L’appello del Papa: “mai più la guerra”

Un appello universale per la pace e contro ogni iniziativa militare, perché la «guerra chiama guerra» e la «violenza chiama violenza». Lo ha lanciato Papa Francesco all’Angelus domenicale in piazza San Pietro, annunciando per sabato prossimo 7 settembre una giornata di digiuno e preghiera per la pace in Siria.

«NO ALLE ARMI CHIMICHE» – «Con fermezza – ha sottolineato il Pontefice – condanno l’uso delle armi chimiche. C’è un giudizio di Dio e della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire. Esorto la comunità internazionale a iniziative basate sul dialogo e sul negoziato. Non sia risparmiato alcuno sforzo per portare assistenza a chi è colpito da questo conflitto».

«FERITO E ANGOSCIATO» – «Il mio cuore – ha proseguito Francesco – è profondamente ferito da quello che sta accadendo in particolare in Siria e angosciato da quello che si prospetta. Questo è un appello che nasce dall’intimo di me stesso. Quanta sofferenza e devastazione porta l’uso delle armi in quel martoriato Paese, specialmente tra la popolazione civile e inerme. Pensiamo quanti bambini non potranno vedere la luce».

«UNA GIORNATA DI DIGIUNO E PREGHIERA» – Per questo, ha concluso Francesco «ho deciso di indire per tutta la Chiesa il 7 settembre una giornata di digiuno per la pace in Siria e nel mondo. Dalle 19 alle 24 ci riuniremo in preghiera e in spirito di penitenza per invocare questo dono di Dio. L’umanità ha bisogno di vedere gesti di pace. Chiedo a tutte le comunità di organizzare qualche atto liturgico secondo questa intenzione. Vi aspetto. Vi aspetto il prossimo sabato alle 19».

TESTO COMPLETO

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

 Quest’oggi, cari fratelli e sorelle, vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace! E’ il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace; mai più la guerra! Mai più la guerra! La pace è un dono troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato.

Vivo con particolare sofferenza e preoccupazione le tante situazioni di conflitto che ci sono in questa nostra terra, ma, in questi giorni, il mio cuore è profondamente ferito da quello che sta accadendo in Siria e angosciato per i drammatici sviluppi che si prospettano.

Rivolgo un forte Appello per la pace, un Appello che nasce dall’intimo di me stesso! Quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi in quel martoriato Paese, specialmente tra la popolazione civile e inerme! Pensiamo: quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro! Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche! Vi dico che ho ancora fisse nella mente e nel cuore le terribili immagini dei giorni scorsi! C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!

Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all’altro come ad un fratello e di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato, superando la cieca contrapposizione. Con altrettanta forza esorto anche la Comunità Internazionale a fare ogni sforzo per promuovere, senza ulteriore indugio, iniziative chiare per la pace in quella Nazione, basate sul dialogo e sul negoziato, per il bene dell’intera popolazione siriana.

Non sia risparmiato alcuno sforzo per garantire assistenza umanitaria a chi è colpito da questo terribile conflitto, in particolare agli sfollati nel Paese e ai numerosi profughi nei Paesi vicini. Agli operatori umanitari, impegnati ad alleviare le sofferenze della popolazione, sia assicurata la possibilità di prestare il necessario aiuto.

Che cosa possiamo fare noi per la pace nel mondo? Come diceva Papa Giovanni: a tutti spetta il compito di ricomporre i rapporti di convivenza  nella giustizia e nell’amore (cfr Lett. enc. Pacem in terris [11 aprile 1963]: AAS 55 [1963], 301-302).

Una catena di impegno per la pace unisca tutti gli uomini e le donne di buona volontà! E’ un forte e pressante invito che rivolgo all’intera Chiesa Cattolica, ma che estendo a tutti i cristiani di altre Confessioni, agli uomini e donne di ogni Religione e anche a quei fratelli e sorelle coloro che non credono: la pace è un bene che supera ogni barriera, perché è un bene di tutta l’umanità.

Ripeto a voce alta: non è la cultura dello scontro, la cultura del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma questa: la cultura dell’incontro, la cultura del dialogo; questa è l’unica strada per la pace.

Il grido della pace si levi alto perché giunga al cuore di tutti e tutti depongano le armi e si lascino guidare dall’anelito di pace.

Per questo, fratelli e sorelle, ho deciso di indire per tutta la Chiesa, il 7 settembre prossimo, vigilia della ricorrenza della Natività di Maria, Regina della Pace, una giornata di digiuno e di preghiera per la pace in Siria, in Medio Oriente, e nel mondo intero, e anche invito ad unirsi a questa iniziativa, nel modo che riterranno più opportuno, i fratelli cristiani non cattolici, gli appartenenti alle altre Religioni e gli uomini di buona volontà.

Il 7 settembre in Piazza San Pietro – qui – dalle ore 19.00 alle ore 24.00, ci riuniremo in preghiera e in spirito di penitenza per invocare da Dio questo grande dono per l’amata Nazione siriana e per tutte le situazioni di conflitto e di violenza nel mondo. L’umanità ha bisogno di vedere gesti di pace e di sentire parole di speranza e di pace! Chiedo a tutte le Chiese particolari che, oltre a vivere questo giorno di digiuno, organizzino qualche atto liturgico secondo questa intenzione.

A Maria chiediamo di aiutarci a rispondere alla violenza, al conflitto e alla guerra, con la forza del dialogo, della riconciliazione e dell’amore. Lei è madre: che Lei ci aiuti a trovare la pace; tutti noi siamo i suoi figli! Aiutaci, Maria, a superare questo difficile momento e ad impegnarci a costruire ogni giorno e in ogni ambiente un’autentica cultura dell’incontro e della pace. Maria, Regina della pace, prega per noi!

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Il costo della pace non è mai la guerra
 
Ferma condanna della violenza e dell’uso delle armi chimiche, ma un forte appello alla ripresa del dialogo e del negoziato. Poi l’invito a tutti, credenti e non credenti, a costruire, a partire da piazza San Pietro la sera del 7 settembre, una catena umana per la pace
 
