47° Settimana Sociale dei cattolici italiani

Speranza. Unità. Concretezza. Progetto. Domenica 15 settembre i 1300 delegati alla 47ª Settimana Sociale hanno “preso la partenza” da Torino portando con sé queste parole chiave, frutto del lavoro delle otto assemblee tematiche, nelle quali si è dato un nome ai problemi e alle possibili soluzioni alla luce del progetto famiglia.

La società ha bisogno di amore, ne ha bisogno anche per uscire dalle sue crisi” ha evidenziato nelle conclusioni Mons. Miglio; “Avanti su questa strada!” ha esortato il Papa nella preghiera dell’Angelus, rallegrandosi per “il grande l’impegno che c’è nella Chiesa in Italia con le famiglie e per le famiglie e che è un forte stimolo anche per le istituzioni e per tutto il Paese”.
 
INTERVENTI E ARTICOLI CORRELATI:
 

Tra i colori degli stand   

Si vive anche in piazza la Settimana Sociale. Nei quattro giorni di lavori piazza Castello, a Torino, ospita gli stand che presentano alla città e ai delegati diverse realtà legate alla Chiesa italiana: le attività e i prodotti di cooperative e associazioni legate al Progetto Policoro, l’impegno contro le mafie di Libera, la “battaglia” europea di “Uno di noi”, le iniziative del Forum delle associazioni familiari, solo per citarne alcuni. Poi ci sono stand dell’arcidiocesi di Torino, il Servizio promozione sostegno economico alla Chiesa cattolica e, al palazzo della Regione, i media cattolici (Avvenire, Tv2000, Radio InBlu, Agenzia Sir), l’Azione cattolica, la Gioc e le case editrici (Ave, Paoline, Città Nuova, Effatà, Elledici).
I milletrecento delegati, nelle pause tra una sessione e l’altra, passeggiano, chiedono informazioni, comprano libri e prodotti alimentari. Ma anche tanti torinesi passano dalla piazza e mostrano interesse per l’iniziativa.
“Torino è una città d’immigrazione e tanti, con origini meridionali, qua ritrovano sapori della loro terra”, spiega Maria Pia Adore, davanti a uno stand di cooperative del Progetto Policoro che vende prodotti calabresi: dalla ‘nduja alla composta di peperoncino, dai pomodori secchi alle nocciole.
“La gente è curiosa e interessata: sono in molti quelli che si fermano, dal quindicenne ai delegati. Chi si ferma, spesso, sa cosa è e cosa fa Libera”, dice Mirella Meinardi, del presidio Libera di Avigliana, in Val di Susa. “Oltre a comprare i prodotti – precisa – ci chiedono informazioni, anche sulla possibilità di fare esperienze di volontariato. Qualcuno si è pure tesserato”.
Rispondono invece alla sfida educativa in modo originale e ‘appetibile’ i ragazzi dell’associazione Cre-Activity, nata come gesto del Progetto Policoro nell’arcidiocesi di Lecce. Propongono un percorso gastro-culturale per affrontare argomenti cruciali come gli stili di vita, la disoccupazione, l’educazione e la politica. “Una volta al mese, per 5 volte, ci incontriamo in un comune diverso e in un locale diverso: i ragazzi, per lo più studenti delle scuole superiori, si ritrovano in un pub, in una pizzeria o in un ristorante per mangiare e per approfondire il tema della serata”, racconta Emanuele Perlangeli, animatore di comunità del Progetto Policoro. “Dopo la proiezione di un video, un esperto – continua – offre qualche spunto di riflessione. I ragazzi scrivono le loro domande, risposte e provocazioni su foglietti, in forma anonima, e così si crea un dibattito coinvolgente”.
In un altro stand una bici collegata a una valigetta contenente una piccola apparecchiatura consente di depurare l’acqua dai sali minerali e soprattutto dalle impurità. “Si tratta di un sistema semplicissimo che utilizziamo in Bangladesh e nell’India del nord dove le falde acquifere sono contaminate dall’arsenico” spiega Salvatore Merola che fa parte del gruppo Re.Te (Restituzione Tecnologica) promosso dal Sermig di Torino. Poco più in là, alcune casse di plastica riempite di sassi su cui fanno bella mostra, rigogliose, delle verdure. “Grazie ad una soluzione di sali minerali sciolta nell’acqua e ad alcuni strumenti – sottolinea – riusciamo a mantenere l’umidità e a rendere produttivi terreni non fertili. In alcuni villaggi ormai si riesce a produrre frutta e verdura in contenitori di plastica o in contenitori colmi di fibre di cocco”.
Viene infine da Imola Emilio Masi, che con depliant e t-shirt presenta “Officina immaginata”, associazione di promozione sociale nata da un gruppo di educatori nel gennaio 2013, anch’essa grazie a Policoro, con lo scopo di “animare il tempo estivo dei ragazzi delle superiori”. “I temi che proponiamo sono quelli dell’educazione al volontariato, alla legalità, alla cittadinanza, a ‘stili di vita sostenibili e solidali’”, spiega Masi, raccontando che i soci fondatori dell’associazione derivano da diverse esperienze ecclesiali. La loro prima esperienza insieme è stata nell’estate 2012, con “campi di servizio ed educazione alla cittadinanza per ragazzi tra i 14 e i 19 anni”, realizzati con il sostegno della diocesi. Dopo quest’esperienza, il passo successivo è stato dar vita all’associazione, “con lo scopo di diventare un’impresa sociale”. E, tra i prossimi impegni, dal 23 settembre “Officina immaginata” animerà un “oratorio cittadino per adolescenti” nella periferia del capoluogo romagnolo.
 

