Il Papa agli educatori: “il drago non è il più forte”

Visibile l’emozione di Papa Francesco nell’entrare mercoledì 24 luglio nella Basilica del Santuario di Nostra Signora di Aparecida, “la casa della Madre”, particolarmente cara al cuore del popolo latinoamericano. La memoria del Successore di Pietro torna alla V Conferenza Generale dell’Episcopato dell’America Latina e dei Caraibi: “I Vescovi – confida nell’omelia, ripensando a quell’incontro di sei anni fa – si sentivano incoraggiati, accompagnati e, in un certo senso, ispirati dalle migliaia di pellegrini che venivano ogni giorno ad affidare la loro vita alla Madonna: quella Conferenza è stata un grande momento di Chiesa. E, in effetti, si può dire che il Documento di Aparecida sia nato proprio da questo intreccio fra i lavori dei Pastori e la fede semplice dei pellegrini, sotto la protezione materna di Maria”.
E, rivolgendosi a tutti gli educatori, indica quindi “tre semplici atteggiamenti” per “trasmettere ai nostri giovani i valori che li rendano artefici di una Nazione e di un mondo più giusti, solidali e fraterni”.
Innanzitutto, “mantenere la speranza”. Commentando la lettura dell’Apocalisse, il Papa riconosce le “difficoltà ci sono nella vita”, ma esorta alla fiducia, perché “Dio non lascia mai che ne siamo sommersi”. Di qui l’appello: “Non perdiamo mai la speranza! Non spegniamola mai nel nostro cuore! Il “drago”, il male, c’è nella nostra storia, ma non è lui il più forte”. Quindi, è decisivo sottrarsi al “fascino di tanti idoli che si mettono al posto di Dio e sembrano dare speranza”: in realtà, sono “compensazioni”, “idoli passeggeri”. L’educatore, ha fatto capire, è chiamato a incoraggiare “la generosità che caratterizza i giovani”, convinti che “non hanno bisogno solo di cose, hanno bisogno soprattutto che siano loro proposti quei valori immateriali che sono il cuore spirituale di un popolo, la memoria di un popolo”.
Il secondo atteggiamento richiede di “lasciarsi sorprendere da Dio”, da Colui che sempre stupisce, come il vino nuovo nel Vangelo”. Sempre “Dio riserva il meglio per noi”; ma a sua volta “chiede che noi ci lasciamo sorprendere dal suo amore, che accogliamo le sue sorprese”. Di qui l’invito: “Fidiamoci di Dio! Lontano da Lui il vino della gioia, il vino della speranza, si esaurisce. Se ci avviciniamo a Lui, se rimaniamo con Lui, ciò che sembra acqua fredda, ciò che è difficoltà, ciò che è peccato, si trasforma in vino nuovo di amicizia con Lui”.
Infine, il Papa richiama la condizione di fondo del credente: “Vivere nella gioia, essere testimoni di questa gioia”. Poiché “Dio ci accompagna, abbiamo una Madre che sempre intercede per la vita dei suoi figli, Gesù ci ha mostrato che il volto di Dio è quello di un Padre che ci ama”, il cristiano non ha la faccia di chi sembra trovarsi in un lutto perpetuo: se siamo davvero innamorati di Cristo e sentiamo quanto ci ama, il nostro cuore si «infiammerà» di una gioia tale che contagerà quanti vivono vicini a noi”.
 
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“La fede in Cristo non è un frullato… Deve disturbare”

E’ stato il giorno degli argentini, quello di giovedì, alla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro. Nell’enorme cattedrale di san Sebastiano, popolarmente conosciuta come Catedral metropolitana, sin dalle prime ore dell’alba migliaia di argentini si sono messi in fila – sotto lo sguardo attento della Polizia – per prendere i posti migliori per vedere il “nuestro Papa Francisco”. Da giorni si parlava di un incontro del Pontefice argentino con i suoi giovani connazionali, per un fuori programma fortemente desiderato dallo stesso Bergoglio. L’attesa per entrare nell’enorme chiesa è stata segnata da canti, preghiere, da slogan e da continui sventolii di bandierine. Sono arrivati da Buenos Aires, da Cordoba, da San Juan, da Mar del Plata, da Mendoza, da Rosario, tanto per citare alcune città e diocesi, dopo ore e ore di viaggio. Hanno sofferto sotto la pioggia e al freddo, ma il Papa argentino non ha tradito le attese.

Forti parole ai giovani. Cinquemila i fortunati seduti in chiesa, circa 30mila quelli rimasti fuori e sotto la pioggia. Parole pronunciate avendo a fianco l’immagine della Vergine di Lujan, patrona degli argentini. Ha parlato, a braccio, dello “scandalo della Croce”, della necessità che la Chiesa esca per le strade del mondo, che la fede “deve disturbare e non va annacquata”. Un discorso dal sapore di “mandato missionario”, mai così aderente al tema della Gmg, “Andate e fate discepoli tutti i popoli”: “Mi aspetto che i giovani facciano rumore nelle diocesi” e che “la Chiesa vada nelle strade”. Fino a rimarcare che “la fede in Cristo non è uno scherzo, è uno scandalo. La croce continua a essere uno scandalo, ma è anche l’unico cammino sicuro. La fede deve fare rumore, disturbare, la fede non va annacquata”.

E i giovani hanno risposto con un impegno. Ricostruire un’Argentina nuova sulla forza salvifica del Vangelo. Per rendere visibile e concreto questo impegno hanno chiesto al Papa di benedire una riproduzione del Crocifisso di san Damiano di Assisi. La Croce da adesso in poi sarà pellegrina in tutte le diocesi del Paese. Forte la commozione dei giovani al termine dell’incontro. Fuori, ancora sotto la pioggia battente, raccontano di “emozioni forti, di parole che lasciano il segno”. “Di sentimento così forte che non si può spiegare” come dicono in coro FlorenciaMorena eAlejandra, sedicenni della Provincia di San Juan, “abbiamo sofferto molto il freddo e la pioggia, ma ne è valsa la pena”. “Mi ha toccato in modo particolare quando ha detto che noi giovani dobbiamo lottare per il nostro Paese per renderlo più forte e che dobbiamo ascoltare gli anziani per fare dell’Argentina un Paese più saggio”, aggiunge Morena. Il messaggio di Bergoglio è arrivato forte e chiaro alle orecchie dei giovani argentini. “Dobbiamo darci da fare, impegnarci al massimo e uscire per strada per testimoniare il Vangelo”. Rosaria, studentessa universitaria di Buenos Aires, descrive Bergoglio come “una persona santa, che parla in modo molto chiaro. Mi è piaciuto il suo spirito giovanile, le parole che usa, che ci incoraggiano molto, sono ben scelte”. Suor Lorena, delle Serve dell’Immacolata Bambina, da san Juan apprezza “la semplicità del Papa di volersi riunire con i giovani dell’Argentina, un’attenzione molto umile da parte sua. Mi ha colpito quando ha detto che la Chiesa deve uscire fuori, rompere tutto ciò che impedisce il rapporto diretto con gli altri, di essere attenti ai fratelli, di occuparci dei giovani ma anche degli anziani”.

Tra i giovani anche Jorge Rouillon, giornalista argentino che per anni ha scritto d’informazione religiosa al “Diario” e a “La Nacion” e oggi è a Rio per l’agenzia d’informazione cattolica argentina “Aica”: “Il Papa continua a essere quel ragazzo di un quartiere di Buenos Aires che ha sentito la chiamata a essere sacerdote. Ha un’intesa speciale con i giovani argentini. Anche loro entrano facilmente in sintonia con il Papa, li si vede felici con le loro bandiere, anche quelli che sono lì fuori sotto la pioggia si ricorderanno di aver partecipato a questo evento, anche se lo hanno visto soltanto per un attimo da lontano e sempre che abbiano avuto la fortuna di vederlo”.

La Verna – “BIG” dell’Ecumenismo a confronto

Il corso di formazione ecumenica è stato organizzato dalla Commissione Regionale per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Toscana ed in particolare da don Mauro Lucchesi, incaricato regionale per l’Ecumenismo e docente all’Istituto di Scienze Religiose “Beato Niccolò Stenone” di Pisa.

Si sta svolgendo alla casa Pastor Angelicus di La Verna e si protrarrà fino a domani, 20 luglio. Il meeting, molto partecipato, offre tutti gli elementi per favorire la maturazione della sensibilità al dialogo interreligioso.

L’accento è stato posto sulle chiese d’oriente ed è toccato al professor Enrico Morini, docente universitario dell’Ateneo bolognese, ripercorrere le tappe storiche della fede ortodossa tra teologia, liturgia, ecclesiologia e spiritualità. Emozionante il momento in cui ha preso la parola padre Ioan Coman, della comunità rumena-ortodossa fiorentina, che ha raccontato la sua esperienza:

“Sono arrivato in Italia a soli 16 anni,  mio padre era un sacerdote ortodosso e mi ha fatto studiare nelle scuole cattoliche, è stata una esperienza fondamentale per me; quando sono giunto in Italia le comunità rumene erano pochissime, la più importante era quella di Milano, oggi siamo in molti e – continua padre Coman – siamo stati aiutati proprio dai cattolici per la nostra formazione anche dal punto di vista logistico. Sarebbe bello – ha sottolineato – poter dialogare maggiormente perché infondo siamo tutti cristiani e dobbiamo tutti insieme lavorare di più”.

Monsignor Andrea Palmieri, del Pontificio Consiglio per l’unità dei Cristiani, si è invece soffermato sui dialoghi tra cattolici ed ortodossi ed in particolare sull’Oriente in Concilio nei documenti e nel contributo degli osservatori ortodossi, per arrivare ai primi passi dell’Ecumenismo della carità al dialogo teologico attuale. Al Corso di formazione ha partecipato anche il professor Riccardo Burigana, docente all’ISE (Istituto studi ecumenici) S. Bernardino di Venezia.

Il meeting terminerà domani a Camaldoli con l’incontro con un monaco che cura il dialogo interreligioso.

Eleonora Prayer  

Una società a misura di famiglia?

La 47ª Settimana Sociale si svolgerà a Torino dal 12 al 15 settembre.
Questo appuntamento – una delle forme storicamente più consolidate per dire il rapporto tra Vangelo e ordine sociale nel Paese – ha come tema in tale edizione “La famiglia, speranza e futuro della società italiana”; una questione che non intende ridursi ad un ambito interno alla Chiesa.
Come evidenzia il Documento preparatorio, vi è una ragione di carattere antropologico, relativa al valore della relazione uomo-donna nell’esperienza dell’amore umano; c’è, quindi, una dimensione sociale, che fa della famiglia non un affare privato, confinato nella gestione della dinamica degli affetti, ma un punto di forza della società; infine, ci sono richieste non più rinviabili che la famiglia pone alla società e che segnano l’agenda della politica: libertà di educazione, lavoro, pressione fiscale, welfare…
In allegato, il programma dettagliato delle giornate di Torino.
 