Anche la pace ha un costo. Ma ce n’è uno sempre inaccettabile e si chiama guerra. “Mai più la guerra” ha ripetuto ieri Papa Francesco, sulle orme di due grandi pontefici, Giovanni XXIII e Paolo VI che le guerre le videro da vicino. Due uomini di Chiesa che, testimoni privilegiati del “secolo breve”, subirono gli orrori della Prima e della Seconda guerra mondiale. I due primi conflitti moderni e globali che hanno preceduto la pace nel mondo, pagata col prezzo altissimo di decine di milioni di morti. Caduti sui campi di battaglia, ma anche sotto il fungo atomico di Hiroshima e Nagasaki. Per non parlare dello scandalo disumano della Shoah. E come dimenticare, poi, la guerra come “inutile strage” di Benedetto XV dinanzi al Primo conflitto mondiale? Tutto questo ci fa dire che c’è una solida coerenza e continuità, nel pontificato di Francesco, nella difesa strenua della pace.
L’intervento intenso e tempestivo di Papa Francesco rivela la solida consapevolezza della gravità della crisi siriana come crisi globale. La prima guerra globale – Dio non voglia – del nuovo Millennio. Un rischio di guerra che merita le parole severissime del Papa, forse le più taglienti di questo pontificato: “C’è un giudizio di Dio e anche della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire. Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza”. E qui torna la valutazione sul costo della pace. Quel costo che certamente il dittatore di Damasco, espressione della minoranza sciita siriana, non intende assolutamente pagare perché si vedrebbe sfuggire un regno non dinastico, ereditato da un padre violento e sanguinario. Quel costo che i ribelli, musulmani sunniti come la maggioranza dei siriani, non intendono assolutamente versare dopo essersi illusi di poter chiudere i conti, presto e facilmente, con il regime satrapico di Bashar al-Assad. Quel costo che i Grandi del mondo, come le potenze dell’area, non intendono accettare perché negoziare la pace è difficile. E perché le contrapposizioni, come ricorda a tutti il Papa, sono cieche. Incapaci innanzitutto di vedere le sofferenze dei popoli e di percepire sino in fondo l’orrore per l’uso delle armi chimiche. Un salto inaccettabile e orrorifico del conflitto.
Dinanzi a questo rischio mortale che corre il mondo moderno, cioè di veder scivolare la polveriera mediorientale nel vortice di un conflitto difficilmente contenibile in quell’area, ecco Papa Francesco scegliere, senza incertezza, la strada dell’appello alle coscienze di chi può fermare la corsa verso le armi. E poi la sua decisione di parlare a tutti di pace, perché la pace è di tutti. È un bene incommensurabile per tutti e per i poveri in particolare. Dei cattolici come degli altri cristiani, ma anche di tutti gli uomini che credono. Così come dei non credenti. A tutti chiede di costruire, a partire da piazza San Pietro la sera del 7 settembre, una catena umana perché chi deve decidere sappia da che parte stanno i popoli. E soprattutto chiede ai credenti un atto antico, quello del digiuno che affina la sensibilità, acutizza la consapevolezza, rende più carnale la partecipazione. Ci fa essere, soprattutto noi occidentali più sazi, per un giorno più vicini a quanti manca tutto. A cominciare da quella pace nella quale noi ci siamo adagiati da quasi settant’anni, ma che in un attimo potremmo perdere a causa di una guerra nel cuore del Mediterraneo.
Il Papa ci ricorda che quanto accade in Siria è anche affar nostro. E nessuno pensi, con superficialità, che il Papa non conosca bene il peso delle responsabilità e delle colpe che gravano sugli uni e sugli altri protagonisti della crisi siriana. Ma il Papa, uomo di pace, non può stare che dalla parte della pace. Ad ogni costo e con la sola arma di cui dispone: la preghiera. Perché questo è quello che tocca al Papa e ai credenti. Lui ha la forza per chiedere “alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all’altro come a un fratello e intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato”. Incontrarsi, dialogare e negoziare è ancora possibile.
 

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Sapienza 9,13-18

Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza».

 

È un brano della preghiera di Salomone per ottenere la sapienza. Lo spunto è preso dai testi di 1Re 3,6-9 e 2Cr 1,8-10, in cui il Signore invita Salomone a fargli delle richieste che egli avrebbe esaudite e questi non chiede lunga vita, né ricchezza, né la morte dei suoi nemici, ma domanda solo la saggezza per governare bene il suo popolo. Questa richiesta piace al Signore, che l’esaudisce donandogli il discernimento.

     La strofa della preghiera che viene letta in questa domenica insiste sul tema della debolezza umana e ha al suo centro ancora la richiesta della sapienza (v. 17). I progetti del Signore infatti per la vita dell’uomo sono celesti e si possono comprendere solo con uno spirito che viene dall’alto. Solo con il dono del discernimento l’uomo può percorrere la via che lo conduce alla salvezza. Senza il dono della sapienza e dello spirito, considerato come fonte di rinnovamento e di vita interiore, non è possibile per l’uomo conoscere la volontà di Dio e trovare la vita.

     Questo tipo di sapienza non si ottiene con i propri sforzi: può essere solo invocata dall’alto.

 

Seconda lettura: Filemone 1,9-10.12-17

Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore. Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.

 

La lettera a Filemone conta in tutto 25 versetti: è la più breve dell’epistolario paolino. Paolo parla di se stesso come prigioniero per Gesù Cristo. Forse si trova a Roma, perché la sua situazione non è molto dissimile all’arresto domiciliare romano descritto in Atti 28. L’apostolo chiede a Filemone di accogliere lo schiavo Onesimo, che era fuggito dal padrone — forse per malefatte — non più come schiavo ma come fratello nel Signore. Dice di averlo generato, perché Onesimo era diventato cristiano per opera sua durante la prigionia. Paolo non contesta la validità giuridica e sociale della schiavitù. Inserendo però in quella tremenda struttura lo spirito del vangelo, la faceva scoppiare dal suo interno.

 

Vangelo: Luca 14,25-33

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: 

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
 

 

Esegesi 

     Gesù sta parlando alle folle e indica loro quali siano le condizioni per seguirlo e per essere suoi discepoli. Egli vuole essere scelto come l’assoluto e determinante nella vita del discepolo.

     Chi vuole seguire la vita di Cristo deve «non amare» il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle. Gesù ha spiegato con la vita che cosa significhi. Ecco le sue parole alla madre e al padre quand’era ancora ragazzo: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). E durante la vita pubblica: «mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). Solo chi è veramente libero da ogni affetto che lo trascini a adorare gli idoli dei genitori, dei parenti e degli amici, può mettersi in cammino con Gesù Cristo.

     Una seconda condizione è odiare la «propria vita». I progetti di Gesù sulla vita del discepolo sono sempre sorprendenti. Solo chi è disposto a lasciare che i propri progetti vengano sconvolti può mettersi in cammino con lui.

     La terza condizione è «portare la propria croce». La croce è il simbolo della storia concreta e personale di ogni uomo e donna chiamati a seguire Gesù. Significa vincere ogni giorno la seconda tentazione che Gesù ha avuto all’inizio della vita pubblica, quella di chiedere miracoli a Dio, perché si è scontenti della propria situazione familiare, sociale, ecclesiale. Non è possibile seguire Gesù mormorando continuamente nel proprio cuore come la generazione testarda del deserto.

     Quarta condizione: «rinunciare a tutti i propri averi». Gesù è il vero figlio d’Israele che ha compiuto le esigenze del credo ebraico recitato ogni giorno, lo shemà, in cui si dice di amare Dio con tutte le forze, o meglio — secondo traduzione aramaica del tempo — con tutto mammona. Anche il discepolo, che vuole seguire Gesù, diventerà un vero figlio d’Israele, se amerà Dio rinunziando a tutti i propri averi. Si farà così un tesoro nel cielo e allora anche il suo cuore sarà nel cielo, ma solo da lì discende la vita vera, e la felicità piena.