Per una politica della famiglia   

L”intervento del prof. Stefano Zamagni


“Altro che luogo di affetti e basta”, la famiglia è “il massimo generatore di capitale umano, capitale sociale, capitale relazionale”. A ribaltare una concezione diffusa che vede “la famiglia solamente come una delle voci di spesa del bilancio pubblico e non anche come risorsa strategica per lo sviluppo umano integrale” è stato Stefano Zamagni, ordinario di economia politica all’Università di Bologna, che venerdì 13 è intervenuto ai lavori della 47ª Settimana Sociale dei cattolici italiani. Secondo Zamagni, “si continua a considerare la famiglia variabile dipendente che, in quanto tale, deve adeguarsi a quanto viene deciso per gli altri attori sociali”. E soprattutto, ha aggiunto,  “non riesce ad essere accettata l’idea che la famiglia, prima ancora di essere soggetto di consumo, è soggetto di produzione”.
Mentre “è ormai ampiamente diffusa la consapevolezza del ruolo decisivo che la famiglia svolge come soggetto sociale e come produttore di importanti esternalità positive che vanno a beneficio dell’intera società”, ha denunciato il docente, “non procede con eguale consapevolezza la messa in cantiere di provvedimenti e di misure volti ad una politica della famiglia in sostituzione delle inadeguate politiche per la famiglia”. Nella società odierna, infatti, si continua “ad avanzare con politiche settoriali per età (bambini, giovani, anziani non autosufficienti, etc.), anziché passare a politiche del corso di vita aventi per fine un sistemaintegrato per la promozione del benessere familiare”. A partire da “una armonizzazione responsabile” tra famiglia e lavoro, utile a “superare la diffusa femminilizzazione della questione conciliativa a favore di un approccio reciprocitario tra famiglia e lavoro” e a “provocare un ripensamento radicale circa il modo in cui avviene l’organizzazione del lavoro nell’impresa di oggi”. 
“La famiglia mai può dimenticare che la sua missione è anche quella di rendere lo Stato più civitas e meno polis”, ha ricordato Zamagni sottolineando che “poiché è la civitas che genera la civilitas, si può comprendere perché, oggi più che mai, c’è disperato bisogno della famiglia”. Che però, ha concluso, “deve sforzarsi di più di coltivare quella che l’antropologo indiano Arijun Appadurai ha chiamato la capacità di aspirare, cioè la capacità che chiama in causa la partecipazione delle persone alla costruzione delle rappresentazioni sociali e simboliche che danno forma al futuro, ai progetti di vita”.
 
