“I diritti della famiglia. Solo su Carta?”

Si terrà oggi, nella cornice del Fiuggi Family Festival, la presentazione del libro di Francesco Belletti e Gabriella Ottonelli “I diritti della famiglia. Solo sulla Carta?” (Paoline, 2013). Alla presentazione interverrà, insieme agli autori, don Andrea Ciucci, del Pontificio Consiglio per la Famiglia. A trent’anni dalla promulgazione della Carta dei diritti della famiglia, documento del Pontificio Consiglio per la Famiglia, il sociologo Francesco Belletti, direttore del Cisf (Centro internazionale studi famiglia) e presidente del Forum delle famiglie, e la moglie, la sociologa Gabriella Ottonelli, riprendono in mano la Carta proponendone un commento passo per passo. Il libro vuole essere innanzitutto “un invito, rivolto alle istituzioni ma anche ai singoli, a trasformare i diritti sulla carta in diritti concreti, perché le famiglie possano continuare a creare il futuro e costruire una società più umana”. Il libro è arricchito dalla prefazione di monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia che scrive: “Un’attenta e rigorosa rilettura della Carta dei diritti della famiglia ci può aiutare a percepire nello stesso tempo lo scollamento che caratterizza la rivendicazione odierna dei diritti umani tra vincolo e arbitrio e la profonda esigenza di superare tale scollamento”. 

Lettera a Papa Francesco

Francesca è una giovane collaboratrice del Sir che ha provato a mettere in fila i sentimenti e i pensieri che in queste ore corrono nel cuore e nella mente dei ragazzi di Rio. Non sappiamo se siamo riusciti a dare voce ai giovani della Gmg, ma speriamo di esserci andati molto vicino

Caro Papa Francesco, 
ci hai chiamato amici e così mi piace pensarti, come un amico un po’ più grande, che ha fatto un pezzo di strada che io ancora non ho percorso e che mi invita a guardare più là del mio naso. 
Sai Papa, ho solo vent’anni e ci sono così tante cose che voglio fare. È bello pensare che, come hai detto, se ci metto fede, speranza, amore le farò meglio. 
Sai Papa, è duro il mondo per noi giovani. Qualunque cosa facciamo non va mai bene. Se contestiamo siamo indignati, se accettiamo siamo vigliacchi, se chiediamo la parola siamo troppo giovani per sapere, se facciamo qualcosa in silenzio non abbiamo idee. 
Eppure, nonostante tutto, non ci arrendiamo. Io oggi ti ho ascoltato, ci ho riflettuto un po’ e ho deciso che ti credo. Ti rispondo che ci sto. Sai, come quel Pascal che ho studiato al liceo, quello della scommessa, che diceva che ne valeva la pena. Ecco, scommetto anche io su di te, sulla tua tenerezza e siccome dicono che noi giovani non ci impegniamo davvero in quello che facciamo, voglio fare le cose per bene e ti metto tutto nero su bianco. Così, se un giorno non dovessimo più ricordarci cosa ci siamo detti, possiamo sempre rileggere e sorriderne insieme. 
Allora, cominciamo. Ci sto a finire quest’Università che mi sembra un pozzo senza fondo verso il miraggio di un lavoro che non c’è. Ci sto a confrontarmi su tutto con i miei, anche se a volte penso che ci divida ben più di una generazione. Ci sto a frequentare la Chiesa, anche quando il mio parroco sembra più un ragioniere che un allenatore di anime. Ci sto a sognarmi dove non avrei pensato di immaginarmi, perché se comincio a tarparmi le ali da sola non posso pensare di volare alto. Ci sto a farmi una famiglia perché continuo a pensare che i figli sono l’unico modo per ipotecare bene il mio futuro. Ci sto a non farmi consumare la speranza da chi è deluso dalla vita e tenta di scoraggiarmi dal vivere pienamente la mia. Ci sto a non accontentarmi di risposte provvisorie e a cercare la verità anche quando è ben nascosta nelle pieghe dell’effimero. Ci sto a non sottrarmi alle mie responsabilità anche quando sarebbe facile scaricarle sulle spalle di qualcun altro. Ci sto a cercare il torsolo buono nella mela ammaccata, perché se il Signore perdona me io non posso non fare lo stesso con chi mi offende. Ci sto a cambiare una piccola cosa che non va ogni giorno, perché mi conosco e lo so che se cercassi di cambiare tutto insieme non funzionerebbe e mi demoralizzerei. Ci sto a riporre la mia fiducia in Qualcuno di più grande che mi aspetta senza arrabbiarsi anche quando magari mi smarrisco per un po’. Ci sto ad essere una “testimone gioiosa”, perché non c’è niente di più triste di un testimone mesto. Ci sto a mettere il sale dov’è insipido, lo zucchero dov’è amaro, l’acqua dove è arido, perché la vita va cucinata con i giusti ingredienti perché abbia un buon sapore. 
Che ne dici Papa Francesco, va bene come primo elenco? Beh, a me sembra abbastanza ottimista per aver appena cominciato. Ma non mi preoccupo, so che ne riparleremo alla prossima Gmg. 
Ti abbraccio, la tua amica

SIR del 26/07/2013

Il Papa agli educatori: “il drago non è il più forte”

Visibile l’emozione di Papa Francesco nell’entrare mercoledì 24 luglio nella Basilica del Santuario di Nostra Signora di Aparecida, “la casa della Madre”, particolarmente cara al cuore del popolo latinoamericano. La memoria del Successore di Pietro torna alla V Conferenza Generale dell’Episcopato dell’America Latina e dei Caraibi: “I Vescovi – confida nell’omelia, ripensando a quell’incontro di sei anni fa – si sentivano incoraggiati, accompagnati e, in un certo senso, ispirati dalle migliaia di pellegrini che venivano ogni giorno ad affidare la loro vita alla Madonna: quella Conferenza è stata un grande momento di Chiesa. E, in effetti, si può dire che il Documento di Aparecida sia nato proprio da questo intreccio fra i lavori dei Pastori e la fede semplice dei pellegrini, sotto la protezione materna di Maria”.
E, rivolgendosi a tutti gli educatori, indica quindi “tre semplici atteggiamenti” per “trasmettere ai nostri giovani i valori che li rendano artefici di una Nazione e di un mondo più giusti, solidali e fraterni”.
Innanzitutto, “mantenere la speranza”. Commentando la lettura dell’Apocalisse, il Papa riconosce le “difficoltà ci sono nella vita”, ma esorta alla fiducia, perché “Dio non lascia mai che ne siamo sommersi”. Di qui l’appello: “Non perdiamo mai la speranza! Non spegniamola mai nel nostro cuore! Il “drago”, il male, c’è nella nostra storia, ma non è lui il più forte”. Quindi, è decisivo sottrarsi al “fascino di tanti idoli che si mettono al posto di Dio e sembrano dare speranza”: in realtà, sono “compensazioni”, “idoli passeggeri”. L’educatore, ha fatto capire, è chiamato a incoraggiare “la generosità che caratterizza i giovani”, convinti che “non hanno bisogno solo di cose, hanno bisogno soprattutto che siano loro proposti quei valori immateriali che sono il cuore spirituale di un popolo, la memoria di un popolo”.
Il secondo atteggiamento richiede di “lasciarsi sorprendere da Dio”, da Colui che sempre stupisce, come il vino nuovo nel Vangelo”. Sempre “Dio riserva il meglio per noi”; ma a sua volta “chiede che noi ci lasciamo sorprendere dal suo amore, che accogliamo le sue sorprese”. Di qui l’invito: “Fidiamoci di Dio! Lontano da Lui il vino della gioia, il vino della speranza, si esaurisce. Se ci avviciniamo a Lui, se rimaniamo con Lui, ciò che sembra acqua fredda, ciò che è difficoltà, ciò che è peccato, si trasforma in vino nuovo di amicizia con Lui”.
Infine, il Papa richiama la condizione di fondo del credente: “Vivere nella gioia, essere testimoni di questa gioia”. Poiché “Dio ci accompagna, abbiamo una Madre che sempre intercede per la vita dei suoi figli, Gesù ci ha mostrato che il volto di Dio è quello di un Padre che ci ama”, il cristiano non ha la faccia di chi sembra trovarsi in un lutto perpetuo: se siamo davvero innamorati di Cristo e sentiamo quanto ci ama, il nostro cuore si «infiammerà» di una gioia tale che contagerà quanti vivono vicini a noi”.
 