 

Meditazione 

     La sapienza come coscienza della alterità del volere di Dio rispetto al volere umano per poter abitare la distanza fra uomo e Dio (I lettura) e rendere praticabile l’«impossibile sequela» del Cristo (vangelo): questa può essere colta come tematica unificante le letture odierne. La sapienza evangelica consiste nel calcolare ciò che non è calcolabile e predisporsi con libertà e amore alla rinuncia radicale che sola consente la sequela Christi.

     «In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:  …» (Lc 14,25 ss.). La quantità, il numero, non incanta Gesù, anzi lo preoccupa. Gesù non esita a mettere in guardia i tanti che lo seguono ponendoli di fronte alle esigenze dure della sequela e quasi scoraggiandoli. Dovrebbe preoccuparci il fatto che questa preoccupazione di Gesù non sia la nostra e che noi ci preoccupiamo proprio del contrario, del numero basso, della scarsità dei praticanti. A costo di perdere aderenti, Gesù non esita a proclamare con vigore la durezza delle esigenze della sequela. L’esigenza non va edulcorata illudendo circa la facilità della sequela. Seguire Gesù forse è semplice, ma certamente non è facile. Anzi, Gesù per tre volte (Lc 14,26.27.33) parla di una impossibilità: «Non può essere mio discepolo». Vi sono condizioni da ottemperare, pena il fallimento della sequela, la sua impraticabilità.

     Anzi, in fondo non vi è che una esigenza imprescindibile che si situa sul piano della relazione con Gesù, il Signore («viene a me», «mio discepolo», «viene dietro a me») e non sul piano delle prestazioni. La sequela richiede, come istanza basilare, di rivolgere al Signore tutto il cuore: essa è un evento nell’ordine dell’amore, e l’amore è un lavoro, una fatica, un’ascesi. Evento di amore, la sequela è, simultaneamente, evento di libertà. Le esigenze della sequela che Gesù pone al discepolo sono la necessaria pedagogia verso la libertà e l’amore.

     I legami famigliari (Lc 14,26), il possesso di beni (Lc 14,33), l’attaccamento stesso alla «propria vita» (Lc 14,26) sono chiamati a vedere regnare il Signore su di essi. Si tratta di amare il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. E se l’amore è questione di spazio interiore, di far spazio all’altro, allora esso si nutre della preziosità del vuoto, della ricchezza della mancanza, della grazia della carenza. Al contrario, il possesso, colmandoci, ci ottura interiormente, ci sazia, ci chiude in noi stessi, ci rende preoccupati di noi stessi, impedendoci di riconoscere la povertà profonda che è lo spazio aperto all’accoglienza dell’amore. Il carattere esigente della sequela di Gesù è connesso alla difficoltà di apprendere l’arte di amare, ed è connesso al nostro preferire la facilità del possedere cose alla fatica della libertà e dell’amore. Gesù chiede ai suoi seguaci di porre al cuore delle relazioni con le persone a loro care la relazione con lui. Ma questo significa porre al cuore del nostro cuore la relazione con il Signore. Insomma, le esigenze della sequela sono le esigenze dell’amore.

     La sequela è esigente perché il discepolo è chiamato non solo a iniziare, ma anche a portare a compimento (Lc 14,28.30). Come per costruire una torre o affrontare una battaglia vi è un indispensabile, così anche per la sequela. Ma l’indispensabile per la sequela è la disponibilità a perdere tutto, non solo i beni, ma anche «la propria vita» (Lc 14,26). Il bene da possedere è la rinuncia ai beni e l’arte da imparare è l’arte di perdere, di diminuire, di non cadere nelle maglie del possesso, della logica dell’avere. Gesù «svuotò se stesso» (Fil 2,7); «Dio è Dio perché non ha niente» (Barsanufio). Occorre libertà e leggerezza per condurre a termine il lungo cammino della vita percorso come sequela di Cristo. L’amore è chiamato a divenire responsabilità e la libertà perseveranza: lì si situa la necessaria rinuncia, purificazione, spogliazione. Le esigenze della sequela hanno dunque a che fare con il tutto della persona (il suo cuore) e con il tutto del suo tempo, con la durata della sua vita. E ci mettono in guardia dal rischio di lasciare a metà l’opera intrapresa.

 

Preghiere e racconti 

Seguire Gesù

Chi è animato da un imperioso desiderio di seguire il Cristo non può più tener conto di nulla in questa vita: né dell’affetto di parenti e amici, quando si oppone ai comandamenti del Signore, poiché è proprio allora che si applicano le parole: «Se uno viene a me senza odiare suo padre e sua madre…»; né del timore degli uomini, quan­do distoglie dal vero bene, come hanno fatto in modo eccellente i santi, i quali hanno detto: «È meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»; né, infine, degli scherni con cui i malvagi tormenta­no i buoni, poiché non bisogna lasciarsi vincere dal disprezzo.

(Basilio, Le mole monastiche)

L’avvenire

Se il credere in lui è l’essenza stessa della vita cristiana, ne conse­gue che questa vita consiste nel rischiare ogni cosa sulla parola di Cristo: tutto ciò che abbiamo per ciò che non abbiamo, nobilmente e generosamente, senza impulsività né leggerezza, senza sapere esattamente ciò che facciamo, a che cosa rinunciamo, e neppure ciò che ne avremo in cambio. Senza certezza della ricompensa, del­l’ampiezza del sacrifico che ci sarà richiesto, basandoci su di lui con un totale rispetto, fidandoci di lui, aspettando da lui il compimento della sua promessa. Mettendo in lui la nostra speranza di riuscire a soddisfare i nostri impegni. E così, avanzando sotto ogni aspetto, senza timore né ansia, verso l’avvenire.

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, IV 220)

Il bambino e il re

Un bel bambino nudo si recò un giorno a trovare Maestro Eckart. Questi gli chiese da dove venisse. Rispose: Vengo da Dio. —Dove lo hai lasciato? — Nei cuori, sorgenti di virtù. — Dove stai andando? — Da Dio. — Dove lo troverai? — Dove mi sono spogliato di tutto il creato. —Chi sei? — Un re. — Dov’è il tuo regno? —Nel mio cuore. — Fa’ attenzio­ne che nessuno lo condivida con te. — Faccio attenzione. Allora lo fe­ce entrare nella sua cella e gli disse: Rivestiti con il saio che vuoi. —Così non sarò più re! E scomparve. Era Dio che aveva passato un istante con lui.

(J. Chuzeville, I mistici tedeschi dal XIII al XIX secolo)

La risposta

Noi balliamo un po’ al mattino nella nostra vita

come un dito dimagrito nell’anello di un tempo.

Siamo diventati più piccoli, più umili

a causa dei sogni? Più liberi in ogni caso

che non lungo una vita in cui il tempo ci stringe

ed ecco che occorrerebbe scegliere di nuovo

la moglie, i figli, la professione, la casa.

Togliamo o conserviamo l’anello?

Ognuno attorno al letto attende una risposta

e il Cristo silenzioso che ci ha risvegliati

è l’ultimo a porre la domanda.

