GMG Rio 2013: “È lo specchio di una Chiesa viva e giovane”

Mancano pochi giorni all’inizio della Gmg di Rio de Janeiro e nella città carioca fervono gli ultimi preparativi. Intanto da ogni parte del mondo i giovani cominciano a partire.

Gli italiani saranno più di 7500, con loro oltre 40 vescovi e decine di sacerdoti. Quindici i vescovi catechisti italiani, tra loro il presidente e il segretario generale della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco e monsignor Mariano Crociata; e il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze. Sulla presenza italiana a Rio il Sir ha rivolto alcune domande al segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata.

Settemila e cinquecento italiani: un numero importante che testimonia la presenza convinta della Chiesa italiana rappresentata anche da tanti sacerdoti e vescovi…

“Sì, l’Italia è il primo Paese europeo per numero di partecipanti, chiaramente dopo l’America Latina che è al primo posto. Siamo molto felici di questa partecipazione: nonostante i costi proibitivi dei biglietti aerei, la voglia di condividere questa settimana di preghiera e di festa, insieme a milioni di altri giovani provenienti da tutto il mondo, ha avuto la meglio. La Cei ha voluto andare incontro ai giovani che vivono in Italia, ma sono stati essi stessi ad autofinanziarsi in vista dell’incontro di Rio”.

Con quali speranze e aspettative la Chiesa italiana parte per Rio de Janeiro?

“L’esperienza della Gmg è molto ricca e stimolante perché è specchio di una Chiesa viva e giovane, al contrario di ciò che si pensa. I giovani più di altri hanno un senso vivo dell’incontro e dello stare insieme. Essere convocati e radunarsi è in profonda sintonia con la natura della Chiesa e dell’esperienza cristiana. La speranza è che questo evento sia seme per un cammino di riflessione che continui e vada oltre la Gmg di Rio. Un cammino che ponga al centro i giovani, che tenga conto delle loro esigenze e li renda protagonisti. L’incontro con Papa Francesco sarà l’apice della Gmg ed egli di certo ci indicherà la via giusta per proseguire il cammino”.

Quali saranno le note più caratteristiche, distintive, della presenza azzurra a Rio?

“Il quartier generale degli italiani sarà come sempre Casa Italia che abbiamo voluto rendere, quest’anno in particolare, ancora più accogliente, davvero ‘casa’. Gli italiani a Rio potranno trovare lì una porta sempre aperta per le loro esigenze. Inoltre, torna come momento di incontro e di spettacolo, ma anche di riflessione, la Festa degli italiani, che prenderà le mosse dalla vita di Gesù, con gli interrogativi che la sua persona suscita e le risposte che solo Lui sa dare. A rendere i giovani protagonisti di questa festa – sia quelli presenti a Rio, sia quelli che seguiranno la diretta di RaiUno da casa – contribuirà l’uso dei social network, con cui verranno rilanciati i temi più stimolanti così da allargare il dibattito. Ci sarà anche tanta musica e divertimento”.

Il 24 luglio Papa Francesco inaugurerà un centro riabilitazione per tossicodipendenti nell’ospedale di Sao Francisco de Assis, ristrutturato grazie al contributo di un milione di euro della Cei…

“Sì, al Comitato per gli Interventi Caritativi per il Terzo Mondo – che gestisce i fondi dell’8xmille per progetti di sviluppo – è pervenuta una richiesta dall’Arcidiocesi di Rio de Janeiro per questo centro di recupero. Considerata la bontà del progetto, che prevede non solo il recupero ma anche la riabilitazione sociale del giovane, e a sostegno del grande impegno dei frati e della diocesi nel voler far fronte a un problema purtroppo molto diffuso in Brasile, abbiamo ritenuto doveroso dare il nostro contributo per un futuro migliore per i ragazzi che vi vengono presi in carico”.

Per chi resterà in Italia le regioni ecclesiastiche hanno promosso delle vere e proprie Giornate regionali della Gioventù. Qual è il significato di questi eventi?

“Di certo la condivisione. I giovani che restano vogliono sentirsi parte di questo grande evento di fede, vogliono condividere i momenti di preghiera, di riflessione e di festa. Per questo, in parte verranno aiutati dai mezzi di comunicazione che trasmetteranno, in alcuni casi solo in streaming per questioni di fuso orario, alcuni eventi come le catechesi, la Via Crucis, la Veglia e la messa finale. In parte, saranno loro stessi al centro degli eventi regionali, insieme ai loro vescovi, ai parroci, agli educatori e a tutti coloro con cui hanno condiviso il cammino di preparazione fino a questo momento. Nonostante l’ora tarda in Italia, la veglia sarà seguita in diretta da moltissimi giovani. Anche questo starà a mostrare come l’esperienza cristiana crea legami attorno alla fede, fa nascere comunità, suscita nuova vita e capacità di futuro”.

SIR del 17/07/2013

Le scelte ”personali” di Papa Francesco per la sua prima Gmg

Un Papa “venuto dalla fine del mondo” che fa il suo primo viaggio apostolico nel suo continente, anche se non è stato lui a deciderlo. Del resto, neanche Benedetto XVI aveva programmato di fare il suo primo viaggio internazionale a Colonia, nella natìa Germania, sede designata dal suo predecessore, Giovanni Paolo II, per la Gmg del 2005. Ha esordito con questo “simpatico parallelo” padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, nel briefing di presentazione della Giornata mondiale della Gioventù , in programma a Rio de Janeiro dal 22 al 29 luglio, sul tema: “Ide e fazei discípulos entre todas as nações”, “Andate e fate discepoli in tutte le nazioni del mondo”. Quello di Rio è quindi un viaggio “già deciso”, di cui Papa Francesco raccoglie l’”eredità”, ma il cui programma è stato anche “intensificato e arricchito di ulteriori eventi con il cambio di pontificato”. Rispetto al “programma più leggero” che era stato fatto per Benedetto XVI, gli elementi aggiunti sono il pellegrinaggio ad Aparecida, la visita alla favela, la visita all’ospedale, l’incontro con il Comitato del Celam. La durata è rimasta la stessa, ma in particolare è stato inserito il pellegrinaggio ad Aparecida, “molto voluto da Papa Francesco” e che quindi “occupa un giorno che invece avrebbe potuto essere di riposo in una bozza precedente di programma”. In quale lingua parlerà il Papa? “Lo vedremo”, la risposta del portavoce vaticano, ipotizzando che “in parte sceglierà il portoghese, in parte lo spagnolo”. Di seguito, il programma dettagliato del viaggio, a compiere il quale il Papa è stato invitato dai vescovi organizzatori e promotori della Giornata mondiale della gioventù, monsignor Orani Tempesta, arcivescovo di Rio de Janeiro, e il cardinale Damasceno Assis, presidente della Conferenza episcopale del Brasile, e dalla presidente Dilma Roussef, venuta in Vaticano per l’inaugurazione del Pontificato: il giorno dopo, incontrando il Papa, la presidente lo aveva invitato esplicitamente ad andare in Brasile, e Papa Francesco aveva immediatamente accettato. La presidente, ha reso noto padre Lombardi, ha invitato a partecipare alla Gmg di Rio anche i capi di Stato degli altri Paesi dell’America Latina. 

Il pellegrinaggio ad Aparecida e la visita all’ospedale. Dopo l’arrivo, lunedì 22, a Rio d Janeiro, la cerimonia di benvenuto e la visita al presidente della Repubblica, mercoledì 24 (dopo un giorno di riposo) comincia il programma intenso del Santo Padre, Con il pellegrinaggio ad Aparecida, “fortemente voluto dal Papa – ha riferito il portavoce vaticano – sia per la sua devozione mariana personale, sia per il fatto che presso questo Santuario si è svolta la grande assemblea dell’episcopato latinoamericano che ha dato luogo al documento di Aparecida, la cui redazione è stata guidata proprio dall’allora cardinale Bergoglio”. Il Papa va ad Aparecida, la mattina di mercoledì, in elicottero; arriva verso le 9.30 e si reca direttamente alla cappella del Santuario, dove venererà l’immagine e celebrerà la Messa come “atto di atto di devozione personale”. “Il Papa – ha continuato padre Lombardi – ha voluto dare a questa visita alla Madonna di Aparecida anche il significato di preghiera per la Giornata mondiale della gioventù, per i giovani che incontrerà, e anche per il suo pontificato. Quindi, una specie di consacrazione, di offerta di sé alla Madonna ma domandando la sua protezione per la Gmg e per il pontificato”. Nel pomeriggio, a Rio, il Papa visiterà l’ospedale São Francisco de Assis na Providência de Deus, un ospedale del venerabile Ordine Terziario francescano, che cura in particolare giovani, indigenti e persone dipendenti da droghe e alcol: “Questa visita – ha detto padre Lombardi – ha un significato simbolico, non solo per quelli che sono presenti in quell’ospedale, ma anche per le altre comunità, le altre istituzioni e tutte le persone che operano in questo campo”. Il Papa si reca nella cappella e poi si sposta nel cortile dove terrà il suo discorso. 

La visita alla favela. Giovedì 24, alle 11, Papa Francesco visiterà la Comunità di Varginha: “E’ una favela – ha detto padre Lombardi – di dimensioni relativamente piccole, una delle molte che si trovano inserite nel tessuto della città di Rio e delle città brasiliane. E’ considerata una favela sicura, in quanto sono state compiute operazioni per eliminare armi e droghe e consentire quindi una vita pacifica”. Il Papa si reca nella chiesa e benedice l’altare, con una preghiera specifica prevista per la benedizione dell’altare e del nuovo ambone. Poi si sposta a piedi all’interno di Varginha. Durante l’itinerario – ha affermato padre Lombardi – “è previsto che entri in una abitazione, incontri brevemente una famiglia. Poi continua il suo itinerario fino al campo di calcio, dove c’è l’incontro con la comunità e il discorso del Papa e le offerte di doni da parte dei bambini e delle persone della comunità al Papa”. “Non è il primo Papa che va a Rio in una favela – ha ricordato il portavoce vaticano – Anche Giovanni Paolo II era stato alla favela Vidigal, in uno dei suoi viaggi in Brasile. Quindi, è un atto che già Giovanni Paolo II aveva compiuto”. 

L’incontro con il Comitato del Celam. Dopo la Messa conclusiva del 29 luglio, al “Campus Fidei” di Guaratiba, il Papa alle 16 incontra il Comitato di coordinamento del Celam, il Consiglio episcopale latinoamericano. Anche questo, ha reso noto padre Lombardi, è “un incontro voluto proprio dal Papa”: il Comitato di coordinamento del Celam doveva riunirsi e il Papa ha voluto incontrarlo all’inizio dei lavori. Quello di Papa Francesco, per padre Lombardi, “sarà sicuramente un discorso significativo per quanto riguarda le prospettive della Chiesa e la missione della Chiesa nel Continente, per i rappresentanti di questo organismo che raccoglie le 22 Conferenze episcopali del Continente”

Uno studente su due è influenzato dai genitori nella scelta dell’università

Uno studente su due è influenzato nella scelta della facoltà universitaria, dai genitori. Lo rivela un’indagine dell’Associazione Donne e Qualità della Vita. Secondo i dati Istat del 2012, sono soprattutto le donne a decidere di proseguire gli studi nel post maturità e a portare positivamente a termine il percorso iniziato all’università (il 37,8 di chi acquisisce un titolo di istruzione terziaria è donna, gli uomini sono il 25,5 per cento).  

Dalla ricerca, svolta su circa 1500 studenti liceali di entrambi i sessi, emerge che al primo posto ci sono le attitudini culturali dello studente (31%), al secondo posto i risultati scolastici conseguiti al liceo nelle differenti materie (19%), al terzo l’esempio di un familiare, fratello o zio (17%), al quarto posto influenzerebbe la scelta l’offerta logistica e il modus vivendi che si trova nella città sede dell’università prescelta (15%), al quinto posto il valore del quadro docenti dell’università di destinazione (8%); tra le ultime voci la curiosa indicazione che sarebbe la casualità a determinare la scelta finale (5%).  

Ad influenzare i giovani al primo posto sono ancora i genitori: ben il 47% degli studenti, uno su due, infatti ammette di essere «mammone» e di voler decidere insieme a mamma e papà la soluzione migliore, influenzato anche dagli aspetti economici rilevanti in tempo di crisi. Al secondo posto gli amici (23%), con i quali il confronto è serrato e approfondito, il 21% sceglie invece di affidarsi al cuore ed è influenzato nella propria scelta dalle indicazioni o suggerimenti del proprio fidanzato o fidanzata. Solo un residuo 5% si affida alle indicazioni e suggerimenti dei propri professori del liceo.  

Circa il 32% degli intervistati, è ottimista sulla possibilità di impiego post laurea. Ben il 21% è invece pessimista e non crede, dopo la laurea, di poter trovare lavoro in Italia. Il 15% è convinto di dover sostenere ulteriori specializzazioni, mentre il 7% è dell’idea che dovrà seguire dei corsi di perfezionamento o master all’estero. Infine un 5% vede nerissimo ed è addirittura convinto di non riuscire a terminare gli studi. 

La ricerca ha inoltre indagato quali siano i fattori esterni alla famiglia e alle conoscenze che influenzino e condizionino maggiormente le scelte delle facoltà. Il 21% degli studenti ha indicato nei social network e nella rete la propria miglior fonte di notizie e indicazioni universitarie, un 19% ha ammesso di essere influenzato dalla pubblicità e dalla «nomea mediatica» dell’ateneo, il 16% invece indica nella reputazione e notorietà dei rettori un elemento fondamentale di scelta, il 12% indica come determinanti per la scelta le strutture dei corsi e le tipologie di esami proposte dagli atenei. 

Per quanto riguarda le aspettative dall’università il 31% degli studenti ha risposto un’opportunità di miglioramento economico, il 25% spera in una crescita culturale utile al lavoro, il 13% considera l’università come un’opportunità di accrescere le proprie conoscenze personali, il 9% considera l’iter studiorum come un mezzo per aiutare economicamente la propria famiglia mentre un «pragmatico» e «godereccio» 8% si aspetta di conoscere l’anima gemella tra i banchi dell’aula magna o durante i quarti d’ora accademici.  

LaStampa del 16/07/2013

Al cinema con i bambini per insegnare loro l’ecologia

Epic concorso Green. Succede negli States, dove al film della Fox Epic viene collegata una interessante iniziativa ‘Green’

Il modo migliore per avere degli adulti educati è crescerli bene, è ovvio, e sempre più i giovanissimi oggi si dimostrano sensibili ai messaggi ricevuti attraverso tv e cinema. 

Sarà stato questo il punto di partenza di una giocosa e intelligente operazione che ha accompagnato negli USA l’uscita in sala del film della 20th Century Fox, Epic – Il mondo segreto. 

L’animazione in 3D diretta da Chris Wedge, e basata sul libro per bambini ‘The Leaf Men and the Brave Good Bugs’ di William Joyce, racconta della adolescente M.K. in conflitto con il padre e di come finisca con l’aiutare gli Uomini Foglia del solitario Nod a difendere la foresta dai piani dei Boggan del crudele Mandrake, intenzionato invece a distruggerla. 

Questo, in pochissime parole, l’eco-blockbuster che ha chiamato a raccolta i bambini statunitensi spingendoli a riflettere su temi ‘Green e ad avvicinarsi all’ambiente attraverso esperienze proprie, dirette, che sicuramente serviranno più di tante lezioni. 
L’idea è nata dal Team Energy Star che, con altri partner, ha offerto biglietti gratuiti per vedere il film in sala (e il proprio nome a lettere luminose cubitali sui monitor di Times Square) alle prime 200 famiglie che avessero condiviso online le proprie storie sui temi ‘risparmio’ e ‘consumo consapevole’. 
Oltre a una serie di premi tecnologici, sempre strettamente improntati alla salvaguardia delle risorse e a un corretto uso delle apparecchiature elettroniche, i blogger hanno avuto la possibilità di scaricare dal sito ufficiale del Team (http://www.energystar.gov/team) un kit ideato per offrire un modo divertente di coinvolgere i nostri figli in attività ecologiche-ambientali e dimostrare come il risparmiare energia e fermare il disastro climatico utilizzando azioni semplici ed economiche non sia affatto qualcosa di ‘pesante’ 

“Siamo tutti foglie dello stesso albero”, insegna Ronin, un altro dei protagonisti del film che ancora ribadisce che viviamo tutti sullo stesso pianeta. Siamo noi a doverlo proteggere. 
E per dare ulteriore forza al concetto, e visibilità all’operazione, il ‘Green Carpet’ di New York ha raccolto molti volti noti – doppiatori del film e non – ad avvalorare la tesi: Amanda Seyfried, Colin Farrell, Beyoncé Knowles, Josh Hutcherson, Christoph Waltz, Aziz Ansari e altri. 

Un modo anche questo per condividere la missione dei Leafman e della Regina Tara, sovrana e forza vitale della foresta, e difendere la natura. Ora non resta che sperare che l’esperienza ‘metta radici’ e non venga dimenticata crescendo. 
E visto che siamo ormai prossimi all’uscita della versione homevideo del film, chissà che a qualcuno – anche in Italia – possa venire in mente un modo utile per sfruttare l’occasione… 

LaStampa 15/07/2013

Il rinnovamento di Papa Francesco

Sono diverse e significative le novità introdotte dal Motu Proprio in materia penale che il Santo Padre Francesco ha adottato ieri mentre la Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano approvava una legge di modifica del codice penale e del codice di procedura penale e un’altra legge recante norme complementari ancora in materia penale. Atti che rappresentano un ulteriore segno del rinnovamento che la Chiesa sta perseguendo: vi è l’introduzione dell’ampia categoria dei delitti contro i minori tra i quali la vendita, la prostituzione, la violenza sessuale in loro danno; la pedopornografia; la detenzione di materiale pedopornografico; gli atti sessuali con minori. A tal proposito si segnala che l’attuale legislazione vaticana va persino otre la già severa legge italiana almeno per due motivi: ai fini dell’età del consenso, da cui far discendere la responsabilità penale, considera minore ogni essere umano avente un’età inferiore ai 18 anni (nel codice penale italiano l’età del consenso è fissata a 14 anni, e solo in alcuni casi a 16 anni); i reati sopra citati sono sempre perseguibili d’ufficio (nella legislazione italiana gli atti sessuali con i minori di età superiore agli anni 10 sono perseguibili solo su querela di parte).
Aderendo alla Convenzione di Mérida delle Nazioni Unite contro la corruzione, sono state poi introdotte o novellate una serie di figure criminose relative ai delitti contro la pubblica amministrazione: il peculato, l’abuso d’ufficio, la corruzione, la concussione, il traffico d’influenze, la corruzione nel settore privato, l’autoriciclaggio. Non può non evidenziarsi che, per quanto riguarda l’ultima fattispecie, lo Stato vaticano è stato più celere e tempestivo di quello italiano a dotarsi di norme in materia di lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata. 

A tale proposito si sottolinea ancora l’innovativo art. 33 che prevede, direttamente su istanza dell’interessato, l’adozione da parte del tribunale di adeguate misure di sicurezza per il testimone, la persona offesa o un prossimo congiunto, qualora sussista un concreto ed attuale pericolo per la loro incolumità personale.
È stata introdotta la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche derivanti da reato. Anche in questo caso si segnala la più ampia portata della norma incriminatrice vaticana rispetto alla legislazione del nostro Paese. E infatti, a differenza della legge italiana (la n. 231 del 2001 che sanziona le persone giuridiche solo per determinati reati) la legislazione d’Oltretevere prevede ora che, in presenza di determinate condotte omissive o commissive, esse siano sempre responsabili allorquando i reati siano stati commessi «nel suo interesse o a suo vantaggio».

Vi è infine il capitolo non meno interessante sul nodo – a volte spinoso – della cooperazione ed assistenza giudiziaria agli altri Paesi. Ebbene lo Stato Città del Vaticano ha previsto, nella legge recante modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, che «Per quanto concerne le rogatorie e l’estradizione (…) si osservano le convenzioni internazionali ratificate, gli usi internazionali e le leggi» (art. 37); «Agli Stati richiedenti è assicurata la più ampia assistenza giudiziaria per qualsiasi inchiesta o procedimento penale, nei modi e nei limiti previsti dall’ordinamento» (art. 38); «Nei casi espressamente previsti dalle convenzioni internazionali ratificate, non potrà essere invocato il segreto bancario per respingere una domanda di assistenza giudiziaria» (art. 40); «Nessuno dei reati di cui alla presente legge può essere considerato come un reato fiscale o come un reato politico o connesso ad un reato politico o ispirato da motivi politici, al fine di negare l’estradizione o l’assistenza giudiziaria» (art. 46).

Si tratta, come è evidente, di significative innovazioni legislative in materia penale, che erano state messe alla studio su indicazione e impulso di Benedetto XVI e che la recente ascesa al soglio pontificio di papa Francesco ha accelerato nella consapevolezza dell’urgenza per la Chiesa non solo di essere, ma anche di apparire senza ombre, e in tutte le sfaccettature dell’agire umano (anche quelle apparentemente più “tecniche”), annunciatrice credibile del messaggio evangelico. Papa Francesco avverte e segnala la necessità impellente che la Chiesa, madre e maestra, sia «luce e sale» di un mondo «affaticato e oppresso», testimone autentica della bellezza e della gioia dell’incontro con Cristo Risorto e compagna fedele dei poveri, degli emarginati e degli ultimi della terra. Ma per fare ciò, per avere la credibilità d’illuminare la coscienza troppe volte sopita dell’uomo moderno, la Chiesa non deve poter essere accusata di fare sconti a se stessa. Ha, certo, l’autorevolezza di indicare «la via, la verità e la vita» all’uomo che cade e stenta a rialzarsi, ma deve essere rigorosa in tutte le sue prassi, i suoi costumi e negli stili di vita per dimostrare ai suoi figli che è possibile non rassegnarsi alla banalità e mediocrità esistenziale della spasmodica ricerca del sesso senza amore, della ricchezza senza progresso comune e del potere senza servizio. Le riforme legislative in materia penale vanno in questo senso e indicano questo percorso.
Qualcuno un giorno ha detto che alla fine dei tempi il Signore Gesù ci chiederà non quanto siamo stati credenti bensì quanto siamo stati credibili. Anche con l’introduzione di queste modifiche al sistema penale dello Stato Città del Vaticano, il Papa ci invita tutti, come corpo vivo della Chiesa di Cristo, a essere credibili sapendo però che ciò sarà possibile solo se saremo stati prima autenticamente credenti.

 
*direttore del Dipartimento di Scienze umane dell’Università Europea di Roma;
** docente di Scienze criminali presso lo stesso Ateneo
 
Alberto Gambino* e Alessandro Benedetti**
 
Minori e corruzione, più severità
 
Abolizione dell’ergastolo, introduzione di nuovi e più particolareggiati reati (ad esempio quelli contro i minori e la divulgazione di notizie riservate), adeguamento alle convenzioni internazionali. Sono queste alcune delle principali novità della riforma del sistema penale della Città del Vaticano, varato ieri, che per volontà del Papa saranno applicate anche agli organi della Santa Sede. A illustrarle ai giornalisti sono stati il giurista Giuseppe Dalla Torre, presidente del Tribunale dello Stato Città del Vaticano, e padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana. Entrambi, rispondendo alle domande hanno collocato le nuove norme nel loro giusto contesto, facendo chiarezza anche su alcuni possibili fraintendimenti.