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“La fede in Cristo non è un frullato… Deve disturbare”

E’ stato il giorno degli argentini, quello di giovedì, alla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro. Nell’enorme cattedrale di san Sebastiano, popolarmente conosciuta come Catedral metropolitana, sin dalle prime ore dell’alba migliaia di argentini si sono messi in fila – sotto lo sguardo attento della Polizia – per prendere i posti migliori per vedere il “nuestro Papa Francisco”. Da giorni si parlava di un incontro del Pontefice argentino con i suoi giovani connazionali, per un fuori programma fortemente desiderato dallo stesso Bergoglio. L’attesa per entrare nell’enorme chiesa è stata segnata da canti, preghiere, da slogan e da continui sventolii di bandierine. Sono arrivati da Buenos Aires, da Cordoba, da San Juan, da Mar del Plata, da Mendoza, da Rosario, tanto per citare alcune città e diocesi, dopo ore e ore di viaggio. Hanno sofferto sotto la pioggia e al freddo, ma il Papa argentino non ha tradito le attese.

Forti parole ai giovani. Cinquemila i fortunati seduti in chiesa, circa 30mila quelli rimasti fuori e sotto la pioggia. Parole pronunciate avendo a fianco l’immagine della Vergine di Lujan, patrona degli argentini. Ha parlato, a braccio, dello “scandalo della Croce”, della necessità che la Chiesa esca per le strade del mondo, che la fede “deve disturbare e non va annacquata”. Un discorso dal sapore di “mandato missionario”, mai così aderente al tema della Gmg, “Andate e fate discepoli tutti i popoli”: “Mi aspetto che i giovani facciano rumore nelle diocesi” e che “la Chiesa vada nelle strade”. Fino a rimarcare che “la fede in Cristo non è uno scherzo, è uno scandalo. La croce continua a essere uno scandalo, ma è anche l’unico cammino sicuro. La fede deve fare rumore, disturbare, la fede non va annacquata”.

E i giovani hanno risposto con un impegno. Ricostruire un’Argentina nuova sulla forza salvifica del Vangelo. Per rendere visibile e concreto questo impegno hanno chiesto al Papa di benedire una riproduzione del Crocifisso di san Damiano di Assisi. La Croce da adesso in poi sarà pellegrina in tutte le diocesi del Paese. Forte la commozione dei giovani al termine dell’incontro. Fuori, ancora sotto la pioggia battente, raccontano di “emozioni forti, di parole che lasciano il segno”. “Di sentimento così forte che non si può spiegare” come dicono in coro FlorenciaMorena eAlejandra, sedicenni della Provincia di San Juan, “abbiamo sofferto molto il freddo e la pioggia, ma ne è valsa la pena”. “Mi ha toccato in modo particolare quando ha detto che noi giovani dobbiamo lottare per il nostro Paese per renderlo più forte e che dobbiamo ascoltare gli anziani per fare dell’Argentina un Paese più saggio”, aggiunge Morena. Il messaggio di Bergoglio è arrivato forte e chiaro alle orecchie dei giovani argentini. “Dobbiamo darci da fare, impegnarci al massimo e uscire per strada per testimoniare il Vangelo”. Rosaria, studentessa universitaria di Buenos Aires, descrive Bergoglio come “una persona santa, che parla in modo molto chiaro. Mi è piaciuto il suo spirito giovanile, le parole che usa, che ci incoraggiano molto, sono ben scelte”. Suor Lorena, delle Serve dell’Immacolata Bambina, da san Juan apprezza “la semplicità del Papa di volersi riunire con i giovani dell’Argentina, un’attenzione molto umile da parte sua. Mi ha colpito quando ha detto che la Chiesa deve uscire fuori, rompere tutto ciò che impedisce il rapporto diretto con gli altri, di essere attenti ai fratelli, di occuparci dei giovani ma anche degli anziani”.

Tra i giovani anche Jorge Rouillon, giornalista argentino che per anni ha scritto d’informazione religiosa al “Diario” e a “La Nacion” e oggi è a Rio per l’agenzia d’informazione cattolica argentina “Aica”: “Il Papa continua a essere quel ragazzo di un quartiere di Buenos Aires che ha sentito la chiamata a essere sacerdote. Ha un’intesa speciale con i giovani argentini. Anche loro entrano facilmente in sintonia con il Papa, li si vede felici con le loro bandiere, anche quelli che sono lì fuori sotto la pioggia si ricorderanno di aver partecipato a questo evento, anche se lo hanno visto soltanto per un attimo da lontano e sempre che abbiano avuto la fortuna di vederlo”.

La Verna – “BIG” dell’Ecumenismo a confronto

Il corso di formazione ecumenica è stato organizzato dalla Commissione Regionale per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Toscana ed in particolare da don Mauro Lucchesi, incaricato regionale per l’Ecumenismo e docente all’Istituto di Scienze Religiose “Beato Niccolò Stenone” di Pisa.

Si sta svolgendo alla casa Pastor Angelicus di La Verna e si protrarrà fino a domani, 20 luglio. Il meeting, molto partecipato, offre tutti gli elementi per favorire la maturazione della sensibilità al dialogo interreligioso.

L’accento è stato posto sulle chiese d’oriente ed è toccato al professor Enrico Morini, docente universitario dell’Ateneo bolognese, ripercorrere le tappe storiche della fede ortodossa tra teologia, liturgia, ecclesiologia e spiritualità. Emozionante il momento in cui ha preso la parola padre Ioan Coman, della comunità rumena-ortodossa fiorentina, che ha raccontato la sua esperienza:

“Sono arrivato in Italia a soli 16 anni,  mio padre era un sacerdote ortodosso e mi ha fatto studiare nelle scuole cattoliche, è stata una esperienza fondamentale per me; quando sono giunto in Italia le comunità rumene erano pochissime, la più importante era quella di Milano, oggi siamo in molti e – continua padre Coman – siamo stati aiutati proprio dai cattolici per la nostra formazione anche dal punto di vista logistico. Sarebbe bello – ha sottolineato – poter dialogare maggiormente perché infondo siamo tutti cristiani e dobbiamo tutti insieme lavorare di più”.

Monsignor Andrea Palmieri, del Pontificio Consiglio per l’unità dei Cristiani, si è invece soffermato sui dialoghi tra cattolici ed ortodossi ed in particolare sull’Oriente in Concilio nei documenti e nel contributo degli osservatori ortodossi, per arrivare ai primi passi dell’Ecumenismo della carità al dialogo teologico attuale. Al Corso di formazione ha partecipato anche il professor Riccardo Burigana, docente all’ISE (Istituto studi ecumenici) S. Bernardino di Venezia.

Il meeting terminerà domani a Camaldoli con l’incontro con un monaco che cura il dialogo interreligioso.

Eleonora Prayer  

Una società a misura di famiglia?

La 47ª Settimana Sociale si svolgerà a Torino dal 12 al 15 settembre.
Questo appuntamento – una delle forme storicamente più consolidate per dire il rapporto tra Vangelo e ordine sociale nel Paese – ha come tema in tale edizione “La famiglia, speranza e futuro della società italiana”; una questione che non intende ridursi ad un ambito interno alla Chiesa.
Come evidenzia il Documento preparatorio, vi è una ragione di carattere antropologico, relativa al valore della relazione uomo-donna nell’esperienza dell’amore umano; c’è, quindi, una dimensione sociale, che fa della famiglia non un affare privato, confinato nella gestione della dinamica degli affetti, ma un punto di forza della società; infine, ci sono richieste non più rinviabili che la famiglia pone alla società e che segnano l’agenda della politica: libertà di educazione, lavoro, pressione fiscale, welfare…
In allegato, il programma dettagliato delle giornate di Torino.
 