(J.P. Lemaire, La rotta)

La rinuncia a se stessi

Quando una situazione umana ci chiede una totale rinuncia a noi stessi, istintivamente cerchiamo il compromesso o semplicemente imbocchiamo la strada della fuga; ci accomuniamo agli apostoli, che anch’essi sono fuggiti di fronte al realismo della Passione di Gesù.

A tanti livelli e su tanti piani dobbiamo cercare di smascherare le forme di fuga che caratterizzano il nostro preteso “servizio agli altri”.

Quante volte a livello della famiglia, ci lasciamo andare alla ricerca soltanto della gratificazione, dell’affermazione di noi stessi e non accettiamo le persone che ci sono vicine, così come sono, nella loro realtà; le vorremmo sempre diverse e ci arrovelliamo?

Quante volte nell’ambito professionale ci lasciamo trascinare solo dall’interesse e non cerchiamo di rendere un servizio fino in fondo, servizio che ci chiede di uscire da noi stessi, di prendere parte in qualche modo alla croce e di partecipare alla sua forza rivelatrice?

Quante volte di fronte alle richieste che i nostri fratelli avanzano, noi manifestiamo disagio, stizza, rifiuto?

Ecco: tante realtà semplici della nostra vita quotidiana in cui Gesù dalla croce ci chiede di operare una profonda conversione, di metterci davvero in ginocchio davanti alla croce per coglierne il realismo e la fedeltà che cambiano la vita.

Donarsi a tutti non appartenendo a nessuno

Il sacerdote deve amare tutti non appartenendo a nessuno. Un modo di sentire che non rientra nella percezione comune. Si tratta di amore che prevede di darsi senza ricevere un amore simmetrico, perché la mercede egli la ottiene non dall’amore umano ma da quello divino. Sembra una scissione innaturale dell’amore, che prevede nella dinamica umana la partecipazione simultanea. Io ti amo perché mi ami, e sento di doverti amare sempre più, perché tu possa voler bene ancora di più.

Quello del sacerdote è invece un amore gratuito, che manca della parte che proviene dall’altro. E per questo egli giunge ad amare anche chi non lo ama, chi lo ignora, persino chi lo detesta.

Si tratta di un paradosso che però è ben rappresentato nella figura di Cristo, che non solo ha detto di amare anche i nemici e di perdonare chi ci ha procurato danno e dolore, ma addirittura di porgere l’altra guancia per essere pronti a ricevere un altro affronto, un’altra mortificazione.

Del danno ingiustamente subito si offre il pieno perdono e la totale comprensione fino a stabilire che la violenza non fa parte mai della risposta del sacerdote, perché egli non fa altro che imitare Cristo, che così ha detto e così ha mostrato di fare. […]

Non vi è dubbio che questa condizione d’amore è difficile, ma il sacerdote è anche consapevole di potersi fondare sulla forza di un amore ideale, di un amore verso Dio. La parola “ideale” è probabile che sia inadatta, ma interpreta il concetto psicologico di sublimazione dell’amore in idee e in immagini astratte e dunque il trasferimento di un amore carnale in uno puramente spirituale, si potrebbe dire platonico. Una dimensione che nel sacerdote raggiunge però espressioni concrete (incarnate), perché il Dio a cui si lega, parla, quel Dio è presente, quel Dio vive con lui quotidianamente. È importante che tutto ciò sia reale e non una congettura, non uno spostamento, non solo una sublimazione, che rimanderebbe sempre al problema della mancanza d’amore umano. I meccanismi di difesa non permettono mai di risolvere il bisogno d’amore di cui il sacerdote deve essere consapevole, ma anche esperimentare che l’amore che riceve dalla comunità e da Dio valgono la rinuncia insita nella scelta sacerdotale.

Del resto Cristo ha mostrato di essersi dedicato tutto all’amore per gli uomini sostenuto dall’amore grandissimo del Padre.

(Vittorino ANDREOLI, Preti, Milano, Piemme, 2009, 82-83; 86).

Svuotamento

Un maestro di sapienza e di spiritualità, noto per la saggezza delle sue dottrine, ricevette la visita di un professore universitario, che era andato da lui per interrogarlo sul suo pensiero.

Il saggio servì del tè: colmò la tazza del suo ospite e poi continuò a versare, con espressione serena e sorridente. Il professore guardò traboccare il tè, tanto stupefatto da non riuscire a chiedere spiegazione di una distrazione così contraria alle norme più elementari della buona educazione. Ma a un certo punto non poté più contenersi: «È ricolma! Non ce ne sta più», gridò con agitazione.

«Come questa tazza», disse il saggio imperturbabile, «tu sei ricolmo della tua cultura, delle tue opinioni e congetture erudite e complesse. Come posso parlarti della mia dottrina, che è comprensibile solo agli animi semplici e aperti, se prima non vuoti la tua tazza?».

(L. Vagliasindi (ed.), La morale della favola, Milano, Gribaudi, 1983, 11-12).

Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre

Dobbiamo ora parlare delle rinunce. Esse sono tre, come attesta la tradizione patristica e l’autorità delle Scritture, e le dobbiamo adempiere con ogni nostro impegno. La prima è materiale; con essa rinunciamo a tutte le ricchezze e a tutti i beni di questo mondo; con la seconda rinunciamo alle abitudini della vita passata, ai vizi e alle passioni dello spirito e della carne. Con la terza richiamiamo il nostro spirito da tutte le realtà presenti e visibili, contempliamo unicamente le realtà future e non desideriamo se non le realtà invisibili. È necessario compierle tutte e tre; leggiamo che questo il Signore l’aveva comandato anche ad Abramo quando gli disse: Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre (Gen 12,1). Esci dalla tua terra, cioè: rinuncia ai beni di questo mondo e alla ricchezze terrene. In secondo luogo: dalla tua parentela, cioè: rinuncia alla tua vita e alle abitudini di un tempo che sono unite a noi fin dalla nascita a motivo di una specie di affinità o di parentela di natura e di consanguineità. In terzo luogo: dalla casa di tuo padre, cioè da ogni ricordo di questo mondo visibile ai tuoi occhi. Abbiamo infatti due padri: uno è quello che dobbiamo abbandonare, l’altro lo dobbiamo cercare. Davide fa dire a Dio queste parole: Ascolta, figlia, e guarda; porgi l’orecchio e dimentica la tua gente e la casa di tuo padre [Sal 44 (45),11]. Colui che dice: Ascolta, figlia indubbiamente è padre, eppure attesta che è padre della propria figlia anche colui che convince a dimenticare la casa paterna e il popolo a cui appartiene. Ora, questo oblio si realizza quando, morti con Cristo agli elementi di questo mondo, contempliamo, secondo le parole dell’Apostolo, non più le cose che si vedono, ma quelle che non si vedono poiché le cose visibili sono temporanee, quelle invisibili sono eterne (2Cor 4,18); quando uscendo con il cuore dalla casa di questo mondo visibile, volgiamo lo sguardo verso quella in cui abiteremo per l’eternità.

(CASSIANO, Conferenze 3,6, SC 42, pp. 145-146).