Il Papa a Rio: i giovani finestra del futuro

Ho imparato che, per avere accesso al Popolo brasiliano, bisogna entrare dal portale del suo immenso cuore”: sono le parole con le quali Papa Francesco si è presentato, lunedì sera, nel Palazzo Guanabara di Rio de Janeiro, rispondendo al saluto della presidente del Brasile, Dilma Roussef. Con tratto delicato e squisito, Papa Francesco ha proseguito dicendo: “Mi sia quindi permesso in questo momento di bussare delicatamente a questa porta”, la porta dell’“immenso cuore” dei brasiliani che già oggi, come hanno mostrato le immagini televisive, lo hanno accolto numerosissimi e festanti. Ha voluto ringraziare il Signore che, nella sua “amorevole provvidenza, ha voluto che il primo viaggio internazionale del mio Pontificato mi offrisse la possibilità di ritornare nell’amata America Latina”.
Il Papa ha poi avuto un pensiero per i vescovi brasiliani dicendo: “Voglio rivolgere una parola di affetto ai miei fratelli vescovi, sui quali grava il compito di guidare il gregge di Dio in questo immenso Paese, e alle loro dilette Chiese particolari. Con questa mia visita desidero proseguire nella missione pastorale propria del Vescovo di Roma di confermare i fratelli nella fede in Cristo, di incoraggiarli nel testimoniare le ragioni della speranza che scaturisce da Lui e di animarli a offrire a tutti le inesauribili ricchezze del suo amore”.
Ha quindi richiamato i protagonisti primi della Gmg, cioè i “giovani”, dicendo alle autorità presenti: “Sono venuto a incontrare giovani arrivati da ogni parte del mondo, attratti dalle braccia aperte del Cristo Redentore. Essi vogliono trovare un rifugio nel suo abbraccio, proprio vicino al suo Cuore, ascoltare di nuovo la sua chiara e potente chiamata:‘Andate e fate discepoli tutti i popoli’”. Giovani che Papa Francesco dimostra di conoscere e di amare, ricordando come essi “provengono dai diversi continenti, parlano lingue differenti, sono portatori di culture variegate, eppure trovano in Cristo le risposte alle loro più alte e comuni aspirazioni”
Dopo aver ricordato come non possa “esserci energia più potente di quella che si sprigiona dal cuore dei giovani quando sono conquistati dall’esperienza dell’amicizia con Cristo”, Papa Francesco ha chiamato in causa il mondo degli adulti affermando: “Nell’iniziare questa mia visita in Brasile, sono ben consapevole che, rivolgendomi ai giovani, parlo anche alle loro famiglie, alle loro comunità ecclesiali e nazionali di provenienza, alle società in cui sono inseriti, agli uomini e alle donne dai quali dipende in gran misura il futuro di queste nuove generazioni”. E a questo punto ha avuto un’espressione simbolica molto forte per il sentire popolare brasiliano. Ha detto, infatti: “È comune da voi sentire i genitori che dicono: ‘I figli sono la pupilla dei nostri occhi’. Che ne sarà di noi se non ci prendiamo cura dei nostri occhi? Come potremo andare avanti?”.
Di fronte alle massime autorità brasiliane e al corpo diplomatico, Papa Francesco ha insistito di nuovo sull’importanza dei giovani definendoli “la finestra attraverso la quale il futuro entra nel mondo, e quindi ci impone grandi sfide” e richiamando al dovere educativo degli adulti, a cui ha chiesto di “offrire loro spazio; tutelarne le condizioni materiali e spirituali per il pieno sviluppo; dargli solide fondamenta su cui possa costruire la vita”. Ha proseguito chiedendo di garantire ai giovani “sicurezza ed educazione”, “trasmettere valori duraturi”, “assicurare un orizzonte trascendente”, “consegnare l’eredità di un mondo che corrisponda alla misura della vita umana”, renderli “protagonisti del proprio domani e corresponsabili del destino di tutti”. Ha poi avuto un pensiero finale molto toccante quando ha chiesto “a tutti la gentilezza dell’attenzione e, se possibile, l’empatia necessaria per stabilirne un dialogo tra amici. In questo momento, le braccia del Papa si allargano per abbracciare l’intera nazione brasiliana, nella sua complessa ricchezza umana, culturale e religiosa”. Ha assicurato che “dall’Amazzonia fino alla pampa, dalle regioni aride fino al Pantanal, dai piccoli paesi fino alle metropoli, nessuno si senta escluso dall’affetto del Papa” e che pregherà per tutti i brasiliani mercoledì al santuario di Nostra Signora Aparecida. (Sir)

 

 

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Genesi 18,20-32

In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».

 

Abramo fu chiamato «amico di Dio» (cf. Gc 2,23). In questa veste egli agisce nella lettura che stiamo presentando. Nei vv. 16-19 del nostro capitolo si trova un monologo divino in cui il Signore si domanda se gli sia lecito tenere nascosto ad Abramo ciò che egli sta per fare nei confronti di Sodoma e Gomorra. Dio sceglie così Abramo come il confidente con il quale condividere le decisioni più gravi e al quale confidare le grandi ansie del suo cuore. Noteremo infatti che non si tratta semplicemente di comunicare ad Abramo la sentenza definitiva contro le due città, ma di dichiarare aperto un processo a loro carico.

     Al v. 20 abbiamo in italiano la parola «grido» essa nel testo originale suona come un termine tecnico del linguaggio giuridico. A Dio è arrivata una denuncia gravissima. Egli è l’ultimo appello per dare una risposta al caso, ma per farlo è necessario che apra un’inchiesta, un’indagine che è disposto a svolgere personalmente, anche se di fatto nel capitolo 19 saranno i due angeli a visitare Sodoma, come anticipa il v. 22 omesso dalla versione liturgica della lettura. Nel v. 21 si ha l’impressione di cogliere sulle labbra di Dio incredulità e indignazione. Sembra che da una parte Dio stenti a credere alla denuncia che gli è pervenuta, e dall’altra sia irritato a causa della gravità di quanto gli è stato denunciato. Il capitolo 19 presenterà un esempio concreto della malvagità di Sodoma (19,1-11). Il fatto non è da leggere esclusivamente nella linea del peccato di omosessualità, ancor più importante è la mancanza di ospitalità. Sodoma è l’antitesi di Abramo; mentre questi riceve Dio e lo accoglie generosamente, Sodoma riserva ai suoi inviati tutt’altro che accoglienza.

     Nei vv. 23-35 abbiamo la trattativa di Abramo con Dio, un colloquio nel quale sembra riecheggiare lo stile tipicamente orientale della contrattazione. Accanto a questa intercessione del patriarca potremmo collocare quella di Mosè (Es 32,11-13; Dt 9,26,29), e quella dei profeti (Am 7,4-6). Siamo al primo anello di una catena che attraverserà la storia d’Israele. Si potrebbero ricordare qui le parole di Geremia: «Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia (Ger 12, 1a)».

     I sentimenti di Abramo nell’incominciare il dialogo con Dio sono esattamente quelli delle prime parole di Geremia, Abramo ha un senso profondo del rispetto dovuto a Dio; prende coraggio man mano che trova Dio disposto all’ascolto. Dal punto di vista teologico questo è già un dato molto importante: Dio è disposto al dialogo, ad ascoltare amichevol-mente gli interventi degli uomini. Non si tratta di un Dio impenetrabile e arbitrario, ma disponibile e dialogante.

     Geremia poi dice che vorrebbe rivolgere a Dio una domanda circa la giustizia. Chiaramente il contesto in cui parla il profeta è completamente diverso dal nostro, ma l’interrogativo è il medesimo. Tutto il senso della trattativa trova qui il suo riassunto. Cosa decide il destino di una collettività: il peccato di molti o la giustizia di pochi? Questa è la domanda fondamentale. Essa prende ancora più rilievo se viene collocata sullo sfondo della società in cui venne formulata, una società in cui la responsabilità individuale non era ancora in primo piano. Il testo appartiene alla tradizione jahwista. A quel tempo il senso di appartenenza alla famiglia, alla tribù, alla città, in una parola sola alla comunità, era talmente forte da ritenere che tutti fossero solidali nel bene e nel male. Non deve essere dimenticato questo contesto per comprendere meglio il problema teologico fondamentale della lettura: con quale criterio Dio giudica? La risposta finale è che Dio nel suo giudizio è più disposto a tenere in conto il bene di pochi che il male di molti. Non bisogna perciò preoccuparsi molto di come concretamente le cose siano andate a finire per Sodoma, se cioè là non si trovassero in essa neppure 10 giusti. Sodoma non diventa un caso in se stessa, ma l’occasione per esporre l’asserto teologico fondamentale in questo brano: il bene compiuto da pochi può essere più forte del male compiuto da molti e determinare il giudizio divino in senso positivo. Questa linea teologica troverà sviluppi mirabili nel pensiero biblico. Basti pensare a Is 52,13-53,12, in cui il servo sofferente di Dio diventa lui stesso da solo strumento di salvezza per l’intero popolo. Si pensi poi al capitolo 5 della lettera ai Romani in cui Gesù viene presentato come il nuovo Adamo dal quale unicamente viene la salvezza dell’intera umanità.

 

Seconda lettura: Colossesi 2,12-14

Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. 

 

Il v 12 riprende un dato tradizionale della catechesi battesimale della comunità primitiva. Rm 6,4-6 sviluppa bene questo discorso del battesimo come partecipazione personale al mistero pasquale. Tra i due testi vi è però una importante differenza. Per la lettera ai Romani solo la partecipazione alla morte di Gesù è una realtà presente, mentre la partecipazione alla risurrezione è lasciata al compimento escatologico. Nel nostro brano abbiamo invece un progresso in questo senso: mediante la fede si partecipa fin da ora alla risurrezione di Gesù come nuova condizione personale di vita. La fede è da riporre nella potenza di Dio. Anche questa espressione ci riconduce alla lettera ai Romani: 1,4. La risurrezione di Gesù è la manifestazione più chiara della potenza di Dio. L’adesione di fede a questa verità fa si che la risurrezione non sia più un avvenimento che riguarda solo Gesù personalmente, ma coinvolge in modo efficace e presente anche i credenti. Grazie alla fede, la risurrezione di Gesù non rimane un fatto isolato destinato solo alla sua persona, ma diventa un avvenimento comunitario vitale e trasformante.

     Tocca al v. 13 spiegare in che modo tutto questo avvenga. Esso ricorda la condizione dei colossesi prima che credessero. Su di loro pesava una doppia penalizzazione: a causa dei peccati erano morti e per la loro incirconcisione erano esclusi da qualsiasi prospettiva di salvezza; non potevano beneficiare neppure dell’alleanza antica. Da questa condizione mortale essi sono stati liberati mediante il mistero pasquale. Il versetto ripropone la medesima espressione di quello precedente: «con lui» che non solo crea unità, ma ribadisce la centralità e l’efficacia dell’opera di Cristo della quale peraltro Paolo aveva già parlato in 1,14.20. Tutti i peccati sono stati perdonati grazie alla morte di Gesù come già insegnava la catechesi primitiva della Chiesa: 1Cor 15,3.

     Il v. 14 si rifà ad una immagine presa dal mondo commerciale per descrivere le condizioni degli uomini davanti a Dio. Il «documento scritto» di cui si parla qui è un chirografo, cioè un atto ufficiale, legale, che reca la firma autografa di chi contrae il debito. Fino a quando non si sono assolti gli oneri finanziari contratti si è perseguibili, non c’è scampo. La condizione dell’uomo come debitore nei confronti di Dio appartiene all’insegnamento di Gesù stesso: Mt 6,12; 18,23-35. L’ultimo testo mostra molto bene l’impossibilità dell’uomo di assolvere il debito con Dio. Non c’è via d’uscita dal punto di vista umano per togliersi di dosso questa ipoteca imposta dal peccato. Il chirografo era corredato di condizioni, nel testo originale rese con il termine dogma, che esprime precisione, sicurezza. Ma anche queste regole precise erano a sfavore dell’uomo. Si potrebbe vedere nel plurale di quel termine le prescrizioni della legge giudaica. Tutto è stato tolto di mezzo dalla croce. Ciò che prima inchiodava noi alla nostra insolvenza Dio lo ha inchiodato alla croce dandoci salvezza e speranza. La risurrezione segna così questo grande passaggio: davanti a Dio gli uomini non sono più debitori sotto processo e in attesa di condanna, ma liberi e fruitori di un rapporto filiale.

 

Vangelo: Luca 11,1-13

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».  

 

Esegesi 

     A Luca è molto caro presentare Gesù come modello di preghiera: 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 22,41.44; 23,34.46. Anche qui in 11,1 possiamo pensare che sia importante per l’evangelista mantenersi nella stessa linea. La richiesta di uno dei discepoli raggiunge infatti Gesù non appena Egli ha terminato di pregare. Si può legittimamente pensare che l’interesse sia non tanto quello di imparare una formula tipica dell’ambiente come la possedevano le diverse cerchie di discepoli riuniti intorno ad un maestro, come lo stesso accenno al Battista potrebbe far pensare, ma piuttosto di penetrare nel mistero stesso della preghiera di Gesù. Il «Padre nostro» rivela quale tipo di relazione Gesù ha con Dio e nell’ultima parte del brano, i vv 9-13 mostrano quale frutto ci si deve attendere dalla preghiera. Tutto ciò pone in un clima di assoluta novità, in una nuova via di relazione con Dio come solo nella preghiera di Gesù viene vissuta.