Innanzitutto, ha sottolineato Dalla Torre, «non bisogna confondere l’ordinamento canonico con quello statuale della Città del Vaticano. La riforma penale si riferisce infatti a questo secondo ambito». In secondo luogo non bisogna intendere queste norme esclusivamente come una risposta alle osservazioni di Moneyval. «C’è anche questo aspetto – ha precisato Dalla Torre –, ma non tutte le osservazioni di Moneyval riguardano la materia penale. Penso che subito dopo l’estate, ci saranno nuovi interventi relativi all’attività finanziaria, all’antiriciclaggio, alla lotta al terrorismo e quant’altro». 
Le fattispecie criminali sono dunque quelle commesse sul territorio dello Stato più piccolo del mondo, che se ha circa 500 abitanti  e non tutti residenti (i nunzi ad esempio vivono all’estero), viene comunque attraversato ogni anno da 18 milioni di persone per motivi religiosi, turistici e di lavoro.
Inoltre, come dispone il motu proprio adottato sempre ieri dal Papa, queste stesse norme si applicano «ai reati commessi contro la sicurezza, gli interessi fondamentali o il patrimonio della Santa Sede». E in sostanza ricadono sotto la nuova giurisdizione penale «i membri, gli officiali e i dipendenti dei vari organismi della Curia Romana e delle Istituzioni ad essa collegate; i legati pontifici (i nunzi, ndr) ed il personale di ruolo diplomatico della Santa Sede; le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione, nonché coloro che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo, degli enti direttamente dipendenti dalla Santa Sede ed iscritti nel registro delle persone giuridiche canoniche tenuto presso il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano». Tutte le norme entreranno in vigore il prossimo primo settembre.

Quali sono le novità più importanti dal punto di vista dei singoli reati? Sicuramente ha attirato l’attenzione dei giornalisti l’articolo 116 bis, che dispone: «Chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione è punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni o con la multa da euro 1.000, o da euro 5.000. Se la condotta ha avuto ad oggetto notizie o documenti concernenti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede, dello Stato, si applica la pena della reclusione da 4 a 8 anni. Se il fatto, di cui al comma precedente, è commesso per colpa, si applica la pena della reclusione da 6 mesi a 2 anni». Dalla Torre, però, alla domanda se questa norma sia stata disposta in seguito al caso che ha coinvolto Paolo Gabriele (l’ex aiutante di camera di Benedetto XVI) ha risposto che quella vicenda «non ha inciso in maniera determinate sull’articolo di legge».

L’altra novità di sicuro rilievo è l’abolizione dell’ergastolo e la sua sostituzione con la reclusione da 30 a 35 anni. Per il resto Dalla Torre ha sottolineato che si tratta di adeguamenti ad alcune importanti Convenzioni internazionali. Ad esempio è stato introdotto il delitto di tortura e ha ricevuto definizione la categoria dei delitti contro i minori (tra i quali sono da segnalare: la vendita, la prostituzione, l’arruolamento e la violenza sessuale in loro danno; la pedopornografia; la detenzione di materiale pedopornografico; gli atti sessuali con minori). «Questi erano reati anche prima ma ora sono stati meglio specificati. C’è la pedopornografia, per esempio, che non poteva esserci nel codice del 1889». Sempre in attuazione di convenzioni internazionali sono stati introdotti delitti come il genocidio e l’apartheid ed è stato rivisto anche il titolo dei delitti contro la pubblica amministrazione. In sostanza, come scrive Papa Francesco nel motu propriopoiché «il bene comune è sempre più minacciato dalla criminalità trasnazionale e organizzata», è necessario adottare «strumenti idonei» e favorire «la cooperazione giudiziaria internazionale», per contrastare «le attività criminose che minacciano la dignità umana, il bene comune e la pace». Ciò che appunto costituisce la ratio delle nuove norme.

Mimmo Muolo
 
Rodríguez Maradiaga: maggiore collegialità
 
«Sarebbe auspicabile, e penso che lo si farà, che ci potesse essere uno sviluppo della struttura sinodale, che ne cambiasse la metodologia di lavoro per renderla un momento che, senza essere imponente – non è necessario –, abbia una funzione non solo consultiva bensì anche decisionale». Non si sbilancia troppo, ma dove lo fa usa parole chiare il cardinale hondureño Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, parlando del suo ruolo di coordinatore degli otto cardinali scelti dal Papa per consigliarlo nel governo della Chiesa e per studiare un progetto di riforma della Curia Romana. Lo fa in un’intervista rilasciata al sacerdote torinese Ermis Segatti e pubblicata sull’ultimo numero del quindicinale Il Regno

L’arcivescovo di Tegucigalpa parla di una «sollecitazione alla collegialità» proveniente direttamente dal Concilio e di una più contingente: «Durante le riunioni prima del Conclave si avvertiva da parecchie parti questo bisogno che il Papa fosse più in diretto contatto con le Chiese locali. Il collegio cardinalizio avvertiva la necessità che anche i cardinali residenti fuori del Vaticano fossero messi in condizione di fare sentire la loro voce. Questa rimane senz’altro una grande speranza di collegialità». Rodríguez Maradiaga specifica che «parecchi di noi sostenevano che papa Benedetto non era ben informato della realtà. Nella vicenda dei Vatileaks si è visto che c’era bisogno di maggiore informazione. Pareva che alcuni documenti non arrivassero nelle mani del Papa. Si suggeriva che i documenti non pervenissero solo attraverso le nunziature e la Segreteria di stato, ma che esistesse per così dire la possibilità che un gruppo di cardinali provenienti da diversi continenti avesse accesso diretto al Papa». 

Il presule, salesiano, ricorda di aver fatto per anni il direttore di coro e anche di orchestra e di voler adottare questo stile nel suo incarico voluto da Francesco: «Non abbiamo ancora incominciato. Sto però invitando i diversi membri della commissione a fare dei sondaggi nei loro continenti, a raccogliere proposte intorno a quelle ipotesi che già si erano presentate nelle congregazioni generali prima del Conclave, e sto trovando tantissima convergenza su molti argomenti. Quando arriveremo alla prima riunione, all’inizio di ottobre, ci troveremo veramente a un punto di partenza molto buono. Ho molta speranza». Il cardinale rilancia anche una proposta che gli viene suggerita dall’intervistatore, come possibile seguito dell’Anno della fede: «Mai come oggi abbiamo bisogno di pace nel mondo. Una pace che sia soprattutto fondata sulla giustizia sociale e sulla cessazione dei conflitti… Perciò sarebbe bello che dopo l’incontro di Assisi il Papa potesse indire un Anno della pace».

 

Andrea Galli
 

A che punto è la catechesi in Italia?

Vi riporto un mio articolo apparso su Settimana (20 gennaio 2013,p.11) sulle prospettive della catechesi in Italia.

Il 10 e 11 gennaio si è svolto a Roma il secondo seminario per la verifica ed il rinnovamento della catechesi, “Verso orientamenti condivisi”, promosso dalla Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi. Il seminario fa parte di un itinerario molto articolato che, come ha ricordato Mons Paolo Sartor, prevede di “elaborare (2011-12), presentare al Consiglio permanente ed eventualmente all’Assemblea CEI (2013) e successivamente accompagnare per la recezione (2014-15) un Documento che possa ridefinire il rinnovamento della Catechesi in Italia, recependo il Documento base, in riferimento al Catechismo della Chiesa Cattolica, e tenendo conto della sensibilità cresciuta intorno alle sperimentazioni, al primo annuncio, ed alla mistagogia”. Il seminario cui hanno partecipato diversi vescovi, direttori di Ucd, esperti di catechetica, teologia e comunicazione, si è sviluppato attorno a quattro momenti: un relazione di carattere teologico affidato a Mons. Valentino Bulgarelli, catecheta e direttore UCD Bologna, la sintesi dei lavori e degli incontri svoltisi negli ultimi mesi attorno ad una proposta di indice del documento condiviso affidata a Mons. Paolo Sartor, responsabile settore catecumenato dell’UCN, una sessione di lavori di gruppo ed infine una tavola rotonda su “Tre prospettive di contenuto in vista degli Orientamenti: comunità missionaria, formazione e iniziazione”.

Nel suo intervento, Bulgarelli ha ricostruito l’evoluzione degli ultimi quindici. Uno degli snodi centrali di questo lungo processo è il rapporto tra fede e vita “che trova la sua sintesi nell’espressione, presente in tutti i testi di catechismo, «per la vita cristiana»; intesa come integrazione tra fede e vita, criterio di lettura e di valutazione dell’intera vita dell’essere umano”. È questo uno degli assi portanti del processo in corso, infatti, prosegue Bulgarelli, “Nel cammino di questi quindici anni, si intravede come il passaggio in atto, che nei diversi documenti è sostenuto, si possa rendere sinteticamente in questi termini: dalla catechesi antropologica o esperienziale così come è stata elaborata negli anni Settanta, a una catechesi in grado di offrire una proposta di primo annuncio evangelico, per iniziare, nello spirito del catecumenato, alla vita cristiana, generando un umano che abitato dal divino sia nuovo nella forma e nella sostanza”.

L’ampia riflessione di Bulgarelli si è sviluppata poi attorno a tre temi che sintetizzano a suo giudizio il cammino percorso, una sorta di tre fili rossi, che “intrecciandosi creano un tessuto gradevole e armonioso”: in primo luogo il dinamismo tra l’annuncio che deve portare alla conversione, descritta nei termini della proposta formulata dal teologo gesuita Bernard Lonergan come conversione religiosa, morale, intellettuale e mistica, per poi sfociare nella professione di fede. Ciò implica riscoprire la centralità dell’atto di fede come riposta ad un’epoca che ha messo in questione radicalmente la possibilità dell’incontro con Dio.

Infine, il terzo filo, sull’esempio del brano evangelico del buon samaritano, è dato dalla testimonianza, che vuol dire, primariamente, attenzione nei confronti di tutto ciò che riguarda l’uomo, dalle sue fragilità, come ha ricordato autorevolmente il Convegno ecclesiale di Verona, alle sue potenzialità. Si tratta, in definitiva, di tornare ad una “pastorale di proposta” e non solo di conservazione come ebbe a dire Stijn Van Den Bossche, direttore dell’UCN del Belgio.

Nella sua relazione sui contributi che in questi mesi sono stati prodotti, Paolo Sartorha utilizzato la metafora della casa come immagine di quello che potrebbe essere la catechesi del futuro e le cui ‘stanze’ potrebbero diventare un’ipotesi di indice del nuovo documento. Una casa prima di tutto ospitale, in cui si dia grande attenzione al nostro interlocutore, cominciando prima di tutto dall’assumere nei suoi confronti un linguaggio comprensibile. Non a caso, tra le prime stanze troviamo proprio l’annuncio. Un’altra è certamente dedicata al soggetto della catechesi, la chiesa intesa come la comunità nell’armonia delle sue varie componenti, che genera, mediante l’iniziazione, alla vita nuova del vangelo. Quindi il ruolo e la definizione più precisa dell’identità e della missione del catechista.
Questi temi sono stati poi ampiamente dibattuti nei lavori di gruppo, assieme alla proposta avanzata dal direttore dell’UCN, Don Guido Benzi di affiancare alla stesura del nuovo documento un glossario che aiuti a chiarire i termini in questione,come, ad esempio, nuova evangelizzazione o primo annuncio, spesso usati in accezioni equivoche.

Dal ricco dibattito sono emerse alcune sottolineature comuni, come la necessità di accettare ormai convintamente quella che don Cesare Bissoli ha definito la “rivoluzione copernicana della catechesi”: il ricentrare le attività di formazione e annuncio sempre più sull’adulto rispetto al bambino.
Nella tavola rotonda finale, sono stati poi approfonditi alcuni contenuti della catechesi, aggrediti da diverse angolazioni.

Chiara Giaccardi, docente di sociologia della comunicazione alla Cattolica di Milano, ha aiutato a cogliere le caratteristiche dei nostri contemporanei, in particolare i giovani, i cosiddetti nativi digitali. Solo capendo le trasformazioni culturali in atto, si potrà infatti disegnare un progetto catechetico adeguato. “Non è più questione di dar forma a qualcosa che c’è, – ha affermato la Giaccardi – ma di risvegliare qualcosa che si è assopito, che è stato ricoperto da altro, o che non è mai stato trasmesso”.

Il concetto di realtà si è ampliato, come ci stanno insegnando le potenzialità comunicative dei social network. Per questo, non si può più parlare di opposizione tra reale e virtuale, ma di diverse dimensioni del reale che include anche il mondo digitale.Educare quindi oggi vuol dire ripensare la propria formazione e il proprio modo di comunicare alla luce delle provocazioni che vengono dalle trasformazioni in atto.

Fondamentale è anche il dare continuità alle iniziative educative intraprese, perché noi viviamo in un’epoca che celebra gli inizi (Marc Augè) ma poi non dà continuità, così come occorre far passare il concetto della irreversibilità delle soglie di passaggio. Ci sono, nella crescita, delle trasformazioni che sono definitive: non si può tornare a fare gli adolescenti nella terza età, come invece occhieggia la moda e il sentire contemporanei.
Il tema della formazione è stato poi declinato anche da Don Pio Zuppa, cateheta e pastoralista della facoltà teologica pugliese, che alla luce degli esiti più recenti della pedagogia, ha parlato della necessità di considerare l’apprendimento non più come un’attività prevalentemente noetica, mentale, scolastica, bensì come un fatto che accade in un contesto socio-relazionale: non si apprende da soli. La comunità ecclesiale è invitata a ripensare l’azione pastorale, abbandonando il modello che impone prima il chiarimento di tutti gli elementi teorici e poi il passaggio all’azione, per affidarsi ad uno diverso, incentrato sul criterio della riflessività che mira ad imparare agendo, non delegando il momento della riflessione fuori dall’azione concreta.

Anche i luoghi classici della formazione come i seminari devono ridiventare “comunità di pratiche”, nella logica delle antiche botteghe artigianali in cui il sapere si impara sul campo, affiancandosi ai maestri depositari di esperienze vive.

La prof.ssa Maria Teresa Stimaviglio, formatrice di catechisti di Padova, riflettendo sulla sua esperienza ha ricordato l’importanza delle relazioni interpersonali perché “è dalla vita che possiamo imparare” in quanto ciò che viviamo ci forma e ci trasforma soprattutto per la vita di fede.

Decisivo è il tema della narrazione: mettere in collegamento la propria autobiografia con le narrazioni che la Scrittura ci presenta, perché più si entra nelle Scritture più si chiarifica anche la propria esistenza. Per questo, come ha ricordato l’ultimo partecipante alla tavola rotonda, il parroco cremonese don G. Nevi, è importante valorizzare l’ascolto dell’altro senza giudicarlo.

Nel chiudere la sessione, il vescovo di Como, mons Diego Coletti ha riassunto efficacemente i lavori della due giorni dicendo che si è visto in essi all’opera quella bella definizione di chiesa intesa come “la pedagogia di Dio in azione” data dal suo confratello Mons Marcello Semeraro.

Il Papa a Lampedusa: “no alla globalizzazione dell’indifferenza”

CITTA’ DEL VATICANO – Ecco il testo completo dell’omelia di Papa Francesco a Lampedusa. 

«Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Prima però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà! Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per le sue parole. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie. Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti.

«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei?». E’ un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello! Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.

«Dov’è tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, accoglienza, solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio!

«Dov’è tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io.

Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza.

Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove sei?», «Dov’è tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie?

Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo. «Chi ha pianto?».

Signore, in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo perdono per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratelllo?». Amen

COMMENTI

l Papa a Lampedusa per «toccare la carne di Cristo»
 
Non c’è altro cammino che la «prossimità»
 
Pare che Lampedusa voglia dire ‘lampo’, ‘fiamma’, a motivo dei fuochi d’avviso accesi un tempo sull’isola per orientare i naviganti. Di certo in questi mesi di navigazione della barca di Pietro, il passaggio a Lampedusa segna una tappa significativa nella rotta seguita da papa Francesco. Una tappa che lui ha deciso in breve tempo e in breve ha stabilito. Lampedusa è un luogo reale nella geografia del Mare Nostrum e al tempo stesso esistenziale. Porta di confine e d’ingresso, punto di frattura dove s’infrange la frontiera tra disperazione e speranza, dove con la dignità e la vita trova morte la speranza, non solo dei più poveri ma di noi tutti. È dunque un passaggio chiave nella rotta della riforma che Francesco sta seguendo sull’onda del Povero frate di Assisi, dal quale ha preso il nome e con il quale condivide la povertà senza farne bandiera di rivolta e senza separarla dall’umiltà. Così senza clamori, senza riflettori vuole scendere a Lampedusa tra i profughi e gli immigrati irregolari, quelli che da tanti vengono detti i ‘clandestini’. 

La parola più ricorrente nelle riflessioni di Bergoglio sulla dottrina sociale già negli anni dell’episcopato a Buenos Aires non a caso è cercanía, prossimità. «Come possiamo favorire che si manifesti sempre di più la dignità umana tante volte ferita, sminuita, schiavizzata?», scriveva nel testo di un’omelia del 2011. «La chiave è la prossimità. La prossimità è l’ambito necessario perché si possa annunciare la Parola, la giustizia, l’amore». E a partire dalle riflessioni di Aparecida in tutta l’America Latina la prossimità si è fatta tratto distintivo di una Chiesa «che si offre a tutti come una madre che esce all’incontro» (n. 370). E proprio perché è come quella di una madre che esce all’incontro, la prossimità non è una prestazione della Chiesa, non è il prodotto di una sua efficiente applicazione da esibire. Non è un impeto di generosità che si alimenta per forza propria, prodotto di strategie d’immagine o dovere da assolvere per statuto aziendale. «La prossimità è criterio evangelico concreto che è altro rispetto alle regole di un etica astratta o meramente spirituale», afferma Francesco. È una sua esigenza vitale. 

In questi ultimi giorni, con sempre maggiore insistenza, papa Bergoglio ci parla della «carne di Cristo» ci invita a «toccare la carne di Cristo, le sue piaghe». Lo abbiamo sempre visto per un tempo quasi interminabile, all’inizio e alla fine di celebrazioni o di udienze, intrattenersi a baciare ripetutamente e ad abbracciare i sofferenti. E al tempo stesso lo abbiamo sentito affermare: «Non è sufficiente costituire una fondazione per aiutare tutti, né fare tante cose buone per aiutarli. Tutto questo è importante, ma sarebbe solo un comportamento da filantropi». 

Dal suo comportamento, dal modo con cui si avvicina agli ultimi, si coglie perciò in maniera immediata che tutto questo non lo fa perché è il suo ‘mestiere’, perché rientra nelle competenze che il senso comune assegna in maniera quasi automatica alla compagine ecclesiale. Nel modo in cui insiste ad abbracciare le piaghe di Cristo, Francesco spiazza quanti imputano alla Chiesa il mero assistenzialismo e spiazza quanti l’accusano di pauperismo. Nel richiamo insistente di papa Francesco si avverte un rovesciamento che lascia intravedere il cuore ultimo del mistero della carità, imparagonabile a qualsiasi generosità, a qualsiasi filantropia. In questa prospettiva, autenticamente cristiana, la Chiesa non pone l’accento sul proprio portare ma è chiamata ad andare e toccare e curare le piaghe dei poveri perché nel piegarsi, nel chinarsi sul povero riceve, riceve essa stessa la Grazia che la fa vivere: «Quando si tocca la carne di Cristo sofferente – dice Bergoglio – può accadere che si sprigioni nei nostri cuori la speranza. È lì che possiamo ricevere la Grazia». Per questo uscire e farsi incontro ai poveri per la Chiesa è vitale. Vuol dire lasciarsi incontrare da Cristo stesso.

«Anche la vita di Francesco d’Assisi è cambiata quando ha abbracciato il lebbroso perché ha toccato il Dio vivo. Lo stesso apostolo Tommaso – ha detto papa Francesco nell’omelia del 3 luglio scorso a Santa Marta – per trovare Dio ha dovuto mettere il dito nelle piaghe, mettere la mano nel suo costato. Questo è il cammino. Non ce n’è un altro». 

Ed è quello che lo porta oggi, che conduce adesso Francesco nell’ultima isola del Mare Nostrum a mendicare Cristo, a ricevere Cristo, a ricevere la speranza: «Allo Spirito – ha scritto – si può chiedere che risvegli in noi quella particolare sensibilità che ci fa scoprire Gesù nella carne dei nostri fratelli più poveri, più bisognosi, trattati più ingiustamente perché quando ci avviciniamo alla carne sofferente di Cristo, quando ci facciamo carico di essa, solo allora, solo allora può accendersi nei nostri cuori la speranza, quella speranza che è vita e che il nostro mondo disincantato richiede ai cristiani».

 
Stefania Falasca in Avvenire del 7/7/2013
 

Lampedusa, Papa: “Cultura del benessere porta a globalizzazione dell’indifferenza”

Durante l’omelia della messa al campo sportivo dell’isola, Papa Bergoglio ha attaccato duramente l’atteggiamento disinteressato della gente di fronte alla tragedia dei migranti morti in mare nel tentativo di raggiungere le coste italiane

di Francesco Antonio Grana | 8 luglio 2013

Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno. Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io”. La condanna di Papa Francescoall’indifferenza davanti alla tragedia degli immigrati morti in mare è arrivata puntuale e durissima, stamane, nell’omelia della messa celebrata a Lampedusa, nel suo primo viaggio apostolico. “Oggi – ha affermato il Papa – nessuno si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella parabola del buon samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo ‘poverino’, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, – ha aggiunto Francesco – ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro. Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti ‘innominati’, responsabili senza nome e senza volto”. 

Francesco ha incalzato tutti i presenti con un esame di coscienza collettivo. “Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società – ha spiegato il Papa – che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’: la globalizzazione dell’indifferenza”. Un vero e proprio mea culpa quello pronunciato a Lampedusa da Francesco. “Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito”. “Domandiamo al Signore – è la preghiera del Papa – la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo”.

Francesco ha voluto esprimere anche “gratitudine” e “incoraggiamento” agli abitanti di LampedusaLinosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza che hanno mostrato attenzione agli immigranti. “Voi – ha detto loro il Papa – siete una piccola realtà, ma offrite un esempio disolidarietà“. Un altro pensiero di gratitudine Bergoglio lo ha rivolto ai “cari immigrati musulmani che stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa – ha detto loro – vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie”.

Per un giorno un’anonima Fiat Campagnola targata 081268 MI, offerta da un milanese che da vent’anni è di casa a Lampedusa, è diventata la celebra papamobile SCV1. Nelle mani di Papa Francesco, del Pontefice argentino che vuole “una Chiesa povera e per i poveri” e che da arcivescovo di Buenos Aires celebrava spesso messe in strada con gli ultimi della sua grande diocesi, un calice e una croce astile realizzati con il legno dei barconi che trasportano a Lampedusa migliaia di immigrati. Ma molto spesso trovano la morte durante il lungo viaggio della speranza prima di arrivare alla “Porta d’Europa“. Dal 1999 al 2012 nell’isola siciliana sono sbarcate 200mila persone. Dall’inizio del 2013 a oggi gli arrivi sono stati 4mila.