Il Papa a Rio: i giovani finestra del futuro

Ho imparato che, per avere accesso al Popolo brasiliano, bisogna entrare dal portale del suo immenso cuore”: sono le parole con le quali Papa Francesco si è presentato, lunedì sera, nel Palazzo Guanabara di Rio de Janeiro, rispondendo al saluto della presidente del Brasile, Dilma Roussef. Con tratto delicato e squisito, Papa Francesco ha proseguito dicendo: “Mi sia quindi permesso in questo momento di bussare delicatamente a questa porta”, la porta dell’“immenso cuore” dei brasiliani che già oggi, come hanno mostrato le immagini televisive, lo hanno accolto numerosissimi e festanti. Ha voluto ringraziare il Signore che, nella sua “amorevole provvidenza, ha voluto che il primo viaggio internazionale del mio Pontificato mi offrisse la possibilità di ritornare nell’amata America Latina”.
Il Papa ha poi avuto un pensiero per i vescovi brasiliani dicendo: “Voglio rivolgere una parola di affetto ai miei fratelli vescovi, sui quali grava il compito di guidare il gregge di Dio in questo immenso Paese, e alle loro dilette Chiese particolari. Con questa mia visita desidero proseguire nella missione pastorale propria del Vescovo di Roma di confermare i fratelli nella fede in Cristo, di incoraggiarli nel testimoniare le ragioni della speranza che scaturisce da Lui e di animarli a offrire a tutti le inesauribili ricchezze del suo amore”.
Ha quindi richiamato i protagonisti primi della Gmg, cioè i “giovani”, dicendo alle autorità presenti: “Sono venuto a incontrare giovani arrivati da ogni parte del mondo, attratti dalle braccia aperte del Cristo Redentore. Essi vogliono trovare un rifugio nel suo abbraccio, proprio vicino al suo Cuore, ascoltare di nuovo la sua chiara e potente chiamata:‘Andate e fate discepoli tutti i popoli’”. Giovani che Papa Francesco dimostra di conoscere e di amare, ricordando come essi “provengono dai diversi continenti, parlano lingue differenti, sono portatori di culture variegate, eppure trovano in Cristo le risposte alle loro più alte e comuni aspirazioni”
Dopo aver ricordato come non possa “esserci energia più potente di quella che si sprigiona dal cuore dei giovani quando sono conquistati dall’esperienza dell’amicizia con Cristo”, Papa Francesco ha chiamato in causa il mondo degli adulti affermando: “Nell’iniziare questa mia visita in Brasile, sono ben consapevole che, rivolgendomi ai giovani, parlo anche alle loro famiglie, alle loro comunità ecclesiali e nazionali di provenienza, alle società in cui sono inseriti, agli uomini e alle donne dai quali dipende in gran misura il futuro di queste nuove generazioni”. E a questo punto ha avuto un’espressione simbolica molto forte per il sentire popolare brasiliano. Ha detto, infatti: “È comune da voi sentire i genitori che dicono: ‘I figli sono la pupilla dei nostri occhi’. Che ne sarà di noi se non ci prendiamo cura dei nostri occhi? Come potremo andare avanti?”.
Di fronte alle massime autorità brasiliane e al corpo diplomatico, Papa Francesco ha insistito di nuovo sull’importanza dei giovani definendoli “la finestra attraverso la quale il futuro entra nel mondo, e quindi ci impone grandi sfide” e richiamando al dovere educativo degli adulti, a cui ha chiesto di “offrire loro spazio; tutelarne le condizioni materiali e spirituali per il pieno sviluppo; dargli solide fondamenta su cui possa costruire la vita”. Ha proseguito chiedendo di garantire ai giovani “sicurezza ed educazione”, “trasmettere valori duraturi”, “assicurare un orizzonte trascendente”, “consegnare l’eredità di un mondo che corrisponda alla misura della vita umana”, renderli “protagonisti del proprio domani e corresponsabili del destino di tutti”. Ha poi avuto un pensiero finale molto toccante quando ha chiesto “a tutti la gentilezza dell’attenzione e, se possibile, l’empatia necessaria per stabilirne un dialogo tra amici. In questo momento, le braccia del Papa si allargano per abbracciare l’intera nazione brasiliana, nella sua complessa ricchezza umana, culturale e religiosa”. Ha assicurato che “dall’Amazzonia fino alla pampa, dalle regioni aride fino al Pantanal, dai piccoli paesi fino alle metropoli, nessuno si senta escluso dall’affetto del Papa” e che pregherà per tutti i brasiliani mercoledì al santuario di Nostra Signora Aparecida. (Sir)

 

 

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Genesi 18,20-32

In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».

 

Abramo fu chiamato «amico di Dio» (cf. Gc 2,23). In questa veste egli agisce nella lettura che stiamo presentando. Nei vv. 16-19 del nostro capitolo si trova un monologo divino in cui il Signore si domanda se gli sia lecito tenere nascosto ad Abramo ciò che egli sta per fare nei confronti di Sodoma e Gomorra. Dio sceglie così Abramo come il confidente con il quale condividere le decisioni più gravi e al quale confidare le grandi ansie del suo cuore. Noteremo infatti che non si tratta semplicemente di comunicare ad Abramo la sentenza definitiva contro le due città, ma di dichiarare aperto un processo a loro carico.

     Al v. 20 abbiamo in italiano la parola «grido» essa nel testo originale suona come un termine tecnico del linguaggio giuridico. A Dio è arrivata una denuncia gravissima. Egli è l’ultimo appello per dare una risposta al caso, ma per farlo è necessario che apra un’inchiesta, un’indagine che è disposto a svolgere personalmente, anche se di fatto nel capitolo 19 saranno i due angeli a visitare Sodoma, come anticipa il v. 22 omesso dalla versione liturgica della lettura. Nel v. 21 si ha l’impressione di cogliere sulle labbra di Dio incredulità e indignazione. Sembra che da una parte Dio stenti a credere alla denuncia che gli è pervenuta, e dall’altra sia irritato a causa della gravità di quanto gli è stato denunciato. Il capitolo 19 presenterà un esempio concreto della malvagità di Sodoma (19,1-11). Il fatto non è da leggere esclusivamente nella linea del peccato di omosessualità, ancor più importante è la mancanza di ospitalità. Sodoma è l’antitesi di Abramo; mentre questi riceve Dio e lo accoglie generosamente, Sodoma riserva ai suoi inviati tutt’altro che accoglienza.

     Nei vv. 23-35 abbiamo la trattativa di Abramo con Dio, un colloquio nel quale sembra riecheggiare lo stile tipicamente orientale della contrattazione. Accanto a questa intercessione del patriarca potremmo collocare quella di Mosè (Es 32,11-13; Dt 9,26,29), e quella dei profeti (Am 7,4-6). Siamo al primo anello di una catena che attraverserà la storia d’Israele. Si potrebbero ricordare qui le parole di Geremia: «Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia (Ger 12, 1a)».

     I sentimenti di Abramo nell’incominciare il dialogo con Dio sono esattamente quelli delle prime parole di Geremia, Abramo ha un senso profondo del rispetto dovuto a Dio; prende coraggio man mano che trova Dio disposto all’ascolto. Dal punto di vista teologico questo è già un dato molto importante: Dio è disposto al dialogo, ad ascoltare amichevol-mente gli interventi degli uomini. Non si tratta di un Dio impenetrabile e arbitrario, ma disponibile e dialogante.

     Geremia poi dice che vorrebbe rivolgere a Dio una domanda circa la giustizia. Chiaramente il contesto in cui parla il profeta è completamente diverso dal nostro, ma l’interrogativo è il medesimo. Tutto il senso della trattativa trova qui il suo riassunto. Cosa decide il destino di una collettività: il peccato di molti o la giustizia di pochi? Questa è la domanda fondamentale. Essa prende ancora più rilievo se viene collocata sullo sfondo della società in cui venne formulata, una società in cui la responsabilità individuale non era ancora in primo piano. Il testo appartiene alla tradizione jahwista. A quel tempo il senso di appartenenza alla famiglia, alla tribù, alla città, in una parola sola alla comunità, era talmente forte da ritenere che tutti fossero solidali nel bene e nel male. Non deve essere dimenticato questo contesto per comprendere meglio il problema teologico fondamentale della lettura: con quale criterio Dio giudica? La risposta finale è che Dio nel suo giudizio è più disposto a tenere in conto il bene di pochi che il male di molti. Non bisogna perciò preoccuparsi molto di come concretamente le cose siano andate a finire per Sodoma, se cioè là non si trovassero in essa neppure 10 giusti. Sodoma non diventa un caso in se stessa, ma l’occasione per esporre l’asserto teologico fondamentale in questo brano: il bene compiuto da pochi può essere più forte del male compiuto da molti e determinare il giudizio divino in senso positivo. Questa linea teologica troverà sviluppi mirabili nel pensiero biblico. Basti pensare a Is 52,13-53,12, in cui il servo sofferente di Dio diventa lui stesso da solo strumento di salvezza per l’intero popolo. Si pensi poi al capitolo 5 della lettera ai Romani in cui Gesù viene presentato come il nuovo Adamo dal quale unicamente viene la salvezza dell’intera umanità.

 

Seconda lettura: Colossesi 2,12-14

Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. 