     Dopo aver presentato Gesù come modello di preghiera nei vv. 2-4 si trova il «Padre nostro». Il titolo dato a Dio è quello dell’ambiente familiare per chiamare affettuosamente il capo famiglia, sia da parte dei bambini che da parte degli adulti. Nella lingua in cui Gesù ha insegnato la preghiera era dunque Abbà. Il rapporto con Dio viene quindi caratterizzato dalla confidenza e dalla tenerezza. Dio in quanto padre ha autorità e amore nello stesso tempo; in questo modo viene riconosciuto da chi prega come Gesù. La sfumatura della tenerezza è però senz’altro la novità che Gesù insegna nel rapporto con Dio. Quanto fosse antico nelle comunità cristiane questa prassi di approccio al Padre lo testimonia Mc 14,36 e ancor di più Gal 4,6 e Rm 8,15.

     La prima richiesta riguarda la santificazione del nome divino. Per comprenderla si dovrebbe ricordare Ez 36,20-28. In quel testo Dio promette di manifestare la santità del suo nome ricostruendo l’unità del suo popolo disperso nell’esilio e ridonando agli israeliti il possesso della loro terra. In una parola Dio manifesterà la santità del suo nome realizzando la salvezza del suo popolo. Questa prospettiva fa cogliere molto bene il clima escatologico nel quale le prime due domande collocano l’orante. Con la prima domanda si chiede a Dio di realizzare definitivamente la salvezza degli uomini, con la seconda che sia portata a compimento l’opera di Gesù che ha proprio come scopo il risanamento definitivo dell’umanità. In 4,43 Gesù presenta come fine della sua missione appunto l’annuncio del regno. La stessa cosa devono fare gli inviati di Gesù: 9,2; 10,10. La seconda richiesta pertanto domanda che giunga a compimento l’opera che Gesù ha iniziato e che la Chiesa porta avanti con la sua missione.

     La terza richiesta riguarda il pane, l’alimento necessario alla vita.

Nel testo originale la qualifica di questo pane non è chiaramente comprensibile; il participio epiousion infatti è di difficile interpretazione. Normalmente viene interpretato come la razione di cibo necessaria alla giornata: «quotidiano». In questo modo non avremmo uno scadimento nella richiesta, come se dopo aver domandato realtà spirituali si precipitasse nella materialità. Rimarremmo ancora in un tipo di rapporto con Dio fondato sulla fiducia e sull’abbandono riconoscendolo come colui dal quale unicamente dipende il proprio esistere. Bisognerebbe anticipare quanto dirà Gesù in 12,22-31. Nonostante che il Padre sappia di cosa si ha bisogno Gesù invita però a chiedere. Il «Padre nostro» è veramente la preghiera del discepolo di Gesù di colui che ha fatto suo lo stile  di povertà radicale che Gesù praticava (9,58) abbandonando tutto per lui (18,18-23.28-30). In questa richiesta si nasconde allora il desiderio di essere discepoli di Gesù secondo lo stile da lui voluto e praticato.

     La quarta domanda presenta una realtà alla quale solo Dio può dare soluzione: il peccato. A questa condizione che distrugge le relazioni dell’uomo con Dio e con gli altri il Padre risponde con il perdono. Viene fatta questa richiesta a Dio perché solo lui può concedere quel dono e solo lui può far sì che dall’uomo perdonato nasca la capacità di perdonare. Da ultimo si domanda a Dio l’aiuto necessario per superare positivamente la tentazione, o meglio in un senso più generale la «prova». Bisogna guardarsi bene infatti dall’attribuire a Dio il ruolo di Satana. Non è infatti certamente Dio ad incitare al male. La prova invece è una condizione che l’uomo praticamente non può evitare dal momento che non è stata risparmiata neppure a Gesù (4,1-11; Eb 2,18). In quella situazione l’aiuto di Dio è necessario perche l’uomo non soccomba, ma resti fedele.

     I vv 5-8 raccontano una piccola parabola che invita alla più grande fiducia nella preghiera. Il clima del vicino oriente scoraggia i viaggi durante le ore calde; l’arrivo dell’amico a mezzanotte non è pertanto un fatto eccezionale, spesso bisogna approfittare delle ore notturne per gli spostamenti. Il pane poi era produzione casalinga, ogni famiglia lo produceva nel proprio forno. Inoltre la tipica casa palestinese prevedeva come locale destinato agli uomini una sola stanza poliuso: di giorno serviva da abitazione, di notte da dormitorio per tutta la famiglia. I congiunti deponevano stuoie a terra e dormivano tutti l’uno accanto all’altro. Il pane veniva conservato nel locale attiguo, dove si trovavano anche il forno e i silos per le scorte dei cereali. Andare a prendere il pane significava pertanto correre il rischio serio di calpestare i bambini che dormivano sul pavimento accanto ai genitori. La parabola all’inizio insiste sul legame di amicizia che esiste tra i protagonisti  messi in scena da Gesù. Questo e il sentimento che spinge a chiedere, anzi a disturbare in un’ora scomoda. L’amicizia spingerà ad esaudire la richiesta e se dovesse venire meno questa, sarà l’insistenza a garantire il risultato. A dire il vero la parola originale che viene tradotta con «insistenza» indica piuttosto la mancanza di pudore, potremmo dire il non avere paura di presentarsi ad un orario inopportuno. Gesù vuole così dare fondamento all’audacia nella preghiera. Su che cosa si basa la sicurezza di essere esauditi? Innanzitutto sul fatto che Dio è un amico e di conseguenza nella preghiera si può osare molto senza paura.

     I vv 9-10 contengono tre verbi che illustrano la preghiera: chiedere, cercare, bussare. Sono immagini classiche per indicarla. La terna costruita ponendo agli estremi due passivi teologici (vi sarà dato, vi sarà aperto) evidenzia ulteriormente le buone disposizioni di Dio verso chi si rivolge a Lui. I primi due verbi poi si ricollegano direttamente alla parabola appena raccontata ribadendone il messaggio.

     I vv 11-13 possono essere considerati un’altra piccola parabola che potremmo intitolare «del figlio affamato». Anche in questo caso, come nella parabola dell’amico importuno, Gesù fa appello all’esperienza degli ascoltatori. Si deve sottolineare bene che il soggetto scelto è di nuovo il padre, nonostante che concretamente e normalmente sia la madre ad occuparsi dell’alimentazione dei figli. Si vuole proseguire pertanto, come dice chiaramente il v 13, nella presentazione del Padre e della risposta che Egli dà alle richieste degli uomini. La novità di Luca rispetto a Matteo (7,7-11) è però che il Padre non concede «cose buone», ma lo Spirito Santo. L’importanza dello Spirito Santo in Luca è nota: 1,15.35.41.67,2,26.27; 3,22; 4,1.14.18. Da queste ricorrenze si capisce bene come per Luca lo Spirito Santo è il dono escatologico, il dono che realizza i tempi della salvezza. C’è indubbiamente un salto di qualità incredibile, ma senza contraddizione. Il salto di qualità consiste nel fatto che mentre fin qui l’oggetto della preghiera erano realtà materiali, ciò di cui l’uomo necessita per il suo sostentamento, la risposta di Dio si colloca su un piano ben superiore. Egli è disposto a concedere molto di più, a dare una partecipazione piena alla sua vita, a segnare per quanti lo domandano il compimento della salvezza nel quale nulla mancherà all’uomo né il necessario per il quotidiano, né l’intimità con Dio. Mentre la preghiera umana si appiattisce spesso su realtà materiali Gesù invita a questo grande cambiamento di prospettiva: passare dal vedere Dio come colui che provvede semplicemente all’esistenza terrena a colui che assicura pienezza di vita attraverso il dono del suo Spirito. La considerazione è particolarmente preziosa in questo anno dedicato allo Spirito Santo e potrebbe diventare il vero fulcro dell’omelia.

 

Meditazione 

     Il tema della preghiera domina la liturgia della Parola in questa domenica e la domanda che risuona sulle labbra dei discepoli – «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1) – può costituire anche per noi l’interrogativo, o più ampiamente l’atteggiamento interiore con cui celebrare questa eucaristia. Alla richiesta dei discepoli Gesù risponde con una piccola catechesi, suddivisibile in tre parti. Dapprima consegna il Padre Nostro (vv. 2-4); quindi racconta una breve parabola (vv. 5-8); infine offre un insegnamento sull’efficacia della preghiera (vv. 9-13). Se la prima e la terza parte trovano dei paralleli nella tradizione sinotti-ca, la parabola centrale è invece propria di Luca e rivela pertanto la prospettiva peculiare con cui il terzo vangelo comprende il mistero della preghiera. Potremmo anche dire che, se

nel Padre Nostro Gesù mostra quale debba essere il nostro modo di stare davanti a Dio, attraverso la parabola rivela piuttosto quale sia il modo stesso con cui Dio si relaziona con i suoi figli. Le parabole infatti (e questa del capitolo undicesimo non fa eccezione) sono anzitutto una rivelazione del modo di essere e di agire del Padre, che ci interpella personalmente e ci chiede di trasformare il nostro stesso modo di essere e di agire. Per Gesù, la contemplazione del volto del Padre consente sempre – e nello stesso tempo esige – una trasfigurazione dell’agire umano. Per imparare a pregare occorre dunque anzitutto guardare a come Dio si relaziona con noi.

     La parabola presenta la relazione tra tre amici. Il primo giunge nel cuore della notte a casa di un suo amico ed è per noi facile immaginare il suo bisogno: è provato dal viaggio, probabilmente non ha ancora cenato, necessita di ristorarsi e riposarsi. In questa situazione, cosa fare? Ciò che viene subito in mente al protagonista della parabola è ricorrere all’aiuto di un terzo amico. Non cerca di risolvere da sé, in modo autonomo e autosufficiente, la difficoltà: riconosce la propria impossibilità e accetta di rivolgersi a qualcun altro. Poco importa se è notte fonda: è un amico, mi aiuterà. Così ragiona il protagonista della pa-rabola e così agisce. Il racconto, in questo modo, ci sollecita a metterci nei panni di questo uomo e a domandarci: avremmo agito come lui? È un primo interrogativo con cui la parabola ci interpella personalmente. A scavare più a fondo nel brano emerge però un secondo interrogativo, più importante del primo. La traduzione italiana di fatto elimina la domanda che nel testo greco è possibile intravedere. Infatti, nel testo originario Gesù introduce il suo racconto con un pronome interrogativo: chi di voi? La parabola inizia con una domanda; il problema è stabilire fin dove essa giunge. Probabilmente si conclude al v. 7 (in greco c’è un’unica frase) dove, anziché un punto e virgola, occorrerebbe mettere un bel punto interrogativo. Questo amico – domanda Gesù – gli dirà così: «Non m’importunare… non posso alzarmi per darti i pani?». La risposta la dà lo stesso Gesù, al v. 8: «vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono». La vera domanda posta dalla parabola riguarda dunque il comportamento del personaggio che viene importunato nel cuore della notte. Che cosa farà: si alzerà o no per esaudire la richiesta del suo amico? Il vero protagonista è lui e su di lui Gesù attira l’attenzione dei suoi ascoltatori. Più che ‘parabola dell’amico importuno’, dovremmo intitolare questo racconto ‘parabola dell’amico importunato’: è lui il protagonista principale di quanto avviene.

     Nonostante tutte le difficoltà alle quali questo tale deve andare incontro, la risposta di Gesù non tollera dubbi: l’amico importunato esaudirà la richiesta di chi lo ha svegliato a notte fonda. E lo farà almeno per due motivi: a) per amicizia: colui che ha bisogno è un amico, e gli amici si aiutano volentieri; b) ma anche per la sua invadenza. Il vocabolo qui usato da Luca — anaideia —  significa letteralmente ‘senza faccia’, dunque senza timore, senza vergogna, in modo quasi sfacciato, impudente, disinvolto. La preghiera di questo tale non è soltanto insistente o invadente; è anche audace e confidente. Non ha timore o ritegno nello svegliare l’amico nel cuore della notte. Sa che è un amico; sa che con lui può avere confidenza e fiducia, può osare. È importante comprendere che si può pregare in questo modo soltanto chi sappiamo essere nostro amico. Con gli amici ci si comporta in modo diverso rispetto agli estranei.

     A questo riguardo, dobbiamo fare attenzione a come Gesù conclude la parabola, al v. 8: «almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono». Il testo greco recita più esattamente: «gli darà tutto quello di cui ha bisogno». L’amico importuno chiedeva tre pani; riceve molto di più: torna a casa con tutto quello di cui ha bisogno. In questo ‘tutto’ va inclusa anche la bellezza della relazione che ha sperimentato: insieme al pane, ha ricevuto la certezza di avere un amico sicuro, in cui poter confidare senza esitazione e senza timore.