“Il Papa è andato a Lampedusa per piangere i morti”, ha spiegato ai giornalisti il suo segretario particolare, il maltese monsignor Alfred Xuereb. Francesco, infatti, profondamente toccato dal recente naufragio di un’imbarcazione che trasportava migranti provenienti dall’Africa, ultimo di una serie di analoghe tragedie, ha voluto pregare per coloro che hanno perso la vita in mare, visitare i superstiti e i profughi presenti, incoraggiare gli abitanti dell’isola e fare appello alla responsabilità di tutti affinché ci si prenda cura di questi fratelli e sorelle in estremo bisogno. “Quando alcune settimane fa – ha confidato ai presenti Bergoglio – ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto divicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta”.

Una visita discreta senza i vescovi della Sicilia e i rappresentati del Governo italiano: è lo stile di Francesco che vuole davvero abbracciare gli ultimi. Nella sua vita Bergoglio non aveva mai messo piede in Sicilia. “Conosco la vostra isola – aveva confidato qualche settimana fa ai vescovi della Regione – solo attraverso il film Kaos dei fratelli Taviani“. Non è un caso, dunque, se Francesco ha voluto che fosse Lampedusa il suo primo viaggio da Papa. Un segno che nel suo pontificato gli ultimi saranno davvero primi.

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Deuteronomio 30,10-14

Mosè parlò al popolo dicendo: «Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».

 

Ancora una volta è necessario retrocedere nella lettura per comprendere meglio il senso della pericope proposta nella liturgia. Bisogna leggere il v.6 dello stesso capitolo: «Il Signore tuo Dio circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva».

     A questa formula si ricollega il v 10 che apre la lettura e che richiede di convertirsi al Signore «con tutto il cuore e con tutta l’anima». La medesima formula ricorre in 6,5 ripresa nel vangelo come primo comandamento da osservare. Si tratta di un pensiero fondamentale sul quale il libro del Deuteronomio ricorre più volte insistendo sull’amore integrale a Dio in 10,12; 11,13; 13,3. In 26,16 invece lo stesso formulario viene usato per parlare dell’osservanza dei comandamenti di Dio e in 30,2 della conversione al Signore da attuare sempre «con tutto il cuore e con tutta l’anima». Potremmo così dire che la pericope che stiamo commentando assume un ruolo riassuntivo del messaggio del libro. È l’ultima volta che ricorre la formula appena ricordata prima: «con tutto il cuore e con tutta l’anima».

     Il nostro brano vuole persuadere il lettore circa la praticabilità di quanto ha letto nell’intera opera. Il messaggio è impegnativo perché totalizzante, ma la pretesa radicale della teologia deuteronomista non rimane una utopia; è traducibile in vita. Il cielo era un punto inarrivabile per l’uomo di allora e il mare per un popolo come Israele estraneo alla navigazione, era inaccessibile. Le immagini servono per dire che non esistono barriere insormontabili tra la parola di Dio e il cuore umano. L’interiorizzazione della parola e dei precetti divini è un altro tema assai caro al Deuteronomio: 6,6; 11,18. Forse l’autore si aspetta che sia già stato attuato l’invito di Dio? Sarebbe ingenuo rispondere di sì. Il profeta Geremia non estraneo alla teologia deuteronomista dirà chiaramente che questo non può avvenire che per dono divino: Ger 31,31-34. Anche il profeta Ezechiele annuncia la promessa della interiorizzazione della legge come dono concesso da Dio: 11,19-20; 36,27. Siamo dunque con il brano in questione agli albori di una tradizione che porterà alle prospettive profetiche appena ricordate? Non è facile rispondere. Bisognerà accontentarsi soltanto di accogliere questa affermazione della presenza interiore della parola di cui la pericope non ci dice con chiarezza a chi attribuirla. L’unica cosa che per ora interessa all’autore è evitare al suo lettore la tentazione di ritenere il suo messaggio impraticabile, mentre invece è una realtà già misteriosamente presente in lui. San Paolo riprenderà il contenuto di questa lettura in Rm 10,6-8.

 

Seconda lettura: Colossesi 1,15-20 

Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

 

Il noto inno cristologico che viene proposto oggi come seconda lettura è molto probabilmente di composizione anteriore alla lettera cui appartiene. Può essere una testimonianza della liturgia della comunità della chiesa apostolica, un testo noto ai colossesi che può così diventare ottimo strumento di catechesi. La sua posizione iniziale nella lettera pertanto non vuole essere semplicemente celebrativa, ma fondante il messaggio teologico che l’autore darà nel suo scritto.

     L’inno è facilmente divisibile in due parti: i vv. 15-17 illustrano il rapporto esistente tra Cristo e il creato, Egli viene presentato qui come il mediatore della creazione. Nei vv. 18-20 viene presentato il ruolo di Cristo in merito alla redenzione umana.

     La prima parola con la quale Cristo viene indicato è «immagine». Per capirne il senso in modo pertinente bisognerebbe ricollocarsi nella cultura ellenistica secondo la quale l’immagine, pur restando distinta dal suo archetipo, ne costituiva una manifestazione reale. In termini semplici si può dire che la relazione tra immagine e realtà rappresentata era assai più stretto che non nella nostra cultura. Eb 1,3 che definisce Gesù rispetto al Padre come «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» costituisce una resa scritturistica di quanto è appena stato detto. Si vede così come Gesù sia una immagine assolutamente nitida di Dio, che lo rende visibile in modo chiaro; distinto dal Padre, ma sua riproduzione fedelissima. Il Dio che Gesù ci presenta era prima caratterizzato dall’invisibilità: 1Tim 1,17; 6,16; Gv 1,18; 6,46; 1Gv 4,12. Ora c’è una svolta decisiva perché nel Figlio il Padre si rende visibile: Gv 1,18; 14,9. A dire il vero esisteva già nell’ordine del creato un’immagine di Dio, era l’uomo stesso come dice bene Gn 1,26-27, convinzione che riecheggia in 1Cor 11,7; Col 3,10.

     Si tratta di una immagine che non si colloca sul piano dell’identità, né su quella dell’approssimazione. Un’immagine tuttavia insufficiente per una piena conoscenza di Dio e per la scoperta del progetto autentico del creato. Gesù, apparso in forma umana (cf. Fil 2,27), assolve entrambe i compiti: rendere visibile il Padre e comprensibile il progetto creatore.

     Egli è lo strumento della creazione, pensiero che Paolo aveva già manifestato in 1Cor 8,6 e che ritroviamo come convinzione della comunità apostolica anche in Gv 1,3 e Eb 1,2. Soprattutto Gesù è il fine per il quale il mondo viene creato. L’inno svela così che fin dall’inizio vi è un obiettivo positivo dal momento che tutto viene creato in vista di Cristo. Il modello che il Padre ha davanti a sé nella creazione del mondo e dell’uomo è il suo unigenito; e il fatto che il Padre dia al Figlio questa attenzione nella progettazione del creato fa sì che Cristo non sia più solo «l’unigenito», ma diventi anche «il primogenito» come sottolineano i vv. 17-18. Il primo si colloca ancora semplicemente nell’ordine creaturale, il secondo ormai nell’ordine nuovo stabilito da Cristo con la sua risurrezione. Vi è dunque per Cristo un primato antecedente e uno conseguente. Il suo primato antecedente (vv. 15.17) sta nel fatto che viene scelto dal Padre come modello e strumento del creato; il suo primato conseguente invece nel fatto che la sua risurrezione inaugura la sua signoria universale sull’umanità rigenerata dal suo mistero pasquale. Tutto questo, come dice il v. 19 appartiene alla volontà di Dio. Il verbo «piacere» indica infatti le decisioni di Dio in merito al piano salvifico (Mt 11,26; Lc 10,21; 12,32; 1Col 1,21). La volontà del Padre ha poi un contenuto ancora più preciso: stabilire in Cristo ogni pienezza. In 2,9 si dirà che «in Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità». È una spiegazione esaustiva. La pienezza di Cristo è pienezza di vita che si partecipa al creato in quanto vi è in lui pienezza di divinità. Il v. 20 ci riporta sul piano storico per mostrarci come si è consumata l’opera di Gesù.

     Dopo i termini grandi e speculativi ne troviamo ora due concretissimi e cruenti: sangue e croce. Sono le modalità reali in cui la riconciliazione si è consumata rendendo Cristo sintesi vitale e vivificante. Come esisteva un orizzonte universale per la mediazione creatrice, esiste anche un ordine universale ed ultraterreno per l’efficacia redentrice. Il raggio universale dell’opera realizzata da Gesù mediante la croce e chiamata riconciliazione è un tema caro all’innografia cristiana originaria come attesta anche la lettera agli Efesini: 1,10; 2,14.16.

 

Vangelo: Luca 10,25-37

 In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Esegesi 

     Il brano a nostra disposizione si divide chiaramente in due parti. La prima occupa i vv. 25-28 e si concentra sulla necessità di mettere a fuoco le cose più importanti da fare per avere la vita eterna. La seconda parte occupa i vv. 29-39 per spiegare in un modo concretissimo la focalizzazione dell’unità precedente.

     I vv. 25-28 trovano un parallelo in Mt 22,34-40 e Mc 12,28-31. In quei due passaggi si sente però il sapore di una disputa tra scuole teologiche, la necessità di trovare nell’oceano di una precettistica sofisticata almeno l’essenziale. Siamo nell’ambito di un orientamento teorico in cui la parola di Gesù diventa decisiva. È lui infatti a dare la risposta che combina

insieme i due comandamenti presi rispettivamente da Dt 6,5 quello che riguarda l’amore a Dio e (Lv 19,18) quello che riguarda l’amore al prossimo. Il testo di Luca propone differenze evidenti. La preoccupazione del dottore della legge, che come in Mt mantiene uno scopo polemico, insidioso, non è sul piano teorico, ma pratico. Abbiamo qui la medesima domanda che si ritroverà in 18,18, posta in quella occasione dal ricco che ha pure lui la preoccupazione di «ereditare la vita eterna». Questa domanda prende pertanto in Lc un rilievo notevole; la preoccupazione concreta per quanto è necessario fare per avere la salvezza interessa il terzo evangelista in un modo particolare. Sul «fare» insiste la domanda del dottore (v. 25), la prima risposta di Gesù (v. 25) e l’ultima (v. 37). La risposta alla domanda centrale però non viene formulata da Gesù. Egli la gira al dottore della legge ed è lui stesso a combinare insieme Dt 6,5 e Lv 19,18 praticamente in un comandamento unico. Mentre in Matteo e Marco si ha una precedenza chiara del comandamento dell’amore di Dio rispetto a quello del prossimo stabilendo un parallelismo (Mt 22,39) o una subordinazione (Mc 12,31), in Luca è risultata una indicazione sola, praticamente un unico inscindibile comandamento. Abbiamo già detto che non è Gesù a dare la risposta; ma va notato bene a quale fonte egli rimandi il suo interlocutore perché sia lui stesso a formularla: la legge. Gli scritti di Mosè pertanto conservano ancora secondo Gesù il loro valore di indicazione valida della volontà salvifica di Dio.

     L’amore per Dio è totalizzante, nessuna dimensione della persona umana ne è esclusa. Rispetto alla versione originale di Dt 5,6 Luca aggiunge qui anche la mente per sottolineare ancora di più l’impegno dell’uomo nell’amore di Dio. Per l’amore al prossimo si propone invece come termine di paragone l’amore a se stessi. Non si tratta di pensare all’egoismo che ognuno porta in sé o all’istinto di conservazione innato in ciascuno; si tratterebbe di un confronto negativo. Anche se le seguenti osservazioni probabilmente non sono nell’intenzione dell’autore del libro del Levitico, credo però che siano opportune. Il soggetto dell’amore vero è colui che ha con se stesso un rapporto sereno, armonioso. La conoscenza e l’accettazione di sé stanno alla base di un rapporto con gli altri veramente amorevole. Amare gli altri come se stessi non significa dunque condividere con gli altri il proprio egoismo, ma partecipare loro la propria serenità e la propria gioia di vivere.

     Un problema ora è decisivo: questo prossimo chi è? La domanda è ineludibile per quanto segue. Nella mentalità comune al tempo di Gesù il prossimo era il membro dello stesso popolo, per gli esseni addirittura solo gli appartenenti alla loro setta. La visione del prossimo era dunque assai limitata. La parabola farà saltare un simile modo di intenderla.

     I vv. 30-37 raccontano la notissima parabola che Gesù offre come risposta concreta al quesito iniziale: che fare per salvarsi? Si tratta di un caso umano presentato con grande realismo ed efficacia. La strada da Gerusalemme a Gerico, effettivamente conosciuta da Gesù (cf. Lc 18,35,19,1.28) è davvero un luogo adatto a simili fatti di cronaca. Una rapina lungo la strada lascia la vittima al bordo della medesima; a distanza non si può fare una diagnosi precisa delle sue condizioni. Per questo motivo il sacerdote, ministro qualificato del culto, e un levita, ministro di grado inferiore addetto all’ordine del tempio, non osano neanche avvicinarsi. Nell’eventualità che il malcapitato fosse morto essi sarebbero tagliati fuori dalle loro funzioni in base alle leggi di purità cultuale (Lv 21; Nm 19,11). Il soccorso a quella persona è dunque per loro un rischio che non si può correre, pena l’esclusione dalle loro mansioni professionali. Su questa linea si potrebbe notare nell’insegnamento di Gesù una nota polemica nei confronti del culto e il desiderio di superarne la formalità come già insegnavano i profeti: Os 6,6.

     Al v. 33 arriva la vera sorpresa. Il soggetto scelto per il soccorso, per la buona azione è un personaggio che l’ascoltatore di Gesù non avrebbe nominato se non per biasimarlo, rinfacciargli la sua razza bastarda (cf. 1Re 17,24-41), il suo essere eretico e scismatico (Gv 4,20). Gesù invece l’ha scelto come soggetto di un verbo delicatissimo: «ne ebbe compassione». Di questo verbo è soggetto Gesù stesso in 7,13; 15,20. Nessun ribrezzo per Gesù dunque ad identificarsi con un samaritano. Già questo è il primo atteggiamento da notare. La parabola insegnerà l’abolizione di qualsiasi barriera nei rapporti interpersonali, ma insegnando questo Gesù non farà altro che rivelare il suo cuore ed il suo stile (cf. 6,36; 15,1-3).

     I vv. 34-35 vanno letti non come cronaca, ma come completamento dei sentimenti notati prima nel samaritano. Egli non è solo capace di compassione, è capace di renderla autentica con gesti concreti, a proprie spese. Senza questa complementarietà operativa non si potrebbe parlare di misericordia. 

     Al v. 36 tocca allo stesso dottore della legge tirare la conclusione; ciò fa parte del metodo parabolico di Gesù (cf. Mt 21,28-31) e in un certo senso si riallaccia alla prima parte del brano dove era toccato ancora a lui dare la risposta al suo interrogativo.

     Il v. 37 è l’apice del brano e la risposta definitiva che trova il suo fulcro in quel «fa’». Così si capisce che per entrare nella vita eterna non c’è che una cosa da fare: vivere un amore autentico e fattivo per tutti, per qualsiasi persona, in una parola riprodurre nella propria vita l’amore senza esclusioni di Gesù.

 

Meditazione 

     «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono lasciandolo mezzo morto… Un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,30.33). Su di una strada due uomini si incontrano occasionalmente: uno è ferito, «mezzo morto», l’altro è uno straniero che sa vedere la sofferenza del fratello e farsi prossimo. Su di una strada, casualmente, a due uomini viene data la possibilità di obbedire al grande comandamento che è al cuore della Legge: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27; cfr. Dt 6,5 e Lv 19,18). Obbedire alla parola del Signore «osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge» (Dt 30,10) è dare carne, nella vita e nelle relazioni, a questa parola perché essa «è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14): questo è il messaggio che ci viene consegnato dalla liturgia della Parola di questa domenica.

     La forte dimensione di operatività, di vita, di concretezza, di obbedienza alla parola è tradotta attraverso il racconto parabolico con cui Gesù risponde ad alcuni interrogativi posti da uno scriba. È un racconto che termina proprio con questa affermazione: «Va’ e anche tu fa ‘così» (v. 37).

     Il dialogo tra lo scriba e Gesù, riportato in Lc 10,25-29, prende avvio da una domanda posta dallo scriba: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25). Ereditare la vita è ciò che sta a cuore a quello scriba. Ma quale vita cercare e come orientare ad essa tutto il cammino? La risposta di Gesù allo scriba è un’altra domanda che orienta alla Parola per eccellenza, la Torà: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (v. 26). E lo scriba stesso può trovare una risposta al suo desiderio di vita: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27). Nell’ascolto della Parola, di quella Parola che è spirito e vita, lo scriba stesso ha trovato una risposta al suo desiderio di vita. Gesù ha fatto emergere dal cuore di quell’uomo il bisogno più profondo e il desiderio più autentico che è nascosto in ogni uomo: quello di una vita che è dono, quello di una vita che apre alla eternità. Con la pedagogia sapiente del padre nello spirito, Gesù non ha risposto allo scriba offrendogli qualcosa di esterno a lui; l’ha semplicemente invitato a mettersi in ascolto della Parola e a scoprire che proprio la Parola traduceva quel desiderio di vita che era in lui. E veramente è questa la Parola che sta alla radice del nostro agire e del nostro essere, la Parola che sa unificare tutta la complessità della nostra esistenza (cuore, anima forze, mente), che sa orientare tutte le nostre potenzialità verso l’infinito (Dio stesso) e sa renderle vere attraverso la mediazione della nostra carne (il fratello). «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» (v. 28), è la semplice constatazione di Gesù. La vita passa attraverso un fare questa precisa Parola e questa Parola è veramente tutto. È il ‘grande comandamento’: grande perché al di sopra di esso non c’è nulla; grande perché ci supera; grande perché è il nome stesso di Dio (cfr. Dt 6, 4-9).

     Il dialogo tra lo scriba e Gesù avrebbe potuto terminare con questo rimando alla vita: «fa’ questo e vivrai». Ma lo scriba «volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico… Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo…”» (vv. 29.36). Lo scriba pone quella domanda a Gesù per giustificarsi: fa fatica a riconoscere che non sa amare e preferisce spostare il problema al di fuori di sé. Gesù gli pone sotto gli occhi un uomo che sa amare, obbligandolo a ricollocare nuovamente la domanda dentro di sé: non è questione di chi si deve amare, ma di come si deve amare. Il samaritano è un modello di amore e da lui quello scriba deve imparare. E sotto le spoglie del samaritano c’è Gesù stesso, il ‘buon samaritano’ per eccellenza. È da lui che quello scriba deve imparare ad amare.

     La parabola narrata da Gesù allo scriba non ha bisogno di una spiegazione; attorno ad essa non dobbiamo costruire teorie o riflessioni teologiche sofisticate (cadremmo nel tranello che la domanda dello scriba tentava di porre a Gesù). È un racconto esemplare in quanto propone un comportamento da imitare; «non va trasposta da un piano all’altro, da quello figurato a quello religioso, poiché è già essa stessa su quello religioso» (B. Maggioni). Di fronte a questa parabola, che ci presenta una situazione concreta e tutt’altro che ideale, dobbiamo semplicemente seguire l’esempio del samaritano, quell’esempio che Gesù pone di fronte allo scriba dicendo: «Va e anche tu fa’ così» (v. 37). L’atteggiamento corretto di fronte a questa parabola è proprio questo: dopo averla ascoltata, non c’è altro da fare che riprendere il cammino e fare ogni giorno, a partire dalle situazioni concrete che la vita ci fa incontrare, quello che ha fatto il samaritano: «passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino… lo caricò sopra la sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (v. 34). Ciò che il samaritano ci insegna a fare è nient’altro che amare, vivere quella compassione che ci apre senza riserve e senza difese all’altro e che fa entrare l’altro nel profondo del nostro cuore, come un dono prezioso da custodire e di cui prendersi cura. Questo è il segreto della parabola che Gesù ci racconta. Ogni domanda in più è nient’altro che un tentativo di frenarci o di rimandare quello che la parola di Dio ci chiede di fare, non è nient’altro che un tentativo di giustificarci e nasconderci dietro a riserve e paure: «ma quello volendo giustificarsi disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”» (v. 29). Il vero problema non è quello di possedere una descrizione precisa che ci permetta di identificare il nostro prossimo e poi agire con sicurezza nei suoi riguardi. In un certo senso il volto del prossimo deve avere sempre i tratti indefiniti e imprevisti della gratuità; il prossimo è sempre l’altro che ‘per caso’ incontro sul

mio cammino, sul ciglio della strada, l’altro che non conosco che mi appare lontano e che, così diverso da me, forse non mi da immediatamente sicurezza. Il prossimo è ogni uomo che chiede proprio a me un gesto e una parola di vita. Il vero problema è che io devo farmi prossimo proprio di quest’uomo, concreto, non di un altro e devo farmi prossimo passandogli accanto, vedendolo, fasciandogli le ferite, prendendomi cura di lui: il vero problema è avere il coraggio di diventare prossimo di ogni fratello percorrendo la via rischiosa della compassione. La vera domanda che la parabola ci suggerisce di farci ogni volta che incontriamo un uomo, così come lo ha incontrato il samaritano, non è: chi è l’altro per me, ma: chi sono io per l’altro; «chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo…?» (v. 36).

            Notiamo infine che il racconto di Gesù non parla di Dio, ma dell’uomo. Quel samaritano, nel momento in cui sceglie di compromettersi con l’uomo sofferente, non decide di far questo perché, agendo così, osserverà la legge di Dio, quella parola che lo scriba aveva ricordato a Gesù. Anzi il samaritano è uno che non conosce la legge, a differenza del sacerdote e del levita (cfr. vv. 31-32). Il samaritano agisce così semplicemente perché di fronte all’uomo sofferente, che chiede aiuto, non gli passa per la mente nessun altro atteggiamento se non quello della compassione. Ma proprio qui sta lo stupendo paradosso di que-sto atteggiamento: senza saperlo, nella più totale gratuità, il samaritano ama come ama Dio. Anzi, senza saperlo, quel samaritano ama Dio. Quel samaritano è la rivelazione della compassione di Dio verso la nostra umanità ferita e abbandonata; quel samaritano è Gesù che si china su ciascuno di noi, che fascia le nostre ferite, che si carica delle nostre sofferenze, che ci affida alla comunità, alla Chiesa per essere curati e guariti. Ed è stupendo vedere come tutto questo non ci viene detto attraverso un linguaggio religioso che forse anche il sacerdote e il levita avrebbero saputo narrare e spiegare con molta precisione (lo scriba non aveva forse dato la risposta giusta a Gesù?), ma attraverso il linguaggio della vita, dell’umanità, conosciuto solo da chi sa amare con gratuità l’altro semplicemente perché è uomo. Solo Gesù, colui che è vero Dio e vero uomo, può raccontare Dio in questo modo ed indicarci un nostro fratello in umanità come esempio da seguire. «Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa ‘così”» (v. 37).