La lotta spirituale

La lotta spirituale è innanzi tutto ascesi, esercizio. Chiunque scelga un fine, deve sottomettersi alle fatiche che questo fine richiede per essere raggiunto: negli studi, nella vita morale, nella vita spirituale. La necessità dell’ascesi si pone dunque sul piano prettamente umano, ancor prima che su quello della vita cristiana. Ha scritto Dietrich Bonhoeffer:

«Se parti alla ricerca della libertà, impara innanzitutto disciplina dei sensi e dell’anima, affinché i desideri e le membra non ti portino a caso qua e là.

Casti siano lo spirito e il corpo, sottomessi e obbedienti nel cercare la meta assegnata.

Nessuno penetra il mistero della libertà, se non con la disciplina»

(Dietrich BONHOEFFER, Stazioni sulla via della libertà, in Resistenza e resa, Bompiani, Milano 1969, p. 270).

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […] «Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

XXIII DOM TEMP ORD (C)

Visioni, Realtà e Utopia.

Il prossimo lunedì 9 settembre 2013, alle ore 15.00, presso la Sala Marconi sita nel Palazzo di Radio Vaticana in Piazza Pia 3 (Roma), avrà luogo la conferenza stampa di presentazione della XVI edizione del Religion Today Filmfestival, il Festival internazionale di cinema delle religioni. L’edizione 2013 prenderà avvio il prossimo 11 ottobre e si conclude il 22 ottobre con il seminario organizzato presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università Pontificia Salesiana.

 

Durante l’incontro con la stampa e con quanti sono interessati all’evento, la direttrice Katia Malatestaillustrerà le linee guida e le novità che caratterizzano l’edizione di quest’anno che ha come titolo: “Visioni, Realtà e Utopia”. Alla conferenza stampa interverranno Nibras Breigheche (Religion Today Filmfestival), Giovanni La Manna SJ (presidente Centro Astalli), Mauro Mantovani SDB (decano FSC UPS), Sergio Botta (Dipartimento Storia, Culture, Religioni dell’Università La Sapienza di Roma), Victoria Gomez (Movimento dei Focolari), Valeria Biagiotti (Vice Capo Unità dellʼUnità di Analisi e Programmazione del Ministero degli Affari Esteri) che presenterà inoltre il seminario su religioni e relazioni internazionali organizzato dal MAE con l’ISPI-Istituto di Studi Politici Internazionali e Provincia Autonoma di Trento in programma a Trento nei giorni del Festival (17-18 ottobre 2013).

Il Religion Today Filmfestival è un viaggio nelle differenze per una cultura del dialogo e della pace attraverso le riflessioni e il confronto che confluiscono nel cinema e che suscitano il cinema. Tappe del RTFf sono come da tradizione Trento e provincia, Bolzano, Roma – Nomadelfia preview Teggiano, Bassano e Merano.

Credenza e dubbio, fedi e fatti. Da sempre il reale e l’ideale si inseguono nella storia umana e in ogni coscienza come i due volti della stessa esperienza, i due occhi di una visione tridimensionale. Per la sua XVI edizione Religion Today Filmfestival intende cogliere, nella più recente produzione cinematografica internazionale, le sfumature di tale tensione, particolarmente urgente in un tempo come il nostro di crisi degli ideali, di attesa di una credibile utopia.

Il programma prevede la partecipazione del Ministra per lʼIntegrazione Cécile Kyenge e dellʼattore Gioele Dix.

La fede, luce del mondo

E’ uscita la prima enciclica di papa Francesco. Che, come dichiara lo stesso Jorge Mario Bergoglio, recepisce il testo già preparato dal suo predecessore, Benedetto XVI, salvo “alcuni ulteriori contributi” apportati dall’attuale Pontefice. La fede, chiamata e promessa, da Abramo a oggi.

Il “gran lavoro” di Benedetto XVI è alla base della prima enciclica di Papa Francesco. La firma alla fine delle 96 pagine, divise in quattro capitoli più tre paragrafi di introduzione, è quella di Francesco. Ma Bergoglio aveva già annunciato di aver ricevuto una bozza da Ratzinger e aveva parlato di una sorta di “enciclica a quattro mani”.
Ne parla al termine nel terzo paragrafo, spiegando che queste “considerazione sulla fede” intendono “aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza”. Bergoglio rivela che Papa Benedetto aveva “già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede”: “Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di  Cristo assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”. E questo l’omaggio a Joseph Ratzinger di Jorge Mario Bergoglio.
Papa Francesco cita l’esempio di  due mediatori della luce della fede:  san Francesco d’Assisi e Madre Teresa di Calcutta.  La fede, quindi,  «non ci fa dimenticare le sofferenze del mondo» e «si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace»: «la fede non allontana dal mondo e non risulta estranea all’impegno concreto dei nostri contemporanei».
E’ la prima enciclica del primo Papa sudamericano, del primo Papa gesuita, del primo Papa che ha accanto a sé un Papa emerito. Arriva dopo poco più di cento giorni di pontificato.  Benedetto XVI aspettò otto mesi per pubblicare la Deus caritas est.  Giovanni Paolo II presentò dopo cinque mesi di pontificato la Redemptor hominis.  Paolo VI pubblicò l’Ecclesiam suam dopo oltre un anno, mentre Angelo Roncalli cinque mesi dopo l’elezione presentò  la Ad Petri Cathedram.

 

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Ma senza l’amore anche la fede inaridisce

di Mariapia Bonanate

Ogni parola che dice diventa un gesto, una scelta, un comportamento. S’incarna nella realtà quotidiana, individuale e collettiva. È il carisma di papa Francesco che arriva direttamente dall’annuncio del Vangelo. Leggere questa sua prima enciclica Lumen fidei è ritrovare queste parole. È rivedere il suo sorriso e l’affettuosa complicità dei suoi occhi, quando le pronuncia. È percepire la sua passione, il suo amore per un’umanità che sente il bisogno di riferimenti affidabili, ma non riesce più a trovarli.

 

Le parole allora. A cominciare da quella che percorre nelle sue varie declinazioni il documento pontificio, ne rappresenta il luminoso filo rosso: la fede. Offerta come un dono che fa stare bene nella ricerca, nell’ascolto, nell’apertura al mondo, in una visione complessiva che comprende il tutto. Permette di realizzare la pienezza nella vita personale e comunitaria. Coltiva il bene comune. Intrecciata alla parola fede, la parola amore. Questo intreccio è l’anima, «la parte fondativa e più importante del documento», sottolinea monsignor Rino Fisichella nell’introduzione. È la linfa di altre parole: verità, giustizia, uguaglianza, impegno, servizio, partecipazione, dialogo. Conoscenza. «L’amore stesso è una conoscenza, porta una logica nuova», scrive Francesco, citando Gregorio Magno. Senza l’amore la stessa fede si inaridisce, si affloscia. Ma anche senza la fede, l’amore si svuota del suo significato più profondo, devia su versanti che ne tradiscono l’autentica natura.