     Troviamo così nella parabola una dinamica tipica della preghiera cristiana, sottesa anche al Padre Nostro: preghiamo chiedendo il pane per ogni giorno, e insieme al pane ogni altro bene necessario alla vita, ma perché attraverso i suoi doni Dio santifichi il suo nome, cioè ci faccia conoscere il suo volto; ci conceda il suo Regno, introducendoci nella relazione d’amore con la sua persona; compia la sua volontà, che è la salvezza di ogni suo figlio. L’esaudimento nella preghiera supera la nostra richiesta. Il protagonista della parabola insieme al pane riceve il volto dell’amico che si prende cura del suo bisogno; così noi, nella nostra preghiera, riceviamo il volto stesso di Dio che ci rivela il suo nome di Padre e ci dona il suo Regno e la sua salvezza.

     Gesù ribadisce questo aspetto anche nella terza parte della sua catechesi, laddove parlando dell’efficacia della preghiera conclude: «quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (v. 13). Lo Spirito, come dono per eccellenza di Dio, ci testimonia che il Padre buono, anche quando si rende sollecito verso i nostri bisogni, non intende semplicemente donarci dei beni, ma attraverso di essi desidera comunicarci la sua paternità, il suo abbraccio di Padre, la sua comunione d’amore. Nello Spirito Dio ci dona se stesso, e nello stesso tempo ci dona la nostra più vera identità, quella di essere suoi figli, perché è solo nello Spirito – ci ricorda l’apostolo Paolo – che possiamo gridare «Abbà, Padre!» (cfr. Rom 8,15; Gal 4,6).

     Non dobbiamo però dimenticare che, oltre i due personaggi principali, sullo sfondo della parabola rimane una terza figura: il tizio che arriva nel cuore della notte, da un lungo viaggio, stanco e affamato. Anche lui è un ‘amico’: così lo definisce la parabola. La relazione sottesa al racconto non è a due, ma a tre. Sciogliendo la metafora: l’amicizia con Dio implica sempre anche l’amicizia con gli altri uomini. Si può entrare in un rapporto confidente con Dio perché si sa sperimentare la bellezza di un rapporto confidente con gli altri uomini. Il tizio della parabola osa bussare alla porta dell’amico perché lui stesso non ha avuto remore nel lasciarsi importunare nel cuore della notte. Non teme di divenire importuno perché a sua volta si è lasciato importunare.

     Luca, nel suo vangelo, usa la coppia verbale ‘chiedere-dare’ sia per il nostro rapporto con Dio, sia per quello con gli altri. «Chiedete e vi sarò dato», afferma nell’insegnamento sulla preghiera (v. 9). «Da’ a chiunque ti chiede», ricorda nel discorso della pianura (Lc 6,30). Possiamo chiedere a Dio di darci solo se a nostra volta siamo disposti a dare a chi ci chiede. La preghiera davanti a Dio implica sempre la nostra responsabilità davanti agli uomini. Diviene allora davvero ‘intercessione’, secondo il bel modello che ascoltiamo nella prima lettura con l’intercessione di Abramo. Intercedere significa ‘fare un passo in mezzo’, «fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione» (C.M. Martini). Mettersi in mezzo tra Dio e gli uomini significa anche mettersi in mezzo a entrambi gli atteggiamenti costitutivi della preghiera: ci si mette in mezzo per chiedere, ci si mette in mezzo per donare a nostra volta. Il pane da chiedere – insegna nel Padre nostro Gesù – non è mio, è nostro; ricevo il perdono perché possa perdonare a mia volta.

 

Preghiere e racconti 

Aiutare i nostri fratelli ancor prima che ce lo chiedono

“Un uomo bussò alla porta di un amico per chiedergli un favore:

“Puoi prestarmi quattromila denari? Devo saldare un debito.

“L’altro chiese alla moglie di prendere tutti i loro risparmi e gli oggetti di valore: il piccolo tesoro, però, si rivelò insufficiente. Chiesero aiuto ai vicini e, alla fine, fu raccolta la somma necessaria.

“Quando l’uomo se ne fu andato, la donna notò che il marito stava piangendo.

“Perché sei triste? Gli domandò. Per il fatto che ci siamo indebitati con i vicini e non sai se saremo in grado di onorare il nostro debito?

“No, affatto. Piango perché nutro un grande affetto per quell’amico, eppure non mi sono mai preoccupato per lui. Mi è ritornato alla mente soltanto quando si è presentato alla nostra porta per chiedere un prestito.

“Andate, dunque, e raccontate la storia di ciò che è accaduto questo pomeriggio. E ricordate che dobbiamo aiutare i nostri fratelli ancor prima che ce lo chiedono.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Milano, Bompiani, 2012, 174-175).

 

La preghiera del «Padre nostro»

Non è una novità il fatto di dare a Dio il titolo di padre. Nelle culture pagane il termine padre ha due accezioni: da una parte richiama la generazione; d’altra parte è sinonimo di padrone. Non si utilizza, invece, il termine padre con una valenza amorosa, per indicare una relazione d’amore fra l’umanità e la divinità. Nel mondo biblico il termine padre si adopera soprattutto per esprimere la singolare relazione fra il Messia discendente di Davide e Dio stesso: «Egli mi invocherà: Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza» (Sal 89,27).

La novità di Gesù, dunque, non sta nell’uso del termine padre per rivolgersi a Dio, ma nel contenuto che attraverso quell’appellativo egli esprime e comunica. Se poteva essere insolito per un israelita chiamare Dio Padre, è decisamente strano e impensabile chiamarlo «Abbà» (Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6). La stranezza sta nel fatto che si tratta di un’espressione aramaica propria del linguaggio infantile, indeclinable e senza suffissi, tipica del parlare quotidiano in famiglia: corrisponde al nostro «papà» o «babbo», ed esprime intimità, confidenza, tenerezza e fiducia. «Alla sensibilità dei contemporanei di Gesù sarebbe sembrato irriverente, anzi impensabile, rivolgersi a Dio con questo gergo familiare. Gesù ha osato invocare Dio chiamandolo ‘abbà e questa è una ipsissima vox Iesu» (J. JEREMIAS, Teologia, 82).  L’invocazione «Abbà» sulle labbra di Gesù rivela il mistero della sua figliolanza divina e ci dice la sua relazione di fiduciosa obbedienza verso il Padre: ma ai suoi discepoli egli trasmette la possibilità della stessa relazione.

(Cf. F. MORAGLIA, Dio Padre Misericordioso, Genova, Marietti, 1998, 50-54).

 

Parafrasi del “Padre Nostro”(S. Francesco d’Assisi)

O santissimo Padre nostro: creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro.

Che sei nei cieli negli angeli e nei santi, illuminandoli alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce; infiammandoli all’amore, perché tu, Signore, sei amore; ponendo la tua dimora in loro e riempiendoli di beatitudine, perché tu, Signore, sei il sommo bene, eterno, dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene.

Sia santificato il tuo nome si faccia luminosa in noi la conoscenza di te, affinché possiamo conoscere l’ampiezza dei tuoi benefici, l’estensione delle tue promesse, la sublimità della tua maestà e la profondità dei tuoi giudizi.

Venga il tuo regno perché tu regni in noi per mezzo della grazia e ci faccia giungere nel tuo regno, ove la visione di te è senza veli, l’amore di te è perfetto, la comunione di te è beata, il godimento di te senza fine.

Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra affinché ti amiamo con tutto il cuore sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno.

 Il nostro pane quotidiano dà a noi oggi il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell’amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì.

E rimetti a noi i nostri debiti per la tua ineffabile misericordia, per la potenza della passione del tuo Figlio diletto e per i meriti e l’intercessione della beatissima Vergine e di tutti i tuoi eletti.

Come noi li rimettiamo ai nostri debitori e quello che non sappiamo pienamente perdonare, Tu, Signore, fa’ che pienamente perdoniamo, sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti.

E non ci indurre in tentazione nascosta o manifesta, improvvisa o insistente.

Ma liberaci dal male passato, presente e futuro. Amen.

 

«Chiamare Dio con il nome di “Padre”»

 Il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d’amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità (cf. Is 66,13; Sal 131,21), che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l’uomo i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane [cf. Sal 27,10], pur essendone l’origine e il modello [cf. Ef 3,14; Is 49,15]: nessuno è padre quanto Dio.

(Cf. CCC 239).

«Sia santificato il tuo nome»

Nel linguaggio biblico il nome rappresenta la realtà stessa dell’individuo, il suo mondo interiore, la sua essenza, la sua identità e talora anche la missione di una persona (cf. Gen 17,5;17,15;32,28-30;Rt 1,20;Gv 1,42; Ap 2,17). Nella mentalità semitica conoscere il nome di qualcuno era conoscere, e in qualche modo anche possedere, la sua persona; sicché Dio non rivela mai il suo nome, perché non può mai essere totalmente compreso né posseduto dall’uomo (Es 3,13-14).

Il nome di Dio è l’essenza stessa di Dio, il suo essere rivolto a noi. La preghiera chiede che questo nome – che è Dio stesso nel suo rivolgersi a noi – sia santificato, che Dio stesso cioè manifesti la sua identità come santa. Così, pronunciare il nome di Dio non significa semplicemente utilizzare una parola che lo indica, ma addentrarsi nella sua santità, nel suo stesso essere (si veda ad esempio nel Sal 20,8: «Gli altri confidino nei carri e nei cavalli, noi confidiamo nel nome del Signore», e in Gv 17,6: «Io ho fatto conoscere il tuo nome a quelli che mi hai dato»).

«Venga il tuo Regno»

«Venga»: più che una richiesta è un desiderio. I figli davanti al Padre non si approfittano del potere, vogliono diventare servi. C’ è un senso di urgenza: se fosse per il desiderio di colui che prega, il suo Dio sarebbe già il suo re.

«Il tuo Regno»: il regno di Dio è il centro e il motivo della predicazione di Gesù (Mc 1, 14-15), la ragione che spiega la sua vita e la sua morte.

Lontano dall’idea di un messianismo politico, condiviso da alcuni discepoli (Mt 20,21), ma ritenuto da Gesù una tentazione (Mt 4,8-9), Gesù indicava la vicinanza del regno di Dio nelle opere che lui compiva, nella vita umana liberata dalla malattia, da ogni forma di male e di oppressione (Lc 7,18-23; Mt 11,2-6). Indicava i segni del regno di Dio nell’accoglienza e nella riconciliazione che concedeva ai peccatori in nome di Dio e quindi in una nuova fraternità che stava per nascere (Lc 15,1-2; Mc 2,15). Mostrava nei suoi gesti e nelle sue parole il progressivo allargarsi dei confini di questo regno, fino ad abbattere tutte le barriere tra gli uomini (Mt 8,5-13; 15,21-28).

«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»

L’espressione è di sapore giudaico e quindi per noi di non immediata comprensione, come le due precedenti. Per comprenderla, prima di tutto non bisogna dimenticare che essa è retta dall’appellativo «Padre»: «Padre, sia fatta la tua volontà». Questo fatto connota subito in maniera differente il senso di «volontà».

Secondo la tradizione biblica, la volontà di Dio non si riduce ai comandamenti, perché se così fosse sarebbe un impegno che dobbiamo portare avanti noi e questa domanda sarebbe semplicemente una richiesta di aiuto perché riusciamo noi a fare la sua volontà. Come le precedenti, questa domanda ha due risvolti, uno che riguarda Dio e il suo agire, l’altro che riguarda noi e la nostra capacità di metterci in sintonia con lui.

«Dacci il nostro pane quotidiano»

Le ultime tre domande del Padrenostro orientano lo sguardo non più al cielo, ma alla terra. Tuttavia questa seconda parte non deve essere disgiunta dalla prima; anzi, c’è tra loro un’intima connessione e consequenzialità. Infatti la seconda parte della preghiera evidenzia come si devono mettere a fuoco i bisogni fondamentali dell’esistenza umana e credente, perché non impediscano la nostra adesione al Padre, ma anzi diventino terreno sul quale si edifica e si esprime la nostra vita di figli di Dio.

