amore di Dio divengono visibili in quelle creature umane uniche, insostituibili, finite. È precisamente nella preziosità dell’individuo che si rifrange l’amore eterno di Dio, diventando la base per una comunità d’amore. Se scopriremo la nostra stessa unicità nell’amore di Dio e se potremo affermare che possiamo essere amati perché l’amore di Dio dimora in noi, potremo allora arrivare agli altri, in cui scopriremo una nuova ed unica manifestazione dello stesso amore, entrando in intima comunione con loro.
(H.J.M.NOUWEN, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Brescia, 1998, 82s.).
Cogliere il mistero di Dio
Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’amore di Dio è anche il culmine dell’amore sopra la terra. Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate ogni fogliuzza, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa! Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio. Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente. E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale.
(Fedor Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).
Cercare la verità…amando
Ho cercato la verità,
con l’Innominato di Manzoni.
Ho cercato la verità
tra le lettere di don Milani.
Ho cercato la verità,
curiosando nella vita di Gandhi.
Ho cercato la verità,
nelle confessioni di sant’Agostino.
Ho cercato la verità
nelle prediche di don Mazzolari.
Ho cercato la verità,
piangendo con Giobbe sul letamaio.
Ho cercato la verità,
fuggendo da casa, con la mia parte
di eredità, come il Figliol Prodigo.
Ho cercato la verità,
nelle poesie di Tagore.
Ho cercato la verità,
nei pensieri di Pascal.
Ho cercato la verità,
nei fioretti di san Francesco.
Ho cercato la verità,
nell’Allegretto della settima di Beethoven.
Ho cercato la verità,
vagando stralunato.
Ho cercato la verità,
negli occhi incavati
e ormai vitrei di Brambilla,
morto di Aids tra le mie braccia.
Ho cercato la verità,
nei rosari che la mia santa madre
recitava per me,
prete molto diverso dal prete
che teneva nella sua testa.
Ho cercato la verità,
nel Parco Lambro,
negli anni ottanta,
assistendo giovani in overdose.
Ho cercato la verità,
nei commenti biblici, stupendi,
del mio cardinale di Milano.
Ho cercato la verità,
nei viaggi del pellegrino Wojtyla.
Ho cercato la verità,
nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.
Ho cercato la verità,
nelle storie degli ultimi
e dei diseredati.
Ho cercato… talvolta nell’affanno,
tal’altra nella pazienza;
talvolta nella confusione,
tal’altra nel silenzio.
Una notte inginocchiato
nella mia cameretta,
recitavo Compieta.
Ho sentito battere al mio cuore.
Ho detto: avanti.
Ero assonnato e stanco.
Solo dopo qualche minuto
mi sono accorto chi era.
«Sono la fede!
So che mi hai cercato
per tanto tempo…lo sai bene
anche tu, che la fede non si cerca
dove non è…perché
la fede è LUI…e LUI è…
l’irruzione, la gratuità,
la meraviglia…
Lui è quello che ha detto:
«Cercate la verità, amando».
Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.
Sono venuto a dirtelo.
Accendi la lampada e spegni
i ragionamenti nella tua testa.
Perché LUI entra dal cuore.
È l’unica porta che può riceverlo».
(Don Antonio Mazzi, Preghiere di un prete di strada).
L’amore basta all’amore
Quando l’amore ti chiama, seguilo,
anche se ha vie ripide e dure.
Quando dalle sue ali ne sarai avvolto,
abbandonati a lui;
anche se la sua lama potrà ferirti.
Quando ti parla, credigli,
anche se la sua voce potrà disperdere i tuoi sogni.
Perché più l’amore ti colpirà,
più tu maturerai.
Perché l’amore non deve dar nulla, se non se stesso,
né coglier nulla, se non da se stesso.
Perché amarsi l’un l’altro,
non è far dell’amore una prigione.
Perché l’amore non possiede, né deve essere posseduto.
Perché l’amore basta all’amore.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
———
– M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.