 

Il v 12 riprende un dato tradizionale della catechesi battesimale della comunità primitiva. Rm 6,4-6 sviluppa bene questo discorso del battesimo come partecipazione personale al mistero pasquale. Tra i due testi vi è però una importante differenza. Per la lettera ai Romani solo la partecipazione alla morte di Gesù è una realtà presente, mentre la partecipazione alla risurrezione è lasciata al compimento escatologico. Nel nostro brano abbiamo invece un progresso in questo senso: mediante la fede si partecipa fin da ora alla risurrezione di Gesù come nuova condizione personale di vita. La fede è da riporre nella potenza di Dio. Anche questa espressione ci riconduce alla lettera ai Romani: 1,4. La risurrezione di Gesù è la manifestazione più chiara della potenza di Dio. L’adesione di fede a questa verità fa si che la risurrezione non sia più un avvenimento che riguarda solo Gesù personalmente, ma coinvolge in modo efficace e presente anche i credenti. Grazie alla fede, la risurrezione di Gesù non rimane un fatto isolato destinato solo alla sua persona, ma diventa un avvenimento comunitario vitale e trasformante.

     Tocca al v. 13 spiegare in che modo tutto questo avvenga. Esso ricorda la condizione dei colossesi prima che credessero. Su di loro pesava una doppia penalizzazione: a causa dei peccati erano morti e per la loro incirconcisione erano esclusi da qualsiasi prospettiva di salvezza; non potevano beneficiare neppure dell’alleanza antica. Da questa condizione mortale essi sono stati liberati mediante il mistero pasquale. Il versetto ripropone la medesima espressione di quello precedente: «con lui» che non solo crea unità, ma ribadisce la centralità e l’efficacia dell’opera di Cristo della quale peraltro Paolo aveva già parlato in 1,14.20. Tutti i peccati sono stati perdonati grazie alla morte di Gesù come già insegnava la catechesi primitiva della Chiesa: 1Cor 15,3.

     Il v. 14 si rifà ad una immagine presa dal mondo commerciale per descrivere le condizioni degli uomini davanti a Dio. Il «documento scritto» di cui si parla qui è un chirografo, cioè un atto ufficiale, legale, che reca la firma autografa di chi contrae il debito. Fino a quando non si sono assolti gli oneri finanziari contratti si è perseguibili, non c’è scampo. La condizione dell’uomo come debitore nei confronti di Dio appartiene all’insegnamento di Gesù stesso: Mt 6,12; 18,23-35. L’ultimo testo mostra molto bene l’impossibilità dell’uomo di assolvere il debito con Dio. Non c’è via d’uscita dal punto di vista umano per togliersi di dosso questa ipoteca imposta dal peccato. Il chirografo era corredato di condizioni, nel testo originale rese con il termine dogma, che esprime precisione, sicurezza. Ma anche queste regole precise erano a sfavore dell’uomo. Si potrebbe vedere nel plurale di quel termine le prescrizioni della legge giudaica. Tutto è stato tolto di mezzo dalla croce. Ciò che prima inchiodava noi alla nostra insolvenza Dio lo ha inchiodato alla croce dandoci salvezza e speranza. La risurrezione segna così questo grande passaggio: davanti a Dio gli uomini non sono più debitori sotto processo e in attesa di condanna, ma liberi e fruitori di un rapporto filiale.

 

Vangelo: Luca 11,1-13

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».  

 

Esegesi 

     A Luca è molto caro presentare Gesù come modello di preghiera: 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 22,41.44; 23,34.46. Anche qui in 11,1 possiamo pensare che sia importante per l’evangelista mantenersi nella stessa linea. La richiesta di uno dei discepoli raggiunge infatti Gesù non appena Egli ha terminato di pregare. Si può legittimamente pensare che l’interesse sia non tanto quello di imparare una formula tipica dell’ambiente come la possedevano le diverse cerchie di discepoli riuniti intorno ad un maestro, come lo stesso accenno al Battista potrebbe far pensare, ma piuttosto di penetrare nel mistero stesso della preghiera di Gesù. Il «Padre nostro» rivela quale tipo di relazione Gesù ha con Dio e nell’ultima parte del brano, i vv 9-13 mostrano quale frutto ci si deve attendere dalla preghiera. Tutto ciò pone in un clima di assoluta novità, in una nuova via di relazione con Dio come solo nella preghiera di Gesù viene vissuta.

     Dopo aver presentato Gesù come modello di preghiera nei vv. 2-4 si trova il «Padre nostro». Il titolo dato a Dio è quello dell’ambiente familiare per chiamare affettuosamente il capo famiglia, sia da parte dei bambini che da parte degli adulti. Nella lingua in cui Gesù ha insegnato la preghiera era dunque Abbà. Il rapporto con Dio viene quindi caratterizzato dalla confidenza e dalla tenerezza. Dio in quanto padre ha autorità e amore nello stesso tempo; in questo modo viene riconosciuto da chi prega come Gesù. La sfumatura della tenerezza è però senz’altro la novità che Gesù insegna nel rapporto con Dio. Quanto fosse antico nelle comunità cristiane questa prassi di approccio al Padre lo testimonia Mc 14,36 e ancor di più Gal 4,6 e Rm 8,15.

     La prima richiesta riguarda la santificazione del nome divino. Per comprenderla si dovrebbe ricordare Ez 36,20-28. In quel testo Dio promette di manifestare la santità del suo nome ricostruendo l’unità del suo popolo disperso nell’esilio e ridonando agli israeliti il possesso della loro terra. In una parola Dio manifesterà la santità del suo nome realizzando la salvezza del suo popolo. Questa prospettiva fa cogliere molto bene il clima escatologico nel quale le prime due domande collocano l’orante. Con la prima domanda si chiede a Dio di realizzare definitivamente la salvezza degli uomini, con la seconda che sia portata a compimento l’opera di Gesù che ha proprio come scopo il risanamento definitivo dell’umanità. In 4,43 Gesù presenta come fine della sua missione appunto l’annuncio del regno. La stessa cosa devono fare gli inviati di Gesù: 9,2; 10,10. La seconda richiesta pertanto domanda che giunga a compimento l’opera che Gesù ha iniziato e che la Chiesa porta avanti con la sua missione.

     La terza richiesta riguarda il pane, l’alimento necessario alla vita.

Nel testo originale la qualifica di questo pane non è chiaramente comprensibile; il participio epiousion infatti è di difficile interpretazione. Normalmente viene interpretato come la razione di cibo necessaria alla giornata: «quotidiano». In questo modo non avremmo uno scadimento nella richiesta, come se dopo aver domandato realtà spirituali si precipitasse nella materialità. Rimarremmo ancora in un tipo di rapporto con Dio fondato sulla fiducia e sull’abbandono riconoscendolo come colui dal quale unicamente dipende il proprio esistere. Bisognerebbe anticipare quanto dirà Gesù in 12,22-31. Nonostante che il Padre sappia di cosa si ha bisogno Gesù invita però a chiedere. Il «Padre nostro» è veramente la preghiera del discepolo di Gesù di colui che ha fatto suo lo stile  di povertà radicale che Gesù praticava (9,58) abbandonando tutto per lui (18,18-23.28-30). In questa richiesta si nasconde allora il desiderio di essere discepoli di Gesù secondo lo stile da lui voluto e praticato.

     La quarta domanda presenta una realtà alla quale solo Dio può dare soluzione: il peccato. A questa condizione che distrugge le relazioni dell’uomo con Dio e con gli altri il Padre risponde con il perdono. Viene fatta questa richiesta a Dio perché solo lui può concedere quel dono e solo lui può far sì che dall’uomo perdonato nasca la capacità di perdonare. Da ultimo si domanda a Dio l’aiuto necessario per superare positivamente la tentazione, o meglio in un senso più generale la «prova». Bisogna guardarsi bene infatti dall’attribuire a Dio il ruolo di Satana. Non è infatti certamente Dio ad incitare al male. La prova invece è una condizione che l’uomo praticamente non può evitare dal momento che non è stata risparmiata neppure a Gesù (4,1-11; Eb 2,18). In quella situazione l’aiuto di Dio è necessario perche l’uomo non soccomba, ma resti fedele.