La domanda sul pane si inquadra in questo contesto. Essa però chiede di essere ben compresa nel suo significato. La nostra condizione di vita potrebbe renderla oggetto di fraintendimento: cosa significa chiedere il pane quotidiano per coloro che sulla loro mensa hanno garantito quotidianamente già ben più del pane necessario? «È bello -dice Gandhi- parlare di Dio mentre siamo seduti dopo una piacevole colazione e nell’attesa di un pranzo ancora migliore: ma come posso parlare di Dio alle moltitudini che devono tirare avanti senza due pasti al giorno? A loro Dio può soltanto apparire come pane e burro». Si può correre il rischio di svilire la forza della domanda, intendendola subito in un senso troppo spirituale e allegorico. Oppure potremmo intenderla come una preghiera fatta per coloro che non hanno da mangiare; ma allora la nostra sensibilità ci fa reagire: non tocca forse a noi (e, prima ancora, a loro) darci da fare perché ciò avvenga, invece di chiedere che lo faccia Dio? E poi: che cos’è in fondo questo pane di cui abbiamo veramente bisogno?

Occorre rimetterci alla scuola della Parola per apprendere la ricca esperienza di vita che è racchiusa in questa invocazione e che può scaturire per noi dalla preghiera quotidianamente ripetuta con fede.

«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»

La richiesta del perdono sarebbe impropria e impossibile se non fosse pronunciata di fronte al volto di questo Dio che, nella vita di Gesù, nella sua parola, nella sua prassi e massimamente nella sua morte e risurrezione, ha manifestato tutta la sua vicinanza e disponibilità al perdono. Noi possiamo perciò avanzare questa domanda perché ci è stato manifestato il vero volto di Dio: la sua paterna misericordia.

Il perdono non è una semplice remissione, di una colpa passata, ma è il dono di instaurare relazioni nuove. Quindi lo possiamo riconoscere quando vediamo che realmente colui che lo riceve è trasformato. Questa trasformazione noi la riconosciamo dentro le relazioni fraterne, nei diversi contesti in cui si gioca la nostra vita con chi ci è prossimo. Possiamo perciò comprendere il senso della domanda; chi prega così vive nella fede la certezza dell’amore gratuito di Dio, Padre di misericordia, perciò domanda di vedere la forza del perdono ricevuto proprio dentro il perdono che egli accorda ai fratelli: è li che noi riconosciamo di essere perdonati da Dio, rinnovati nel profondo perché capaci di perdonare.

Il perdono è autentico rinnovamento perché rende capaci di vivere sempre nuove relazioni; chi perdona vive la gioia di vedere nascere in chi ha perdonato la capacità di un amore veramente diffusivo.

«E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male»

L’invocazione crea comunque una certa difficoltà ed è senza dubbio quella che ha suscitato più problemi interpretativi. Infatti questa formula sembra far pensare a un Dio che «induce» nella tentazione. È tuttavia chiaro nell’insieme del discorso biblico che Dio non può tentare al male e che non è lui che ci induce nella tentazione. La Lettera di Giacomo dice: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (Gc 1, 13). L’impressione iniziale è dunque scongiurata da questa affermazione che Dio non tenta nessuno al male.

C’è quindi una concezione di prova come l’esperienza dentro la quale è messa a nudo la fede e la fedeltà a Dio del credente o del popolo. Chiediamo che il momento della prova non diventi il momento della nostra caduta, del venire meno della nostra fede e fedeltà a Dio.

Chiedendo nella preghiera: «Non ci indurre in tentazione», risvegliamo a nostra volta l’attenzione a non disperdere nella frammentazione del quotidiano il senso del primato del Padre e della fedeltà al Vangelo.

– « … ma liberaci dal male»: La preghiera del Padre nostro, con quest’ultima invocazione, sembra chiudersi tragicamente. L’orante sente tutto il peso del male che schiaccia l’esistenza umana. Ma bisogna tenere presente che questa finale si congiunge con l’inizio della preghiera («Abbà, Padre»), caratterizzando così la situazione di una comunità di fratelli in pericolo come la condizione di chi è posto sotto la protezione del Padre. Siamo invitati a recuperare questo senso di fiducia che permea tutto il Padre nostro. Se siamo fedeli in tale atteggiamento filiale e fiduciale verso il Padre, egli non ci farà venire meno la sua forza perché non cadiamo nella prova, non ci farà venire meno la sua presenza che ha già vinto il mondo e il maligno.

Per destare in noi un vivo desiderio del ritorno

Quanto e quale zelo è necessario perché ci possiamo innalzare a quel grado di confidenza che ci dia il coraggio di dire a Dio: «Padre»? Se corri dietro al denaro, se ti lasci travolgere dalla seduzione del mondo, se cerchi la gloria che viene dagli uomini, se ti lasci dominare da pensieri passionali, e poi hai sulle labbra simile preghiera, che cosa pensi che dirà colui che guarda la tua vita mentre ascolta la tua preghiera? Mi sembra di sentire Dio che ti rivolge queste parole: «La tua vita è corrotta e tu chiami “Padre” il padre dell’incorruttibilità? Perché profani con la tua lingua immonda il nome purissimo? Perché rendi menzognera questa parola? Se tu fossi mio figlio, avresti dovuto manifestare le mie qualità divine nella tua vita …». È dunque pericoloso, prima di aver corretto la propria vita, recitare questa preghiera e chiamare Dio «Padre». Ma ascoltiamo ancora una volta le parole della preghiera; ripetendole frequentemente ne comprenderemo il senso nascosto. Padre nostro, che sei nei cieli. Abbiamo già dimostrato che dobbiamo conciliarci Dio con una vita virtuosa, ma mi sembra che queste parole abbiano un senso ancor più profondo; esse generano in noi il ricordo della patria perduta e di quello stato di vita da cui siamo stati esclusi. Nella parabola del giovane che abbandonò la casa paterna e preferì vivere in mezzo ai porci, il Verbo ci presenta sotto forma di una storia il suo traviamento e la sua dissolutezza. Il giovane non ritrova la sua primitiva felicità se non dopo aver preso coscienza della sua disgrazia ed essere rientrato in se stesso meditando parole di pentimento. Queste parole concordano con quelle della nostra preghiera: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te» (LC 15,18) […] Come la misericordia del padre facilitò al giovane il ritorno alla casa paterna – che è il cielo, contro il quale, come dice a suo padre, ha peccato – così anche qui mi sembra che il Signore, insegnandoci a invocare il Padre che è nei cieli, voglia rinnovare in te il ricordo della bella patria, per destare in te un vivo desiderio di bene e ricondurti sul cammino del ritorno […] Se abbiamo quindi compreso il senso di questa preghiera, è ora che disponiamo le nostre anime in modo da osare proferire queste parole e dire con confidenza: «Padre nostro, che sei nei cieli».

(GREGORIO DI NISSA, Sul padre nostro, om. 22, PG 44,1141D-1144C.1145A.D).

Padre nostro

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Padre nostro che stai in mezzo a milioni di uomini affamati,

che stai nella vita di tutti gli uomini assetati di giustizia,

Sia santificato il tuo nome nei poveri e negli umili.

Venga il tuo regno, che è libertà, verità e fraternità nell’amore.

Si compia la tua volontà, che è liberazione e Vangelo

da proclamare agli afflitti.

Dona a tutti il pane di ogni giorno:

il pane della casa, della salute, dell’istruzione, della terra.

Perdonaci, o Signore, di dimenticare i nostri fratelli

E liberaci dalla costante tentazione di servire al denaro

invece che a Te, e da ogni male.

Perché tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Amen.

Card. Kim

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Speranza e futuro richiedono famiglia

La 47ª Settimana Sociale si svolgerà a Torino dal 12 al 15 settembre.
Questo appuntamento – una delle forme storicamente più consolidate per dire il rapporto tra Vangelo e ordine sociale nel Paese – ha come tema in tale edizione “La famiglia, speranza e futuro della società italiana”; una questione che non intende ridursi ad un ambito interno alla Chiesa.
Come evidenzia il Documento preparatorio, vi è una ragione di carattere antropologico, relativa al valore della relazione uomo-donna nell’esperienza dell’amore umano; c’è, quindi, una dimensione sociale, che fa della famiglia non un affare privato, confinato nella gestione della dinamica degli affetti, ma un punto di forza della società; infine, ci sono richieste non più rinviabili che la famiglia pone alla società e che segnano l’agenda della politica: libertà di educazione, lavoro, pressione fiscale, welfare…
In allegato, il programma dettagliato delle giornate di Torino.
 

Il catechismo? Adesso si può fare anche col telefonino

È nata in toscana la prima «App» che consente di far girare sui cellulari dei ragazzi contenuti legati ai percorsi di preparazione ai sacramenti.  Un modo per comunicare il Vangelo attraverso strumenti e linguaggi nuovi

«Provengo dal mondo dell’editoria tradizionale, sono stato area manager del centro Italia per la San Paolo» così si presenta Carlo Pagliari protagonista di un’apertura al mondo digitale che coinvolge già anche alcune parrocchie e diocesi toscane.

Carlo, da cosa nasce questo tuo interesse per le applicazioni e le nuove frontiere del mondo digitale?

«È da anni che sento da molti parroci l’esigenza di “comunicare il messaggio” con i mezzi tecnologici che  oggi sono a disposizione dei più. Una volta un parroco mi disse: “il mezzo con il quale comunichiamo con i ragazzi, addirittura le fotocopie talvolta, incide sul messaggio stesso, svalorizzandolo. i ragazzi considerano ’vecchio’ il mezzo di comunicazione ed in conseguenza, vecchio risulta il messaggio. Gesù questo errore ci ha insegnato a non commetterlo…”. Oggi i ragazzi usano abitualmente le applicazioni per comunicare tra loro, per divertirsi, per imparare, per interfacciarsi con le istituzioni, per acquistare dal CD al biglietto per il concerto: non vedo perché non dovrebbero usarlo anche per imparare e approfondire i temi legati al catechismo».

Ma andiamo per gradi, cos’è un applicazione?

«Un’applicazione non è altro che un piccolo programma che “gira” sul cellulare invece che sul PC, quindi è sempre a portata di mano ed inoltre il suo uso, visto una volta è di una facilità disarmante: ci sono solo tasti da cliccare, niente da digitare, nessuna nozione informatica da sapere. È semplice come usare un telecomando tv. Ci sono applicazioni incredibili in realtà aumentata che si attivano mettendo il telefono davanti ad una immagine, ad un poster».

Hai sperimentato e stai portando avanti un’applicazione per catechisti. Di cosa si tratta?

«L’applicazione che ho realizzato si chiama Catecapp. È un’applicazione “anomala” nel senso che invece di essere costruita come un piccolo programma usa e getta è pensata per essere aggiornata da chi la usa e non da chi l’ha costruita. Nel senso che i contenuti sono modificabili su indicazione di chi ne usufruisce. È poi anomalo il fatto che è pensata non per il destinatario finale (il ragazzino che frequenta il catechismo) ma per il catechista che deve fare da tramite e creare i percorsi integrandola con i sistemi ed i mezzi che già usa e che certo non deve abbandonare».

Quindi una parrocchia qualsiasi può rivolgersi a te per avere questa applicazione?

«Ho pensato anche ai piccoli budget delle parrocchie che non potrebbero permettersi nella maggior parte dei casi un applicazione personalizzata: l’idea è stata quella di costruire un’applicazione i cui contenuti fossero condivisibili con altre parrocchie così da frammentare i costi, mandando ad ogni parrocchia degli spazi personalizzabili per farla diventare “propria”. Non è stato facile visto che per tendenza le applicazioni nascono per differenziarsi anche nei contenuti l’una dall’altra. Pensate all’applicazione di una banca per i propri clienti o a quella di una compagnia telefonica: tendono a darsi unicità al massimo. Per fortuna Gesù non è un marchio registrato da una parrocchia e non usufruibile da altre! Così facendo sono riuscito ad offrire ad un piccolissimo prezzo (poco meno di 300 euro, ndr) un’applicazione personalizzata pensando anche ad una promozione speciale per le prime parrocchie di ogni diocesi che volevano testare questa strada complementare ai loro sistemi attualmente in uso».

Le soluzioni poi sono molteplici, in sostanza la parrocchia «compra» l’applicazione al prezzo pocanzi accennato ma poi questa diventa gratuita per tutti gli utenti. L’idea è appena partita. Stai avendo qualche feedback positivo? Dove è stata lanciata viene usata?