PER L’APPROFONDIMENTO:
– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
Teologia dell’educazione cristiana:
pluralità di modelli e strategie
Presentiamo un’ Opera di singolare rilevanza nel panorama della ricerca attuale. Riguarda un settore solo recentemente studiato e però di notevole rilevanza soprattutto nell’ambito dell’educazione religiosa ecclesiale. Ne proponiamo alcuni stralci interpretativi a partire dall’Opera stessa.
L’autrice GIUSEPPINA BATTISTA
l’Autrice ha conseguito il dottorato in Teologia, sotto la direzione del pro£ René Marlé, s.j. presso l’Institut Catholique di Parigi. Per la sua ricerca sulperiodo di Umanesimo e antiUmanesimo ha potuto far tesoro della consulenza e suggerimenti del prof. Pietre Riché.
Da molti anni si dedica allo studio della Teologia orientando ricerca, studi e pubblicazioni al particolare versante dell’educazione. Lo studio di vari Autori, dal tempo patristico sino ai nostri giorni, ha suscitato in lei particolare attenzione per la varietà dei testi e la plurale declinazione della teologia.
Con i dati raccolti dalla ricerca ormai di anni, l’Autrice ha individuato proprio nei principi valoriali e di riferimento, la solida base di un’educazione pienamente umana, così da coniugare le pretese della trascendenza con quelle reclamate dai mutamenti delle società. Da qui l’idea e la realizzazione di questo studio che propone una antologia di testi.
La sua attività di studio e di ricerca, inerente al tema dell’educazione cristiana, è stata accompagnata da un costante servizio educativo nella scuola statale e in varie Università Pontificie.
Attualmente, è docente incaricata per i corsi di Teologia dell’ Educazione e di Storia della catechesi presso l’Istituto Pastorale Redemptor hominis della Pontificia Università Lateranense
Il Lavoro.
Dal titolo del lavoro appare evidente l’intenzione di offrire una riflessione sulla teologia cristiana dell’educazione avendo presente la pluralità di modelli e di metodi registrati nella vita bimillenaria della Chiesa. Il lavoro si divide in due parti; la prima propone uno studio che rimanda alla seconda parte in cui viene offerta una antologia di testi in ordine cronologico, secondo la sequenza dei temi sviluppati nei singoli capitoli dello studio.
Con la proposta di questa antologia si Vuole colmare un vuoto e offrire l’utile servizio proprio di una raccolta di testi sparsi nelle edizioni, le più varie, e non sempre di facile consultazione. Con questa propria originalità, e partendo dal Vangelo di Gesù Cristo, il Maestro, si vogliono illustrare ideale e prassi nel campo educativo, alla luce delle fonti lasciate da eminenti teologi ed educatori.
Il volume, con la materia trattata e con il metodo seguito, lascia una eco e apre un cantiere di lavoro, per la continuità della ricerca e dello studio attraverso il confronto tra le distinte letture teologiche e le varie ricadute
Il significato.
In collaborazione con le scienze dell’educazione, la teologia può analizzare i principali problemi che le culture attuali pongono alla fede delle comunità cristiane in campo educativo e pedagogico; da parte sua, la teologia dell’educazione deve studiare in profondità i processi di conversione e di crescita cristiana, per comprendere in quale modo essi possano diventare contemporaneamente processi di autentica promozione e di maturazione umana, definendo contemporaneamente le componenti essenziali dell’educazione cristiana e contribuendo, in definitiva, alla comprensione e alla soluzione dei problemi educativi.
C’è dunque una trama intensa e feconda tra sviluppo umano e sviluppo cristiano: sviluppi che nel travaglio dell’epoca contemporanea si presentano piuttosto articolati, difficoltosi e contrassegnati da molte urgenze ed emergenze.
La Collana.
La collana Vivae voces contiene opere monografiche e risultati del confronto di varie discipline su questioni cruciali per la ricerca. L’intento è raccogliere le voci più significative e rilevanti di quelle discipline considerate vitali nel panorama culturale, teologico ed ecclesiale contemporaneo, nel tentativo di raggiungere un’efficace visione d’insieme su tematiche che segnano il cambiamento culturale in corso.