 

Che bello e intenso questo canto sull’amore, alfabeto del mondo, vento carezzevole e avvolgente che parte dal cuore. Un cuore di carne, come quello che papa Francesco continua a testimoniare nella scelta prioritaria degli ultimi, nella condivisione con chi fa fatica, nell’abbraccio con i giovani e con il popolo degli invisibili. «Toccare con il cuore, questo è credere ». Francesco cita sant’Agostino che commenta l’episodio della donna ammalata che tocca il mantello di Gesù, riconoscendo «il suo mistero, il suo essere Figlio che manifesta il Padre».  Questo richiamo è una celebrazione della sacralità dei sensi nel cammino della fede, come strumenti per far percepire la presenza fisica del Cristo fra noi e accanto a noi. Come compagno di strada con il quale camminiamo, spezziamo ogni giorno il pane delle nostre mense, delle nostre inquietudini e sofferenze, delle gioie e attese. La fisicità tangibile del Figlio di Dio diventa allora il nucleo pulsante di quella «città affidabile » che l’impegno dei credenti deve edificare ogni giorno in una fratellanza universale rivolta al bene comune.

 

In questa «città dell’uomo e di Dio» papa Francesco dedica, nella conclusione dell’enciclica, quasi un sigillo, uno spazio luminoso alla sofferenza del mondo e di ogni persona: «Il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare atto d’amore, affidamento a Dio, e in questo modo essere una tappa di crescita della fede e dell’amore… All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna. Di una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce». Grazie, papa Francesco, per questa luce che hai acceso come un faro nel mistero inquietante del dolore. E grazie per avere ribadito, ancora una volta: «Non facciamoci rubare la speranza».

11 settembre 2013

L’anima attesa

 L’anima attesa, lo sguardo di Don Tonino Bello. Immaginando il viaggio di un uomo d’affari nel Salento, si parla del pensiero del vescovo di Molfetta, Don Tonino, su due temi di grande attualità: la critica a un modello economico ingiusto e fuori controllo che produce dipendenza, fame, miseria nel Sud del mondo e la richiesta di un nuovo ordine di giustizia e di pace.

LA TRAMA

Carlo, uomo d’affari che non crede più in niente, subisce le conseguenze della crisi finanziaria innescata da un’ingorda attività speculativa. Colpito nell’anima e negli affari, decide di prendersi un fine settimana di pausa e raggiungere la sorella che vive ad Alessano, centro del Salento dove è sepolto don Tonino Bello, vescovo di Molfetta. Durante il viaggio, Carlo avrà modo di sperimentare attraverso una serie di eccezionali segni il vero messaggio tramandato da don Tonino, riscoprendo prima di tutto se stesso. 

Al Fiuggi Family Festival trionfa “touch of the light”

 “Tutti per Uno”  è stato il tema della sesta edizione del Fiuggi Family Festival, tenutosi dal 21 al 28 luglio. L’offerta ludico e culturale del FFF è quest’anno particolarmente ricca di novità interessanti e divertenti per tutte le età, tra proiezioni ed eventi dal primo pomeriggio alla mezzanotte,  open space  in piazza per le famiglie con esecuzioni  di musiche dal vivo e degustazioni regionali gratuite.

Per quanto riguarda il cinema nel cartellone delle retrospettive titoli come Bianca come il Latte Rossa come il Sangue, di Giacomo Campiotti, tratto dall’omonimo romanzo di Alessandro D’Avenia (il regista è tra gli ospiti attesi); Il Figlio dell’Altra, di Lorraine Lévy; L’Amore Inatteso, di Anne Giafferi;  Un Giorno devi Andare, di Giorgio Diritti; tra le retrospettive per tutte le età  i film “live action”: Il Sole Dentro, di Paolo Bianchini ( il regista sarà presente per incontrare il pubblico); Il Grande e Potente Oz, di Sam Raimi (prequel de “Il mago di Oz” di Victor Fleming) e l’acclamato Vita di P diretto da Ang Lee, basato sull’omonimo romanzo di Yann Martel.

Per i più piccini una ricca selezione dei più recenti film d’animazione come, tra gli altri, The Croods di Chris Sanders e Kirk De Micco (film d’animazione del 2013 con protagonisti del cast vocale Nicolas Cage, Ryan Reynolds, Emma Stone e Catherine Keener, primo film prodotto dalla DreamWorks Animation dopo l’accordo di distribuzione con la 20th Century Fox); Ribelle, The Brave, di Mark Andrews e Brenda Chapman (il nuovo film d’animazione siglato Disney-Pixar); e poi ancora, le avventure di Zarafa, di Rémi Bezançon e Ralph Spaccatutto, di Rich Moore.

Un  posto d’onore, alla presenza di cast e produzione, spetta al lavoro di Edoardo Winspeare, L’Anima Attesa, sull’eredità spirituale di don Tonino Bello, vescovo di una Chiesa ‘con il grembiule’. Tra i documentari: Bells of Europe, realizzato dal Centro Televisivo Vaticano  e Rai Cinema sul futuro della Cultura in Europa.

In concorso, tra gli altri film in anteprima e ancora inediti, ci sono stati: la commedia Allez, Eddy!, di Gert Embrechts; Jappeloup, di Christian Duguay; Touch of the Light, di Jung-Chi Chang.; The Pearl, di Sirous Hassanpour. La giuria del concorso cinematografico, presieduta dal regista Fernando Muraca, è composta dal regista Stefano Alleva e l’attrice Ewa Spadlo; il regista/attore Alessandro Benvenuti;  la prof.ssa Stefania Schettini Perillo (Agesc, membro del Cnu, Consiglio nazionale degli utenti); la dott.ssa  Stefania Binetti, responsabile Relazioni Esterne Fondazione Alberto Sordi; il dott. Patrizio Romano e la dott.ssa Daniela Paludi, entrambi membri della presidenza dell’Associazione Far Famiglia.

Al festival sono state distribuite gratuitamente a tutti i partecipanti copie del  prestigioso mensile di cinema Best Movie della E-Duesse ormai tradizionale media partner ufficiale della manifestazione.