«Siamo subito dopo la fase di start-up, ho già pubblicato questa applicazione per alcune parrocchie che ne usufruiranno all’inizio dell’anno catechistico, mentre qualche parroco mi ha chiesto di accelerare i tempi perché voleva prima farci un po’ di pratica lui e farla fare ad alcuni dei suoi catechisti. Ho avuto anche contatti con diocesi toscane (in particolare Lucca e Pisa,ndr) che avrebbero piacere di creare un percorso di contenuti condivisi al maggior numero possibile di parrocchie presenti sul territorio. Lasciando poi ad ogni parroco la scelta se seguire quello diocesano o il proprio ma comunque tracciando una strada. Ci siamo dati il tempo delle vacanze per “buttar giù” i temi da trattare, per essere a buon punto a settembre».

toscanaoggi.it

“Desocializzazione” nuova malattia della vecchia Europa

l professor Matthew Fforde puntualizza: “Ci troviamo di fronte non tanto a una crisi del concepimento ma a una crisi della nascita: se avessimo permesso di nascere ai bambini uccisi con l’aborto, le statistiche sarebbero molto diverse”. C’è poi la “crisi dell’istituto della famiglia che è una caratteristica del grande processo di ‘desocializzazione’ – intimamente legata alla scristianizzazione -, vale a dire la perdita dei legami sociali”. Effetti negativi possibili anche per l’integrazione.

Le sue analisi sulla “desocializzazione” stanno facendo discutere l’Europa. Probabilmente perché il professor Matthew Fforde, britannico, ha sollevato anzitempo una serie di temi che appaiono ora di stretta attualità: le relazioni fra trend economici e sociali, le dinamiche culturali, i processi di trasformazione demografica, le prospettive che si aprono con le migrazioni di massa… Il tutto con un’attenzione che sa andare oltre i confini nazionali e capace di considerare le prospettive poste dall’insegnamento sociale della Chiesa. Nato a Londra, formatosi all’Università di Oxford, dove è stato anche docente, Fforde attualmente insegna Storia contemporanea all’Università Lumsa di Roma. Il suo volume “Desocializzazione. La crisi della post-modernità” (“Desocialisation. The Crisis of Post-modernity”) circola in inglese, francese, italiano, slovacco e sta per essere pubblicato in tedesco e spagnolo.

Una ricerca dei demografi dell’Istituto Max Planck di Rostock, Germania, sostiene che la crisi sta avendo pesanti riflessi sulla natalità in Europa. La precarietà economica e lavorativa scoraggia le giovani coppie a costruire una famiglia e ad avere figli; è un dato che si rileva nei Paesi più colpiti dalla recessione, ma vale anche per il centro e il nord Europa. Professore, lei cosa ne pensa?
“I dati demografici sono evidenti in Europa occidentale e, considerando le mentalità correnti (che meriterebbero un’analisi dettagliata, anche da un punto di vista storico) e i crescenti livelli di disoccupazione giovanile, la recente crisi economica deve sicuramente aver avuto un impatto. In materia di carenza di figli, però, vanno anche presi in considerazione altri fattori, e qui entriamo nelle caratteristiche della post-modernità (gli ultimi 50 anni o giù di lì). La cultura della famiglia come istituzione e, quindi, della paternità e della maternità, è stata indebolita. Dobbiamo inoltre fare i conti con la realtà della contraccezione, e non dimentichiamo che, in un certo senso, ci troviamo di fronte non tanto a una crisi del concepimento ma a una crisi della nascita: se avessimo permesso di nascere ai bambini uccisi con l’aborto, le statistiche demografiche in Europa occidentale sarebbero molto diverse. In altre parole, questo sviluppo dovrebbe essere fortemente contestualizzato”.

Il suo Paese, assieme alla Germania, ha spesso anticipato l’Europa nelle dinamiche sociali. Esiste questo problema nel Regno Unito?
“Il Regno Unito non ha gli stessi livelli di crescita demografica, ad esempio, dell’Italia, ma il problema della denatalità è evidente e l’attuale governo, nei suoi piani per la riforma dello Stato assistenziale, si trova ad affrontare le origini di tale fenomeno e anche le sue conseguenze a medio e lungo termine. La mia sensazione, però, è che abbiamo a che fare con cambiamenti culturali molto profondi e con le loro conseguenze che i politici spesso non riescono a percepire e altrettanto spesso non hanno il potere di intervenire su di essi”.

Un minor numero di figli, una popolazione sempre più vecchia… In questo modo si mette in pericolo anche la tenuta del welfare in Europa, non è vero?
“Il minor numero di figli e l’invecchiamento della popolazione saranno certamente fattori di forte pressione sul sistema pensionistico, sul welfare e sui servizi sanitari nazionali. Ma questo dovrebbe essere letto nel quadro della crisi dell’istituto familiare (a cui spesso hanno fatto riferimento gli ultimi Papi), il che significa – considerando i divorzi, le separazioni e i single – che milioni di anziani si troveranno a vivere da soli e dovranno rivolgersi allo Stato anziché ai loro parenti per chiedere aiuto. Questa crisi dell’istituto della famiglia è una caratteristica del grande processo di ‘desocializzazione’ – intimamente legata alla scristianizzazione -, vale a dire la perdita dei legami sociali, che negli ultimi decenni ha afflitto le società dell’Europa occidentale. Forse qui abbiamo un invito a fermarci un attimo per chiederci se la strada che abbiamo percorso in questa epoca contemporanea, segnata anche da un indebolimento della cultura cristiana, non contenesse alcuni gravi errori”.

Accanto alla crisi economica l’Europa ha continuato a registrare un notevole afflusso di immigrati. Non di rado le famiglie straniere hanno un numero maggiore di figli rispetto a quelle europee, evitando il tracollo demografico. Gli immigrati possono essere, in questo senso, una risorsa per l’Europa? 
“L’immigrazione di massa è stata una caratteristica delle società dell’Europa occidentale negli ultimi decenni. E questa pressione è destinata a continuare. La mia opinione è che si tratta di uno sviluppo sul quale non abbiamo riflettuto sufficientemente, e che spesso cade preda di facili slogan e sterili polarizzazioni. È un argomento che deve essere affrontato con grande sensibilità. Per esempio, dobbiamo affrontare la questione di quali risorse economiche risultano disponibili per gli immigrati durante questa fase di acuta crisi economica, così come emergono le conseguenze della discontinuità culturale interna che l’immigrazione di massa può causare, con tutto ciò che questo comporta in termini di coesione sociale e di identità. La ‘desocializzazione’, in questo senso, potrebbe remare contro l’integrazione”.

Giovanni Borsa SIR del 18/07/2013

XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Genesi 18,1-10a

In quei giorni, il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio».

 

Il racconto intreccia due motivi ricorrenti nelle letterature: la visita di divinità agli uomini e la promessa di un figlio. Questi due filoni letterari che molto colpivano l’immaginazione popolare, specialmente legando al tema della vista divina premi o castighi, sono molto ben incorniciati dal tema dell’ospitalità.

     Il problema più grande dal punto di vista teologico-esegetico è il modo in cui Dio si manifesta con questa alternanza tra uno e tre, singolare e plurale che attraversa tutto il racconto. Una soluzione potrebbe essere quella di considerare Dio come accompagnato da personaggi della corte celeste. Su questa pista ci porterebbe 18,22 in cui due dei componenti della visione partono verso Sodoma, mentre Abramo rimane davanti al Signore, e 19,1 in cui si dice che i due angeli arrivarono a Sodoma. La soluzione non può comunque essere definitiva e non si deve trascurare il problema di salvare la trascendenza divina dal momento che i tre personaggi arrivati da Abramo consumano cibo. Non resta che prendere atto della complessità del racconto sotto questo aspetto che non è comunque il più importante.

     L’argomento centrale è senz’altro quello dell’accoglienza, dell’ospitalità. Il v. 1 colloca l’episodio vicino a Ebron, in una località che diventerà un celebre santuario. Va notato prima di tutto l’ora in cui i personaggi arrivano dal patriarca: è l’ora più calda, cioè l’ora in cui non si viaggia e dunque l’ora in cui non si aspetta nessuno. Il v. 2 presenta molto bene il modo in cui Abramo ha vissuto l’apparizione divina. Egli non ha visto nulla di straordinario, ma semplicemente tre uomini che stavano in piedi presso di lui. Abramo prende l’iniziativa di ospitarli senza che nulla gli venga domandato. Nei versetti successivi vengono descritti tutti i riti dell’ospitalità come viene osservata in oriente secondo un cordiale ceri-moniale. Nulla viene trascurato nonostante la sorpresa dell’arrivo. L’accoglienza è calorosa e abbondante come certifica il vitello tenero e buono di cui parla il v. 7. In quello successivo poi Abramo è ritratto in un altro squisito gesto di ospitalità: non mangia con gli ospiti, ma rimane in piedi presso di loro come segno di prontezza al servizio. Naturalmente come si usava allora le donne non compaiono al cospetto degli ospiti, tanto meno la moglie del padrone. Da parte di Abramo tutte le regole sono osservate, l’unico che agisce fuori dal galateo è proprio Dio. Egli non solo arriva in un orario che la cortesia sconsiglia, ma nel bel mezzo del pranzo domanda pure ad Abramo dove si trova sua moglie, argomento da non

toccare secondo i canoni allora vigenti. È un Dio veramente sorprendente oltre che misterioso il Dio che viene descritto in questa lettura. A questo Dio Abramo concede la sua accoglienza senza riserve. Sarà proprio questo atteggiamento di Abramo a far scoccare l’ora del mantenimento delle promesse da parte di Dio. Ripetutamente era stato assicurato ad Abramo che avrebbe avuto una discendenza (12,2.7; 13,15; 15,5; 17,5-6.8.15-19) ora è il tempo della realizzazione di quanto era stato annunciato. L’ospitalità senza riserve al Dio degli imprevisti segna il tempo dell’esaudimento.

 

Seconda lettura: Colossesi 1,24-28

Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.

 

Colpisce immediatamente lo stridore tra gioia e sofferenza con il quale si apre il brano al v. 24. Le sofferenze di cui parla qui l’apostolo non sono generiche, si tratta di una situazione dolorosa specifica e ben motivata. Paolo si trova in carcere (4,10.18) e questo a motivo di Cristo e della predicazione del suo mistero (4,4). Il carcere è quindi conseguenza dell’apostolato di Paolo. Per questo egli può dichiarare di gioire; Paolo sta vivendo la beatitudine proclamata da Gesù (Lc 6,22-23) che prevede il destino dei suoi discepoli come futuro di rifiuto e persecuzione. Ma vi è un altro importante motivo da considerare per vedere come la sofferenza possa essere vissuta con gioia. Paolo offre la sua prigionia per i colossesi, sente che quanto soffre benefica effettivamente altri. La sua sofferenza diventa atto d’amore e quindi non può che recare gioia.

     Il nodo più intricato del brano è certamente l’affermazione che Paolo «completa nella sua carne quello che manca ai patimenti di Cristo». L’apostolo non vuole neppure insinuare l’idea che al sacrificio di Cristo manchi qualcosa. Infatti si è guardato bene dall’usare il vocabolario che indica la morte redentiva di Gesù in modo specifico: morte, sangue, croce. Il termine impiegato da Paolo è più generale (thlypsis) che nel linguaggio apocalittico cristiano indica le sofferenze della fase finale che prelude alla manifestazione definitiva del Messia: Mc 13,19.24. Paolo sta esponendo qui un suo punto di vista sull’attività apostolica da lui svolta: l’annuncio del vangelo e le tribolazioni ad esso connesse segnano l’ultima fase della storia salvifica. Ancora di più non va dimenticato che Paolo in 1,19-20 aveva dichiarato la presenza in Cristo di ogni «pienezza» e l’efficacia assoluta della sua opera riconciliatrice. Il verbo impiegato dall’apostolo per dire «completare» (antanaplēroō) indica un’opera congiunta che viene portata avanti insieme, ciascuno per la sua parte. Anche qui si tratta di esporre in che modo Paolo concepisca l’apostolato. L’annuncio del vangelo non è opera solitaria, ma lavoro comune con Cristo stesso. In 2Cor 1,5 Paolo aveva già detto che le sofferenze dell’apostolato erano presenza delle sofferenze di Cristo in lui. Si potrebbe pertanto arrivare quasi ad affermare che parlando di «ciò che, dei patimenti di Cristo» non siamo nella linea di una carenza da perfezionare (i patimenti di Cristo che vengono colmati dalle sofferenze umane), viceversa siamo nella linea di una perfezione che viene partecipata, cioè le sofferenze umane sono partecipazione ai patimenti di Cristo già in sé perfetti ed efficaci. 