Giovani e musica nel tempo della rivoluzione digitale
e dell’emergenza educativa
Si è svolto, lo scorso lunedì 22 aprile, il secondo incontro della rassegna Librarsi in volo organizzata dalla FSC. È stato presentato il volume del prof. Fabio Pasqualetti, Giovani e musica. Una prospettiva educativa, edito dalla LAS (2012). Insieme all’autore, che è docente per la cattedra di Società e comunicazione, sono intervenute la prof. Claudia Caneva (Facoltà di Filosofia) e la prof. Teresa Doni(FSC).
L’iniziativa ha inaugurato il programma della Settimana culturale delle Scienze Sociali (Religione e globalizzazione) organizzata dal Vicariato di Roma – rappresentato da don Wojciech Janusiewicz, collaboratore dell’Ufficio per la Pastorale Universitaria – in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e con il Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Partendo dalla considerazione della grande importanza e del significato che i giovani attribuiscono alla musica, nel corso degli interventi ci si è confrontati sul fatto che la musica non è solo ascolto, bensì stile di vita; è riflesso del modo di sentire in quel dato momento; è codice per la cerchia degli amici; è rito da celebrare insieme ad altri “fedeli” della stessa “religione musicale“; è contesto sociale nel quale immergersi e trasformarsi; è laboratorio sperimentale della ricerca di identità; è spazio per esprimere la propria corporeità; è dimensione comunicativa per gli altri e per se stessi. Si è toccato poi il problema del rapporto tra musica, produzione e mercato, confrontandosi sulle applicazioni peer to peer e su come queste abbiano modificato l’uso e la fruizione della musica e del mercato musicale. Un veloce accenno alla problematica del rapporto tra rock satanico e preoccupazione educativa che si interroga su quali atteggiamenti avere davanti a questi fenomeni, e come è possibile dialogare con giovani che ascoltano questa musica.
Alla fine dell’incontro sono rimaste molte domande e la voglia di continuare il dibattito su un tema molto complesso, ma anche molto appassionante. L’idea che è passata è quella che l’autore ha scritto nella quarta di copertina: “La musica può essere maestra di vita, e lo è in quanto narrazione che si aggiunge a tutte le altre per nutrire l’uomo di quelle storie che gli servono per capire il senso profondo della vita”.
Il prossimo appuntamento di Libarsi in volo è previsto per il prossimo lunedì 29 aprile, ore 17.30, con la presentazione del volume Sul palco e dietro le quinte. Il teatro palestra di specializzazione, del prof. Tadek Lewicki.
“Il futuro è nostro…
per cambiare il sistema dobbiamo partire da noi”
Giovani come tutti gli altri. Che cantano e ballano, amano fare festa, stare insieme con gli amici e tirare tardi la sera. Ma sono pure capaci di ascoltare, porre domande e discutere. Hanno tanti sogni per il futuro loro e del mondo che li circonda. E la volontà per perseguirli, non chiusi nell’individualismo ma aperti a cambiare la società.
Si è conclusa oggi con esempi d’impegno concreto la V Scuola di formazione per studenti (Sfs) del Msac (Movimento studenti di Azione cattolica), che da venerdì 19 ha chiamato a raccolta a Fiuggi un migliaio di ragazzi e ragazze provenienti da ogni angolo d’Italia: da Ragusa ad Aosta, da Alghero a Bari.