 

I giovani, 
un bene raro   

La relazione del prof. Gian Carlo Blangiardo


Entro il 2031 il numero di persone sole arriverà a superare gli 8,2 milioni di famiglie (un milione in più rispetto ad oggi), le coppie senza figli aumenteranno fino a 6,4 milioni, le coppie con figli, dopo un decennio di leggero incremento imboccheranno il sentiero della decrescita che le porterà, nell’arco dei 10 anni successivi, ad una perdita di circa 400 mila unità. Anche il numero dei nuclei monogenitore tenderà ad aumentare, raggiungendo circa 2,5 milioni di unità.
È la fotografia scattata da Gian Carlo Blangiardo, ordinario di scienze statistiche all’Università di Milano-Bicocca, che venerdì 13 è intervenuto alla 47° Settimana Sociale dei cattolici italiani. I numeri e i grafici presentati ai convegnisti che si sono ritrovati a Torino per riflettere sulla famiglia delineano uno scenario complesso e ne mostrano un orizzonte non troppo roseo per il futuro.
Nonostante l’importante contributo dell’immigrazione straniera, “la più grande sfida della popolazione italiana nei prossimi decenni sarà l’accentuarsi dell’invecchiamento demografico”. Un fenomeno, ha spiegato Blangiardo, “che si è già fortemente accresciuto nel recente passato e troverà nel futuro una formidabile spinta non solo per via dell’ulteriore prevedibile calo delle nascite (effetto fecondità) e della conquista di una vita più lunga (effetto di sopravvivenza), ma anche a seguito dell’ingresso tra gli anziani dei prossimi decenni di generazioni particolarmente numerose formatesi nel periodo che va dal termine della seconda guerra mondiale sino alla fine degli anni ’60 (effetto strutturale)”. Tale fenomeno, ha aggiunto il docente, non è “affatto neutrale sul piano della spesa pubblica”. Esso infatti “avrà problematiche ricadute sul sistema di welfare dei prossimi decenni, in quanto sembra verosimile ipotizzare che questa nuova categoria di anziani potrà avere grosse difficoltà sul fronte pensionistico”.
“In una società dove i giovani tendono sempre più ed essere un bene raro”, ha sottolineato Blangiardo, si aggiunge la “fuga dei (giovani) cervelli”. “L’Italia è ormai diventata a tutti gli effetti un paese di immigrazione. Tuttavia – ha concluso – mentre migliaia di persone si spostano verso il suo territorio, un importante flusso di italiani, per lo più giovani, percorre il cammino inverso, cercando altrove quel lavoro e quella valorizzazione che il Paese sempre più difficilmente è in grado di offrire”.
 
 
“Demografia, scommessa sulla vita”   

L’intervento del Presidente Enrico Letta


“Solo se c’è fiducia, questo Paese si salverà”. Ne è convinto Enrico Letta, presidente del Consiglio, per il quale è fondamentale “creare fiducia, perché senza fiducia le famiglie non fanno figli”. E la fiducia, ha spiegato, “viene soltanto da scelte, da politiche di welfare, dalla lotta alla disoccupazione giovanile, per ridare futuro ai giovani”.
È stato più che un saluto quello che il Premier ha rivolto ai partecipanti alla 47° Settimana Sociale dei cattolici italiani in corso a Torino. Letta ha parlato a braccio, strappando diversi applausi all’attentissima platea. “Volevo ringraziarvi per lo sforzo fatto nelle diocesi per aiutare, in un momento drammatico, le famiglie in difficoltà”, ha detto sottolineando che “l’impatto della crisi nel nostro Paese è stato meno invasivo e intrusivo rispetto a quanto accaduto in altri Paesi europei, pur in presenza in Italia di una crisi più pesante che in altri Paesi”.
“La famiglia – ha osservato – esce dalla crisi pesantemente affaticata, proprio perché ha svolto un ruolo pesantemente superiore alle sue forze ed ha svolto un servizio per tutta la società italiana”. “Finora abbiamo seguito una logica consolatoria, ora dobbiamo seguire una logica di altro tipo”, ha affermato Letto per il quale occorre “lavorare perché speranza e futuro si declinino in un Paese che riprenda una dinamica demografica diversa”. “Una società in cui la demografia ci dice che soltanto con il sostegno delle famiglie immigrate ed extracomunitarie teniamo il livello minimo di sopravvivenza – ha rilevato – ci deve dire che c’è un campanello di allarme sul futuro a cui dobbiamo dare delle risposte”. 
“Quando mi chiedono qual è la caratteristica più problematica per il futuro del nostro Paese – ha confidato – io rispondo che una è quella che racconta un’Italia in difficoltà: da più di un decennio siamo una società sterile, che non fa figli, e che sulla demografia sta perdendo la scommessa sulla vita”. Nel suo intervento, il Premier ha fatto il punto sugli interventi compiuti dal Governo in questi primi mesi evidenziando che  “il welfare è uno dei grandi temi che vogliamo mantenere e sviluppare” e che servono altri passi per alleggerire pesi che “oggi sono squilibrati”. Tra le questioni più urgenti quella della casa, “a partire da quelli che hanno più bisogno”, con agevolazioni per mutui o affitti, a chi ad esempio “aveva un lavoro e ora l’ha perso”, e per le giovani coppie.

XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Amos 8,4-7

Il Signore mi disse: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere».

Anche questo oracolo di Amos contro i mercanti disonesti, come il precedente insegnamento di Gesù, colpisce un sistema di ingiustizie ancor più dei singoli casi denunciati. Destinatari sono coloro che calpestano, fino a soffocarli, i poveri, gli umili della terra. Calpestatori sono i ricchi commercianti, rapaci e prepotenti. Calpestati sono coloro che Dio ha più a cuore, come l’orfano, la vedova, l’oppresso (cf. Is 1,17). Sono gli umili della terra che Sofonia dirà i più fedeli e osservanti delle disposizioni di Dio e ai quali, per la salvezza di tutto il popolo, domanderà di continuare a cercare JHWH, di cercare la vera giustizia nella fedeltà all’alleanza e di accettare pure la miseria per umile sottomissione a lui (Sof 2,3). Sono coloro che a sostegno della loro vita pongono la fiducia nel Signore (Sof 3,12), i poveri di JHWH, il vero popolo di JHWH.

     Amos delinea la mentalità e i comportamenti dei mercanti rapaci con un monologo messo loro in bocca, che traduce i loro intimi sentimenti. Alla radice essi sono insofferenti della religione, se non proprio miscredenti. Le loro prime espressioni suonano come se dicessero: le celebrazioni religiose ci rovinano gli affari! Il sabato e gli inizi del mese ci bloccano i commerci! Così si manifestano avidi di guadagni assai più che disponibili a Dio e al prossimo. Di conseguenza sono volutamente imbroglioni, programmando la alterazione di monete e pesi e lo smercio degli scarti, e sono strozzini dei miseri e dei poveri. È per questi comportamenti, sviluppatisi nelle classi dominanti del periodo monarchico, che i profeti denunciano la ricchezza come pregiudiziale di ingiustizia e anzi di empietà (cf. Is 53,9), mentre nella condivisione comunitaria del tempo dei Patriarchi e dei Giudici era salutata solo come una benedizione.

     Ma Dio non resta indifferente ai soprusi. Nell’ultimo versetto del brano, Amos ammonisce che JHWH si impegna con giuramento a non dimenticare le opere dei disonesti sfruttatori, cioè a punirle a suo tempo. Lo giura per il vanto di Giacobbe. La espressione non è chiara: può intendersi per l’orgoglio dei corrotti in Giacobbe oppure per l’onore con il quale Dio ha impegnato se stesso con il suo popolo (cf. Am 6,8 e 1Sam 15,29). In ogni caso si tratta della vendetta che JHWH farà per riportare la sua giustizia in mezzo al suo popolo. Amos infatti prosegue annunciando prossimo il terribile giorno del Signore (Am 8,8-14), che sarà tenebre e non luce (Am 5,18). E colloca il tutto fra le ultime due visioni: quella del canestro di frutta ormai matura che sta per essere staccata dall’albero (Am 8,1-3) e quella dell’abbattimento del santuario sopra i frequentatori indegni, a loro rovina (Am 9,1-4).