 

Preghiere e racconti

La parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-3 7)

Al centro della storia del buon samaritano vi è la domanda fondamentale dell’uomo. t un dottore della Legge, quindi un maestro dell’esegesi, che la pone al Signore: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (10,25). Luca aggiunge che il dottore avrebbe fatto quella domanda a Gesù per metterlo alla prova. Egli personalmente, in quanto dottore della Legge, conosce la risposta che a essa dà la Bibbia, ma vuole vedere che cosa dice al riguardo quel profeta digiuno di studi biblici. Il Signore lo rimanda molto semplicemente alla Scrittura che questi, appunto, conosce e lascia che sia lui stesso a dare la risposta. Il dottore della Legge risponde con esattezza mettendo insieme Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Riguardo a questa domanda Gesù non insegna cose diverse dalla Torah, il cui intero significato è unito in questo duplice comandamento. Ora, però, quest’uomo dotto, che da sé conosce benissimo la risposta alla sua domanda, deve giustificarsi: la parola della Scrittura è indiscussa, ma come essa debba essere applicata nella pratica della vita solleva questioni che sono molto dibattute nella scuola (e anche nella vita stessa).

La domanda, nel concreto, è: chi è «il prossimo»? La risposta abituale, che poteva poggiarsi anche su testi delle Scritture, affermava che «prossimo» significava «connazionale». Il popolo costituiva una comunità solidale, in cui ognuno aveva delle responsabilità verso l’altro, in cui ogni individuo era sostenuto dall’insieme e quindi doveva considerare l’altro, «come se stesso», parte di quell’insieme che gli assegnava il suo spazio vitale. Gli stranieri allora, le persone appartenenti a un altro popolo, non erano «prossimi»? Ciò, però, andava contro la Scrittura, che esortava ad amare proprio anche gli stranieri ricordando che in Egitto Israele stesso aveva vissuto un’esistenza da forestiero. Tuttavia, dove porre i confini restava argomento di discussione. In generale si considerava appartenente alla comunità solidale e quindi «prossimo» solo lo straniero che si era stanziato nella terra d’Israele. Erano diffuse anche altre limitazioni del concetto di «prossimo». Una dichiarazione rabbinica insegnava che non bisognava considerare «prossimo» eretici, delatori e apostati (Jeremias, p. 170). Inoltre era dato per scontato che i samaritani, che a Gerusalemme, pochi anni prima (tra il 6 e il 9 dopo Cristo) avevano contaminato la piazza del tempio proprio nei giorni della Pasqua spargendovi ossa umane (Jeremias, p. 17 1), non erano «prossimi».

Alla domanda, resa in questo modo concreta, Gesù risponde con la parabola dell’uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti che lo abbandonano ai bordi della via, spogliato e mezzo morto. E’una storia assolutamente realistica, perché su quella strada assalti simili accadevano regolarmente. Passano sulla medesima strada un sacerdote e un levita – conoscitori della Legge, esperti circa la grande domanda della salvezza di cui erano al servizio per professione – e vanno oltre. Non dovevano essere necessariamente uomini particolarmente freddi; forse hanno avuto paura anche loro e hanno cercato di arrivare più presto possibile in città; forse erano maldestri e non sapevano da che parte cominciare per prestare aiuto tanto più che, comunque, sembrava che non ci fosse più molto da aiutare. Poi sopraggiunge un samaritano, probabilmente un mercante che deve percorrere spesso quel tratto di strada ed evidentemente conosce il padrone della locanda più vicina; un samaritano – quindi uno che non appartiene alla comunità solidale di Israele e non è tenuto a vedere nella persona assalita dai briganti il suo «prossimo».

Bisogna qui ricordare che, nel capitolo precedente, l’evangelista ha raccontato che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, aveva mandato avanti dei messaggeri che erano giunti in un villaggio di samaritani e volevano preparare per Lui un alloggio: «Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme» (9,52s). Infuriati, i figli del tuono – Giacomo e Giovanni – dissero allora a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Il Signore li rimproverò. Si trovò poi alloggio in un altro villaggio.

Ed ecco ora apparire il samaritano. Che cosa farà? Egli non chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà e nemmeno quali siano i meriti necessari per la vita eterna. Accade qualcos’altro: gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l’uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell’anima. «Ne ebbe compassione», traduciamo oggi indebolendo l’originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima diviene lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo. Pertanto qui la domanda è mutata: non si tratta più di stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si tratta di me stesso. lo devo diventare il prossimo, così l’altro conta per me come «me stesso».

Se la domanda fosse stata: «E’ anche il samaritano mio prossimo?», allora nella situazione data la risposta sarebbe stata un «no» piuttosto netto. Ma ecco, Gesù capovolge la questione: il samaritano, il forestiero, si fa egli stesso prossimo e mi mostra che io, a partire dal mio intimo, devo imparare l’essere-prossimo e che porto già dentro di me la risposta. Devo diventare una persona che ama, una persona il cui cuore è aperto per lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell’altro. Allora trovo il mio prossimo, o meglio: è lui a trovarmi.

Helmut Kuhn, nella sua interpretazione della parabola, va certamente oltre il senso letterale del testo e tuttavia individua correttamente la radicalità del suo messaggio quando scrive: «L’amore politico dell’amico si fonda sull’uguaglianza dei partner. La parabola simbolica del samaritano, invece, sottolinea la radicale disuguaglianza: a samaritano, che non appartiene al popolo d’Israele, sta di fronte all’altro, a un individuo anonimo, egli che aiuta di fronte alla vittima inerme dell’attacco dei briganti. L’agape, così ci fa intendere la parabola, attraversa ogni tipo di ordinamento politico in cui domina il principio del do ut des, superandolo e caratterizzandosi in questo modo come soprannaturale. Per principio essa si colloca non solo al di là di questi ordinamenti, ma si comprende anzi come il loro capovolgimento: i primi saranno ultimi (cfr. Mt 19,30). E i miti erediteranno la terra (cfr. Mt 5,5)» (p. 88s). Una cosa è evidente: si manifesta una nuova universalità, che poggia sul fatto che io intimamente già divengo fratello di tutti quelli che incontro e che hanno bisogno del mio aiuto.

L’attualità della parabola è ovvia. Se la applichiamo alle dimensioni della società globalizzata, vediamo come le popolazioni dell’Africa che si trovano derubate e saccheggiate ci riguardano da vicino. Allora vediamo quanto esse siano «prossime» a noi; vediamo che anche il nostro stile di vita, la storia in cui siamo coinvolti li ha spogliati e continua a spogliarli. In questo è compreso soprattutto il fatto che le abbiamo ferite spiritualmente. Invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Cristo, e accogliere così dalle loro tradizioni tutto ciò che è prezioso e grande e portarlo a compimento, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio, in cui contano solo il potere e il profitto; abbiamo distrutto i criteri morali così che la corruzione e una volontà di potere priva di scrupoli diventano qualcosa di ovvio. E questo non vale solo per l’Africa.

Sì, dobbiamo dare aiuti materiali e dobbiamo esaminare il nostro genere di vita. Ma diamo sempre troppo poco se diamo solo materia. E non troviamo anche intorno a noi l’uomo spogliato e martoriato? Le vittime della droga, del traffico di persone, del turismo sessuale, persone distrutte nel loro intimo, che sono vuote pur nell’abbondanza di beni materiali. Tutto ciò riguarda noi e ci chiama ad avere l’occhio e il cuore di chi è prossimo e anche il coraggio dell’amore verso il prossimo. Perché – come detto – il sacerdote e il levita passarono oltre forse più per paura che per indifferenza. Dobbiamo, a partire dal nostro intimo, imparare di nuovo il rischio della bontà; ne siamo capaci solo se diventiamo noi stessi interiormente «buoni», se siamo interiormente «prossimi» e se abbiamo poi anche lo sguardo capace di individuare quale tipo di servizio, nel nostro ambiente e nel raggio più esteso della nostra vita, è richiesto, ci è possibile e quindi ci è anche dato per incarico. 

I Padri della Chiesa hanno dato alla parabola una lettura cristologica. Qualcuno potrebbe dire: questa è allegoria, quindi un’interpretazione che allontana dal testo. Ma se consideriamo che in tutte le parabole il Signore ci vuole invitare in modi sempre diversi alla fede nel regno di Dio, quel regno che è Egli stesso, allora un’interpretazione cristologica non è mai una lettura completamente sbagliata. In un certo senso corrisponde a una potenzialità intrinseca del testo e può essere un frutto che si sviluppa dal suo seme. I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l’uomo che li giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un’immagine di «Adamo», dell’uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l’uomo, questa creatura che è l’uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell’umanità è quasi sempre vissuta nell’oppressione; e da altra angolazione: gli oppressori – sono essi forse le vere immagini dell’uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell’uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l’«alienazione» dell’uomo; anche se non ha raggiunto la vera profondità dell’alienazione, perché ragionava solo nell’ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell’uomo che è caduto vittima dei briganti.

La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell’uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell’imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall’altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus: cfr. Lc 10,30). Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell’alienazione dell’uomo. Dicevano che è spoliatus supernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua natura. Ora, questa è allegoria che certamente va molto oltre il senso della parola, ma rappresenta pur sempre un tentativo di precisare il duplice carattere del ferimento che grava sull’umanità.

La strada da Gerusalemme a Gerico appare quindi come l’immagine della storia universale; l’uomo mezzo morto sul suo ciglio è immagine dell’umanità. Il sacerdote e il levita passano oltre – da ciò che è proprio della storia, dalle sole sue culture e religioni, non giunge alcuna salvezza. Se la vittima dell’imboscata è per antonomasia l’immagine dell’umanità, allora il samaritano può solo essere l’immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. Versa olio e vino sulle nostre ferite – un gesto in cui si è vista un’immagine del dono salvifico dei sacramenti – e ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare e dona anche l’anticipo per il costo dell’assistenza.

I singoli tratti dell’allegoria, che sono diversi a seconda dei Padri, possiamo lasciarli serenamente da parte. Ma la grande visione dell’uomo che giace alienato e inerme ai bordi della strada della storia e di Dio stesso, che in Gesù Cristo è diventato il suo prossimo, la possiamo tranquillamente fissare nella memoria come una dimensione profonda della parabola che riguarda noi stessi. Il possente imperativo contenuto nella parabola non ne viene infatti indebolito, ma è anzi condotto alla sua intera grandezza. Il grande tema dell’amore, che è l’autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza. Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell’amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano. Abbiamo sempre bisogno di Dio che si fa nostro prossimo, per poter diventare a nostra volta prossimi.

Le due figure, di cui abbiamo parlato, riguardano ogni singolo uomo: ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall’amore (che è appunto l’essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono. Ma poi ogni persona deve anche diventare samaritano – seguire Cristo e diventare come Lui. Allora viviamo in modo giusto. Allora amiamo in modo giusto, se diventiamo simili a Lui, che ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4,19).

(Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, capitolo 7: il messaggio delle parabole, 219-256).

Cos’è la sconfitta?

“Nel ciclo della natura, non esistono né vittoria né sconfitta: esiste solo il moto del cambiamento.

“L’inverno lotta per imporre il suo regno ma, alla fine, è costretto ad accettare la vittoria della primavera, che porta fiori e allegrezza.

“L’estate cerca di estendere il dominio dei suoi giorni caldi, giacché è convinta che il calore sia un elemento benefico per le genti. Ma finisce per piegarsi all’arrivo dell’autunno, che regala un meritato riposo alla terra.

“La gazzella si nutre di arbusti ma, contemporaneamente, è il cibo del leone. Non si tratta di una questione di forza o di scaltrezza, bensì del modo in cui Dio ha scelto di mostrarci il ciclo della morte e della resurrezione.

“In questo ciclo non ci sono vincitori né vinti, ma soltanto fasi che devono compiersi. Allorché il cuore dell’essere umano comprende un simile meccanismo, può dirsi libero: accetta senza afflizione i periodi difficili, e non si lascia trarre in inganno dai momenti di gloria.

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 25-26)

Preghiera

Signore, quando ho fame,

dammi qualcuno che ha bisogno di cibo;

quando ho sete,

mandami qualcuno

che ha bisogno di una bevanda;

quando ho freddo,

mandami qualcuno da scaldare;

quando ho un dispiacere,

offrimi qualcuno da consolare;

quando la mia croce diventa pensate,

fammi condividere la croce di un altro;

quando sono nell’indigenza,

guidami da qualcuno nel bisogno;

quando non ho tempo,

dammi qualcuno

che io possa aiutare per qualche momento;

quando sono umiliato,

fa’ che io abbia qualcuno da lodare;

quando sono scoraggiato,

mandami qualcuno da incoraggiare;

quando ho bisogno

della comprensione degli altri,

dammi qualcuno che ha bisogno della mia;

quando ho bisogno

che un altro si occupi di me,

mandami qualcuno di cui occuparmi;

quando penso solo a me stesso,

attira la mia attenzione su un’altra persona.

E così avrò la vita eterna, la vita della carità.

(beata Teresa di Calcutta).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XV DOM TEMP ORD (C)

Credere, bene per tutti la fede è luce al servizio del mondo

Chi crede, vede. E non è mai solo. Perché la fede è un bene comune che aiuta a distinguere il bene dal male, a edificare le nostre società, e dona speranza. Non ci separa dalla realtà, la fede: al contrario, ci aiuta a coglierne il significato più profondo, e scoprire così l’intensità dell’amore di Dio per questo mondo. A consegnarci questo messaggio è la Lumen fidei, «La luce della fede», prima enciclica di papa Francesco, vero e proprio ponte tra questo pontificato appena iniziato e quello di Benedetto XVI, che aveva consegnato al suo successore la prima stesura di questo testo, che Francesco ha ripreso e completato, decidendo di pubblicarlo non alla fine, ma nel cuore dell’Anno della fede. Un testo, come ha sottolineato il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, monsignor Gerhard Müller, presentando ieri mattina l’enciclica nella Sala stampa della Santa Sede, in cui quel che immediatamente risalta, pur nelle «evidenti differenze di stile, di sensibilità e di accenti», è «la sostanziale continuità del messaggio di papa Francesco con il magistero di Benedetto XVI», a offrirci «uno sguardo comunque positivo sul mondo e sull’agire dell’uomo».

Nella Lumen fidei insomma, c’è «molto di Benedetto XVI ma c’è tutto di papa Francesco, che ha assunto il testo nel suo ruolo di primo testimone della fede», ha osservato a sua volta il prefetto della Congregazione per i vescovi, il cardinale Marc Ouellet. Per questo, ha spiegato, il testo è dunque «da considerarsi tutto di papa Francesco». Del resto, ha chiosato ancora Müller, «non abbiamo due papi ma uno solo. Da Benedetto c’è stata solo una preparazione». E, a ribadire tale concetto, il prefetto del Dicastero dottrinale della Santa Sede ha sottolineato come «nelle meditazioni che offre quotidianamente attraverso la sua predicazione, Francesco spesso ci richiama che “tutto è grazia”. Tale affermazione che, di fronte alla complessità e alle contraddizioni della vita, può sembrare a qualcuno ingenua o astratta, è invece un invito a riconoscere la positività ultima della realtà». Con tutto questo, ha concluso Müller, «l’enciclica vuole riaffermare in modo nuovo che la fede in Gesù Cristo “è un bene per l’uomo ed è un bene per tutti, è un bene comune: la sua luce non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell’aldilà; essa ci aiuta ad edificare le nostre società, in modo che camminiamo verso un futuro di speranza”».

La luce, ha quindi messo in evidenza monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione, «è una categoria determinante per la fede e per la vita della Chiesa. Essa ritorna con particolare efficacia in un momento come questo, spesso di forte travaglio, dovuto a una crisi di fede che per i problemi che comporta ha pochi precedenti nella nostra storia». In questo senso, ha aggiunto il presule, la Lumen fidei, «è un’enciclica con una forte connotazione pastorale. Queste pagine saranno molto utili nell’impegno che toccherà le nostre comunità per dare continuità al grande lavoro intrapreso con l’Anno della fede». Papa Francesco, ha proseguito, «con la sua sensibilità di pastore, riesce a tradurre molte questioni di carattere prettamente teologico in tematiche che possono aiutare la riflessione e la catechesi». Per questo «è importante cogliere l’invito che giunge a conclusione dell’enciclica: “Non facciamoci rubare la speranza”». Un invito che il Papa «ha ripetuto più volte in questi mesi, soprattutto rivolgendosi ai giovani e ai ragazzi», e che oggi «scrivendolo nella sua prima enciclica vuole indicare che nessuno dovrebbe avere paura di guardare ai grandi ideali e di perseguirli. La fede e l’amore sono i primi a dover essere proposti», e «in un periodo di debolezza culturale come il nostro un simile invito è una provocazione e una sfida che non possono trovarci indifferenti».

«È utile sapere – ha concluso Fisichella – che in prospettiva dell’Anno della fede si era chiesto ripetutamente a Benedetto XVI di scrivere un’enciclica che venisse in qualche modo a concludere la triade che egli aveva iniziato conDeus caritas est sull’amore, e <+corsivo>Spe salvi<+tondo> sulla speranza. Il Papa non era convinto di dover sottoporsi a questa ulteriore fatica. L’insistenza, tuttavia, ebbe la meglio e papa Benedetto decise che l’avrebbe scritta per offrirla a conclusione dell’Anno della fede. La storia ha voluto diversamente. Questa enciclica ci viene offerta oggi da papa Francesco con forte convinzione e come “programma” su come continuare a vivere questa esperienza che ha visto tutta la Chiesa impegnata per un anno intero in tante esperienze fortemente significative».

 
Salvatore Mazza

Lettera enciclica “Lumen Fidei” di Papa Francesco

LETTERA ENCICLICA
LUMEN FIDEI 
DEL SOMMO PONTEFICE
FRANCESCO
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULLA FEDE

 

1. La luce della fede: con quest’espressione, la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù, il quale, nel Vangelo di Giovanni, così si presenta: « Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » (Gv 12,46). Anche san Paolo si esprime in questi termini: « E Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulge nei nostri cuori » (2 Cor 4,6). Nel mondo pagano, affamato di luce, si era sviluppato il culto al dio Sole, Sol invictus, invocato nel suo sorgere. Anche se il sole rinasceva ogni giorno, si capiva bene che era incapace di irradiare la sua luce sull’intera esistenza dell’uomo. Il sole, infatti, non illumina tutto il reale, il suo raggio è incapace di arrivare fino all’ombra della morte, là dove l’occhio umano si chiude alla sua luce. « Per la sua fede nel sole — afferma san Giustino Martire — non si è mai visto nessuno pronto a morire ».[1] Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, « i cui raggi donano la vita ».[2] A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: « Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio? » (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta.

Una luce illusoria?

2. Eppure, parlando di questa luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo « nuove vie…, nell’incertezza del procedere autonomo ». E aggiungeva: « A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga ».[3] Il credere si opporrebbe al cercare. A partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani.

3. In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione.

Una luce da riscoprire

4. È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una “favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla”.[4] Proprio di questa luce della fede vorrei parlare, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce.

5. Il Signore, prima della sua passione, assicurava a Pietro: « Ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno » (Lc 22,32). Poi gli ha chiesto di “confermare i fratelli” in quella stessa fede. Consapevole del compito affidato al Successore di Pietro, Benedetto XVI ha voluto indire quest’Anno della fede, un tempo di grazia che ci sta aiutando a sentire la grande gioia di credere, a ravvivare la percezione dell’ampiezza di orizzonti che la fede dischiude, per confessarla nella sua unità e integrità, fedeli alla memoria del Signore, sostenuti dalla sua presenza e dall’azione dello Spirito Santo. La convinzione di una fede che fa grande e piena la vita, centrata su Cristo e sulla forza della sua grazia, animava la missione dei primi cristiani. Negli Atti dei martiri leggiamo questo dialogo tra il prefetto romano Rustico e il cristiano Gerace: « Dove sono i tuoi genitori? », chiedeva il giudice al martire, e questi rispose: « Nostro vero padre è Cristo, e nostra madre la fede in Lui ».[5] Per quei cristiani la fede, in quanto incontro con il Dio vivente manifestato in Cristo, era una “madre”, perché li faceva venire alla luce, generava in essi la vita divina, una nuova esperienza, una visione luminosa dell’esistenza per cui si era pronti a dare testimonianza pubblica fino alla fine.

6. L’Anno della fede ha avuto inizio nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Questa coincidenza ci consente di vedere che il Vaticano II è stato un Concilio sulla fede,[6] in quanto ci ha invitato a rimettere al centro della nostra vita ecclesiale e personale il primato di Dio in Cristo. La Chiesa, infatti, non presuppone mai la fede come un fatto scontato, ma sa che questo dono di Dio deve essere nutrito e rafforzato, perché continui a guidare il suo cammino. Il Concilio Vaticano II ha fatto brillare la fede all’interno dell’esperienza umana, percorrendo così le vie dell’uomo contemporaneo. In questo modo è apparso come la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte le sue dimensioni.

 

7. Queste considerazioni sulla fede — in continuità con tutto quello che il Magistero della Chiesa ha pronunciato circa questa virtù teologale[7] —,intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi. Il Successore di Pietro, ieri, oggi e domani, è infatti sempre chiamato a “confermare i fratelli” in quell’incommensurabile tesoro della fede che Dio dona come luce sulla strada di ogni uomo.

Nella fede, dono di Dio, virtù soprannaturale da Lui infusa, riconosciamo che un grande Amore ci è stato offerto, che una Parola buona ci è stata rivolta e che, accogliendo questa Parola, che è Gesù Cristo, Parola incarnata, lo Spirito Santo ci trasforma, illumina il cammino del futuro, e fa crescere in noi le ali della speranza per percorrerlo con gioia. Fede, speranza e carità costituiscono, in un mirabile intreccio, il dinamismo dell’esistenza cristiana verso la comunione piena con Dio. Com’è questa via che la fede schiude davanti a noi? Da dove viene la sua luce potente che consente di illuminare il cammino di una vita riuscita e feconda, piena di frutto?

 

CAPITOLO PRIMO

ABBIAMO CREDUTO ALL’AMORE 
(cfr 1 Gv 4,16)

 

Abramo, nostro padre nella fede

8. La fede ci apre il cammino e accompagna i nostri passi nella storia. È per questo che, se vogliamo capire che cosa è la fede, dobbiamo raccontare il suo percorso, la via degli uomini credenti, testimoniata in primo luogo nell’Antico Testamento. Un posto singolare appartiene ad Abramo, nostro padre nella fede. Nella sua vita accade un fatto sconvolgente: Dio gli rivolge la Parola, si rivela come un Dio che parla e che lo chiama per nome. La fede è legata all’ascolto. Abramo non vede Dio, ma sente la sua voce. In questo modo la fede assume un carattere personale. Dio risulta così non il Dio di un luogo, e neanche il Dio legato a un tempo sacro specifico, ma il Dio di una persona, il Dio appunto di Abramo, Isacco e Giacobbe, capace di entrare in contatto con l’uomo e di stabilire con lui un’alleanza. La fede è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome.