Esperienze di protagonismo giovanile. Giornali studenteschi, mercatino dei libri usati, liste alle elezioni dei rappresentanti d’istituto sono alcune delle iniziative “targate” Msac salite sul palco nell’ultimo giorno della Scuola di formazione, come esempio delle attività che il Movimento porta avanti nelle singole diocesi. A Nola “Asinello news” da un anno “serve per esprimere le nostre idee, opinioni, ma anche esperienze in ambito sociale e scolastico”. Si rivolge agli studenti delle scuole della diocesi e, aperto al contributo di tutti, si trova on line (www.asinellonews.it). Passa invece da un mercatino dei libri usati (www.mercatinolibrousato.com) l’impegno degli studenti riminesi, nato dalla volontà di “mettere in contatto direttamente chi vuol vendere e chi acquista i libri scolastici” e che periodicamente viene riproposto con successo. Sempre in Romagna, a Imola, il Msac da 9 anni anima le elezioni dei rappresentanti studenteschi nelle scuole. “Msache ci siamo” lo slogan per una “partecipazione impegnata e che ascolti gli studenti”, cominciata dopo aver visto che “c’erano solo liste fannullone”, mentre con la “discesa in campo” degli studenti di Ac anche altri gruppi hanno deciso d’impegnarsi seriamente. Ad Acireale, infine, il Movimento è nato con l’Oktoberfest, la festa annuale dei giovani di Azione cattolica, che, partendo da “divertimento e riflessione”, “ha fatto crescere in noi – hanno detto i ragazzi siciliani – la voglia di portare i nostri valori tra i banchi di scuola”.
Avere chiara la meta. “La scuola che verrà è quella che, passo dopo passo, giorno dopo giorno, saprete costruire nelle vostre scuole”, ha asserito Elena Poser, segretaria nazionale del Movimento, riprendendo il tema della Sfs e tracciando, in conclusione dell’evento, le linee di un impegno: lasciarsi “incuriosire dalle novità e dai cambiamenti”, “affrontare le sfide senza paure, ma con grande speranza”. “Lasciamoci provocare dalle sfide dell’oggi: ci devono entusiasmare”. “Ci serve puntare in alto – ha proseguito – senza paura, anche con un po’ di sfacciataggine: essere ambiziosi non è un male, è avere ben chiara una meta, l’obiettivo da raggiungere e giocarsi tutte le carte a disposizione per provare a realizzarlo”. “Il futuro – ha concluso – è nelle nostre mani, dobbiamo prendercene cura”.
Vogliamo crederci. “Vogliamo vivere la scuola davvero, in maniera attiva; crederci”: questo è il Msac perMassimiliano Di Corato, diciottenne di Bari, che dopo aver partecipato all’evento di Fiuggi auspica, parlando al Sir, una scuola “in cui ogni studente trovi la sua strada” e abbia “la possibilità di scegliere il proprio futuro, che è anche il futuro di quanti ci circondano”. “Per ‘cambiare il sistema’ dobbiamo cambiare noi, credere in quello che facciamo”, gli fa eco Pietro Canelli, 18 anni, del Msac di Bologna, ricordando che “i ragazzi nella scuola i loro spazi li hanno e sanno usarli”. L’importante, per Diletta Zardi di Imola, è “responsabilizzare i nostri coetanei e far capire che l’impegno nella scuola è un impegno anche nella società”. Un obiettivo possibile “portando l’entusiasmo di questi giorni nelle nostre diocesi”, aggiunge Gaia Valent, 14enne di Venezia alla sua prima Sfs, convinta che “un nuovo percorso per mettersi in gioco” passi dal “fare Movimento”, dal coinvolgere gli altri studenti, per “far capire che siamo giovani come gli altri, capaci di divertirci senza sballarci”. Di far festa, e al tempo stesso impegnarsi per costruire la scuola e il mondo che verranno.
a cura di Francesco Rossi, inviato Sir a Fiuggi
Giornata delle vocazioni:
“La prospettiva vocazionale nell’educazione è la scoperta di sè”
La Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni offre l’occasione di riflettere su un tema – e un termine – che oggi può sembrare desueto se non addirittura equivoco. Vocazione, infatti – ammettendo che il termine e la sua implicazione “religiosa” risultino comprensibili ai giovani di oggi – può lasciar immaginare schemi già definiti, cui ci si può/deve adeguare, modelli di vita – il prete, la suora, ma anche il marito, la moglie – da “calzare” come un vestito più o meno su misura. In realtà, il tema della vocazione richiama, più in generale, la ricerca personale di realizzazione e di felicità, ancorandola – questa è la portata propria del termine, che si può sostituire con “chiamata” – alla dimensione della relazione, del rapporto con l’altro. Qualcuno, appunto, che “chiama”, nei confronti del quale si è responsabili, cioè si “risponde”.