     Dopo aver ripreso alla fine del v. 24 l’idea del beneficio che le sofferenze apostoliche recano alla Chiesa, ora al v. 25 Paolo se ne dichiara «ministro». Il servizio che egli svolge è il compimento di una vocazione, idea assai radicata nella mente di Paolo e più volte ribadita (Gal 1,1; Rm 1,1, 1Cor 1,1). Egli è stato chiamato a realizzare, a dare pienezza alla parola di Dio che ha come contenuto un unico mistero. Il termine (mysterion) indica il piano salvifico di Dio che in Gesù viene «rivelato » cioè fatto conoscere attraverso la sua stessa realizzazione. Il momento è solenne. Le generazioni precedenti non hanno potuto beneficarne, ora invece persino i pagani ne sono partecipi. Il piano salvifico di Dio ha un raggio universale, non esclude nessuno. Anzi raggiunge gli ascoltatori della rivelazione in un modo particolarmente efficace: «Cristo in voi, speranza della gloria», v. 27. Il credente viene realmente coinvolto nel mistero salvifico che Cristo realizza e che diventa in lui caparra di salvezza eterna.

     Con i vv. 25-29 Paolo fa una dichiarazione di scopo e di metodo sul suo lavoro apostolico. Lo scopo è quello di «rendere ogni uomo perfetto in Cristo» cioè configurarlo a lui in modo definitivo. Il metodo è quello di annunciare, ammonire, istituire, cioè accompagnare con fatica, costanza e sapienza il cammino di ogni credente verso la sua piena maturità.

 

Vangelo: Luca 10,38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.

Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

Esegesi 

     La pericope che ci viene presentata oggi costituisce la conclusione del capitolo 10 ed è esclusivamente lucana. L’episodio si inserisce nell’appena cominciato viaggio verso Gerusalemme (9,51) e ne costituisce una tappa significativa in quanto propone una tematica particolarmente cara a Luca: la posizione della donna nella comunità cristiana.

     Già in 8,1-3 l’evangelista aveva descritto il seguito femminile di Gesù, una notizia che può anche non stupire il lettore contemporaneo del vangelo, ma che certamente doveva suscitare meraviglia e disapprovazione tra i contemporanei di Gesù. La pericope che abbiamo a disposizione compie un altro passo decisivo per la questione femminile. La coppia di donne protagoniste del nostro brano è conosciuta anche dal vangelo di Giovanni. Nel capitolo 11 del suo scritto il quarto evangelista le nomina ripetutamente, ma in quella occasione esse hanno un ruolo preciso: sono le sorelle di Lazzaro (11,3); sono ancora pertanto decisamente subordinate ad una presenza maschile. Qui invece Lazzaro non viene ricordato. Il nome Marta, femminile dell’aramaico mar che significa «padrone-signore», e il verbo di cui è soggetto, che viene reso dalla Vulgata e dalla nostra versione italiana come se fosse effettivamente lei la padrona di casa, creano già un’atmosfera nuova in cui la donna è protagonista. La svolta avviene però con il v. 39 che introduce l’altra sorella e il suo atteggiamento veramente inedito. Per capire la novità di questa situazione si dovrebbe ricordare Gv 4,27 in cui i discepoli si meravigliano che Gesù stia discorrendo con una donna. Non viene neanche notato il fatto che sia samaritana, ma semplicemente «donna» e perciò stesso non degna di considerazione. Lo stesso stupore dei discepoli dovette essere avvertito dai lettori contemporanei del vangelo. Gesù sta qui sovvertendo una convenzione sociale del suo tempo, o meglio si sta mostrando libero verso di essa. Accetta di essere ospitato da donne e va oltre, ammettendo una di esse come uditrice della sua parola. La formula nell’opera lucana indica l’annuncio del messaggio specifico di Gesù: Lc 5,2; At 13,7.44; 19,10. Tra Maria e Gesù non è dunque in corso una conversione qualsiasi, tanto per intrattenere l’ospite in attesa che il pranzo sia servito. Le posizioni fisiche stesse dei due personaggi dicono che qui Gesù è ritratto come il maestro che insegna e Maria come la discepola che ascolta. Nell’ambiente rabbinico circolava l’opinione secondo cui, piuttosto che consegnare la Torà ad una donna, era meglio bruciarla. Come si vede, Gesù ha un atteggiamento diametralmente opposto. Maria è ammessa anche lei nel gruppo dei discepoli senza inferiorità alcuna.

     Al v. 40 riaffiora la posizione conservatrice con l’intervento di Marta. Verrebbe quasi da paragonarla al fratello maggiore della parabola del Figliol prodigo (Lc 15,25-32). Quello non sa accettare un fratello riaccolto dal Padre nel suo perdono, Marta non capisce Maria accolta da Gesù come discepola e vorrebbe riportarla nel suo ruolo tradizionale: i servizi domestici. Forse Marta è anche la donna che non sa osare, che è restia di fronte alle novità portate da Gesù e preferisce la sicurezza dell’abitudine al gesto di fiduciosa apertura che Gesù porta.

     I 41-42 possono essere letti da un punto di vista generale e da un punto di vista particolare. Sul piano generale Gesù farebbe notare a Marta che essa si occupa di tante cose trascurando l’essenziale della vita. Dal punto di vista particolare si tratterebbe semplicemente del pranzo da preparare. Marta vuole fare bella figura preparando diverse pietanze, mentre Gesù fa notare che in un clima così familiare basterebbe benissimo una portata sola, un piatto unico. I verbi di cui Marta è soggetto indicano comunque una forte inquietudine, sproporzionata allo scopo, sia che si scelga la prospettiva generale, sia che si preferisca quella particolare.

     Non sfugga l’umorismo con cui Gesù conclude la conversazione. Infatti «la parte migliore» indica anche la porzione di cibo. La tavola non è ancora pronta e Maria si è già presa il boccone più buono. Ha fatto la sua scelta, una scelta indovinata e durevole: l’ascolto della parola di Gesù e la condizione nuova che ne consegue.

     Tradizionalmente il brano viene letto per parlare del delicato equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva e del primato della prima sulla seconda. Del resto la questione era molto sentita dalla comunità primitiva se pensiamo che un vocabolario assai affine a quello del nostro brano evangelico (kataleipein, diakonein) si trova in At 6,2 in cui gli apostoli stessi si trovano di fronte alla necessità di una scelta tra annuncio della parola e servizio alle mense.

     Riprendendo il taglio che è stato dato al commento si dovrebbe dire che prima ancora della scelta tra vita contemplativa e vita attiva viene la scelta tra accettazione o rifiuto della parola di Gesù e delle liberanti novità che essa porta con sé. Alla base di tutto vi è certamente l’ascolto perché solo questo può portare ad equilibrate decisioni.

 

Meditazione 

     Ascoltiamo il racconto dell’ospitalità che Gesù riceve a Betania, nella casa dei suoi amici Lazzaro, Marta e Maria, dopo aver sostato, nella domenica precedente, sulla parabola del buon samaritano. «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37), aveva risposto Gesù al dottore della Legge che lo aveva interrogato su chi fosse il suo prossimo, invitandolo a imitare l’agire misericordioso e compassionevole del samaritano. Dopo il ‘fare la misericordia’ ora l’attenzione si sposta, con l’episodio di Betania, su un altro verbo fondamentale dell’esperienza credente, ‘ascoltare la parola di Dio’. Nella prossima domenica Gesù risponderà ai discepoli che gli chiederanno: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). In queste tre domeniche incontriamo così, inanellati uno dopo l’altro, tre atteggiamenti essenziali attraverso i quali si intesse la vita del discepolo di Gesù: fare la misericordia, ascoltare la parola di Dio, pregare. Sembra che Luca conosca bene il detto di Simeone il Giusto (il secondo dei Pirqè Avot, i detti dei Padri tramandati dal Talmud): «Il mondo poggia su tre colonne: lo studio della Torah, il culto, le opere di misericordia». Anche quando negli Atti degli Apostoli descriverà la comunità di Gerusalemme (cfr. At 2,42-47), modello esemplare di ogni comunità cristiana, tornerà a proporre queste tre fondamenta, ricordando che i discepoli erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli (l’ascolto della Parola), nella comunione dei beni (la misericordia), nella frazione del pane e nelle preghiera (la vita liturgica).

     Con l’ospitalità di Betania, l’ascolto della Parola, viene posto al centro, tra il fare la misericordia e il pregare, come se costituisse il cuore della vita del cristiano, un cuore capace di plasmare nel modo giusto ed evangelico anche le altre due opere. Senza una disponibilità all’ascolto, l’agire misericordioso rischia di scadere a mera filantropia, o la preghiera stessa a un dire (sprecare!) molte parole a Dio, come fanno i pagani o gli ipocriti, senza tuttavia entrare nel segreto autentico della relazione con lui (cfr. Mt 6,5-8). Non possiamo inoltre dimenticare che poco prima, al capitolo nono, nella scena della Trasfigurazione, era risuonato l’imperativo del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (Lc 9,35). Nel vangelo di Luca, il primo personaggio ad accogliere e a obbedire a questo invito è proprio Maria di Betania (una donna!) che ascolta la parola di Gesù seduta ai suoi piedi, nel tipico atteggiamento del discepolo verso il proprio rabbi.

     Tutti questi elementi, che possiamo raccogliere un po’ a introduzione del racconto di Betania, ci aiutano a mettere in luce l’importanza che, agli occhi di Luca e ancor prima di Gesù, assume l’atteggiamento discepolare di Maria. L’evangelista però non si limita a questa sottolineatura, si spinge più in là, fino a confrontare l’ascolto di Maria con l’atteggiamento dell’altra sorella, Marta, che invece era «distolta per i molti servizi» (v. 40). Questo modo di raccontare, inutile nasconderlo, ci crea qualche disagio e imbarazzo. Anche il comportamento di Marta, in effetti, è descritto con un bel verbo – diakonein, ‘servire’ – altro termine fondamentale dell’esperienza cristiana, che Gesù peraltro applica a se stesso per affermare di essere venuto non per essere servito, ma per servire. Come mai Luca sembra ora sva-lutare il servizio a vantaggio dell’ascolto? Il racconto è costruito con grande abilità narrativa e finezza spirituale. Anche l’attenzione ai suoi dettagli aiuta a comprenderlo bene, evitando i possibili fraintendimenti, in cui è facile scivolare.

     La prima cosa da osservare è che all’inizio del racconto, nella casa di Betania, regnano grande pace e armonia. Gesù entra nella casa, entrambe le sorelle lo pongono al centro della loro premura, anche se in modo diverso, Maria ascoltandolo. Marta servendolo. Per entrambe al cuore della loro preoccupazione c’è Gesù e in lui stanno accogliendo, come meglio possono, il Signore (tre volte kyrios in greco). Fino a questo punto non è stato dato alcun giudizio di valore sull’atteggiamento dell’una o dell’altra, Gesù non loda Maria né  rimprovera Marta. Improvvisamente, nell’armonia di questa casa accade qualcosa, scoppia

un piccolo dramma, raccontato nell’ultima parte dell’episodio (vv. 40-42). La difficoltà è creata da Marta e dalle sue parole: «Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (v. 40). Ho sottolineato prima come entrambe le sorelle mettano al centro della loro attenzione Gesù, ma ora Marta sposta lo sguardo da Gesù a Maria e a ciò che sta facendo, anzi, non sta facendo, lasciandola sola a servire. Meglio ancora: più che Maria, Marta sta ponendo al centro se stessa e il fatto che venga lasciata sola a servire. Non a caso Luca introduce la sua protesta precisando che Marta «si fece avanti» (v. 40). Marta sopravanza e si pone al centro; nel suo punto di vista c’è questo slittamento, una sorta di capovolgimento della prospettiva per cui al centro non c’è più Gesù da accogliere, ma ciò che lei sta facendo per lui. Sembra di ascoltare nelle sue parole un tono di sorpresa un po’ irritata: «Non ti sei ancora accorto di tutto il lavoro che sto facendo per te? Di’ dunque a mia sorella che mi dia una mano!» Per comprendere meglio potremmo riscrivere il racconto immaginando che, anziché da Marta, l’obiezione fosse sollevata da Maria, che fosse lei a protestare: «Signore, non ti curi che mia sorella si preoccupi e si agiti di tante cose; dille dunque che venga accanto a me, a sedersi ai tuoi piedi per ascoltare la tua parola».Come non accoglie l’obiezione di Marta, probabilmente Gesù non avrebbe accolto neppure quella di Maria, o non l’avrebbe fatto se avesse significato l’assolutizzazione di un solo punto di vista: il proprio. Un modo per tornare a mettere al centro se stessi e il proprio atteggiamento.