9. Ciò che questa Parola dice ad Abramo consiste in una chiamata e in una promessa. È prima di tutto chiamata ad uscire dalla propria terra, invito ad aprirsi a una vita nuova, inizio di un esodo che lo incammina verso un futuro inatteso. La visione che la fede darà ad Abramo sarà sempre congiunta a questo passo in avanti da compiere: la fede “vede” nella misura in cui cammina, in cui entra nello spazio aperto dalla Parola di Dio. Questa Parola contiene inoltre una promessa: la tua discendenza sarà numerosa, sarai padre di un grande popolo (cfrGen 13,16; 15,5; 22,17). È vero che, in quanto risposta a una Parola che precede, la fede di Abramo sarà sempre un atto di memoria. Tuttavia questa memoria non fissa nel passato ma, essendo memoria di una promessa, diventa capace di aprire al futuro, di illuminare i passi lungo la via. Si vede così come la fede, in quanto memoria del futuro, memoria futuri, sia strettamente legata alla speranza.

10. Quello che viene chiesto ad Abramo è di affidarsi a questa Parola. La fede capisce che la parola, una realtà apparentemente effimera e passeggera, quando è pronunciata dal Dio fedele diventa quanto di più sicuro e di più incrollabile possa esistere, ciò che rende possibile la continui-tà del nostro cammino nel tempo. La fede accoglie questa Parola come roccia sicura sulla quale si può costruire con solide fondamenta. Per questo nella Bibbia la fede è indicata con la parola ebraica ’emûnah, derivata dal verbo ’amàn, che nella sua radice significa “sostenere”. Il termine ’emûnah può significare sia la fedeltà di Dio, sia la fede dell’uomo. L’uomo fedele riceve la sua forza dall’affidarsi nelle mani del Dio fedele. Giocando sui due significati della parola — presenti anche nei termini corrispondenti in greco (pistós) e latino (fidelis) —, san Cirillo di Gerusalemme esalterà la dignità del cristiano, che riceve il nome stesso di Dio: ambedue sono chiamati “fedeli”.[8] Sant’Agostino lo spiegherà così: « L’uomo fedele è colui che crede a Dio che promette; il Dio fedele è colui che concede ciò che ha promesso all’uomo ».[9]

 

11. Un ultimo aspetto della storia di Abramo è importante per capire la sua fede. La Parola di Dio, anche se porta con sé novità e sorpresa, non risulta per nulla estranea all’esperienza del Patriarca. Nella voce che si rivolge ad Abramo, egli riconosce un appello profondo, inscritto da sempre nel cuore del suo essere. Dio associa la sua promessa a quel “luogo” in cui l’esistenza dell’uomo si mostra da sempre promettente: la paternità, il generarsi di una nuova vita — « Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco » (Gen17,19). Quel Dio che chiede ad Abramo di affidarsi totalmente a Lui si rivela come la fonte da cui proviene ogni vita. In questo modo la fede si collega con la Paternità di Dio, dalla quale scaturisce la creazione: il Dio che chiama Abramo è il Dio creatore, Colui che « chiama all’esistenza le cose che non esistono » (Rm 4,17), Colui che « ci ha scelti prima della creazione del mondo… predestinandoci a essere suoi figli adottivi » (Ef 1,4-5). Per Abramo la fede in Dio illumina le più profonde radici del suo essere, gli permette di riconoscere la sorgente di bontà che è all’origine di tutte le cose, e di confermare che la sua vita non procede dal nulla o dal caso, ma da una chiamata e un amore personali. Il Dio misterioso che lo ha chiamato non è un Dio estraneo, ma Colui che è origine di tutto e che sostiene tutto. La grande prova della fede di Abramo, il sacrificio del figlio Isacco, mostrerà fino a che punto questo amore originario è capace di garantire la vita anche al di là della morte. La Parola che è stata capace di suscitare un figlio nel suo corpo “come morto” e “nel seno morto” di Sara sterile (cfr Rm 4,19), sarà anche capace di garantire la promessa di un futuro al di là di ogni minaccia o pericolo (cfr Eb 11,19; Rm 4, 21).

La fede di Israele

12. La storia del popolo d’Israele, nel libro dell’Esodo, prosegue sulla scia della fede di Abramo. La fede nasce di nuovo da un dono originario: Israele si apre all’azione di Dio che vuole liberarlo dalla sua miseria. La fede è chiamata a un lungo cammino per poter adorare il Signore sul Sinai ed ereditare una terra promessa. L’amore divino possiede i tratti del padre che porta suo figlio lungo il cammino (cfr Dt 1,31). La confessione di fede di Israele si sviluppa come racconto dei benefici di Dio, del suo agire per liberare e guidare il popolo (cfr Dt 26,5-11), racconto che il popolo trasmette di generazione in generazione. La luce di Dio brilla per Israele attraverso la memoria dei fatti operati dal Signore, ricordati e confessati nel culto, trasmessi dai genitori ai figli. Impariamo così che la luce portata dalla fede è legata al racconto concreto della vita, al ricordo grato dei benefici di Dio e al compiersi progressivo delle sue promesse. L’architettura gotica l’ha espresso molto bene: nelle grandi Cattedrali la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra. La luce di Dio ci viene attraverso il racconto della sua rivelazione, e così è capace di illuminare il nostro cammino nel tempo, ricordando i benefici divini, mostrando come si compiono le sue promesse.

13. La storia di Israele ci mostra ancora la tentazione dell’incredulità in cui il popolo più volte è caduto. L’opposto della fede appare qui come idolatria. Mentre Mosè parla con Dio sul Sinai, il popolo non sopporta il mistero del volto divino nascosto, non sopporta il tempo dell’attesa. La fede per sua natura chiede di rinunciare al possesso immediato che la visione sembra offrire, è un invito ad aprirsi verso la fonte della luce, rispettando il mistero proprio di un Volto che intende rivelarsi in modo personale e a tempo opportuno. Martin Buber citava questa definizione dell’idolatria offerta dal rabbino di Kock: vi è idolatria « quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto ».[10] Invece della fede in Dio si preferisce adorare l’idolo, il cui volto si può fissare, la cui origine è nota perché fatto da noi. Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli « hanno bocca e non parlano » (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani. L’uomo, perso l’orientamento fondamentale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri; negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia. Per questo l’idolatria è sempre politeismo, movimento senza meta da un signore all’altro. L’idolatria non offre un cammino, ma una molteplicità di sentieri, che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto. Chi non vuole affidarsi a Dio deve ascoltare le voci dei tanti idoli che gli gridano: “Affidati a me!”. La fede in quanto legata alla conversione, è l’opposto dell’idolatria; è separazione dagli idoli per tornare al Dio vivente, mediante un incontro personale. Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia. La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio. Ecco il paradosso: nel continuo volgersi verso il Signore, l’uomo trova una strada stabile che lo libera dal movimento dispersivo cui lo sottomettono gli idoli.

14. Nella fede di Israele emerge anche la figura di Mosè, il mediatore. Il popolo non può vedere il volto di Dio; è Mosè a parlare con YHWH sulla montagna e a riferire a tutti il volere del Signore. Con questa presenza del mediatore, Israele ha imparato a camminare unito. L’atto di fede del singolo si inserisce in una comunità, nel “noi” comune del popolo che, nella fede, è come un solo uomo, “il mio figlio primogenito”, come Dio chiamerà l’intero Israele (cfr Es 4,22). La mediazione non diventa qui un ostacolo, ma un’apertura: nell’incontro con gli altri lo sguardo si apre verso una verità più grande di noi stessi. J. J. Rousseau si lamentava di non poter vedere Dio personalmente: « Quanti uomini tra Dio e me! »;[11] « È così semplice e naturale che Dio sia andato da Mosè per parlare a Jean-Jacques Rousseau? ».[12] A partire da una concezione individualista e limitata della conoscenza non si può capire il senso della mediazione, questa capacità di partecipare alla visione dell’altro, sapere condiviso che è il sapere proprio dell’amore. La fede è un dono gratuito di Dio che chiede l’umiltà e il coraggio di fidarsi e affidarsi, per vedere il luminoso cammino dell’incontro tra Dio e gli uomini, la storia della salvezza.

La pienezza della fede cristiana

15. « Abramo […] esultò nella speranza di vedere il mio giorno, lo vide e fu pieno di gioia » (Gv 8,56). Secondo queste parole di Gesù, la fede di Abramo era orientata verso di Lui, era, in un certo senso, visione anticipata del suo mistero. Così lo intende sant’Agostino, quando afferma che i Patriarchi si salvarono per la fede, non fede in Cristo già venuto, ma fede in Cristo che stava per venire, fede tesa verso l’evento futuro di Gesù.[13] La fede cristiana è centrata in Cristo, è confessione che Gesù è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm10,9). Tutte le linee dell’Antico Testamento si raccolgono in Cristo, Egli diventa il “sì” definitivo a tutte le promesse, fondamento del nostro “Amen” finale a Dio (cfr 2 Cor 1,20). La storia di Gesù è la manifestazione piena dell’affidabilità di Dio. Se Israele ricordava i grandi atti di amore di Dio, che formavano il centro della sua confessione e aprivano lo sguardo della sua fede, adesso la vita di Gesù appare come il luogo dell’intervento definitivo di Dio, la suprema manifestazione del suo amore per noi. Quella che Dio ci rivolge in Gesù non è una parola in più tra tante altre, ma la sua Parola eterna (cfr Eb 1,1-2). Non c’è nessuna garanzia più grande che Dio possa dare per rassicurarci del suo amore, come ci ricorda san Paolo (cfr Rm 8,31-39). La fede cristiana è dunque fede nell’Amore pieno, nel suo potere efficace, nella sua capacità di trasformare il mondo e di illuminare il tempo. « Abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi » (1 Gv 4,16). La fede coglie nell’amore di Dio manifestato in Gesù il fondamento su cui poggia la realtà e la sua destinazione ultima.

16. La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore (cfr Gv 15,13), Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. Ecco perché gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino. San Giovanni collocherà qui la sua testimonianza solenne quando, insieme alla Madre di Gesù, contemplò Colui che hanno trafitto (cfr Gv 19,37): « Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate » (Gv 19,35). F. M. Dostoevskij, nella sua opera L’Idiota, fa dire al protagonista, il principe Myskin, alla vista del dipinto di Cristo morto nel sepolcro, opera di Hans Holbein il Giovane: « Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno ».[14] Il dipinto rappresenta infatti, in modo molto crudo, gli effetti distruttivi della morte sul corpo di Cristo. E tuttavia, è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante, quando essa si rivela come fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella morte per salvarci. In questo amore, che non si è sottratto alla morte per manifestare quanto mi ama, è possibile credere; la sua totalità vince ogni sospetto e ci permette di affidarci pienamente a Cristo.

17. Ora, la morte di Cristo svela l’affidabilità totale dell’amore di Dio alla luce della sua Risurrezione. In quanto risorto, Cristo è testimone affidabile, degno di fede (cfr Ap 1,5; Eb 2,17), appoggio solido per la nostra fede. « Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede », afferma san Paolo (1 Cor 15,17). Se l’amore del Padre non avesse fatto risorgere Gesù dai morti, se non avesse potuto ridare vita al suo corpo, allora non sarebbe un amore pienamente affidabile, capace di illuminare anche le tenebre della morte. Quando san Paolo parla della sua nuova vita in Cristo, si riferisce alla « fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me » (Gal 2,20). Questa “fede del Figlio di Dio” è certamente la fede dell’Apostolo delle genti in Gesù, ma suppone anche l’affidabilità di Gesù, che si fonda, sì, nel suo amore fino alla morte, ma anche nel suo essere Figlio di Dio. Proprio perché Gesù è il Figlio, perché è radicato in modo assoluto nel Padre, ha potuto vincere la morte e far risplendere in pienezza la vita. La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti. Ma se fosse così, se Dio fosse incapace di agire nel mondo, il suo amore non sarebbe veramente potente, veramente reale, e non sarebbe quindi neanche vero amore, capace di compiere quella felicità che promette. Credere o non credere in Lui sarebbe allora del tutto indifferente. I cristiani, invece, confessano l’amore concreto e potente di Dio, che opera veramente nella storia e ne determina il destino finale, amore che si è fatto incontrabile, che si è rivelato in pienezza nella Passione, Morte e Risurrezione di Cristo.

18. La pienezza cui Gesù porta la fede ha un altro aspetto decisivo. Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale. Abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio. Gesù, suo Figlio, si presenta come Colui che ci spiega Dio (cfr Gv 1,18).La vita di Cristo — il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui — apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare. San Giovanni ha espresso l’importanza del rapporto personale con Gesù per la nostra fede attraverso vari usi del verbo credere. Insieme al “credere che” è vero ciò che Gesù ci dice (cfr Gv 14,10; 20,31), Giovanni usa anche le locuzioni “credere a” Gesù e “credere in” Gesù. “Crediamo a” Gesù, quando accettiamo la sua Parola, la sua testimonianza, perché egli è veritiero (cfr Gv 6,30). “Crediamo in” Gesù, quando lo accogliamo personalmente nella nostra vita e ci affidiamo a Lui, aderendo a Lui nell’amore e seguendolo lungo la strada (cfr Gv 2,11; 6,47; 12,44).

Per permetterci di conoscerlo, accoglierlo e seguirlo, il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne, e così la sua visione del Padre è avvenuta anche in modo umano, attraverso un cammino e un percorso nel tempo. La fede cristiana è fede nell’Incarnazione del Verbo e nella sua Risurrezione nella carne; è fede in un Dio che si è fatto così vicino da entrare nella nostra storia. La fede nel Figlio di Dio fatto uomo in Gesù di Nazaret non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, di scoprire quanto Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di Sé; e questo porta il cristiano a impegnarsi, a vivere in modo ancora più intenso il cammino sulla terra.

La salvezza mediante la fede

19. A partire da questa partecipazione al modo di vedere di Gesù, l’Apostolo Paolo, nei suoi scritti, ci ha lasciato una descrizione dell’esistenza credente. Colui che crede, nell’accettare il dono della fede, è trasformato in una creatura nuova, riceve un nuovo essere, un essere filiale, diventa figlio nel Figlio. “Abbà, Padre” è la parola più caratteristica dell’esperienza di Gesù, che diventa centro dell’esperienza cristiana (cfr Rm 8,15). La vita nella fede, in quanto esistenza filiale, è riconoscere il dono originario e radicale che sta alla base dell’esistenza dell’uomo, e può riassumersi nella frase di san Paolo ai Corinzi: « Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? » (1 Cor 4,7). Proprio qui si colloca il cuore della polemica di san Paolo con i farisei, la discussione sulla salvezza mediante la fede o mediante le opere della legge. Ciò che san Paolo rifiuta è l’atteggiamento di chi vuole giustificare se stesso davanti a Dio tramite il proprio operare. Costui, anche quando obbedisce ai comandamenti, anche quando compie opere buone, mette al centro se stesso, e non riconosce che l’origine della bontà è Dio. Chi opera così, chi vuole essere fonte della propria giustizia, la vede presto esaurirsi e scopre di non potersi neppure mantenere nella fedeltà alla legge. Si rinchiude, isolandosi dal Signore e dagli altri, e per questo la sua vita si rende vana, le sue opere sterili, come albero lontano dall’acqua. Sant’Agostino così si esprime nel suo linguaggio conciso ed efficace: « Ab eo qui fecit te noli deficere nec ad te », « Da colui che ha fatto te, non allontanarti neppure per andare verso di te ».[15] Quando l’uomo pensa che allontanandosi da Dio troverà se stesso, la sua esistenza fallisce (cfr Lc 15,11-24). L’inizio della salvezza è l’apertura a qualcosa che precede, a un dono originario che afferma la vita e custodisce nell’esistenza. Solo nell’aprirci a quest’origine e nel riconoscerla è possibile essere trasformati, lasciando che la salvezza operi in noi e renda la vita feconda, piena di frutti buoni. La salvezza attraverso la fede consiste nel riconoscere il primato del dono di Dio, come riassume san Paolo: « Per grazia infatti siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio » (Ef 2,8).

20. La nuova logica della fede è centrata su Cristo. La fede in Cristo ci salva perché è in Lui che la vita si apre radicalmente a un Amore che ci precede e ci trasforma dall’interno, che agisce in noi e con noi. Ciò appare con chiarezza nell’esegesi che l’Apostolo delle genti fa di un testo del Deuteronomio, esegesi che si inserisce nella dinamica più profonda dell’Antico Testamento. Mosè dice al popolo che il comando di Dio non è troppo alto né troppo lontano dall’uomo. Non si deve dire: « Chi salirà in cielo per prendercelo? » o « Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo? » (cfr Dt 30,11-14). Questa vicinanza della Parola di Dio viene interpretata da san Paolo come riferita alla presenza di Cristo nel cristiano: « Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? — per farne cioè discendere Cristo —; oppure: Chi scenderà nell’abisso? — per fare cioè risalire Cristo dai morti » (Rm 10,6-7). Cristo è disceso sulla terra ed è risuscitato dai morti; con la sua Incarnazione e Risurrezione, il Figlio di Dio ha abbracciato l’intero cammino dell’uomo e dimora nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo. La fede sa che Dio si è fatto molto vicino a noi, che Cristo ci è stato dato come grande dono che ci trasforma interiormente, che abita in noi, e così ci dona la luce che illumina l’origine e la fine della vita, l’intero arco del cammino umano.

21. Possiamo così capire la novità alla quale la fede ci porta. Il credente è trasformato dall’Amore, a cui si è aperto nella fede, e nel suo aprirsi a questo Amore che gli è offerto, la sua esistenza si dilata oltre sé. San Paolo può affermare: « Non vivo più io, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20), ed esortare: « Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori » (Ef 3,17). Nella fede, l’”io” del credente si espande per essere abitato da un Altro, per vivere in un Altro, e così la sua vita si allarga nell’Amore. Qui si situa l’azione propria dello Spirito Santo. Il cristiano può avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del suo Amore, che è lo Spirito. È in questo Amore che si riceve in qualche modo la visione propria di Gesù. Fuori da questa conformazione nell’Amore, fuori della presenza dello Spirito che lo infonde nei nostri cuori (cfr Rm 5,5), è impossibile confessare Gesù come Signore (cfr 1 Cor 12,3).

La forma ecclesiale della fede

22. In questo modo l’esistenza credente diventa esistenza ecclesiale. Quando san Paolo parla ai cristiani di Roma di quell’unico corpo che tutti i credenti sono in Cristo, li esorta a non vantarsi; ognuno deve valutarsi invece « secondo la misura di fede che Dio gli ha dato » (Rm 12,3). Il credente impara a vedere se stesso a partire dalla fede che professa: la figura di Cristo è lo specchio in cui scopre la propria immagine realizzata. E come Cristo abbraccia in sé tutti i credenti, che formano il suo corpo, il cristiano comprende se stesso in questo corpo, in relazione originaria a Cristo e ai fratelli nella fede. L’immagine del corpo non vuole ridurre il credente a semplice parte di un tutto anonimo, a mero elemento di un grande ingranaggio, ma sottolinea piuttosto l’unione vitale di Cristo con i credenti e di tutti i credenti tra loro (cfr Rm 12,4-5). I cristiani sono “uno” (cfr Gal 3,28), senza perdere la loro individualità, e nel servizio agli altri ognuno guadagna fino in fondo il proprio essere. Si capisce allora perché fuori da questo corpo, da questa unità della Chiesa in Cristo, da questa Chiesa che — secondo le parole di Romano Guardini — « è la portatrice storica dello sguardo plenario di Cristo sul mondo »,[16] la fede perde la sua “misura”, non trova più il suo equilibrio, lo spazio necessario per sorreggersi. La fede ha una forma necessariamente ecclesiale, si confessa dall’interno del corpo di Cristo, come comunione concreta dei credenti. È da questo luogo ecclesiale che essa apre il singolo cristiano verso tutti gli uomini. La parola di Cristo, una volta ascoltata e per il suo stesso dinamismo, si trasforma nel cristiano in risposta, e diventa essa stessa parola pronunciata, confessione di fede. San Paolo afferma: « Con il cuore infatti si crede […], e con la bocca si fa la professione di fede… » (Rm 10,10). La fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva, ma nasce da un ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio. Infatti, « come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? » (Rm 10,14). La fede si fa allora operante nel cristiano a partire dal dono ricevuto, dall’Amore che attira verso Cristo (cfr Gal 5,6) e rende partecipi del cammino della Chiesa, pellegrina nella storia verso il compimento. Per chi è stato trasformato in questo modo, si apre un nuovo modo di vedere, la fede diventa luce per i suoi occhi.

 

CAPITOLO SECONDO

SE NON CREDERETE, 
NON COMPRENDERETE 

(cfr Is 7,9)

 

Fede e verità

23. Se non crederete, non comprenderete (cfr Is 7,9). La versione greca della Bibbia ebraica, la traduzione dei Settanta realizzata in Alessandria d’Egitto, traduceva così le parole del profeta Isaia al re Acaz. In questo modo la questione della conoscenza della verità veniva messa al centro della fede. Nel testo ebraico, tuttavia, leggiamo diversamente. In esso il profeta dice al re: “Se non crederete, non resterete saldi”. C’è qui un gioco di parole con due forme del verbo ’amàn: “crederete” (ta’aminu), e “resterete saldi” (te’amenu). Impaurito dalla potenza dei suoi nemici, il re cerca la sicurezza che gli può dare un’alleanza con il grande impero di Assiria. Il profeta, allora, lo invita ad affidarsi soltanto alla vera roccia che non vacilla, il Dio di Israele. Poiché Dio è affidabile, è ragionevole avere fede in Lui, costruire la propria sicurezza sulla sua Parola. È questo il Dio che Isaia più avanti chiamerà, per due volte, “il Dio-Amen” (cfr Is 65,16), fondamento incrollabile di fedeltà all’alleanza. Si potrebbe pensare che la versione greca della Bibbia, nel tradurre “essere saldo” con “comprendere”, abbia operato un cambiamento profondo del testo, passando dalla nozione biblica di affidamento a Dio a quella greca della comprensione. Tuttavia, questa traduzione, che accettava certamente il dialogo con la cultura ellenistica, non è estranea alla dinamica profonda del testo ebraico. La saldezza che Isaia promette al re passa, infatti, per la comprensione dell’agire di Dio e dell’unità che Egli dà alla vita dell’uomo e alla storia del popolo. Il profeta esorta a comprendere le vie del Signore, trovando nella fedeltà di Dio il piano di saggezza che governa i secoli. Sant’Agostino ha espresso la sintesi del “comprendere” e dell’”essere saldo” nelle sue Confessioni, quando parla della verità, cui ci si può affidare per poter restare in piedi: « Sarò saldo e mi consoliderò in te, […] nella tua verità ».[17] Dal contesto sappiamo che sant’Agostino vuole mostrare il modo in cui questa verità affidabile di Dio è, come emerge nella Bibbia, la sua presenza fedele lungo la storia, la sua capacità di tenere insieme i tempi, raccogliendo la dispersione dei giorni dell’uomo.[18]

24. Il testo di Isaia, letto in questa luce, porta a una conclusione: l’uomo ha bisogno di conoscenza, ha bisogno di verità, perché senza di essa non si sostiene, non va avanti. La fede, senza verità, non salva, non rende sicuri i nostri passi. Resta una bella fiaba, la proiezione dei nostri desideri di felicità, qualcosa che ci accontenta solo nella misura in cui vogliamo illuderci. Oppure si riduce a un bel sentimento, che consola e riscalda, ma resta soggetto al mutarsi del nostro animo, alla variabilità dei tempi, incapace di sorreggere un cammino costante nella vita. Se la fede fosse così, il re Acaz avrebbe ragione a non giocare la sua vita e la sicurezza del suo regno su di un’emozione. Ma proprio per il suo nesso intrinseco con la verità, la fede è capace di offrire una luce nuova, superiore ai calcoli del re, perché essa vede più lontano, perché comprende l’agire di Dio, che è fedele alla sua alleanza e alle sue promesse.