La vocazione cristiana è quella condivisa da ogni battezzato a seguire la strada di Gesù, a diventare come lui, rispondendo in modo consapevole e anche originale a quelle parole che riporta il Vangelo: “Vieni, e seguimi”. E si capisce che – men che meno – può diventare l’”adeguarsi” a modelli prestabiliti e preconfezionati.
Piuttosto si tratta di scoprire chi si è, di intuire consapevolmente strade personali, molto concrete, che si affacciano all’esperienza quotidiana delle persone, alla ricerca di vita piena, anche incrociando e misurandosi – sapientemente accompagnati – con le vie “tradizionali”, con le proposte di vita sacerdotale, religiosa, laica…
Probabilmente la proposta del tema della vocazione oggi deve misurarsi con la necessità di trovare linguaggi diversi per farsi capire, vista la perdita di una “grammatica” comune, per cui un termine che in passato poteva avere immediatamente un forte carica di significato, oggi risulta difficile da comprendere e condividere. Deve misurarsi, anche, con la difficoltà propria dell’interpretare l’esistenza come una chiamata-risposta: cosa tutt’altro che scontata oggi, in un tempo in cui l’uomo si percepisce prevalentemente come “individuo”, sostanzialmente solo, che decide da sé, si realizza da sé…
Qui sta il nodo decisivo, nella percezione di ciò che è autenticamente umano: la riflessione sul tema della vocazione deve portare qui, a incontrare l’uomo, persona, inserito in un mondo abitato, dove l’altro è il riferimento, risorsa. Dove la dimensione dell’incontro è quella in cui si gioca la libertà: la possibilità/scelta di dare la mano o di toglierla, di aprire o chiudere, di costruire relazioni e reti o farne a meno.
In questa direzione è decisivo lo sforzo di accompagnamento da parte degli educatori, nel dipanare davanti agli occhi soprattutto dei più giovani un orizzonte così “impegnativo”, nel senso che coinvolge in profondità l’essere umano. Educare, aiutare a crescere, motivare, promuovere: sono termini che costruiscono una “prospettiva vocazionale”, cioè la progressiva scoperta di sé, della propria libertà, della capacità di scegliere e di incontrare veramente un altro /Altro. È ancora l’impegno forte della Chiesa in questo decennio dedicato all’educazione.
Alberto Campoleoni SIR 21/04
50ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni
In occasione della 50ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che ha per tema “Le vocazioni segno della speranza fondata sulla fede”, stamattina Papa Francesco ha ordinato 10 sacerdoti, nella messa celebrata nella basilica di San Pietro. Alle 12, il Pontefice ha recitato il Regina Cæli con i fedeli a piazza San Pietro.