 

Seconda lettura: 1Timoteo 2,1-8

Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.                                                                                                        

 

v A Timoteo, nel primo capitolo di questa lettera, Paolo ricorda la particolare vigilanza verso le deviazioni nella fede, che ha motivato l’incarico affidategli di rimanere a Efeso (cf. 1Tm 1,3).

     Nel secondo capitolo passa alla parte costruttiva e gli raccomanda prima di tutto e a base di tutto la preghiera. È quanto riportato in questo brano liturgico, che si apre e si chiude con tale raccomandazione. Paolo si riferisce alla preghiera pubblica liturgica, della quale Timoteo è guida, e anche a quella privata dei fedeli, dovunque si trovino (cf. v. S). E dice come va fatta.                              

     Dev’essere universale anzitutto (v. 1), cioè esprimersi in tutte le forme sue proprie (domanda, suppliche, ringraziamenti) e a favore di tutti gli uomini. Ma in modo particolare deve riguardare i re e i governanti (v. 2), perché siano in grado di garantire il bene comune e uno sviluppo della vita sociale nella pace e nella dignità di tutti.

     Per questo, sia la preghiera sia le cose che essa domanda si ricollegano ai disegni di Dio (vv. 3-4), alla sua volontà che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Per questo ancora la preghiera va stabilita sulla mediazione dell’uomo-Dio Cristo Gesù (vv. 5-6) e più precisamente sul suo mistero di morte e resurrezione per il riscatto di tutti.

     Infine Paolo richiama a incoraggiamento la propria partecipazione al mistero di Cristo (v. 7), tutta opera della grazia che lo ha trasformato da bestemmiatore e persecutore violento ad apostolo e maestro dei pagani (cf. 1Tm 1,12-14).

     Tema del brano è dunque la preghiera. Ma le dimensioni che Paolo le assegna la pongono alla radice dello sviluppo del nuovo popolo di Dio, quindi anche della giustizia dei poveri di JHWH (prima lettura) e della scaltrezza e affidabilità con le quali i figli della luce hanno da superare i figli di questo mondo (Vangelo).

 

Vangelo: Luca 16,1-13

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

 

Esegesi 

     Abbiamo qui uno degli insegnamenti di Gesù, che Luca riunisce nei lunghi capitoli dedicati al ministero itinerante dalla Galilea alla Giudea (Lc 9,51-19,27), da lui presentato, più che come un viaggio geografico, come un itinerario formativo dei discepoli, dopo che lo hanno riconosciuto come il Cristo, perché sappiamo seguirlo fino alla croce. L’insegnamento riguarda il buon uso delle ricchezze materiali e si sviluppa in due momenti: prima un racconto-parabola (vv. 1-8) e poi una serie di massime (vv. 9-73).

     La parabola (vv. 1-8) fa il caso di un amministratore incapace che, denunciato, non cerca scusanti e, costretto a pensare al futuro e ad altre situazioni della vita, si dà subito da fare per non restare travolto. Per questo, si converte un poco anche all’amore del prossimo, ma perché gli conviene non per altruismo: un amore egoistico dunque. E lo mette in atto con mezzi illeciti, condonando debiti ingenti a persone forse inguaiate per essi, e diventando pure imbroglione del suo padrone dopo che sperperatore. Il padrone passa sopra alla disonestà del suo dipendente e ne loda invece la scaltrezza. Ed è appunto la scaltrezza o avvedutezza l’insegnamento che Gesù ricava dalla parabola per i discepoli, avvertendo però subito che quella domandata ai figli della luce dovrebbe essere maggiore e soprattutto diversa da quella dei figli di questo mondo, nei giochi con i loro simili.

     Con le massime successive (vv. 9-13) Gesù applica la parabola e precisa le diverse scaltrezza. Anzitutto invita a farsi degli amici con la disonesta ricchezza o meglio col mammona della ingiustizia. Similmente anche l’amministratore è detto economo della ingiustizia. Tale specificazione pare indicare un sistema di cose e non equivalere soltanto a un aggettivo che qualifica i singoli casi di una cifra o di una persona ingiusta. L’invito allora è rivolto a chi si trova dentro al sistema ingiusto, perché si comporti in modo da superarlo nella prospettiva delle dimore eterne, cioè con la realizzazione dell’evangelico regno di Dio. In questo senso i figli della luce sono contrapposti ai figli di questo mondo e sono chiamati a diventare economi della giustizia portata da Cristo, con la proposta delle Beatitudini.