     I vv 5-8 raccontano una piccola parabola che invita alla più grande fiducia nella preghiera. Il clima del vicino oriente scoraggia i viaggi durante le ore calde; l’arrivo dell’amico a mezzanotte non è pertanto un fatto eccezionale, spesso bisogna approfittare delle ore notturne per gli spostamenti. Il pane poi era produzione casalinga, ogni famiglia lo produceva nel proprio forno. Inoltre la tipica casa palestinese prevedeva come locale destinato agli uomini una sola stanza poliuso: di giorno serviva da abitazione, di notte da dormitorio per tutta la famiglia. I congiunti deponevano stuoie a terra e dormivano tutti l’uno accanto all’altro. Il pane veniva conservato nel locale attiguo, dove si trovavano anche il forno e i silos per le scorte dei cereali. Andare a prendere il pane significava pertanto correre il rischio serio di calpestare i bambini che dormivano sul pavimento accanto ai genitori. La parabola all’inizio insiste sul legame di amicizia che esiste tra i protagonisti  messi in scena da Gesù. Questo e il sentimento che spinge a chiedere, anzi a disturbare in un’ora scomoda. L’amicizia spingerà ad esaudire la richiesta e se dovesse venire meno questa, sarà l’insistenza a garantire il risultato. A dire il vero la parola originale che viene tradotta con «insistenza» indica piuttosto la mancanza di pudore, potremmo dire il non avere paura di presentarsi ad un orario inopportuno. Gesù vuole così dare fondamento all’audacia nella preghiera. Su che cosa si basa la sicurezza di essere esauditi? Innanzitutto sul fatto che Dio è un amico e di conseguenza nella preghiera si può osare molto senza paura.

     I vv 9-10 contengono tre verbi che illustrano la preghiera: chiedere, cercare, bussare. Sono immagini classiche per indicarla. La terna costruita ponendo agli estremi due passivi teologici (vi sarà dato, vi sarà aperto) evidenzia ulteriormente le buone disposizioni di Dio verso chi si rivolge a Lui. I primi due verbi poi si ricollegano direttamente alla parabola appena raccontata ribadendone il messaggio.

     I vv 11-13 possono essere considerati un’altra piccola parabola che potremmo intitolare «del figlio affamato». Anche in questo caso, come nella parabola dell’amico importuno, Gesù fa appello all’esperienza degli ascoltatori. Si deve sottolineare bene che il soggetto scelto è di nuovo il padre, nonostante che concretamente e normalmente sia la madre ad occuparsi dell’alimentazione dei figli. Si vuole proseguire pertanto, come dice chiaramente il v 13, nella presentazione del Padre e della risposta che Egli dà alle richieste degli uomini. La novità di Luca rispetto a Matteo (7,7-11) è però che il Padre non concede «cose buone», ma lo Spirito Santo. L’importanza dello Spirito Santo in Luca è nota: 1,15.35.41.67,2,26.27; 3,22; 4,1.14.18. Da queste ricorrenze si capisce bene come per Luca lo Spirito Santo è il dono escatologico, il dono che realizza i tempi della salvezza. C’è indubbiamente un salto di qualità incredibile, ma senza contraddizione. Il salto di qualità consiste nel fatto che mentre fin qui l’oggetto della preghiera erano realtà materiali, ciò di cui l’uomo necessita per il suo sostentamento, la risposta di Dio si colloca su un piano ben superiore. Egli è disposto a concedere molto di più, a dare una partecipazione piena alla sua vita, a segnare per quanti lo domandano il compimento della salvezza nel quale nulla mancherà all’uomo né il necessario per il quotidiano, né l’intimità con Dio. Mentre la preghiera umana si appiattisce spesso su realtà materiali Gesù invita a questo grande cambiamento di prospettiva: passare dal vedere Dio come colui che provvede semplicemente all’esistenza terrena a colui che assicura pienezza di vita attraverso il dono del suo Spirito. La considerazione è particolarmente preziosa in questo anno dedicato allo Spirito Santo e potrebbe diventare il vero fulcro dell’omelia.

 

Meditazione 

     Il tema della preghiera domina la liturgia della Parola in questa domenica e la domanda che risuona sulle labbra dei discepoli – «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1) – può costituire anche per noi l’interrogativo, o più ampiamente l’atteggiamento interiore con cui celebrare questa eucaristia. Alla richiesta dei discepoli Gesù risponde con una piccola catechesi, suddivisibile in tre parti. Dapprima consegna il Padre Nostro (vv. 2-4); quindi racconta una breve parabola (vv. 5-8); infine offre un insegnamento sull’efficacia della preghiera (vv. 9-13). Se la prima e la terza parte trovano dei paralleli nella tradizione sinotti-ca, la parabola centrale è invece propria di Luca e rivela pertanto la prospettiva peculiare con cui il terzo vangelo comprende il mistero della preghiera. Potremmo anche dire che, se

nel Padre Nostro Gesù mostra quale debba essere il nostro modo di stare davanti a Dio, attraverso la parabola rivela piuttosto quale sia il modo stesso con cui Dio si relaziona con i suoi figli. Le parabole infatti (e questa del capitolo undicesimo non fa eccezione) sono anzitutto una rivelazione del modo di essere e di agire del Padre, che ci interpella personalmente e ci chiede di trasformare il nostro stesso modo di essere e di agire. Per Gesù, la contemplazione del volto del Padre consente sempre – e nello stesso tempo esige – una trasfigurazione dell’agire umano. Per imparare a pregare occorre dunque anzitutto guardare a come Dio si relaziona con noi.

     La parabola presenta la relazione tra tre amici. Il primo giunge nel cuore della notte a casa di un suo amico ed è per noi facile immaginare il suo bisogno: è provato dal viaggio, probabilmente non ha ancora cenato, necessita di ristorarsi e riposarsi. In questa situazione, cosa fare? Ciò che viene subito in mente al protagonista della parabola è ricorrere all’aiuto di un terzo amico. Non cerca di risolvere da sé, in modo autonomo e autosufficiente, la difficoltà: riconosce la propria impossibilità e accetta di rivolgersi a qualcun altro. Poco importa se è notte fonda: è un amico, mi aiuterà. Così ragiona il protagonista della pa-rabola e così agisce. Il racconto, in questo modo, ci sollecita a metterci nei panni di questo uomo e a domandarci: avremmo agito come lui? È un primo interrogativo con cui la parabola ci interpella personalmente. A scavare più a fondo nel brano emerge però un secondo interrogativo, più importante del primo. La traduzione italiana di fatto elimina la domanda che nel testo greco è possibile intravedere. Infatti, nel testo originario Gesù introduce il suo racconto con un pronome interrogativo: chi di voi? La parabola inizia con una domanda; il problema è stabilire fin dove essa giunge. Probabilmente si conclude al v. 7 (in greco c’è un’unica frase) dove, anziché un punto e virgola, occorrerebbe mettere un bel punto interrogativo. Questo amico – domanda Gesù – gli dirà così: «Non m’importunare… non posso alzarmi per darti i pani?». La risposta la dà lo stesso Gesù, al v. 8: «vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono». La vera domanda posta dalla parabola riguarda dunque il comportamento del personaggio che viene importunato nel cuore della notte. Che cosa farà: si alzerà o no per esaudire la richiesta del suo amico? Il vero protagonista è lui e su di lui Gesù attira l’attenzione dei suoi ascoltatori. Più che ‘parabola dell’amico importuno’, dovremmo intitolare questo racconto ‘parabola dell’amico importunato’: è lui il protagonista principale di quanto avviene.

     Nonostante tutte le difficoltà alle quali questo tale deve andare incontro, la risposta di Gesù non tollera dubbi: l’amico importunato esaudirà la richiesta di chi lo ha svegliato a notte fonda. E lo farà almeno per due motivi: a) per amicizia: colui che ha bisogno è un amico, e gli amici si aiutano volentieri; b) ma anche per la sua invadenza. Il vocabolo qui usato da Luca — anaideia —  significa letteralmente ‘senza faccia’, dunque senza timore, senza vergogna, in modo quasi sfacciato, impudente, disinvolto. La preghiera di questo tale non è soltanto insistente o invadente; è anche audace e confidente. Non ha timore o ritegno nello svegliare l’amico nel cuore della notte. Sa che è un amico; sa che con lui può avere confidenza e fiducia, può osare. È importante comprendere che si può pregare in questo modo soltanto chi sappiamo essere nostro amico. Con gli amici ci si comporta in modo diverso rispetto agli estranei.

     A questo riguardo, dobbiamo fare attenzione a come Gesù conclude la parabola, al v. 8: «almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono». Il testo greco recita più esattamente: «gli darà tutto quello di cui ha bisogno». L’amico importuno chiedeva tre pani; riceve molto di più: torna a casa con tutto quello di cui ha bisogno. In questo ‘tutto’ va inclusa anche la bellezza della relazione che ha sperimentato: insieme al pane, ha ricevuto la certezza di avere un amico sicuro, in cui poter confidare senza esitazione e senza timore.