Pastori, non funzionari. Il Santo Padre, nell’omelia, ha invitato a riflettere “attentamente” a “quale ministero saranno elevati nella Chiesa” questi “nostri fratelli e figli” che “sono stati chiamati all’ordine del presbiterato”. In particolare, il Signore sceglie alcuni tra i suoi discepoli perché “esercitando pubblicamente nella Chiesa in suo nome l’officio sacerdotale a favore di tutti gli uomini” continuino “la sua personale missione di maestro, sacerdote e pastore”. Rivolgendosi agli ordinandi, Francesco ha detto: “Dispensate a tutti quella Parola di Dio che voi stessi avete ricevuto con gioia. Ricordate le vostre mamme, le vostre nonne, i vostri catechisti, che vi hanno dato la Parola di Dio, la fede… il dono della fede! Vi hanno trasmesso questo dono della fede. Leggete e meditate assiduamente la Parola del Signore, per credere ciò che avete letto, insegnare ciò che avete appreso nella fede, vivere ciò che avete insegnato”. Il Papa, poi, ha ammonito: “La Parola di Dio non è proprietà vostra: è Parola di Dio. E la Chiesa è la custode della Parola di Dio”. Sia, dunque, “nutrimento al Popolo di Dio la vostra dottrina; gioia e sostegno ai fedeli di Cristo il profumo della vostra vita, perché con la parola e l’esempio edificate la casa di Dio, che è la Chiesa”. Il Pontefice ha ricordato: “Con il battesimo aggregherete nuovi fedeli al Popolo di Dio. Con il sacramento della penitenza rimetterete i peccati nel nome di Cristo e della Chiesa. E oggi vi chiedo in nome di Cristo e della Chiesa: per favore, non vi stancate di essere misericordiosi. Con l’olio santo darete sollievo agli infermi e anche agli anziani: non abbiate vergogna di avere tenerezza con gli anziani”. Ancora un invito agli ordinandi: “Consapevoli di essere stati scelti fra gli uomini e costituiti in loro favore per attendere alle cose di Dio esercitate in letizia e in carità sincera l’opera sacerdotale di Cristo, unicamente intenti a piacere a Dio e non a voi stessi. Siete pastori, non funzionari! Siete mediatori, non intermediari!”. Infine, il Santo Padre ha invitato ad avere “sempre davanti agli occhi l’esempio del Buon Pastore, che non è venuto per essere servito, ma per servire e per cercare di salvare ciò che era perduto”.
Una voce unica. Al Regina Cæli Francesco ha osservato che nel “Vangelo del Buon Pastore” c’è “tutto il messaggio di Gesù”, che “vuole stabilire con i suoi amici una relazione che sia il riflesso di quella che Lui stesso ha con il Padre: una relazione di reciproca appartenenza nella fiducia piena, nell’intima comunione”. Per esprimere “questo rapporto di amicizia” Gesù usa “l’immagine del pastore con le sue pecore: lui le chiama ed esse riconoscono la sua voce, rispondono al suo richiamo e lo seguono”. In realtà, “la voce di Gesù è unica! Se impariamo a distinguerla, Egli ci guida sulla via della vita, una via che oltrepassa anche l’abisso della morte”. A proposito delle vocazioni, rivolgendosi ai giovani presenti in piazza, ha instaurato un dialogo con loro chiedendo: “Qualche volta avete sentito la voce del Signore che attraverso un desiderio, un’inquietudine, vi invitava a seguirlo più da vicino? Avete avuto voglia di essere apostoli di Gesù? La giovinezza bisogna metterla in gioco per grandi ideali. Domanda a Gesù che cosa vuole da te e sii coraggioso!”. Dietro e prima di ogni vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata, ha aggiunto, “c’è sempre la preghiera forte e intensa di qualcuno: di una nonna, di un nonno, di una madre, di un padre, di una comunità…”. Dunque, “le vocazioni nascono nella preghiera e dalla preghiera; e solo nella preghiera possono perseverare e portare frutto”. Ai fedeli che lo acclamavano, ha detto: “Grazie tante per il saluto, ma anche salutate Gesù, gridate Gesù, Gesù forte”.
Appello per il Venezuela. Dopo il Regina Cæli, il Papa ha detto di seguire “con attenzione” e “viva preoccupazione” gli avvenimenti che stanno succedendo in Venezuela, auspicando che “si cerchino e si trovino vie giuste e pacifiche per superare il momento di grave difficoltà”. Di qui l’invito al popolo venezuelano e in particolare ai responsabili istituzionali e politici “a rigettare con fermezza qualsiasi tipo di violenza e a stabilire un dialogo basato sulla verità, nel mutuo riconoscimento, nella ricerca del bene comune e nell’amore per la Nazione”. Un pensiero del Pontefice anche a “quanti sono stati colpiti dal terremoto che ha interessato un’area del sud-ovest della Cina Continentale”. Infine, ha ricordato la beatificazione oggi pomeriggio, a Sondrio, di don Nicolò Rusca, sacerdote valtellinese vissuto tra XVI e XVII secolo.