Quest’anno, premiato anche dalla stampa accreditata, “touch of the light“ trionfa al Fiuggi Family Festival. Con un linguaggio universale capace di intercettare il pubblico giovanile affronta il tema del talento e della diversa abilità”. Questa la motivazione della giuria del concorso internazionale, presieduta per il secondo anno consecutivo dal regista Fernando Muraca, che ha selezionato come più meritevole il film taiwanese del 2012 candidato agli oscar. “Il film coniuga il sogno della propria realizzazione con i limiti che ciascuno ha con la realtà. –continua la motivazione – Il regista, con abilità, riesce a raccontare due storie in parallelo senza che il film risulti discontinuo. Touch of The Light  suggerisce, attraverso le figure adulte nel loro complesso, strategie di custodia e di stimolo all’autonomia, che va conquistata con sforzi personali, relazioni ed accettazione delle sconfitte.” Il film racconta la storia di Siang, giovane cieco cresciuto nella campagna taiwanese, che si ritrova per la prima volta da solo quando viene accettato in una prestigiosa accademia di Taipei. Nonostante il suo handicap, e la riluttanza della madre nel lasciarlo partire, il giovane riesce a farsi benvolere e a crearsi delle amicizie nel nuovo ambiente: inoltre, si trova presto in sintonia con Jie, cameriera di un fast food che sogna la carriera di ballerina. I componenti della giuria del concorso di quest’anno sono il regista Stefano Alleva e l’attrice Ewa Spadlo; Stefania Schettini Perillo (Agesc); Stefania Binetti (fondazione Alberto Sordi); Patrizio Romano e Daniela Paludi (associazione Far Famiglia). Il film taiwanese è stato anche premiato dalla stampa accreditata al festival: “un film completo – si legge nella motivazione dei giornalisti – che promuove la cultura, la danza, la musica. Presenta con delicatezza la disabilità e invita ad ascoltare e ad accettare l’altro. La condivisione delle esperienze e il progettare un futuro insieme si pone nel film come messaggio di speranza rivolto alle nuove generazioni. Viene rivalutato il corpo come strumento nel suggerire che l’inabilità apre anche a possibilità inattese.” I giornalisti hanno inoltre attribuito una menzione speciale al film Allez Eddy! del belga Gert Embrechts: “per l’originalità registica con cui è trattato il tema centrale. Interessante l’originalità nella narrazione e nello stile. La ricostruzione dell’epoca anni ’60 è ottimale quanto la scelta del cast”. Dal 21 al 28 luglio alla vacanza evento a target family più attesa dell’anno hanno partecipato più di 5000 nuclei familiari provenienti da tutta Italia. L’offerta ludico e culturale è stata quest’anno ricca di novità interessanti e divertenti per tutte le età, tra cinema, teatro, sport e musica live con il concerto di Franco Fasano accompagnato dal quintetto canoro White Nym.

«Andate senza paura per servire»

La Gmg 2016 a Cracovia.
La prossima Giornata mondiale della gioventu’, nel 2016, si svolgera’ a Cracovia, la diocesi che fu retta da Papa Wojtyla. Lo ha annunciato il Papa al termine della Messa conclusiva della Gmg di Rio. Nell’Angelus il Papa ha rieccheggiato l’invito ai giovani ad annunciare il Vangelo senza paura, perche’ solo in essa si trova il significato profondo della vita. 

Al termine della Messa, il cardinale Stanislao Dziwisz, storico segretario di Papa Wojtyla e suo successore sulla cattedra di Cracovia, si e’ avvicinato a Francesco per dirgli parole di gratitudine e il nuovo Pontefice – che si trovava su un gradino piu’ alto – gli ha fatto una carezza sulla testa. Alla Radio Vaticana “don Stanislao” ha commentato la decisione sottolineando che l’annuncio e’ stato “aspettato a lungo” ed “e’ un’espressione di gratitudine a Dio per la prossima canonizzazione di Giovanni Paolo II, un atto che si pone in continuita’ con la sua grande opera, che rappresenta un patrimonio che dobbiamo continuare a portare avanti”. “A Cracovia – ha assicurato – c’e’ un grandissimo entusiasmo non solo tra la gioventu’ polacca, ma tra tutti i giovani presenti qui a Rio”. La Gmg a Cracovia rappresenta dunque “un dono per la Chiesa e una lode a Cristo” 

“La Chiesa conta su di voi” di Mimmo Muolo
Si scrive Gmg, si legge missione. Da Rio de Janeiro il Papa esorta i tre milioni di giovani presenti alla Messa di chiusura della Giornata mondiale della Gioventù ad annunciare Cristo in tutto il mondo. E a cambiarlo con l’amore. “Portare il Vangelo – afferma all’omelia – è portare la forza di Dio per sradicare e demolire il male e la violenza; per distruggere e abbattere le barriere dell’egoismo, dell’intolleranza e dell’odio; per edificare un mondo nuovo. Gesù Cristo conta su di voi. la Chiesa conta su di voi. Il Papa conta su di voi”.
 
Conclusione più esaltante non poteva esserci per Rio 2013. Un autentico terremoto di energie giovanili che ha avuto il suo epicentro sulla spiaggia di Copacabana ma che si è allargato a cerchi concentrici in tutto il Brasile, l’America Latina e il mondo. Grazie anche alla copertura integrale dei media, che hanno documentato minuto per minuto questo straordinario primo viaggio internazionale di Papa Francesco. Questa mattina (pomeriggio in Italia) lungo le strade della metropoli carioca si sono ripetute le scene già viste nei giorni precedenti. Con una folla che ha superato tutte le previsioni. Francesco passa a braccia aperte, saluta, benedice, bacia i bambini, segna con la croce sulla fronte i malati e si consegna per così dire completamente alla folla. Viene in mente una frase di Madre Teresa che alle sue suore diceva: “Lasciatevi mangiare dalla gente”. 

Papa Bergoglio sembra voler fare altrettanto. E i tre milioni di fedeli – numero confermato nel consueto briefing di padre Lombardi – che gremiscono i quattro chilometri del lungomare di Copacabana hanno fame di affetto, divorano ogni suo sguardo, ogni sua carezza, ogni suo sorriso, ogni suo gesto come se da essi dipendessero la loro stessa vita. Francesco li incoraggia. Anche quando sarebbe più prudente tirarsi un attimo indietro. Gli passano una bevanda con la cannuccia, come è successo anche ieri durante il tragitto in papamobile verso il palco? E lui beve. Gli tirano magliette, striscioni, cappellini, bandiere e ogni tipo di oggetto? E lui li raccoglie. 

Al punto che al termine del percorso sono stati tirati fuori dalla jeep quattro sacchi pieni di questi particolarissimi omaggi. Non ha paura il Papa, le misure di sicurezza non lo interessano. E perciò la gente gli vuole bene ogni giorno di più. E perciò egli stesso può chiedere ai giovani, con la forza del testimone, “non abbiate paura”. “Non abbiate paura di andare e portare Cristo in ogni ambiente, fino alle periferie esistenziali, anche a chi sembra più lontano, più indifferente. Il Signore cerca tutti, vuole che tutti sentano il calore della sua misericordia e del suo amore”. Tutta l’omelia e tutta la Messa, celebrata finalmente sotto un sole che riscalda e ripaga i pellegrini delle incessanti piogge dei giorni scorsi, sono ispirate al mandato missionario. 

Un mandato che il Papa riassume in tre parole: “Andate, senza paura, per servire”. Francesco ricorda la gioia della fede sperimentata in questi giorni. E invita a condividerla. “La fede è una fiamma che si fa sempre più viva quanto più si condivide, si trasmette, perché tutti possano conoscere, amare e professare Gesù Cristo che è il Signore della vita e della storia”. Andate, ripete il Papa, “Gesù non ci tratta da schiavi, ma da uomini liberi, da amici, da fratelli; e non solo ci invia, ma ci accompagna, è sempre accanto a noi in questa missione d’amore”. Un invito speciale in questo senso è per i giovani del Brasile e dell’America Latina. “Sapete qual è lo strumento migliore per evangelizzare i giovani? Un altro giovane. Questa è la strada da percorrere”, raccomanda il Pontefice. Infine Francesco ricorda che “evangelizzare è servire chinando a lavare i piedi dei nostri fratelli come ha fatto Gesù”. E come ha fatto anche il Papa anche in questi giorni a Rio entrando in alcuni ambienti particolarmente poveri. In definitiva come si aspetta che ora facciano anche i giovani. “Andate e fate discepoli tutti i popoli”. La Gmg di Rio sta per finire, la missione è appena cominciata.