     Troviamo così nella parabola una dinamica tipica della preghiera cristiana, sottesa anche al Padre Nostro: preghiamo chiedendo il pane per ogni giorno, e insieme al pane ogni altro bene necessario alla vita, ma perché attraverso i suoi doni Dio santifichi il suo nome, cioè ci faccia conoscere il suo volto; ci conceda il suo Regno, introducendoci nella relazione d’amore con la sua persona; compia la sua volontà, che è la salvezza di ogni suo figlio. L’esaudimento nella preghiera supera la nostra richiesta. Il protagonista della parabola insieme al pane riceve il volto dell’amico che si prende cura del suo bisogno; così noi, nella nostra preghiera, riceviamo il volto stesso di Dio che ci rivela il suo nome di Padre e ci dona il suo Regno e la sua salvezza.

     Gesù ribadisce questo aspetto anche nella terza parte della sua catechesi, laddove parlando dell’efficacia della preghiera conclude: «quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (v. 13). Lo Spirito, come dono per eccellenza di Dio, ci testimonia che il Padre buono, anche quando si rende sollecito verso i nostri bisogni, non intende semplicemente donarci dei beni, ma attraverso di essi desidera comunicarci la sua paternità, il suo abbraccio di Padre, la sua comunione d’amore. Nello Spirito Dio ci dona se stesso, e nello stesso tempo ci dona la nostra più vera identità, quella di essere suoi figli, perché è solo nello Spirito – ci ricorda l’apostolo Paolo – che possiamo gridare «Abbà, Padre!» (cfr. Rom 8,15; Gal 4,6).

     Non dobbiamo però dimenticare che, oltre i due personaggi principali, sullo sfondo della parabola rimane una terza figura: il tizio che arriva nel cuore della notte, da un lungo viaggio, stanco e affamato. Anche lui è un ‘amico’: così lo definisce la parabola. La relazione sottesa al racconto non è a due, ma a tre. Sciogliendo la metafora: l’amicizia con Dio implica sempre anche l’amicizia con gli altri uomini. Si può entrare in un rapporto confidente con Dio perché si sa sperimentare la bellezza di un rapporto confidente con gli altri uomini. Il tizio della parabola osa bussare alla porta dell’amico perché lui stesso non ha avuto remore nel lasciarsi importunare nel cuore della notte. Non teme di divenire importuno perché a sua volta si è lasciato importunare.

     Luca, nel suo vangelo, usa la coppia verbale ‘chiedere-dare’ sia per il nostro rapporto con Dio, sia per quello con gli altri. «Chiedete e vi sarò dato», afferma nell’insegnamento sulla preghiera (v. 9). «Da’ a chiunque ti chiede», ricorda nel discorso della pianura (Lc 6,30). Possiamo chiedere a Dio di darci solo se a nostra volta siamo disposti a dare a chi ci chiede. La preghiera davanti a Dio implica sempre la nostra responsabilità davanti agli uomini. Diviene allora davvero ‘intercessione’, secondo il bel modello che ascoltiamo nella prima lettura con l’intercessione di Abramo. Intercedere significa ‘fare un passo in mezzo’, «fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione» (C.M. Martini). Mettersi in mezzo tra Dio e gli uomini significa anche mettersi in mezzo a entrambi gli atteggiamenti costitutivi della preghiera: ci si mette in mezzo per chiedere, ci si mette in mezzo per donare a nostra volta. Il pane da chiedere – insegna nel Padre nostro Gesù – non è mio, è nostro; ricevo il perdono perché possa perdonare a mia volta.

 

Preghiere e racconti 

Aiutare i nostri fratelli ancor prima che ce lo chiedono

“Un uomo bussò alla porta di un amico per chiedergli un favore:

“Puoi prestarmi quattromila denari? Devo saldare un debito.

“L’altro chiese alla moglie di prendere tutti i loro risparmi e gli oggetti di valore: il piccolo tesoro, però, si rivelò insufficiente. Chiesero aiuto ai vicini e, alla fine, fu raccolta la somma necessaria.

“Quando l’uomo se ne fu andato, la donna notò che il marito stava piangendo.

“Perché sei triste? Gli domandò. Per il fatto che ci siamo indebitati con i vicini e non sai se saremo in grado di onorare il nostro debito?

“No, affatto. Piango perché nutro un grande affetto per quell’amico, eppure non mi sono mai preoccupato per lui. Mi è ritornato alla mente soltanto quando si è presentato alla nostra porta per chiedere un prestito.

“Andate, dunque, e raccontate la storia di ciò che è accaduto questo pomeriggio. E ricordate che dobbiamo aiutare i nostri fratelli ancor prima che ce lo chiedono.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Milano, Bompiani, 2012, 174-175).

 

La preghiera del «Padre nostro»

Non è una novità il fatto di dare a Dio il titolo di padre. Nelle culture pagane il termine padre ha due accezioni: da una parte richiama la generazione; d’altra parte è sinonimo di padrone. Non si utilizza, invece, il termine padre con una valenza amorosa, per indicare una relazione d’amore fra l’umanità e la divinità. Nel mondo biblico il termine padre si adopera soprattutto per esprimere la singolare relazione fra il Messia discendente di Davide e Dio stesso: «Egli mi invocherà: Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza» (Sal 89,27).

La novità di Gesù, dunque, non sta nell’uso del termine padre per rivolgersi a Dio, ma nel contenuto che attraverso quell’appellativo egli esprime e comunica. Se poteva essere insolito per un israelita chiamare Dio Padre, è decisamente strano e impensabile chiamarlo «Abbà» (Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6). La stranezza sta nel fatto che si tratta di un’espressione aramaica propria del linguaggio infantile, indeclinable e senza suffissi, tipica del parlare quotidiano in famiglia: corrisponde al nostro «papà» o «babbo», ed esprime intimità, confidenza, tenerezza e fiducia. «Alla sensibilità dei contemporanei di Gesù sarebbe sembrato irriverente, anzi impensabile, rivolgersi a Dio con questo gergo familiare. Gesù ha osato invocare Dio chiamandolo ‘abbà e questa è una ipsissima vox Iesu» (J. JEREMIAS, Teologia, 82).  L’invocazione «Abbà» sulle labbra di Gesù rivela il mistero della sua figliolanza divina e ci dice la sua relazione di fiduciosa obbedienza verso il Padre: ma ai suoi discepoli egli trasmette la possibilità della stessa relazione.

(Cf. F. MORAGLIA, Dio Padre Misericordioso, Genova, Marietti, 1998, 50-54).

 

Parafrasi del “Padre Nostro”(S. Francesco d’Assisi)

O santissimo Padre nostro: creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro.

Che sei nei cieli negli angeli e nei santi, illuminandoli alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce; infiammandoli all’amore, perché tu, Signore, sei amore; ponendo la tua dimora in loro e riempiendoli di beatitudine, perché tu, Signore, sei il sommo bene, eterno, dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene.

Sia santificato il tuo nome si faccia luminosa in noi la conoscenza di te, affinché possiamo conoscere l’ampiezza dei tuoi benefici, l’estensione delle tue promesse, la sublimità della tua maestà e la profondità dei tuoi giudizi.

Venga il tuo regno perché tu regni in noi per mezzo della grazia e ci faccia giungere nel tuo regno, ove la visione di te è senza veli, l’amore di te è perfetto, la comunione di te è beata, il godimento di te senza fine.

Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra affinché ti amiamo con tutto il cuore sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno.

 Il nostro pane quotidiano dà a noi oggi il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell’amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì.

E rimetti a noi i nostri debiti per la tua ineffabile misericordia, per la potenza della passione del tuo Figlio diletto e per i meriti e l’intercessione della beatissima Vergine e di tutti i tuoi eletti.

Come noi li rimettiamo ai nostri debitori e quello che non sappiamo pienamente perdonare, Tu, Signore, fa’ che pienamente perdoniamo, sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti.

E non ci indurre in tentazione nascosta o manifesta, improvvisa o insistente.

Ma liberaci dal male passato, presente e futuro. Amen.

 

«Chiamare Dio con il nome di “Padre”»

 Il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d’amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità (cf. Is 66,13; Sal 131,21), che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l’uomo i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane [cf. Sal 27,10], pur essendone l’origine e il modello [cf. Ef 3,14; Is 49,15]: nessuno è padre quanto Dio.

(Cf. CCC 239).