25. Richiamare la connessione della fede con la verità è oggi più che mai necessario, proprio per la crisi di verità in cui viviamo. Nella cultura contemporanea si tende spesso ad accettare come verità solo quella della tecnologia: è vero ciò che l’uomo riesce a costruire e misurare con la sua scienza, vero perché funziona, e così rende più comoda e agevole la vita. Questa sembra oggi l’unica verità certa, l’unica condivisibile con altri, l’unica su cui si può discutere e impegnarsi insieme. Dall’altra parte vi sarebbero poi le verità del singolo, che consistono nell’essere autentici davanti a quello che ognuno sente nel suo interno, valide solo per l’individuo e che non possono essere proposte agli altri con la pretesa di servire il bene comune. La verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale, è guardata con sospetto. Non è stata forse questa — ci si domanda — la verità pretesa dai grandi totalitarismi del secolo scorso, una verità che imponeva la propria concezione globale per schiacciare la storia concreta del singolo? Rimane allora solo un relativismo in cui la domanda sulla verità di tutto, che è in fondo anche la domanda su Dio, non interessa più. È logico, in questa prospettiva, che si voglia togliere la connessione della religione con la verità, perché questo nesso sarebbe alla radice del fanatismo, che vuole sopraffare chi non condivide la propria credenza. Possiamo parlare, a questo riguardo, di un grande oblio nel nostro mondo contemporaneo. La domanda sulla verità è, infatti, una questione di memoria, di memoria profonda, perché si rivolge a qualcosa che ci precede e, in questo modo, può riuscire a unirci oltre il nostro “io” piccolo e limitato. È una domanda sull’origine di tutto, alla cui luce si può vedere la meta e così anche il senso della strada comune.

Conoscenza della verità e amore

26. In questa situazione, può la fede cristiana offrire un servizio al bene comune circa il modo giusto di intendere la verità? Per rispondere è necessario riflettere sul tipo di conoscenza proprio della fede. Può aiutarci un’espressione di san Paolo, quando afferma: « Con il cuore si crede » (Rm 10,10). Il cuore, nella Bibbia, è il centro dell’uomo, dove s’intrecciano tutte le sue dimensioni: il corpo e lo spirito; l’interiorità della persona e la sua apertura al mondo e agli altri; l’intelletto, il volere, l’affettività. Ebbene, se il cuore è capace di tenere insieme queste dimensioni, è perché esso è il luogo dove ci apriamo alla verità e all’amore e lasciamo che ci tocchino e ci trasformino nel profondo. La fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre all’amore. È in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà.

27. È noto il modo in cui il filosofo Ludwig Wittgenstein ha spiegato la connessione tra la fede e la certezza. Credere sarebbe simile, secondo lui, all’esperienza dell’innamoramento, concepita come qualcosa di soggettivo, improponibile come verità valida per tutti.[19] All’uomo moderno sembra, infatti, che la questione dell’amore non abbia a che fare con il vero. L’amore risulta oggi un’esperienza legata al mondo dei sentimenti incostanti e non più alla verità.

Davvero questa è una descrizione adeguata dell’amore? In realtà, l’amore non si può ridurre a un sentimento che va e viene. Esso tocca, sì, la nostra affettività, ma per aprirla alla persona amata e iniziare così un cammino, che è un uscire dalla chiusura nel proprio io e andare verso l’altra persona, per edificare un rapporto duraturo; l’amore mira all’unione con la persona amata. Si rivela allora in che senso l’amore ha bisogno di verità. Solo in quanto è fondato sulla verità l’amore può perdurare nel tempo, superare l’istante effimero e rimanere saldo per sostenere un cammino comune. Se l’amore non ha rapporto con la verità, è soggetto al mutare dei sentimenti e non supera la prova del tempo. L’amore vero invece unifica tutti gli elementi della nostra persona e diventa una luce nuova verso una vita grande e piena. Senza verità l’amore non può offrire un vincolo solido, non riesce a portare l’”io” al di là del suo isolamento, né a liberarlo dall’istante fugace per edificare la vita e portare frutto.

Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore. Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata. In questo senso, san Gregorio Magno ha scritto che « amor ipse notitia est », l’amore stesso è una conoscenza, porta con sé una logica nuova.[20] Si tratta di un modo relazionale di guardare il mondo, che diventa conoscenza condivisa, visione nella visione dell’altro e visione comune su tutte le cose. Guglielmo di Saint Thierry, nel Medioevo, segue questa tradizione quando commenta un versetto del Cantico dei Cantici in cui l’amato dice all’amata: I tuoi occhi sono occhi di colomba (cfr Ct 1,15).[21] Questi due occhi, spiega Guglielmo, sono la ragione credente e l’amore, che diventano un solo occhio per giungere a contemplare Dio, quando l’intelletto si fa « intelletto di un amore illuminato ».[22]

28. Questa scoperta dell’amore come fonte di conoscenza, che appartiene all’esperienza originaria di ogni uomo, trova espressione autorevole nella concezione biblica della fede. Gustando l’amore con cui Dio lo ha scelto e lo ha generato come popolo, Israele arriva a comprendere l’unità del disegno divino, dall’origine al compimento. La conoscenza della fede, per il fatto di nascere dall’amore di Dio che stabilisce l’Alleanza, è conoscenza che illumina un cammino nella storia. È per questo, inoltre, che, nella Bibbia, verità e fedeltà vanno insieme: il Dio vero è il Dio fedele, Colui che mantiene le sue promesse e permette, nel tempo, di comprendere il suo disegno. Attraverso l’esperienza dei profeti, nel dolore dell’esilio e nella speranza di un ritorno definitivo alla città santa, Israele ha intuito che questa verità di Dio si estendeva oltre la propria storia, per abbracciare la storia intera del mondo, a cominciare dalla creazione. La conoscenza della fede illumina non solo il percorso particolare di un popolo, ma il corso intero del mondo creato, dalla sua origine alla sua consumazione.

La fede come ascolto e visione

29. Proprio perché la conoscenza della fede è legata all’alleanza di un Dio fedele, che intreccia un rapporto di amore con l’uomo e gli rivolge la Parola, essa è presentata dalla Bibbia come un ascolto, è associata al senso dell’udito. San Paolo userà una formula diventata classica: fides ex auditu, « la fede viene dall’ascolto » (Rm10,17). La conoscenza associata alla parola è sempre conoscenza personale, che riconosce la voce, si apre ad essa in libertà e la segue in obbedienza. Perciò san Paolo ha parlato dell’”obbedienza della fede” (cfr Rm 1,5; 16,26).[23] La fede è, inoltre, conoscenza legata al trascorrere del tempo, di cui la parola ha bisogno per pronunciarsi: è conoscenza che s’impara solo in un cammino di sequela. L’ascolto aiuta a raffigurare bene il nesso tra conoscenza e amore.

Per quanto concerne la conoscenza della verità, l’ascolto è stato a volte contrapposto alla visione, che sarebbe propria della cultura greca. La luce, se da una parte offre la contemplazione del tutto, cui l’uomo ha sempre aspirato, dall’altra non sembra lasciar spazio alla libertà, perché discende dal cielo e arriva direttamente all’occhio, senza chiedere che l’occhio risponda. Essa, inoltre, sembrerebbe invitare a una contemplazione statica, separata dal tempo concreto in cui l’uomo gode e soffre. Secondo questa concezione, l’approccio biblico alla conoscenza si opporrebbe a quello greco, che, nella ricerca di una comprensione completa del reale, ha collegato la conoscenza alla visione.

È invece chiaro che questa pretesa opposizione non corrisponde al dato biblico. L’Antico Testamento ha combinato ambedue i tipi di conoscenza, perché all’ascolto della Parola di Dio si unisce il desiderio di vedere il suo volto. In questo modo si è potuto sviluppare un dialogo con la cultura ellenistica, dialogo che appartiene al cuore della Scrittura. L’udito attesta la chiamata personale e l’obbedienza, e anche il fatto che la verità si rivela nel tempo; la vista offre la visione piena dell’intero percorso e permette di situarsi nel grande progetto di Dio; senza tale visione disporremmo solo di frammenti isolati di un tutto sconosciuto.

30. La connessione tra il vedere e l’ascoltare, come organi di conoscenza della fede, appare con la massima chiarezza nel Vangelo di Giovanni. Per il quarto Vangelo, credere è ascoltare e, allo stesso tempo, vedere. L’ascolto della fede avviene secondo la forma di conoscenza propria dell’amore: è un ascolto personale, che distingue la voce e riconosce quella del Buon Pastore (cfr Gv 10,3-5); un ascolto che richiede la sequela, come accade con i primi discepoli che, « sentendolo parlare così, seguirono Gesù » (Gv 1,37). D’altra parte, la fede è collegata anche alla visione. A volte, la visione dei segni di Gesù precede la fede, come con i giudei che, dopo la risurrezione di Lazzaro, « alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui » (Gv 11,45). Altre volte, è la fede che porta a una visione più profonda: « Se crederai, vedrai la gloria di Dio » (Gv 11,40). Alla fine, credere e vedere s’intrecciano: « Chi crede in me […] crede in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato » (Gv 12,44-45). Grazie a quest’unione con l’ascolto, il vedere diventa sequela di Cristo, e la fede appare come un cammino dello sguardo, in cui gli occhi si abituano a vedere in profondità. E così, il mattino di Pasqua, si passa da Giovanni che, ancora nel buio, davanti al sepolcro vuoto, “vide e credette” (Gv 20,8); a Maria Maddalena che, ormai, vede Gesù (cfr Gv 20,14) e vuole trattenerlo, ma è invitata a contemplarlo nel suo cammino verso il Padre; fino alla piena confessione della stessa Maddalena davanti ai discepoli: « Ho visto il Signore! » (Gv 20,18).

Come si arriva a questa sintesi tra l’udire e il vedere? Diventa possibile a partire dalla persona concreta di Gesù, che si vede e si ascolta. Egli è la Parola fatta carne, di cui abbiamo contemplato la gloria (cfr Gv 1,14). La luce della fede è quella di un Volto in cui si vede il Padre. Infatti, la verità che la fede coglie è, nel quarto Vangelo, la manifestazione del Padre nel Figlio, nella sua carne e nelle sue opere terrene, verità che si può definire come la “vita luminosa” di Gesù.[24] Ciò significa che la conoscenza della fede non ci invita a guardare una verità puramente interiore. La verità che la fede ci dischiude è una verità centrata sull’incontro con Cristo, sulla contemplazione della sua vita, sulla percezione della sua presenza. In questo senso, san Tommaso d’Aquino parla dell’oculata fides degli Apostoli — fede che vede! — davanti alla visione corporea del Risorto.[25] Hanno visto Gesù risorto con i loro occhi e hanno creduto, hanno, cioè, potuto penetrare nella profondità di quello che vedevano per confessare il Figlio di Dio, seduto alla destra del Padre.

31. Soltanto così, attraverso l’Incarnazione, attraverso la condivisione della nostra umanità, poteva giungere a pienezza la conoscenza propria dell’amore. La luce dell’amore, infatti, nasce quando siamo toccati nel cuore, ricevendo così in noi la presenza interiore dell’amato, che ci permette di riconoscere il suo mistero. Capiamo allora perché, insieme all’ascoltare e al vedere, la fede è, per san Giovanni, un toccare, come afferma nella sua prima Lettera: « Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto […] e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… » (1 Gv 1,1). Con la sua Incarnazione, con la sua venuta tra noi, Gesù ci ha toccato e, attraverso i Sacramenti, anche oggi ci tocca; in questo modo, trasformando il nostro cuore, ci ha permesso e ci permette di riconoscerlo e di confessarlo come Figlio di Dio. Con la fede, noi possiamo toccarlo, e ricevere la potenza della sua grazia. Sant’Agostino, commentando il passo dell’emorroissa che tocca Gesù per essere guarita (cfr Lc 8,45-46), afferma: « Toccare con il cuore, questo è credere ».[26] La folla si stringe attorno a Lui, ma non lo raggiunge con il tocco personale della fede, che riconosce il suo mistero, il suo essere Figlio che manifesta il Padre. Solo quando siamo configurati a Gesù, riceviamo occhi adeguati per vederlo.

Il dialogo tra fede e ragione

32. La fede cristiana, in quanto annuncia la verità dell’amore totale di Dio e apre alla potenza di questo amore, arriva al centro più profondo dell’esperienza di ogni uomo, che viene alla luce grazie all’amore ed è chiamato ad amare per rimanere nella luce. Mossi dal desiderio di illuminare tutta la realtà a partire dall’amore di Dio manifestato in Gesù, cercando di amare con quello stesso amore, i primi cristiani trovarono nel mondo greco, nella sua fame di verità, un partner idoneo per il dialogo. L’incontro del messaggio evangelico con il pensiero filosofico del mondo antico costituì un passaggio decisivo affinché il Vangelo arrivasse a tutti i popoli, e favorì una feconda interazione tra fede e ragione, che si è andata sviluppando nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Il beato Giovanni Paolo II, nella sua Lettera enciclica Fides et ratio, ha mostrato come fede e ragione si rafforzino a vicenda.[27] Quando troviamo la luce piena dell’amore di Gesù, scopriamo che in ogni nostro amore era presente un barlume di quella luce e capiamo qual era il suo traguardo ultimo. E, nello stesso tempo, il fatto che il nostro amore porti con sé una luce, ci aiuta a vedere il cammino dell’amore verso la pienezza di donazione totale del Figlio di Dio per noi. In questo movimento circolare, la luce della fede illumina tutti i nostri rapporti umani, che possono essere vissuti in unione con l’amore e la tenerezza di Cristo.

33. Nella vita di sant’Agostino, troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell’orizzonte della fede, da cui ha ricevuto nuova comprensione. Da una parte, egli accoglie la filosofia greca della luce con la sua insistenza sulla visione. Il suo incontro con il neoplatonismo gli ha fatto conoscere il paradigma della luce, che discende dall’alto per illuminare le cose, ed è così un simbolo di Dio. In questo modo sant’Agostino ha capito la trascendenza divina e ha scoperto che tutte le cose hanno in sé una trasparenza, che potevano cioè riflettere la bontà di Dio, il Bene. Si è così liberato dal manicheismo in cui prima viveva e che lo inclinava a pensare che il male e il bene lottassero continuamente tra loro, confondendosi e mescolandosi, senza contorni chiari. Capire che Dio è luce gli ha dato un orientamento nuovo nell’esistenza, la capacità di riconoscere il male di cui era colpevole e di volgersi verso il bene.

D’altra parte, però, nell’esperienza concreta di sant’Agostino, che egli stesso racconta nelle sue Confessioni, il momento decisivo nel suo cammino di fede non è stato quello di una visione di Dio, oltre questo mondo, ma piuttosto quello dell’ascolto, quando nel giardino sentì una voce che gli diceva: “Prendi e leggi”; egli prese il volume con le Lettere di san Paolo soffermandosi sul capitolo tredicesimo di quella ai Romani.[28] Appariva così il Dio personale della Bibbia, capace di parlare all’uomo, di scendere a vivere con lui e di accompagnare il suo cammino nella storia, manifestandosi nel tempo dell’ascolto e della risposta.

E tuttavia, questo incontro con il Dio della Parola non ha portato sant’Agostino a rifiutare la luce e la visione. Egli ha integrato ambedue le prospettive, guidato sempre dalla rivelazione dell’amore di Dio in Gesù. E così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un’immagine che la riflette. Sant’Agostino può riferirsi allora, associando ascolto e visione, alla « parola che risplende all’interno dell’uomo ».[29] In questo modo la luce diventa, per così dire, la luce di una parola, perché è la luce di un Volto personale, una luce che, illuminandoci, ci chiama e vuole riflettersi nel nostro volto per risplendere dal di dentro di noi. D’altronde, il desiderio della visione del tutto, e non solo dei frammenti della storia, rimane presente e si compirà alla fine, quando l’uomo, come dice il Santo di Ippona, vedrà e amerà.[30] E questo, non perché sarà capace di possedere tutta la luce, che sempre sarà inesauribile, ma perché entrerà, tutto intero, nella luce.

34. La luce dell’amore, propria della fede, può illuminare gli interrogativi del nostro tempo sulla verità. La verità oggi è ridotta spesso ad autenticità soggettiva del singolo, valida solo per la vita individuale. Una verità comune ci fa paura, perché la identifichiamo con l’imposizione intransigente dei totalitarismi. Se però la verità è la verità dell’amore, se è la verità che si schiude nell’incontro personale con l’Altro e con gli altri, allora resta liberata dalla chiusura nel singolo e può fare parte del bene comune. Essendo la verità di un amore, non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo. Risulta chiaro così che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti.

D’altra parte, la luce della fede, in quanto unita alla verità dell’amore, non è aliena al mondo materiale, perché l’amore si vive sempre in corpo e anima; la luce della fede è luce incarnata, che procede dalla vita luminosa di Gesù. Essa illumina anche la materia, confida nel suo ordine, conosce che in essa si apre un cammino di armonia e di comprensione sempre più ampio. Lo sguardo della scienza riceve così un beneficio dalla fede: questa invita lo scienziato a rimanere aperto alla realtà, in tutta la sua ricchezza inesauribile. La fede risveglia il senso critico, in quanto impedisce alla ricerca di essere soddisfatta nelle sue formule e la aiuta a capire che la natura è sempre più grande. Invitando alla meraviglia davanti al mistero del creato, la fede allarga gli orizzonti della ragione per illuminare meglio il mondo che si schiude agli studi della scienza.

La fede e la ricerca di Dio

35. La luce della fede in Gesù illumina anche il cammino di tutti coloro che cercano Dio, e offre il contributo proprio del cristianesimo nel dialogo con i seguaci delle diverse religioni. La Lettera agli Ebrei ci parla della testimonianza dei giusti che, prima dell’Alleanza con Abramo, già cercavano Dio con fede. Di Enoc si dice che « fu dichiarato persona gradita a Dio » (Eb 11,5), cosa impossibile senza la fede, perché chi « si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano » (Eb 11,6). Possiamo così capire che il cammino dell’uomo religioso passa per la confessione di un Dio che si prende cura di lui e che non è impossibile trovare. Quale altra ricompensa potrebbe offrire Dio a coloro che lo cercano, se non lasciarsi incontrare? Prima ancora, troviamo la figura di Abele, di cui pure si loda la fede a causa della quale Dio ha gradito i suoi doni, l’offerta dei primogeniti dei suoi greggi (cfr Eb 11,4). L’uomo religioso cerca di riconoscere i segni di Dio nelle esperienze quotidiane della sua vita, nel ciclo delle stagioni, nella fecondità della terra e in tutto il movimento del cosmo. Dio è luminoso, e può essere trovato anche da coloro che lo cercano con cuore sincero.  

Immagine di questa ricerca sono i Magi, guidati dalla stella fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Per loro la luce di Dio si è mostrata come cammino, come stella che guida lungo una strada di scoperte. La stella parla così della pazienza di Dio con i nostri occhi, che devono abituarsi al suo splendore. L’uomo religioso è in cammino e deve essere pronto a lasciarsi guidare, a uscire da sé per trovare il Dio che sorprende sempre. Questo rispetto di Dio per gli occhi dell’uomo ci mostra che, quando l’uomo si avvicina a Lui, la luce umana non si dissolve nell’immensità luminosa di Dio, come se fosse una stella inghiottita dall’alba, ma diventa più brillante quanto è più prossima al fuoco originario, come lo specchio che riflette lo splendore. La confessione cristiana di Gesù, unico salvatore, afferma che tutta la luce di Dio si è concentrata in Lui, nella sua “vita luminosa”, in cui si svela l’origine e la consumazione della storia.[31] Non c’è nessuna esperienza umana, nessun itinerario dell’uomo verso Dio, che non possa essere accolto, illuminato e purificato da questa luce. Quanto più il cristiano s’immerge nel cerchio aperto dalla luce di Cristo, tanto più è capace di capire e di accompagnare la strada di ogni uomo verso Dio.

Poiché la fede si configura come via, essa riguarda anche la vita degli uomini che, pur non credendo, desiderano credere e non cessano di cercare. Nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero e si mettono in cammino con quella luce che riescono a cogliere, già vivono, senza saperlo, nella strada verso la fede. Essi cercano di agire come se Dio esistesse, a volte perché riconoscono la sua importanza per trovare orientamenti saldi nella vita comune, oppure perché sperimentano il desiderio di luce in mezzo al buio, ma anche perché, nel percepire quanto è grande e bella la vita, intuiscono che la presenza di Dio la renderebbe ancora più grande. Racconta sant’Ireneo di Lione che Abramo, prima di ascoltare la voce di Dio, già lo cercava « nell’ardente desiderio del suo cuore », e « percorreva tutto il mondo, domandandosi dove fosse Dio », finché « Dio ebbe pietà di colui che, solo, lo cercava nel silenzio ».[32] Chi si mette in cammino per praticare il bene si avvicina già a Dio, è già sorretto dal suo aiuto, perché è proprio della dinamica della luce divina illuminare i nostri occhi quando camminiamo verso la pienezza dell’amore.

Fede e teologia

36. Poiché la fede è una luce, ci invita a inoltrarci in essa, a esplorare sempre di più l’orizzonte che illumina, per conoscere meglio ciò che amiamo. Da questo desiderio nasce la teologia cristiana. È chiaro allora che la teologia è impossibile senza la fede e che essa appartiene al movimento stesso della fede, che cerca l’intelligenza più profonda dell’autorivelazione di Dio, culminata nel Mistero di Cristo. La prima conseguenza è che nella teologia non si dà solo uno sforzo della ragione per scrutare e conoscere, come nelle scienze sperimentali. Dio non si può ridurre ad oggetto. Egli è Soggetto che si fa conoscere e si manifesta nel rapporto da persona a persona. La fede retta orienta la ragione ad aprirsi alla luce che viene da Dio, affinché essa, guidata dall’amore per la verità, possa conoscere Dio in modo più profondo. I grandi dottori e teologi medievali hanno indicato che la teologia, come scienza della fede, è una partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso. La teologia, allora, non è soltanto parola su Dio, ma prima di tutto accoglienza e ricerca di un’intelligenza più profonda di quella parola che Dio ci rivolge, parola che Dio pronuncia su se stesso, perché è un dialogo eterno di comunione, e ammette l’uomo all’interno di questo dialogo.[33] Fa parte allora della teologia l’umiltà che si lascia “toccare” da Dio, riconosce i suoi limiti di fronte al Mistero e si spinge ad esplorare, con la disciplina propria della ragione, le insondabili ricchezze di questo Mistero.