L’invio missionario
Il cardinale Rylko, presidente del Pontificio Consiglio dei laici, a conclusione della Messa, ha celebrato il rito dell’invio missionario, presentando al Papa cinque coppie di giovani, rappresentanti dei cinque continenti, alle quali sono state consegnate le statuetta del Cristo Redentore di Corcovado. 

La bambina malata
All’offertorio una coppia di sposi ha portato al Papa la figlioletta anancefalica. La famiglia era stata presentata al Papa nei giorni scorsi, aveva raccontato la propria storia di malattia ma anche di accoglienza alla vita, e lui l’ha invitata alla Messa come testimonianza di amore e rispetto per ogni creatura, anche la piu’ fragile e indifesa.

Il saluto dell’arcivescovo di Rio
La Messa e’ stata introdotta da un saluto di monsignor Orani Joao Tempesta, arcivescovo di Rio, che si e’ detto certo che i partecipanti porteranno con se’ la fiaccola dell’evangelizzazione per fare discepoli in tutto il mondo. “Lo Spirito Santo si prendera’ cura di ognuno di loro”. Il Papa “ha riscaldato i nostri cuori, il simbolo di questa giornata e’ il cuore, nel centro di ogni cuore regna il Redentore che ha sempre braccia e cuore per accogliere tutti. Porteremo con noi l’immagine dell’uomo che abbraccia tutti, ci manchera’”. 

 

“I diritti della famiglia. Solo su Carta?”

Si terrà oggi, nella cornice del Fiuggi Family Festival, la presentazione del libro di Francesco Belletti e Gabriella Ottonelli “I diritti della famiglia. Solo sulla Carta?” (Paoline, 2013). Alla presentazione interverrà, insieme agli autori, don Andrea Ciucci, del Pontificio Consiglio per la Famiglia. A trent’anni dalla promulgazione della Carta dei diritti della famiglia, documento del Pontificio Consiglio per la Famiglia, il sociologo Francesco Belletti, direttore del Cisf (Centro internazionale studi famiglia) e presidente del Forum delle famiglie, e la moglie, la sociologa Gabriella Ottonelli, riprendono in mano la Carta proponendone un commento passo per passo. Il libro vuole essere innanzitutto “un invito, rivolto alle istituzioni ma anche ai singoli, a trasformare i diritti sulla carta in diritti concreti, perché le famiglie possano continuare a creare il futuro e costruire una società più umana”. Il libro è arricchito dalla prefazione di monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia che scrive: “Un’attenta e rigorosa rilettura della Carta dei diritti della famiglia ci può aiutare a percepire nello stesso tempo lo scollamento che caratterizza la rivendicazione odierna dei diritti umani tra vincolo e arbitrio e la profonda esigenza di superare tale scollamento”. 

Lettera a Papa Francesco

Francesca è una giovane collaboratrice del Sir che ha provato a mettere in fila i sentimenti e i pensieri che in queste ore corrono nel cuore e nella mente dei ragazzi di Rio. Non sappiamo se siamo riusciti a dare voce ai giovani della Gmg, ma speriamo di esserci andati molto vicino

Caro Papa Francesco, 
ci hai chiamato amici e così mi piace pensarti, come un amico un po’ più grande, che ha fatto un pezzo di strada che io ancora non ho percorso e che mi invita a guardare più là del mio naso. 
Sai Papa, ho solo vent’anni e ci sono così tante cose che voglio fare. È bello pensare che, come hai detto, se ci metto fede, speranza, amore le farò meglio. 
Sai Papa, è duro il mondo per noi giovani. Qualunque cosa facciamo non va mai bene. Se contestiamo siamo indignati, se accettiamo siamo vigliacchi, se chiediamo la parola siamo troppo giovani per sapere, se facciamo qualcosa in silenzio non abbiamo idee. 
Eppure, nonostante tutto, non ci arrendiamo. Io oggi ti ho ascoltato, ci ho riflettuto un po’ e ho deciso che ti credo. Ti rispondo che ci sto. Sai, come quel Pascal che ho studiato al liceo, quello della scommessa, che diceva che ne valeva la pena. Ecco, scommetto anche io su di te, sulla tua tenerezza e siccome dicono che noi giovani non ci impegniamo davvero in quello che facciamo, voglio fare le cose per bene e ti metto tutto nero su bianco. Così, se un giorno non dovessimo più ricordarci cosa ci siamo detti, possiamo sempre rileggere e sorriderne insieme. 
Allora, cominciamo. Ci sto a finire quest’Università che mi sembra un pozzo senza fondo verso il miraggio di un lavoro che non c’è. Ci sto a confrontarmi su tutto con i miei, anche se a volte penso che ci divida ben più di una generazione. Ci sto a frequentare la Chiesa, anche quando il mio parroco sembra più un ragioniere che un allenatore di anime. Ci sto a sognarmi dove non avrei pensato di immaginarmi, perché se comincio a tarparmi le ali da sola non posso pensare di volare alto. Ci sto a farmi una famiglia perché continuo a pensare che i figli sono l’unico modo per ipotecare bene il mio futuro. Ci sto a non farmi consumare la speranza da chi è deluso dalla vita e tenta di scoraggiarmi dal vivere pienamente la mia. Ci sto a non accontentarmi di risposte provvisorie e a cercare la verità anche quando è ben nascosta nelle pieghe dell’effimero. Ci sto a non sottrarmi alle mie responsabilità anche quando sarebbe facile scaricarle sulle spalle di qualcun altro. Ci sto a cercare il torsolo buono nella mela ammaccata, perché se il Signore perdona me io non posso non fare lo stesso con chi mi offende. Ci sto a cambiare una piccola cosa che non va ogni giorno, perché mi conosco e lo so che se cercassi di cambiare tutto insieme non funzionerebbe e mi demoralizzerei. Ci sto a riporre la mia fiducia in Qualcuno di più grande che mi aspetta senza arrabbiarsi anche quando magari mi smarrisco per un po’. Ci sto ad essere una “testimone gioiosa”, perché non c’è niente di più triste di un testimone mesto. Ci sto a mettere il sale dov’è insipido, lo zucchero dov’è amaro, l’acqua dove è arido, perché la vita va cucinata con i giusti ingredienti perché abbia un buon sapore. 
Che ne dici Papa Francesco, va bene come primo elenco? Beh, a me sembra abbastanza ottimista per aver appena cominciato. Ma non mi preoccupo, so che ne riparleremo alla prossima Gmg. 
Ti abbraccio, la tua amica

SIR del 26/07/2013