«Sia santificato il tuo nome»

Nel linguaggio biblico il nome rappresenta la realtà stessa dell’individuo, il suo mondo interiore, la sua essenza, la sua identità e talora anche la missione di una persona (cf. Gen 17,5;17,15;32,28-30;Rt 1,20;Gv 1,42; Ap 2,17). Nella mentalità semitica conoscere il nome di qualcuno era conoscere, e in qualche modo anche possedere, la sua persona; sicché Dio non rivela mai il suo nome, perché non può mai essere totalmente compreso né posseduto dall’uomo (Es 3,13-14).

Il nome di Dio è l’essenza stessa di Dio, il suo essere rivolto a noi. La preghiera chiede che questo nome – che è Dio stesso nel suo rivolgersi a noi – sia santificato, che Dio stesso cioè manifesti la sua identità come santa. Così, pronunciare il nome di Dio non significa semplicemente utilizzare una parola che lo indica, ma addentrarsi nella sua santità, nel suo stesso essere (si veda ad esempio nel Sal 20,8: «Gli altri confidino nei carri e nei cavalli, noi confidiamo nel nome del Signore», e in Gv 17,6: «Io ho fatto conoscere il tuo nome a quelli che mi hai dato»).

«Venga il tuo Regno»

«Venga»: più che una richiesta è un desiderio. I figli davanti al Padre non si approfittano del potere, vogliono diventare servi. C’ è un senso di urgenza: se fosse per il desiderio di colui che prega, il suo Dio sarebbe già il suo re.

«Il tuo Regno»: il regno di Dio è il centro e il motivo della predicazione di Gesù (Mc 1, 14-15), la ragione che spiega la sua vita e la sua morte.

Lontano dall’idea di un messianismo politico, condiviso da alcuni discepoli (Mt 20,21), ma ritenuto da Gesù una tentazione (Mt 4,8-9), Gesù indicava la vicinanza del regno di Dio nelle opere che lui compiva, nella vita umana liberata dalla malattia, da ogni forma di male e di oppressione (Lc 7,18-23; Mt 11,2-6). Indicava i segni del regno di Dio nell’accoglienza e nella riconciliazione che concedeva ai peccatori in nome di Dio e quindi in una nuova fraternità che stava per nascere (Lc 15,1-2; Mc 2,15). Mostrava nei suoi gesti e nelle sue parole il progressivo allargarsi dei confini di questo regno, fino ad abbattere tutte le barriere tra gli uomini (Mt 8,5-13; 15,21-28).

«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»

L’espressione è di sapore giudaico e quindi per noi di non immediata comprensione, come le due precedenti. Per comprenderla, prima di tutto non bisogna dimenticare che essa è retta dall’appellativo «Padre»: «Padre, sia fatta la tua volontà». Questo fatto connota subito in maniera differente il senso di «volontà».

Secondo la tradizione biblica, la volontà di Dio non si riduce ai comandamenti, perché se così fosse sarebbe un impegno che dobbiamo portare avanti noi e questa domanda sarebbe semplicemente una richiesta di aiuto perché riusciamo noi a fare la sua volontà. Come le precedenti, questa domanda ha due risvolti, uno che riguarda Dio e il suo agire, l’altro che riguarda noi e la nostra capacità di metterci in sintonia con lui.

«Dacci il nostro pane quotidiano»

Le ultime tre domande del Padrenostro orientano lo sguardo non più al cielo, ma alla terra. Tuttavia questa seconda parte non deve essere disgiunta dalla prima; anzi, c’è tra loro un’intima connessione e consequenzialità. Infatti la seconda parte della preghiera evidenzia come si devono mettere a fuoco i bisogni fondamentali dell’esistenza umana e credente, perché non impediscano la nostra adesione al Padre, ma anzi diventino terreno sul quale si edifica e si esprime la nostra vita di figli di Dio.

La domanda sul pane si inquadra in questo contesto. Essa però chiede di essere ben compresa nel suo significato. La nostra condizione di vita potrebbe renderla oggetto di fraintendimento: cosa significa chiedere il pane quotidiano per coloro che sulla loro mensa hanno garantito quotidianamente già ben più del pane necessario? «È bello -dice Gandhi- parlare di Dio mentre siamo seduti dopo una piacevole colazione e nell’attesa di un pranzo ancora migliore: ma come posso parlare di Dio alle moltitudini che devono tirare avanti senza due pasti al giorno? A loro Dio può soltanto apparire come pane e burro». Si può correre il rischio di svilire la forza della domanda, intendendola subito in un senso troppo spirituale e allegorico. Oppure potremmo intenderla come una preghiera fatta per coloro che non hanno da mangiare; ma allora la nostra sensibilità ci fa reagire: non tocca forse a noi (e, prima ancora, a loro) darci da fare perché ciò avvenga, invece di chiedere che lo faccia Dio? E poi: che cos’è in fondo questo pane di cui abbiamo veramente bisogno?

Occorre rimetterci alla scuola della Parola per apprendere la ricca esperienza di vita che è racchiusa in questa invocazione e che può scaturire per noi dalla preghiera quotidianamente ripetuta con fede.

«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»

La richiesta del perdono sarebbe impropria e impossibile se non fosse pronunciata di fronte al volto di questo Dio che, nella vita di Gesù, nella sua parola, nella sua prassi e massimamente nella sua morte e risurrezione, ha manifestato tutta la sua vicinanza e disponibilità al perdono. Noi possiamo perciò avanzare questa domanda perché ci è stato manifestato il vero volto di Dio: la sua paterna misericordia.

Il perdono non è una semplice remissione, di una colpa passata, ma è il dono di instaurare relazioni nuove. Quindi lo possiamo riconoscere quando vediamo che realmente colui che lo riceve è trasformato. Questa trasformazione noi la riconosciamo dentro le relazioni fraterne, nei diversi contesti in cui si gioca la nostra vita con chi ci è prossimo. Possiamo perciò comprendere il senso della domanda; chi prega così vive nella fede la certezza dell’amore gratuito di Dio, Padre di misericordia, perciò domanda di vedere la forza del perdono ricevuto proprio dentro il perdono che egli accorda ai fratelli: è li che noi riconosciamo di essere perdonati da Dio, rinnovati nel profondo perché capaci di perdonare.

Il perdono è autentico rinnovamento perché rende capaci di vivere sempre nuove relazioni; chi perdona vive la gioia di vedere nascere in chi ha perdonato la capacità di un amore veramente diffusivo.

«E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male»

L’invocazione crea comunque una certa difficoltà ed è senza dubbio quella che ha suscitato più problemi interpretativi. Infatti questa formula sembra far pensare a un Dio che «induce» nella tentazione. È tuttavia chiaro nell’insieme del discorso biblico che Dio non può tentare al male e che non è lui che ci induce nella tentazione. La Lettera di Giacomo dice: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (Gc 1, 13). L’impressione iniziale è dunque scongiurata da questa affermazione che Dio non tenta nessuno al male.

C’è quindi una concezione di prova come l’esperienza dentro la quale è messa a nudo la fede e la fedeltà a Dio del credente o del popolo. Chiediamo che il momento della prova non diventi il momento della nostra caduta, del venire meno della nostra fede e fedeltà a Dio.

Chiedendo nella preghiera: «Non ci indurre in tentazione», risvegliamo a nostra volta l’attenzione a non disperdere nella frammentazione del quotidiano il senso del primato del Padre e della fedeltà al Vangelo.

– « … ma liberaci dal male»: La preghiera del Padre nostro, con quest’ultima invocazione, sembra chiudersi tragicamente. L’orante sente tutto il peso del male che schiaccia l’esistenza umana. Ma bisogna tenere presente che questa finale si congiunge con l’inizio della preghiera («Abbà, Padre»), caratterizzando così la situazione di una comunità di fratelli in pericolo come la condizione di chi è posto sotto la protezione del Padre. Siamo invitati a recuperare questo senso di fiducia che permea tutto il Padre nostro. Se siamo fedeli in tale atteggiamento filiale e fiduciale verso il Padre, egli non ci farà venire meno la sua forza perché non cadiamo nella prova, non ci farà venire meno la sua presenza che ha già vinto il mondo e il maligno.