La teologia poi condivide la forma ecclesiale della fede; la sua luce è la luce del soggetto credente che è la Chiesa. Ciò implica, da una parte, che la teologia sia al servizio della fede dei cristiani, si metta umilmente a custodire e ad approfondire il credere di tutti, soprattutto dei più semplici. Inoltre, la teologia, poiché vive della fede, non consideri il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, costitutivi, in quanto il Magistero assicura il contatto con la fonte originaria, e offre dunque la certezza di attingere alla Parola di Cristo nella sua integrità.

 

CAPITOLO TERZO

VI TRASMETTO
 QUELLO CHE HO RICEVUTO
(cfr 1 Cor 15,3)

 

La Chiesa, madre della nostra fede

37. Chi si è aperto all’amore di Dio, ha ascoltato la sua voce e ha ricevuto la sua luce, non può tenere questo dono per sé. Poiché la fede è ascolto e visione, essa si trasmette anche come parola e come luce. Parlando ai Corinzi, l’Apostolo Paolo ha usato proprio queste due immagini. Da un lato, egli dice: « Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo » (2 Cor 4,13). La parola ricevuta si fa risposta, confessione e, in questo modo, risuona per gli altri, invitandoli a credere. Dall’altro, san Paolo si riferisce anche alla luce: « Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine » (2 Cor 3,18). È una luce che si rispecchia di volto in volto, come Mosè portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con Lui: « [Dio] rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo » (2 Cor 4,6). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce, come nella liturgia di Pasqua la luce del cero accende tante altre candele. La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma. I cristiani, nella loro povertà, piantano un seme così fecondo che diventa un grande albero ed è capace di riempire il mondo di frutti.

38. La trasmissione della fede, che brilla per tutti gli uomini di tutti i luoghi, passa anche attraverso l’asse del tempo, di generazione in generazione. Poiché la fede nasce da un incontro che accade nella storia e illumina il nostro cammino nel tempo, essa si deve trasmettere lungo i secoli. È attraverso una catena ininterrotta di testimonianze che arriva a noi il volto di Gesù. Come è possibile questo? Come essere sicuri di attingere al “vero Gesù”, attraverso i secoli? Se l’uomo fosse un individuo isolato, se volessimo partire soltanto dall’”io” individuale, che vuole trovare in sé la sicurezza della sua conoscenza, questa certezza sarebbe impossibile. Non posso vedere da me stesso quello che è accaduto in un’epoca così distante da me. Non è questo, tuttavia, l’unico modo in cui l’uomo conosce. La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arriva attraverso altri, preservato nella memoria viva di altri. La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande. Avviene così anche nella fede, che porta a pienezza il modo umano di comprendere. Il passato della fede, quell’atto di amore di Gesù che ha generato nel mondo una nuova vita, ci arriva nella memoria di altri, dei testimoni, conservato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la Chiesa. La Chiesa è una Madre che ci insegna a parlare il linguaggio della fede. San Giovanni ha insistito su quest’aspetto nel suo Vangelo, unendo assieme fede e memoria, e associando ambedue all’azione dello Spirito Santo che, come dice Gesù, « vi ricorderà tutto » (Gv 14,26). L’Amore che è lo Spirito, e che dimora nella Chiesa, mantiene uniti tra di loro tutti i tempi e ci rende contemporanei di Gesù, diventando così la guida del nostro camminare nella fede.

39. È impossibile credere da soli. La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è rapporto isolato tra l’”io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al “noi”, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa. La forma dialogata del Credo, usata nella liturgia battesimale, ce lo ricorda. Il credere si esprime come risposta a un invito, ad una parola che deve essere ascoltata e non procede da me, e per questo si inserisce all’interno di un dialogo, non può essere una mera confessione che nasce dal singolo. È possibile rispondere in prima persona, “credo”, solo perché si appartiene a una comunione grande, solo perché si dice anche “crediamo”. Questa apertura al “noi” ecclesiale avviene secondo l’apertura propria dell’amore di Dio, che non è solo rapporto tra Padre e Figlio, tra “io” e “tu”, ma nello Spirito è anche un “noi”, una comunione di persone. Ecco perché chi crede non è mai solo, e perché la fede tende a diffondersi, ad invitare altri alla sua gioia. Chi riceve la fede scopre che gli spazi del suo “io” si allargano, e si generano in lui nuove relazioni che arricchiscono la vita. Tertulliano l’ha espresso con efficacia parlando del catecumeno, che “dopo il lavacro della nuova nascita” è accolto nella casa della Madre per stendere le mani e pregare, insieme ai fratelli, il Padre nostro, come accolto in una nuova famiglia.[34]

I Sacramenti e la trasmissione della fede

40. La Chiesa, come ogni famiglia, trasmette ai suoi figli il contenuto della sua memoria. Come farlo, in modo che niente si perda e che, al contrario, tutto si approfondisca sempre più nell’eredità della fede? È attraverso la Tradizione Apostolica conservata nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo, che noi abbiamo un contatto vivo con la memoria fondante. E quanto è stato trasmesso dagli Apostoli — come afferma il Concilio Vaticano II — « racchiude tutto quello che serve per vivere la vita santa e per accrescere la fede del Popolo di Dio, e così nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto la Chiesa perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede ».[35]

La fede, infatti, ha bisogno di un ambito in cui si possa testimoniare e comunicare, e che questo sia corrispondente e proporzionato a ciò che si comunica. Per trasmettere un contenuto meramente dottrinale, un’idea, forse basterebbe un libro, o la ripetizione di un messaggio orale. Ma ciò che si comunica nella Chiesa, ciò che si trasmette nella sua Tradizione vivente, è la luce nuova che nasce dall’incontro con il Dio vivo, una luce che tocca la persona nel suo centro, nel cuore, coinvolgendo la sua mente, il suo volere e la sua affettività, aprendola a relazioni vive nella comunione con Dio e con gli altri. Per trasmettere tale pienezza esiste un mezzo speciale, che mette in gioco tutta la persona, corpo e spirito, interiorità e relazioni. Questo mezzo sono i Sacramenti, celebrati nella liturgia della Chiesa. In essi si comunica una memoria incarnata, legata ai luoghi e ai tempi della vita, associata a tutti i sensi; in essi la persona è coinvolta, in quanto membro di un soggetto vivo, in un tessuto di relazioni comunitarie. Per questo, se è vero che i Sacramenti sono i Sacramenti della fede,[36] si deve anche dire che la fede ha una struttura sacramentale. Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno.

41. La trasmissione della fede avviene in primo luogo attraverso il Battesimo. Potrebbe sembrare che il Battesimo sia solo un modo per simbolizzare la confessione di fede, un atto pedagogico per chi ha bisogno di immagini e gesti, ma da cui, in fondo, si potrebbe prescindere. Una parola di san Paolo, a proposito del Battesimo, ci ricorda che non è così. Egli afferma che « per mezzo del battesimo siamo […] sepolti insieme a Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova » (Rm 6,4). Nel Battesimo diventiamo nuova creatura e figli adottivi di Dio. L’Apostolo afferma poi che il cristiano è stato affidato a una “forma di insegnamento” (typos didachés), cui obbedisce di cuore (cfr Rm 6,17). Nel Battesimo l’uomo riceve anche una dottrina da professare e una forma concreta di vita che richiede il coinvolgimento di tutta la sua persona e lo incammina verso il bene. Viene trasferito in un ambito nuovo, affidato a un nuovo ambiente, a un nuovo modo di agire comune, nella Chiesa. Il Battesimo ci ricorda così che la fede non è opera dell’individuo isolato, non è un atto che l’uomo possa compiere contando solo sulle proprie forze, ma deve essere ricevuta, entrando nella comunione ecclesiale che trasmette il dono di Dio: nessuno battezza se stesso, così come nessuno nasce da solo all’esistenza. Siamo stati battezzati.

42. Quali sono gli elementi battesimali che ci introducono in questa nuova “forma di insegnamento”? Sul catecumeno s’invoca in primo luogo il nome della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Si offre così fin dall’inizio una sintesi del cammino della fede. Il Dio che ha chiamato Abramo e ha voluto chiamarsi suo Dio; il Dio che ha rivelato il suo nome a Mosè; il Dio che nel consegnarci suo Figlio ci ha rivelato pienamente il mistero del suo Nome, dona al battezzato una nuova identità filiale. Appare in questo modo il senso dell’azione che si compie nel Battesimo, l’immersione nell’acqua: l’acqua è, allo stesso tempo, simbolo di morte, che ci invita a passare per la conversione dell’”io”, in vista della sua apertura a un “Io” più grande; ma è anche simbolo di vita, del grembo in cui rinasciamo seguendo Cristo nella sua nuova esistenza. In questo modo, attraverso l’immersione nell’acqua, il Battesimo ci parla della struttura incarnata della fede. L’azione di Cristo ci tocca nella nostra realtà personale, trasformandoci radicalmente, rendendoci figli adottivi di Dio, partecipi della natura divina; modifica così tutti i nostri rapporti, la nostra situazione concreta nel mondo e nel cosmo, aprendoli alla sua stessa vita di comunione. Questo dinamismo di trasformazione proprio del Battesimo ci aiuta a cogliere l’importanza del catecumenato, che oggi, anche nelle società di antiche radici cristiane, nelle quali un numero crescente di adulti si avvicina al sacramento battesimale, riveste un’importanza singolare per la nuova evangelizzazione. È la strada di preparazione al Battesimo, alla trasformazione dell’intera esistenza in Cristo.

Per comprendere la connessione tra Battesimo e fede, ci può essere di aiuto ricordare un testo del profeta Isaia, che è stato associato al Battesimo nell’antica letteratura cristiana: « Fortezze rocciose saranno il suo rifugio […] la sua acqua sarà assicurata » (Is 33,16).[37] Il battezzato, riscattato dall’acqua della morte, poteva ergersi in piedi sulla “roccia forte”, perché aveva trovato la saldezza cui affidarsi. Così, l’acqua di morte si è trasformata in acqua di vita. Il testo greco la descriveva come acqua pistós, acqua “fedele”. L’acqua del Battesimo è fedele perché ad essa ci si può affidare, perché la sua corrente immette nella dinamica di amore di Gesù, fonte di sicurezza per il nostro cammino nella vita.

43. La struttura del Battesimo, la sua configurazione come rinascita, in cui riceviamo un nuovo nome e una nuova vita, ci aiuta a capire il senso e l’importanza del Battesimo dei bambini. Il bambino non è capace di un atto libero che accolga la fede, non può confessarla ancora da solo, e proprio per questo essa è confessata dai suoi genitori e dai padrini in suo nome. La fede è vissuta all’interno della comunità della Chiesa, è inserita in un “noi” comune. Così, il bambino può essere sostenuto da altri, dai suoi genitori e padrini, e può essere accolto nella loro fede, che è la fede della Chiesa, simbolizzata dalla luce che il padre attinge dal cero nella liturgia battesimale. Questa struttura del Battesimo evidenzia l’importanza della sinergia tra la Chiesa e la famiglia nella trasmissione della fede. I genitori sono chiamati, secondo una parola di sant’Agostino, non solo a generare i figli alla vita, ma a portarli a Dio affinché, attraverso il Battesimo, siano rigenerati come figli di Dio, ricevano il dono della fede.[38] Così, insieme alla vita, viene dato loro l’orientamento fondamentale dell’esistenza e la sicurezza di un futuro buono, orientamento che verrà ulteriormente corroborato nel Sacramento della Confermazione con il sigillo dello Spirito Santo.

44. La natura sacramentale della fede trova la sua espressione massima nell’Eucaristia. Essa è nutrimento prezioso della fede, incontro con Cristo presente in modo reale con l’atto supremo di amore, il dono di Se stesso che genera vita.

Nell’Eucaristia troviamo l’incrocio dei due assi su cui la fede percorre il suo cammino. Da una parte, l’asse della storia: l’Eucaristia è atto di memoria, attualizzazione del mistero, in cui il passato, come evento di morte e risurrezione, mostra la sua capacità di aprire al futuro, di anticipare la pienezza finale. La liturgia ce lo ricorda con il suo hodie, l’”oggi” dei misteri della salvezza. D’altra parte, si trova qui anche l’asse che conduce dal mondo visibile verso l’invisibile. Nell’Eucaristia impariamo a vedere la profondità del reale. Il pane e il vino si trasformano nel corpo e sangue di Cristo, che si fa presente nel suo cammino pasquale verso il Padre: questo movimento ci introduce, corpo e anima, nel movimento di tutto il creato verso la sua pienezza in Dio.

45. Nella celebrazione dei Sacramenti, la Chiesa trasmette la sua memoria, in particolare, con la professione di fede. In essa, non si tratta tanto di prestare l’assenso a un insieme di verità astratte. Al contrario, nella confessione di fede tutta la vita entra in un cammino verso la comunione piena con il Dio vivente. Possiamo dire che nel Credo il credente viene invitato a entrare nel mistero che professa e a lasciarsi trasformare da ciò che professa. Per capire il senso di questa affermazione, pensiamo anzitutto al contenuto del Credo. Esso ha una struttura trinitaria: il Padre e il Figlio si uniscono nello Spirito di amore. Il credente afferma così che il centro dell’essere, il segreto più profondo di tutte le cose, è la comunione divina. Inoltre, il Credo contiene anche una confessione cristologica: si ripercorrono i misteri della vita di Gesù, fino alla sua Morte, Risurrezione e Ascensione al Cielo, nell’attesa della sua venuta finale nella gloria. Si dice, dunque, che questo Dio comunione, scambio di amore tra Padre e Figlio nello Spirito, è capace di abbracciare la storia dell’uomo, di introdurlo nel suo dinamismo di comunione, che ha nel Padre la sua origine e la sua mèta finale. Colui che confessa la fede, si vede coinvolto nella verità che confessa. Non può pronunciare con verità le parole del Credo, senza essere per ciò stesso trasformato, senza immettersi nella storia di amore che lo abbraccia, che dilata il suo essere rendendolo parte di una comunione grande, del soggetto ultimo che pronuncia il Credo e che è la Chiesa. Tutte le verità che si credono dicono il mistero della nuova vita della fede come cammino di comunione con il Dio vivente.

Fede, preghiera e Decalogo

46. Altri due elementi sono essenziali nella trasmissione fedele della memoria della Chiesa. In primo luogo, la preghiera del Signore, il Padre nostro. In essa il cristiano impara a condividere la stessa esperienza spirituale di Cristo e incomincia a vedere con gli occhi di Cristo. A partire da Colui che è Luce da Luce, dal Figlio Unigenito del Padre, conosciamo Dio anche noi e possiamo accendere in altri il desiderio di avvicinarsi a Lui.

È altrettanto importante, inoltre, la connessione tra la fede e il Decalogo. La fede, abbiamo detto, appare come un cammino, una strada da percorrere, aperta dall’incontro con il Dio vivente. Per questo, alla luce della fede, dell’affidamento totale al Dio che salva, il Decalogo acquista la sua verità più profonda, contenuta nelle parole che introducono i dieci comandamenti: « Io sono il tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto » (Es 20,2). Il Decalogo non è un insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal deserto dell’ “io” autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio, lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia per portare la sua misericordia. La fede confessa così l’amore di Dio, origine e sostegno di tutto, si lascia muovere da questo amore per camminare verso la pienezza della comunione con Dio. Il Decalogo appare come il cammino della gratitudine, della risposta di amore, possibile perché, nella fede, ci siamo aperti all’esperienza dell’amore trasformante di Dio per noi. E questo cammino riceve una nuova luce da quanto Gesù insegna nel Discorso della Montagna (cfr Mt 5-7).

Ho toccato così i quattro elementi che riassumono il tesoro di memoria che la Chiesa trasmette: la Confessione di fede, la celebrazione dei Sacramenti, il cammino del Decalogo, la preghiera. La catechesi della Chiesa si è strutturata tradizionalmente attorno ad essi, incluso il Catechismo della Chiesa Cattolica, strumento fondamentale per quell’atto unitario con cui la Chiesa comunica il contenuto intero della fede, « tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede ».[39]

L’unità e l’integrità della fede

47. L’unità della Chiesa, nel tempo e nello spazio, è collegata all’unità della fede: « Un solo corpo e un solo spirito […] una sola fede » (Ef 4, 4-5).Oggi può sembrare realizzabile un’unione degli uomini in un impegno comune, nel volersi bene, nel condividere una stessa sorte, in una meta comune. Ma ci risulta molto difficile concepire un’unità nella stessa verità. Ci sembra che un’unione del genere si opponga alla libertà del pensiero e all’autonomia del soggetto. L’esperienza dell’amore ci dice invece che proprio nell’amore è possibile avere una visione comune, che in esso impariamo a vedere la realtà con gli occhi dell’altro, e che ciò non ci impoverisce, ma arricchisce il nostro sguardo. L’amore vero, a misura dell’amore divino, esige la verità e nello sguardo comune della verità, che è Gesù Cristo, diventa saldo e profondo. Questa è anche la gioia della fede, l’unità di visione in un solo corpo e in un solo spirito. In questo senso san Leone Magno poteva affermare: « Se la fede non è una, non è fede ».[40]

Qual è il segreto di questa unità? La fede è “una”, in primo luogo, per l’unità del Dio conosciuto e confessato. Tutti gli articoli di fede si riferiscono a Lui, sono vie per conoscere il suo essere e il suo agire, e per questo possiedono un’unità superiore a qualsiasi altra che possiamo costruire con il nostro pensiero, possiedono l’unità che ci arricchisce, perché si comunica a noi e ci rende “uno”.

La fede è una, inoltre, perché si rivolge all’unico Signore, alla vita di Gesù, alla sua storia concreta che condivide con noi. Sant’Ireneo di Lione l’ha chiarito in opposizione agli eretici gnostici. Costoro sostenevano l’esistenza di due tipi di fede, una fede rozza, la fede dei semplici, imperfetta, che si manteneva al livello della carne di Cristo e della contemplazione dei suoi misteri; e un altro tipo di fede più profondo e perfetto, la fede vera riservata a una piccola cerchia di iniziati che si elevava con l’intelletto al di là della carne di Gesù verso i misteri della divinità ignota. Davanti a questa pretesa, che continua ad avere il suo fascino e i suoi seguaci anche ai nostri giorni, sant’Ireneo ribadisce che la fede è una sola, perché passa sempre per il punto concreto dell’Incarnazione, senza superare mai la carne e la storia di Cristo, dal momento che Dio si è voluto rivelare pienamente in essa. È per questo che non c’è differenza nella fede tra “colui che è in grado di parlarne più a lungo” e “colui che ne parla poco”, tra colui che è superiore e chi è meno capace: né il primo può ampliare la fede, né il secondo diminuirla.[41]

Infine, la fede è una perché è condivisa da tutta la Chiesa, che è un solo corpo e un solo Spirito. Nella comunione dell’unico soggetto che è la Chiesa, riceviamo uno sguardo comune. Confessando la stessa fede poggiamo sulla stessa roccia, siamo trasformati dallo stesso Spirito d’amore, irradiamo un’unica luce e abbiamo un unico sguardo per penetrare la realtà.

48. Dato che la fede è una sola, deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità. Proprio perché tutti gli articoli di fede sono collegati in unità, negare uno di essi, anche di quelli che sembrerebbero meno importanti, equivale a danneggiare il tutto. Ogni epoca può trovare punti della fede più facili o difficili da accettare: per questo è importante vigilare perché si trasmetta tutto il deposito della fede (cfr 1 Tm 6,20), perché si insista opportunamente su tutti gli aspetti della confessione di fede. Infatti, in quanto l’unità della fede è l’unità della Chiesa, togliere qualcosa alla fede è togliere qualcosa alla verità della comunione. I Padri hanno descritto la fede come un corpo, il corpo della verità, con diverse membra, in analogia con il corpo di Cristo e con il suo prolungamento nella Chiesa.[42] L’integrità della fede è stata legata anche all’immagine della Chiesa vergine, alla sua fedeltà nell’amore sponsale per Cristo: danneggiare la fede significa danneggiare la comunione con il Signore.[43] L’unità della fede è dunque quella di un organismo vivente, come ha ben rilevato il beato John Henry Newman quando enumerava, tra le note caratteristiche per distinguere la continuità della dottrina nel tempo, il suo potere di assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra,[44] tutto purificando e portando alla sua migliore espressione. La fede si mostra così universale, cattolica, perché la sua luce cresce per illuminare tutto il cosmo e tutta la storia.

49. Come servizio all’unità della fede e alla sua trasmissione integra, il Signore ha dato alla Chiesa il dono della successione apostolica. Per suo tramite, risulta garantita la continuità della memoria della Chiesa ed è possibile attingere con certezza alla fonte pura da cui la fede sorge. La garanzia della connessione con l’origine è data dunque da persone vive, e ciò corrisponde alla fede viva che la Chiesa trasmette. Essa poggia sulla fedeltà dei testimoni che sono stati scelti dal Signore per tale compito. Per questo il Magistero parla sempre in obbedienza alla Parola originaria su cui si basa la fede ed è affidabile perché si affida alla Parola che ascolta, custodisce ed espone.[45] Nel discorso di addio agli anziani di Efeso, a Mileto, raccolto da san Luca negli Atti degli Apostoli, san Paolo testimonia di aver compiuto l’incarico affidatogli dal Signore di annunciare « tutta la volontà di Dio » (At 20,27). È grazie al Magistero della Chiesa che ci può arrivare integra questa volontà, e con essa la gioia di poterla compiere in pienezza.

 

CAPITOLO QUARTO

DIO PREPARA PER LORO UNA CITTÀ
(cfr Eb 11,16)

 

La fede e il bene comune

50. Nel presentare la storia dei Patriarchi e dei giusti dell’Antico Testamento, la Lettera agli Ebrei pone in rilievo un aspetto essenziale della loro fede. Essa non si configura solo come un cammino, ma anche come l’edificazione, la preparazione di un luogo nel quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri. Il primo costruttore è Noè che, nell’arca, riesce a salvare la sua famiglia (cfr Eb 11,7). Appare poi Abramo, di cui si dice che, per fede, abitava in tende, aspettando la città dalle salde fondamenta (cfr Eb 11,9-10). Sorge, dunque, in rapporto alla fede, una nuova affidabilità, una nuova solidità, che solo Dio può donare. Se l’uomo di fede poggia sul Dio-Amen, sul Dio fedele (cfr Is 65,16), e così diventa egli stesso saldo, possiamo aggiungere che la saldezza della fede si riferisce anche alla città che Dio sta preparando per l’uomo. La fede rivela quanto possono essere saldi i vincoli tra gli uomini, quando Dio si rende presente in mezzo ad essi. Non evoca soltanto una solidità interiore, una convinzione stabile del credente; la fede illumina anche i rapporti tra gli uomini, perché nasce dall’amore e segue la dinamica dell’amore di Dio. Il Dio affidabile dona agli uomini una città affidabile.