     Marta serve, ma soprattutto osserva se stessa, si guarda mentre sta servendo. L’ascolto della Parola ci aiuta a vincere questa tentazione, torna a farci mettere al centro della nostra vita la persona di Gesù e di conseguenza tutto ciò che unifica in lui la nostra esistenza. Marta si agita e si preoccupa, è divisa in se stessa; al contrario l’ascolto della parola di Dio dona armonia e pace, consentendoci, persino nella molteplicità dell’agire, di rimanere raccolti in noi stessi, unificati, non divisi, capaci di ricondurre tutto ciò che facciamo a quella sola cosa necessaria che è il Signore Gesù e la nostra comunione di vita con lui.

     In secondo luogo, l’ascolto della Parola ci rende vigilanti su un altro rischio: Marta accoglie il Signore e vuole offrirgli il meglio di ciò che possiede, desidera che nella sua casa Gesù trovi tutto ciò di cui ha bisogno. È una donna generosa, ma lo è pur sempre con la generosità del ricco, di chi dà del suo, prendendolo da ciò che possiede o che è in grado di realizzare con le proprie mani. Viceversa, l’ascolto umile di Maria esprime bene l’atteggiamento del povero, di colui che riceve a mani aperte a cuore aperto. Maria ha compreso che questo è il modo di accogliere il Signore, di stare davanti a lui, senza pensare troppo alle cose da fare, da dire o da dare, prendendole dalle proprie ricchezze; davanti al Signore bisogna anzitutto rimanere come dei poveri, che hanno bisogno di ricevere, in una vera accoglienza, in un vero ascolto.

     La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, narra l’ospitalità che Abramo offre a quei tre personaggi misteriosi, tra i quali e presente Dio stesso che visita la sua tenda. Il racconto si conclude con la promessa della fecondità di Sara: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio» (Gen 18,10). Per la Bibbia l’ospitalità è sempre feconda, genera vita, in quanto partecipa della stessa fecondità pasquale tipica del modo di essere di Dio. Ospitare l’altro non solo nella propria tenda, ma nella propria vita, significa infatti essere disposti a morire un po’ a se stessi perché l’altro possa vivere in noi e attraverso di noi. Questa è la cosa necessaria che Marta deve riconoscere: non deve ascoltare se stessa e ciò che sta facendo; deve ascoltare il Signore; non deve porre al centro se stessa, ma diminuire perché il Signore possa crescere in lei. Questo morire a se stessi è sempre fecondo, perché ci consente di rinascere a quella vita nuova che il Signore ci dona, anche in questa eucaristia, nella quale ascoltiamo la sua Parola, ci nutriamo del suo pane di vita, accogliamo la sua Persona in noi come centro unificante di tutto ciò che siamo. Questa è la parte migliore di cui tutti noi abbiamo assoluta necessità.

 

Preghiere e racconti

Cerchiamo di possedere ciò che nessuno ci può togliere

Si è parlato della misericordia, ma questa virtù non ha un unico aspetto. Con l’esempio di Marta e di Maria ci viene presentata della prima l’instancabile dedizione nelle opere, della seconda la devota attenzione del cuore alla Parola di Dio. Se questo atteggiamento concorda con la fede, viene preferito alle opere stesse, come sta scritto: «Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,42). Cerchiamo anche noi di possedere ciò che nessuno ci può togliere, prestando un ascolto attento e non superficiale; infatti, perfino i semi della Parola celeste solitamente sono portati via se vengono seminati lungo la strada. Ti spinga, come Maria, il desiderio della sapienza; questa infatti è l’opera più grande, più perfetta e la sollecitudine per il ministero non ti distolga dal conoscere la Parola celeste. Non rimproverare e non ritenere che perdano tempo quelli che vedi dedicarsi alla sapienza; Salomone, quell’uomo di pace, la fece venire presso di sé (cfr. Sap 9,10). Però Marta non viene rimproverata per il suo lodevole servizio; Maria è preferita perché ha scelto per sé la parte migliore.

Gesù possiede in abbondanza molti doni e molti ne distribuisce.

Per questo Maria è più sapiente perché ha scelto quello che ha capito essere fondamentale. Del resto gli apostoli non ritennero che fosse la cosa migliore trascurare la Parola di Dio per servire alle mense (cfr. At 6,2). Ma tanto l’uno che l’altro sono compiti affidati dalla Sapienza; anche Stefano, infatti, che era stato scelto per il servizio, era colmo di sapienza (cfr. At 6,5). Perciò chi serve renda onore a chi insegna e chi insegna esorti e inciti chi serve. Uno solo è il corpo della chiesa, sebbene le membra siano differenti (cfr. 1Cor 12,12 ss.), e ciascuno ha bisogno dell’altro.

(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca 7, 85-86, in Opera omnia di Sant’Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca 2, pp. 152-154).

Due tipi di preghiera

Per S. Teresa, dunque, non a tutti Dio concede la via contemplativa, qui da intendere appunto come la via dell’esperienza mistica; è una via che dipende dal puro dono.

Commentando il quadretto evangelico di Marta e Maria, ella applica le due figure ai due tipi di preghiera: Di S Marta non si dice che fosse contemplativa. Eppure non lascia di essere una gran Santa. Non vi basterebbe somigliare a questa donna felice che meritò tante volte di ospitare in casa sua nostro Signore Gesù Cristo, preparargli da mangiare, servirlo e mangiare lei stessa alla sua mensa? Se foste tutte assorte come Maddalena, più nessuno preparerebbe da mangiare all’Ospite divino. Orbene, immaginate che il nostro monastero sia come la casa di S. Marta, dove occorre attendere a ogni ufficio. Quelle che vanno per la via attiva non mormorino di quelle che si beano nella contemplazione, perché il Signore ne prenderebbe le difese, anche se non parlassero, dimentiche di sé e di ogni altra cosa come esse sono generalmente. Pensino che tra loro vi dev’essere pure qualcuno che prepari il cibo al Maestro, ed essa si ritenga fortunata di poterlo servire come Marta. Non dimentichino che la vera umiltà consiste nell’essere disposti ad accettare con gioia quanto il Signore vuole da noi, considerandoci indegni di esser chiamati suoi servi.

(Santa Teresa di Gesù, Cammino di perfezione, 17, 5-6).

Mi sento inutile

“Niente che appartiene a questo mondo è inutile agli occhi di Dio. Né una foglia che si stacca dall’albero, né un capello che cade dalla testa, né un insetto che viene ucciso perché fastidioso. Ogni creatura o cosa possiede una ragione d’essere.

“E ciò riguarda anche a te, giovane afflitto con le vesti stracciate. ‘Mi sento inutile’, hai detto. Ma la soluzione al tuo problema si trova da sempre nella tua anima.

“Ascoltala! Altrimenti rischierai di morire, pur continuando a vivere – a camminare, a dormire, a cercare di divertirti…

“Non tentare di mostrarti utile. Sforzati di essere te stesso: è sufficiente – e fa la differenza.

“Non cercare di anticipare gli insegnamenti della tua anima: segui la voce, senza fretta né indugi. Passo dopo passo, apprenderei i segreti della tua utilità. Ci si scopre utili sia partecipando a un’imponente battaglia che può cambiare il corso della storia, sia sorridendo a uno sconosciuto che si incontra per la strada.

“È persino possibile che con quel gesto spontaneo tu abbia salvato la vita a una persona, che magari si reputava inutile e stava meditando di uccidersi – finché un sorriso gli ha donato speranza e fiducia.

“Anche se ti concentrerai sul tuo passato e rivedrai i momenti nei quali hai sofferto e sudato e sorriso sotto il sole, non potrai mai sapere esattamente quando sei stato utile agli altri.

“Di certo, però, un’esistenza non può mai dirsi inutile. Ogni anima ha una ragione precisa per trovarsi in questo mondo.

“Coloro che fanno realmente del bene agli altri non cercano di mostrarsi utili, ma si impegnano per condurre una vita retta e interessante. […] Talvolta ti sembrerà un impegno vano, eppure …

“Eppure Dio – che vede tutto – utilizzerà il tuo esempio e la tua esperienza per migliorare il mondo. E, ogni giorno, ti regalerà nuove benedizioni.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Milano, Bompiani, 2012, 48-49).

Racconto

“… un mercante, una volta, mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il ragazzo vagò per quaranta giorni nel deserto, finché giunse a un meraviglioso castello in cima a una montagna. Là viveva il Saggio che il ragazzo cercava.

Invece di trovare un sant’uomo, però, il nostro eroe entrò in una sala dove regnava un’attività frenetica: mercanti che entravano e uscivano, ovunque gruppetti che parlavano, una orchestrina che suonava dolci melodie. E c’era una tavola imbandita con i più deliziosi piatti di quella regione del mondo. Il Saggio parlava con tutti, e il ragazzo dovette attendere due ore prima che arrivasse il suo turno per essere ricevuto.

Il Saggio ascoltò attentamente il motivo della visita, ma disse al ragazzo che in quel momento non aveva tempo per spiegargli il segreto della felicità. Gli suggerì di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore.

Nel frattempo, voglio chiederti un favore, concluse il Saggio, consegnandogli un cucchiaino da tè su cui versò due gocce d’olio. Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l’olio.

Il ragazzo cominciò a salire e scendere le scalinate del palazzo, sempre tenendo gli occhi fissi sul cucchiaino. In capo a due ore, ritornò al cospetto del Saggio.

Allora, gli domandò questi, hai visto gli arazzi della Persia che si trovano nella mia sala da pranzo? Hai visto i giardini che il Maestro dei Giardinieri ha impiegato dieci anni a creare? Hai notato le belle pergamene della mia biblioteca?’

Il ragazzo, vergognandosi, confessò di non avere visto niente. La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d’olio che il Saggio gli aveva affidato.

Ebbene, allora torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo, disse il Saggio. Non puoi fidarti di un uomo se non conosci la sua casa.

Tranquillizzato, il ragazzo prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare per il palazzo, questa volta osservando tutte le opere d’arte appese al soffitto e alle pareti. Notò i giardini, le montagne circostanti, la delicatezza dei fiori, la raffinatezza con cui ogni opera d’arte disposta al proprio posto.

Di ritorno al cospetto del Saggio, riferì particolareggiatamente su tutto quello che aveva visto.

Ma dove sono le due gocce d’olio che ti ho affidato? domandò il Saggio.

Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate.

Ebbene, questo è l’unico consiglio che ho da darti, concluse il più Saggio dei saggi.

Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza dimenticare le due gocce d’olio nel cucchiaino.”

(Paulo Coelho)

Preghiera

Marta e Maria di Betania – l’azione e la contemplazione – si trovano pienamente integrate nel vero e incomparabile modello di vita santa: nella «Maria per eccellenza», la Madre del Signore. È soprattutto a lei che dobbiamo guardare per apprendere a stare alla presenza del Signore, a scegliere la «parte migliore» senza trascurare l’umile fatica del lavoro, il servizio premuroso ai fratelli, alle membra del corpo mistico di Cristo.

O Vergine Maria,

prima e incomparabile discepola del Verbo di Dio

che tu stessa hai generato e nutrito al tuo seno,

insegnaci a rimanere con te in religioso ascolto

affinché, cessato il rumore delle nostre parole,

e placata l’agitazione per le troppe cose

in cui ci disperdiamo,

cresca in noi, con la fede,

il desiderio dell’unica cosa necessaria:

ascoltare Gesù che ci rivela

l’amore salvifico del Padre. 

Ottienici, o Madre,

un’anima profondamente contemplativa

anche nell’azione

perché sempre e dovunque

il nostro cuore indiviso

sappia stare alla presenza del Signore

e saziarsi di lui

Unico e Sommo Bene.

Amen.

(Anna Maria Canopi, da: Incontri con Gesù, Leumann, Elle Di Ci, 2009, 90).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVI DOM TEMP ORD (C)