Per destare in noi un vivo desiderio del ritorno

Quanto e quale zelo è necessario perché ci possiamo innalzare a quel grado di confidenza che ci dia il coraggio di dire a Dio: «Padre»? Se corri dietro al denaro, se ti lasci travolgere dalla seduzione del mondo, se cerchi la gloria che viene dagli uomini, se ti lasci dominare da pensieri passionali, e poi hai sulle labbra simile preghiera, che cosa pensi che dirà colui che guarda la tua vita mentre ascolta la tua preghiera? Mi sembra di sentire Dio che ti rivolge queste parole: «La tua vita è corrotta e tu chiami “Padre” il padre dell’incorruttibilità? Perché profani con la tua lingua immonda il nome purissimo? Perché rendi menzognera questa parola? Se tu fossi mio figlio, avresti dovuto manifestare le mie qualità divine nella tua vita …». È dunque pericoloso, prima di aver corretto la propria vita, recitare questa preghiera e chiamare Dio «Padre». Ma ascoltiamo ancora una volta le parole della preghiera; ripetendole frequentemente ne comprenderemo il senso nascosto. Padre nostro, che sei nei cieli. Abbiamo già dimostrato che dobbiamo conciliarci Dio con una vita virtuosa, ma mi sembra che queste parole abbiano un senso ancor più profondo; esse generano in noi il ricordo della patria perduta e di quello stato di vita da cui siamo stati esclusi. Nella parabola del giovane che abbandonò la casa paterna e preferì vivere in mezzo ai porci, il Verbo ci presenta sotto forma di una storia il suo traviamento e la sua dissolutezza. Il giovane non ritrova la sua primitiva felicità se non dopo aver preso coscienza della sua disgrazia ed essere rientrato in se stesso meditando parole di pentimento. Queste parole concordano con quelle della nostra preghiera: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te» (LC 15,18) […] Come la misericordia del padre facilitò al giovane il ritorno alla casa paterna – che è il cielo, contro il quale, come dice a suo padre, ha peccato – così anche qui mi sembra che il Signore, insegnandoci a invocare il Padre che è nei cieli, voglia rinnovare in te il ricordo della bella patria, per destare in te un vivo desiderio di bene e ricondurti sul cammino del ritorno […] Se abbiamo quindi compreso il senso di questa preghiera, è ora che disponiamo le nostre anime in modo da osare proferire queste parole e dire con confidenza: «Padre nostro, che sei nei cieli».

(GREGORIO DI NISSA, Sul padre nostro, om. 22, PG 44,1141D-1144C.1145A.D).

Padre nostro

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Padre nostro che stai in mezzo a milioni di uomini affamati,

che stai nella vita di tutti gli uomini assetati di giustizia,

Sia santificato il tuo nome nei poveri e negli umili.

Venga il tuo regno, che è libertà, verità e fraternità nell’amore.

Si compia la tua volontà, che è liberazione e Vangelo

da proclamare agli afflitti.

Dona a tutti il pane di ogni giorno:

il pane della casa, della salute, dell’istruzione, della terra.

Perdonaci, o Signore, di dimenticare i nostri fratelli

E liberaci dalla costante tentazione di servire al denaro

invece che a Te, e da ogni male.

Perché tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Amen.

Card. Kim

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Speranza e futuro richiedono famiglia

La 47ª Settimana Sociale si svolgerà a Torino dal 12 al 15 settembre.
Questo appuntamento – una delle forme storicamente più consolidate per dire il rapporto tra Vangelo e ordine sociale nel Paese – ha come tema in tale edizione “La famiglia, speranza e futuro della società italiana”; una questione che non intende ridursi ad un ambito interno alla Chiesa.
Come evidenzia il Documento preparatorio, vi è una ragione di carattere antropologico, relativa al valore della relazione uomo-donna nell’esperienza dell’amore umano; c’è, quindi, una dimensione sociale, che fa della famiglia non un affare privato, confinato nella gestione della dinamica degli affetti, ma un punto di forza della società; infine, ci sono richieste non più rinviabili che la famiglia pone alla società e che segnano l’agenda della politica: libertà di educazione, lavoro, pressione fiscale, welfare…
In allegato, il programma dettagliato delle giornate di Torino.
 

Il catechismo? Adesso si può fare anche col telefonino

È nata in toscana la prima «App» che consente di far girare sui cellulari dei ragazzi contenuti legati ai percorsi di preparazione ai sacramenti.  Un modo per comunicare il Vangelo attraverso strumenti e linguaggi nuovi

«Provengo dal mondo dell’editoria tradizionale, sono stato area manager del centro Italia per la San Paolo» così si presenta Carlo Pagliari protagonista di un’apertura al mondo digitale che coinvolge già anche alcune parrocchie e diocesi toscane.

Carlo, da cosa nasce questo tuo interesse per le applicazioni e le nuove frontiere del mondo digitale?

«È da anni che sento da molti parroci l’esigenza di “comunicare il messaggio” con i mezzi tecnologici che  oggi sono a disposizione dei più. Una volta un parroco mi disse: “il mezzo con il quale comunichiamo con i ragazzi, addirittura le fotocopie talvolta, incide sul messaggio stesso, svalorizzandolo. i ragazzi considerano ’vecchio’ il mezzo di comunicazione ed in conseguenza, vecchio risulta il messaggio. Gesù questo errore ci ha insegnato a non commetterlo…”. Oggi i ragazzi usano abitualmente le applicazioni per comunicare tra loro, per divertirsi, per imparare, per interfacciarsi con le istituzioni, per acquistare dal CD al biglietto per il concerto: non vedo perché non dovrebbero usarlo anche per imparare e approfondire i temi legati al catechismo».

Ma andiamo per gradi, cos’è un applicazione?

«Un’applicazione non è altro che un piccolo programma che “gira” sul cellulare invece che sul PC, quindi è sempre a portata di mano ed inoltre il suo uso, visto una volta è di una facilità disarmante: ci sono solo tasti da cliccare, niente da digitare, nessuna nozione informatica da sapere. È semplice come usare un telecomando tv. Ci sono applicazioni incredibili in realtà aumentata che si attivano mettendo il telefono davanti ad una immagine, ad un poster».

Hai sperimentato e stai portando avanti un’applicazione per catechisti. Di cosa si tratta?

«L’applicazione che ho realizzato si chiama Catecapp. È un’applicazione “anomala” nel senso che invece di essere costruita come un piccolo programma usa e getta è pensata per essere aggiornata da chi la usa e non da chi l’ha costruita. Nel senso che i contenuti sono modificabili su indicazione di chi ne usufruisce. È poi anomalo il fatto che è pensata non per il destinatario finale (il ragazzino che frequenta il catechismo) ma per il catechista che deve fare da tramite e creare i percorsi integrandola con i sistemi ed i mezzi che già usa e che certo non deve abbandonare».

Quindi una parrocchia qualsiasi può rivolgersi a te per avere questa applicazione?

«Ho pensato anche ai piccoli budget delle parrocchie che non potrebbero permettersi nella maggior parte dei casi un applicazione personalizzata: l’idea è stata quella di costruire un’applicazione i cui contenuti fossero condivisibili con altre parrocchie così da frammentare i costi, mandando ad ogni parrocchia degli spazi personalizzabili per farla diventare “propria”. Non è stato facile visto che per tendenza le applicazioni nascono per differenziarsi anche nei contenuti l’una dall’altra. Pensate all’applicazione di una banca per i propri clienti o a quella di una compagnia telefonica: tendono a darsi unicità al massimo. Per fortuna Gesù non è un marchio registrato da una parrocchia e non usufruibile da altre! Così facendo sono riuscito ad offrire ad un piccolissimo prezzo (poco meno di 300 euro, ndr) un’applicazione personalizzata pensando anche ad una promozione speciale per le prime parrocchie di ogni diocesi che volevano testare questa strada complementare ai loro sistemi attualmente in uso».

Le soluzioni poi sono molteplici, in sostanza la parrocchia «compra» l’applicazione al prezzo pocanzi accennato ma poi questa diventa gratuita per tutti gli utenti. L’idea è appena partita. Stai avendo qualche feedback positivo? Dove è stata lanciata viene usata?

«Siamo subito dopo la fase di start-up, ho già pubblicato questa applicazione per alcune parrocchie che ne usufruiranno all’inizio dell’anno catechistico, mentre qualche parroco mi ha chiesto di accelerare i tempi perché voleva prima farci un po’ di pratica lui e farla fare ad alcuni dei suoi catechisti. Ho avuto anche contatti con diocesi toscane (in particolare Lucca e Pisa,ndr) che avrebbero piacere di creare un percorso di contenuti condivisi al maggior numero possibile di parrocchie presenti sul territorio. Lasciando poi ad ogni parroco la scelta se seguire quello diocesano o il proprio ma comunque tracciando una strada. Ci siamo dati il tempo delle vacanze per “buttar giù” i temi da trattare, per essere a buon punto a settembre».

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