51. Proprio grazie alla sua connessione con l’amore (cfr Gal 5,6), la luce della fede si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace. La fede nasce dall’incontro con l’amore originario di Dio in cui appare il senso e la bontà della nostra vita; questa viene illuminata nella misura in cui entra nel dinamismo aperto da quest’amore, in quanto diventa cioè cammino e pratica verso la pienezza dell’amore. La luce della fede è in grado di valorizzare la ricchezza delle relazioni umane, la loro capacità di mantenersi, di essere affidabili, di arricchire la vita comune. La fede non allontana dal mondo e non risulta estranea all’impegno concreto dei nostri contemporanei. Senza un amore affidabile nulla potrebbe tenere veramente uniti gli uomini. L’unità tra loro sarebbe concepibile solo come fondata sull’utilità, sulla composizione degli interessi, sulla paura, ma non sulla bontà di vivere insieme, non sulla gioia che la semplice presenza dell’altro può suscitare. La fede fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo amore, e così illumina l’arte dell’edificazione, diventando un servizio al bene comune. Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune, la sua luce non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell’aldilà; essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza. La Lettera agli Ebrei offre un esempio al riguardo quando, tra gli uomini di fede, nomina Samuele e Davide, ai quali la fede permise di « esercitare la giustizia » (Eb 11,33). L’espressione si riferisce qui alla loro giustizia nel governare, a quella saggezza che porta la pace al popolo (cfr 1 Sam 12,3-5; 2 Sam 8,15). Le mani della fede si alzano verso il cielo, ma lo fanno mentre edificano, nella carità, una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento.

La fede e la famiglia

52. Nel cammino di Abramo verso la città futura, la Lettera agli Ebrei accenna alla benedizione che si trasmette dai genitori ai figli (cfr Eb 11, 20-21). Il primo ambito in cui la fede illumina la città degli uomini si trova nella famiglia. Penso anzitutto all’unione stabile dell’uomo e della donna nel matrimonio. Essa nasce dal loro amore, segno e presenza dell’amore di Dio, dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale, per cui i coniugi possono unirsi in una sola carne (cfr Gen 2,24) e sono capaci di generare una nuova vita, manifestazione della bontà del Creatore, della sua saggezza e del suo disegno di amore. Fondati su quest’amore, uomo e donna possono promettersi l’amore mutuo con un gesto che coinvolge tutta la vita e che ricorda tanti tratti della fede. Promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, che ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata. La fede poi aiuta a cogliere in tutta la sua profondità e ricchezza la generazione dei figli, perché fa riconoscere in essa l’amore creatore che ci dona e ci affida il mistero di una nuova persona. È così che Sara, per la sua fede, è diventata madre, contando sulla fedeltà di Dio alla sua promessa (cfr Eb 11,11).

53. In famiglia, la fede accompagna tutte le età della vita, a cominciare dall’infanzia: i bambini imparano a fidarsi dell’amore dei loro genitori. Per questo è importante che i genitori coltivino pratiche comuni di fede nella famiglia, che accompagnino la maturazione della fede dei figli. Soprattutto i giovani, che attraversano un’età della vita così complessa, ricca e importante per la fede, devono sentire la vicinanza e l’attenzione della famiglia e della comunità ecclesiale nel loro cammino di crescita nella fede. Tutti abbiamo visto come, nelle Giornate Mondiali della Gioventù, i giovani mostrino la gioia della fede, l’impegno di vivere una fede sempre più salda e generosa. I giovani hanno il desiderio di una vita grande. L’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare e guidare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, le dona una speranza solida che non delude. La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita. Essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all’amore, e assicura che quest’amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi ad esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio, più forte di ogni nostra fragilità.

Una luce per la vita in società

54. Assimilata e approfondita in famiglia, la fede diventa luce per illuminare tutti i rapporti sociali. Come esperienza della paternità di Dio e della misericordia di Dio, si dilata poi in cammino fraterno. Nella “modernità” si è cercato di costruire la fraternità universale tra gli uomini, fondandosi sulla loro uguaglianza. A poco a poco, però, abbiamo compreso che questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. Occorre dunque tornare alla vera radice della fraternità. La storia di fede, fin dal suo inizio, è stata una storia di fraternità, anche se non priva di conflitti. Dio chiama Abramo ad uscire dalla sua terra e gli promette di fare di lui un’unica grande nazione, un grande popolo, sul quale riposa la Benedizione divina (cfr Gen 12,1-3). Nel procedere della storia della salvezza, l’uomo scopre che Dio vuol far partecipare tutti, come fratelli, all’unica benedizione, che trova la sua pienezza in Gesù, affinché tutti diventino uno. L’amore inesauribile del Padre ci viene comunicato, in Gesù, anche attraverso la presenza del fratello. La fede ci insegna a vedere che in ogni uomo c’è una benedizione per me, che la luce del volto di Dio mi illumina attraverso il volto del fratello. Quanti benefici ha portato lo sguardo della fede cristiana alla città degli uomini per la loro vita comune! Grazie alla fede abbiamo capito la dignità unica della singola persona, che non era così evidente nel mondo antico. Nel secondo secolo, il pagano Celso rimproverava ai cristiani quello che a lui pareva un’illusione e un inganno: pensare che Dio avesse creato il mondo per l’uomo, ponendolo al vertice di tutto il cosmo. Si chiedeva allora: « Perché pretendere che [l’erba] cresca per gli uomini, e non meglio per i più selvatici degli animali senza ragione? »,[46] « Se guardiamo la terra dall’alto del cielo, che differenza offrirebbero le nostre attività e quelle delle formiche e delle api? ».[47] Al centro della fede biblica, c’è l’amore di Dio, la sua cura concreta per ogni persona, il suo disegno di salvezza che abbraccia tutta l’umanità e l’intera creazione e che raggiunge il vertice nell’Incarnazione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. Quando questa realtà viene oscurata, viene a mancare il criterio per distinguere ciò che rende preziosa e unica la vita dell’uomo. Egli perde il suo posto nell’universo, si smarrisce nella natura, rinunciando alla propria responsabilità morale, oppure pretende di essere arbitro assoluto, attribuendosi un potere di manipolazione senza limiti.

55. La fede, inoltre, nel rivelarci l’amore di Dio Creatore, ci fa rispettare maggiormente la natura, facendoci riconoscere in essa una grammatica da Lui scritta e una dimora a noi affidata perché sia coltivata e custodita; ci aiuta a trovare modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità e sul profitto, ma che considerino il creato come dono, di cui tutti siamo debitori; ci insegna a individuare forme giuste di governo, riconoscendo che l’autorità viene da Dio per essere al servizio del bene comune. La fede afferma anche la possibilità del perdono, che necessita molte volte di tempo, di fatica, di pazienza e di impegno; perdono possibile se si scopre che il bene è sempre più originario e più forte del male, che la parola con cui Dio afferma la nostra vita è più profonda di tutte le nostre negazioni. Anche da un punto di vista semplicemente antropologico, d’altronde, l’unità è superiore al conflitto; dobbiamo farci carico anche del conflitto, ma il viverlo deve portarci a risolverlo, a superarlo, trasformandolo in un anello di una catena, in uno sviluppo verso l’unità.

Quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno, come ammoniva il poeta T. S. Eliot: « Avete forse bisogno che vi si dica che perfino quei modesti successi / che vi permettono di essere fieri di una società educata / difficilmente sopravviveranno alla fede a cui devono il loro significato? ».[48] Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, si affievolirà la fiducia tra di noi, ci terremmo uniti soltanto per paura, e la stabilità sarebbe minacciata. La Lettera agli Ebrei afferma: « Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città » (Eb 11,16). L’espressione “non vergognarsi” è associata a un riconoscimento pubblico. Si vuol dire che Dio confessa pubblicamente, con il suo agire concreto, la sua presenza tra noi, il suo desiderio di rendere saldi i rapporti tra gli uomini. Saremo forse noi a vergognarci di chiamare Dio il nostro Dio? Saremo noi a non confessarlo come tale nella nostra vita pubblica, a non proporre la grandezza della vita comune che Egli rende possibile? La fede illumina il vivere sociale; essa possiede una luce creativa per ogni momento nuovo della storia, perché colloca tutti gli eventi in rapporto con l’origine e il destino di tutto nel Padre che ci ama.

Una forza consolante nella sofferenza

56. San Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto delle sue tribolazioni e delle sue sofferenze mette in relazione la sua fede con la predicazione del Vangelo. Dice, infatti che in lui si compie il passo della Scrittura: « Ho creduto, perciò ho parlato » (2 Cor 4,13). L’Apostolo si riferisce ad un’espressione del Salmo 116, in cui il Salmista esclama: « Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice » (v. 10). Parlare della fede spesso comporta parlare anche di prove dolorose, ma appunto in esse san Paolo vede l’annuncio più convincente del Vangelo, perché è nella debolezza e nella sofferenza che emerge e si scopre la potenza di Dio che supera la nostra debolezza e la nostra sofferenza. L’Apostolo stesso si trova in una situazione di morte, che diventerà vita per i cristiani (cfr 2 Cor 4,7-12). Nell’ora della prova, la fede ci illumina, e proprio nella sofferenza e nella debolezza si rende chiaro come « noi […] non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore » (2 Cor 4,5). Il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei si conclude con il riferimento a coloro che hanno sofferto per la fede (cfr Eb 11, 35-38), tra i quali un posto particolare lo occupa Mosè, che ha preso su di sé l’oltraggio del Cristo (cfr v. 26). Il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare atto di amore, affidamento alle mani di Dio che non ci abbandona e, in questo modo, essere una tappa di crescita della fede e dell’amore. Contemplando l’unione di Cristo con il Padre, anche nel momento della sofferenza più grande sulla croce (cfr Mc 15,34), il cristiano impara a partecipare allo sguardo stesso di Gesù. Perfino la morte risulta illuminata e può essere vissuta come l’ultima chiamata della fede, l’ultimo “Esci dalla tua terra” (Gen 12,1), l’ultimo “Vieni!” pronunciato dal Padre, cui ci consegniamo con la fiducia che Egli ci renderà saldi anche nel passo definitivo.

57. La luce della fede non ci fa dimenticare le sofferenze del mondo. Per quanti uomini e donne di fede i sofferenti sono stati mediatori di luce! Così per san Francesco d’Assisi il lebbroso, o per la Beata Madre Teresa di Calcutta i suoi poveri. Hanno capito il mistero che c’è in loro. Avvicinandosi ad essi non hanno certo cancellato tutte le loro sofferenze, né hanno potuto spiegare ogni male. La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino. All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce. In Cristo, Dio stesso ha voluto condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo per vedere in essa la luce. Cristo è colui che, avendo sopportato il dolore, « dà origine alla fede e la porta a compimento » (Eb 12,2).

La sofferenza ci ricorda che il servizio della fede al bene comune è sempre servizio di speranza, che guarda in avanti, sapendo che solo da Dio, dal futuro che viene da Gesù risorto, può trovare fondamenta solide e durature la nostra società. In questo senso, la fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c’è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo (cfr 2 Cor 4,16–5,5). Il dinamismo di fede, speranza e carità (cfr 1 Ts 1,3; 1 Cor 13,13) ci fa così abbracciare le preoccupazioni di tutti gli uomini, nel nostro cammino verso quella città, « il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (Eb 11,10), perché « la speranza non delude » (Rm 5,5).

Nell’unità con la fede e la carità, la speranza ci proietta verso un futuro certo, che si colloca in una prospettiva diversa rispetto alle proposte illusorie degli idoli del mondo, ma che dona nuovo slancio e nuova forza al vivere quotidiano. Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino, che “frammentano” il tempo, trasformandolo in spazio. Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza.

Beata colei che ha creduto (Lc 1,45)

58. Nella parabola del seminatore, san Luca riporta queste parole con cui Gesù spiega il significato del “terreno buono”: « Sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza » (Lc 8,15). Nel contesto del Vangelo di Luca, la menzione del cuore integro e buono, in riferimento alla Parola ascoltata e custodita, costituisce un ritratto implicito della fede della Vergine Maria. Lo stesso evangelista ci parla della memoria di Maria, di come conservava nel cuore tutto ciò che ascoltava e vedeva, in modo che la Parola portasse frutto nella sua vita. La Madre del Signore è icona perfetta della fede, come dirà santa Elisabetta: « Beata colei che ha creduto » (Lc 1,45).

In Maria, Figlia di Sion, si compie la lunga storia di fede dell’Antico Testamento, con il racconto di tante donne fedeli, a cominciare da Sara, donne che, accanto ai Patriarchi, erano il luogo in cui la promessa di Dio si compiva, e la vita nuova sbocciava. Nella pienezza dei tempi, la Parola di Dio si è rivolta a Maria, ed ella l’ha accolta con tutto il suo essere, nel suo cuore, perché in lei prendesse carne e nascesse come luce per gli uomini. San Giustino Martire, nel suo Dialogo con Trifone, ha una bella espressione in cui dice che Maria, nell’accettare il messaggio dell’Angelo, ha concepito “fede e gioia”.[49] Nella Madre di Gesù, infatti, la fede si è mostrata piena di frutto, e quando la nostra vita spirituale dà frutto, ci riem-piamo di gioia, che è il segno più chiaro della grandezza della fede. Nella sua vita, Maria ha compiuto il pellegrinaggio della fede, alla sequela di suo Figlio.[50] Così, in Maria, il cammino di fede dell’Antico Testamento è assunto nella sequela di Gesù e si lascia trasformare da Lui, entrando nello sguardo proprio del Figlio di Dio incarnato.

59. Possiamo dire che nella Beata Vergine Maria si avvera ciò su cui ho in precedenza insistito, vale a dire che il credente è coinvolto totalmente nella sua confessione di fede. Maria è strettamente associata, per il suo legame con Gesù, a ciò che crediamo. Nel concepimento verginale di Maria abbiamo un segno chiaro della filiazione divina di Cristo. L’origine eterna di Cristo è nel Padre, Egli è il Figlio in senso totale e unico; e per questo nasce nel tempo senza intervento di uomo. Essendo Figlio, Gesù può portare al mondo un nuovo inizio e una nuova luce, la pienezza dell’amore fedele di Dio che si consegna agli uomini. D’altra parte, la vera maternità di Maria ha assicurato per il Figlio di Dio una vera storia umana, una vera carne nella quale morirà sulla croce e risorgerà dai morti. Maria lo accompagnerà fino alla croce (cfr Gv 19,25), da dove la sua maternità si estenderà ad ogni discepolo del suo Figlio (cfr Gv 19,26-27). Sarà presente anche nel cenacolo, dopo la Risurrezione e l’Ascensione di Gesù, per implorare con gli Apostoli il dono dello Spirito Santo (cfr At 1,14). Il movimento di amore tra il Padre e il Figlio nello Spirito ha percorso la nostra storia; Cristo ci attira a Sé per poterci salvare (cfr Gv 12,32). Al centro della fede si trova la confessione di Gesù, Figlio di Dio, nato da donna, che ci introduce, per il dono dello Spirito Santo, nella figliolanza adottiva (cfr Gal 4,4-6).

60. A Maria, madre della Chiesa e madre della nostra fede, ci rivolgiamo in preghiera.

Aiuta, o Madre, la nostra fede!
Apri il nostro ascolto alla Parola, perché riconosciamo la voce di Dio e la sua chiamata.
Sveglia in noi il desiderio di seguire i suoi passi, uscendo dalla nostra terra e accogliendo la sua promessa.
Aiutaci a lasciarci toccare dal suo amore, perché possiamo toccarlo con la fede.
Aiutaci ad affidarci pienamente a Lui, a credere nel suo amore, soprattutto nei momenti di tribolazione e di croce, quando la nostra fede è chiamata a maturare.
Semina nella nostra fede la gioia del Risorto.
Ricordaci che chi crede non è mai solo.
Insegnaci a guardare con gli occhi di Gesù, affinché Egli sia luce sul nostro cammino. E che questa luce della fede cresca sempre in noi, finché arrivi quel giorno senza tramonto, che è lo stesso Cristo, il Figlio tuo, nostro Signore!

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno, solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, dell’anno 2013, primo di Pontificato.

 

FRANCISCUS


 

[1] Dialogus cum Tryphone Iudaeo, 121, 2: PG 6, 758.

[2] Clemente Alessandrino, Protrepticus, IX: PG 8, 195.

[3] Brief an Elisabeth Nietzsche (11 giugno 1865), in: Werke in drei Bänden, München 1954, 953s.

[4] Paradiso XXIV, 145-147.

[5] Acta Sanctorum, Iunii, I, 21.

[6] “Se il Concilio non tratta espressamente della fede, ne parla ad ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e soprannaturale, la suppone integra e forte, e costruisce su di essa le sue dottrine. Basterebbe ricordare le affermazioni conciliari […] per rendersi conto dell’essenziale importanza che il Concilio, coerente con la tradizione dottrinale della Chiesa, attribuisce alla fede, alla vera fede, quella che ha per sorgente Cristo e per canale il magistero della Chiesa” (Paolo VI, Udienza generale [8 marzo 1967]: Insegnamenti V [1967], 705).

[7] Cfr ad es. Conc. Ecum. Vat. i, Cost dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, cap. III: DS 3008-3020; Conc. Ecum. Vat. II, Cost dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 5; Catechismo della Chiesa Cattolica, 153-165.

[8] Cfr Catechesis V, 1: PG 33, 505A.

[9] In Psal. 32, II, s. I, 9: PL 36, 284.

[10] M. Buber, Die Erzählungen der Chassidim, Zürich 1949, 793.

[11] Émile, Paris 1966, 387.

[12] Lettre à Christophe de Beaumont, Lausanne 1993, 110.

[13] Cfr In Ioh. Evang., 45, 9: PL 35, 1722-1723.

[14] Parte II, IV.

[15] De continentia, 4, 11: PL 40, 356.

[16] Vom Wesen katholischer Weltanschauung (1923), in: Unterscheidung des Christlichen. Gesammelte Studien 1923-1963, Mainz 1963, 24.

[17] XI, 30, 40: PL 32, 825.

[18] Cfr ibid., 825-826.

[19] Cfr Vermischte Bemerkungen / Culture and Value, G.H. von Wright (a cura di), Oxford 1991, 32-33; 61-64.

[20] Homiliae in Evangelia, II, 27, 4: PL 76, 1207.

[21] Cfr Expositio super Cantica Canticorum, XVIII, 88: CCLContinuatio Mediaevalis 87, 67.

[22] Ibid., XIX, 90: CCLContinuatio Mediaevalis 87, 69.

[23] « A Dio che rivela è dovuta “l’obbedienza della fede” (Rm 16,26; cfr Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. Affinché poi l’intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni » (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 5).

[24] Cfr H. Schlier, Meditationen über den Johanneischen Begriff der Wahrheit, in: Besinnung auf das Neue Testament. Exegetische Aufsätze und Vorträge 2, Freiburg, Basel, Wien 1959, 272.

[25] Cfr S. Th. III, q. 55, a. 2, ad 1.

[26] Sermo 229/L, 2: PLS 2, 576: “Tangere autem corde, hoc est credere“.

[27] Cfr Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 73: AAS (1999), 61-62.

[28] Cfr Confessiones, VIII, 12, 29: PL 32, 762.

[29] De Trinitate, XV, 11, 20: PL 42, 1071: “verbum quod intus lucet“.

[30] Cfr De civitate Dei, XXII, 30, 5: PL 41, 804.

[31] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Dominus Iesus (6 agosto 2000), 15: AAS 92 (2000), 756.

[32] Demonstratio apostolicae praedicationis, 24: SC 406, 117.

[33] Cfr Bonaventura, Breviloquiumprol.: Opera Omnia, V, Quaracchi 1891, p. 201; In I Sent.proem, q. 1, resp.: Opera Omnia, I, Quaracchi 1891, p. 7; Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 1.

[34] Cfr De Baptismo, 20, 5: CCL 1, 295.

[35] Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 8. 

[36] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 59. 

[37] Cfr Epistula Barnabae, 11, 5: SC 172, 162.

[38] Cfr De nuptiis et concupiscentia, I, 4, 5: PL 44, 413: “Habent quippe intentionem generandi regenerandos, ut qui ex eis saeculi filii nascuntur in Dei filios renascantur.

[39] Conc. Ecum Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 8.

[40] In nativitate Domini sermo 4, 6: SC 22, 110.

[41] Cfr Ireneo, Adversus haereses, I, 10, 2: SC 264, 160.

[42] Cfr ibid., II, 27, 1: SC 294, 264.

[43] Cfr Agostino, De sancta virginitate, 48, 48: PL 40,424-425: “Servatur et in fide inviolata quaedam castitas virginalis, qua Ecclesia uni viro virgo casta cooptatur“.

[44] Cfr An Essay on the Development of Christian Doctrine, Uniform Edition: Longmans, Green and Company, London, 1868-1881, 185-189.

[45] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 10.

[46] Origene, Contra Celsum, IV, 75: SC 136, 372.

[47] Ibid., 85: SC 136, 394.

[48] “Choruses from The Rock” in: The Collected Poems and Plays 1909-1950, New York 1980, 106.

[49] Cfr Dialogus cum Tryphone Iudaeo, 100, 5: PG 6, 710.

[50] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 58.

Leggere per credere

Racconta un affermato scrittore cattolico che, anni fa, al termine della confessione, si sia sentito consigliare dal sacerdote, ignaro dell’identità del penitente, la lettura di uno dei propri bestseller. Non per penitenza, tiene a sottolineare l’autore, ma come aiuto nel cammino di fede.
 
Al tempo della rivoluzione digitale che tutto smaterializza, e dopo decenni di pedagogia incentrata sul costruire e sperimentare, se c’è un ambito in cui il caro vecchio libro sembra resistere bene è proprio quello della spiritualità e della formazione cristiana. Lo confermano anche i dati del mercato editoriale: la domanda di titoli su tematiche religiose è in costante aumento, mentre diminuisce l’età media del pubblico che vi si accosta. Tra i libri di ‘varia’ che si pubblicano in Italia, uno su dieci parla di Dio o della fede.
Le novità ‘religiose’ in libreria sono quasi 5mila ogni anno. Anche senza considerare la particolarità del cambio di pontificato – con papa Francesco che ha rapidamente scalato anche le più laiche classifiche editoriali – è facile constatare come la pubblicistica cattolica oggi non costituisca un’isola circondata di indifferenza, o la riserva di caccia di lettori selezionati.
Merito anche dei confessori – catechisti, educatori, insegnanti – di cui si diceva, e di quanti sono convinti che un buon libro di spiritualità e di cultura religiosa sia un ottimo compagno di viaggio, qualsiasi sia la strada e l’età.
Leggere è allargare il cuore e la mente; un’avventura dei sensi e del pensiero. Verità come queste le si trovano non raramente perfino fra i più cliccati ‘mi piace’ dei social network. A maggior ragione – possiamo aggiungere – se le pagine che abbiamo davanti ci leggono fin nella profondità dell’anima, e aiutano a mettere ordine in noi stessi, a pensare credendo e a credere pensando, spingendoci a guardare sempre più in là.
La storia della nostra fede è anche la storia delle letture che l’hanno provocata e fatta crescere. Una piccola biblioteca, intima e originale ma che è bello condividere. C’è il libro scoperto in un momento particolare, quello regalato dall’assistente spirituale o dall’animatore, la biografia e il commento biblico, il diario e il documento del magistero. Una fila di amici.
Il beato Franz Jägerstätter, il giovane contadino austriaco che preferì la morte al servizio militare nell’esercito nazista, concludeva così una delle sue ultime lettere: «I giovani devono chiedere prima di tutto a sacerdoti o a buoni educatori che cosa devono leggere, poiché un uomo che non legge niente non si potrà reggere in piedi e sarà solo una marionetta nelle mani degli altri».
 
Ernesto Diaco
   da Avvenire del 25 giugno 2013, pag. 28