     Le altre massime diventano così più chiare. La fedeltà o meno del poco, che rende fedeli o meno anche nel molto, riguarda la amministrazione delle ricchezze di questo mondo, il poco, da dentro il quale ci si apre o meno alla amministrazione delle ricchezze eterne, il molto. Per questo Gesù aggiunge: non si può affidarvi la ricchezza vera, evangelica, se non siete affidabili in quella ingiusta, di ordine terreno; non si può affidarvi la vostra, di figli della luce, se non siete affidabili in quella altrui, dei figli di questo mondo. E conclude: Nessun servitore può servire due padroniNon potete servire Dio e la ricchezza. La contrapposizione non è tanto fra ricchezza e Vangelo, quanto fra i principi ispiratori della gestione della ricchezza: si arriva veramente a farne buon uso quando dai criteri del mammona si passa a quelli di Dio.

 

Meditazione 

Elemento comune alle letture è la denuncia della potenza di seduzione del denaro e della ricchezza che porta Gesù a parlarne come di un’entità divinizzata (Mammona) che si oppone all’unico e vero Dio (vangelo) e che conduce il profeta Amos a smascherare l’ossessiva bramosia di guadagno di latifondisti e commercianti che si mostrano insofferenti al giorno santo del sabato che mette un limite ai loro affari (I lettura).

L’ambiguità del denaro e la sua capacità di pervertire il cuore dell’uomo appare anche nella parabola in cui Gesù presenta a modello «l’amministratore disonesto»: modello ovviamente non per la sua disonestà, ma perché, nel momento in cui gli è stato prospettato il licenziamento, ha saputo agire con scaltrezza (Lc 16,8). Al cuore della nostra pagina evangelica vi è la decisione radicale a cui l’uomo è chiamato per entrare nel Regno di Dio.

Questa decisione richiede qualità che sono esemplificate nell’amministratore che ha saputo reagire con decisione al momento difficile in cui è venuto a trovarsi quando i suoi intrighi economici sono stati scoperti.

Nel momento della crisi, questo amministratore anzitutto dimostra capacità di accettazione della realtà, della nuova situazione prodottasi («Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione?»: Lc 16,3); quindi di riconoscimento dei propri limiti, delle proprie incapacità e impotenze («Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno»: Lc 16,3); infine di decisione e scelta preparandosi un futuro: egli agisce compiendo gesti che gli dischiudono un futuro (Lc 16,4-7). Dunque, l’esemplarità di quest’uomo corrotto non sta certo nel suo agire senza scrupoli, ma nel suo discernere realisticamente la situazione critica in cui si viene a trovare e nel saper agire di conseguenza. Anche per Gesù costui è un «figlio di questo mondo» (Lc 16,8)! La domanda di Gesù però riguarda i figli della luce: come mai non sanno discernere l’ora, la vicinanza del Regno e mettere in atto prontamente i gesti di conversione che sono essenziali per la salvezza?

Gesù non demonizza il denaro, ma mette in guardia dalla potenza che esso esercita: l’uomo lo divinizza. «Mammona» è termine connesso alla radice ‘aman che significa «credere». Il vangelo denuncia la seduzione del cuore umano e il pervertimento della verità dell’uomo che il denaro può esercitare. Possiamo dire che esso è l’idolo per eccellenza: nel denaro si «crede» il mercato si nutre di «fiducia». E noi scopriamo la nostra insipienza non appena riflettiamo sul fatto che quel manufatto che è il denaro (è l’uomo che «batte moneta») da mezzo di scambio è divenuto fine, da servo è diventato padrone, crediamo di muoverlo e invece è lui che ci agisce, anzi determina i nostri ritmi quotidiani spingendoci a una frenetica corsa all’accumulo. Per questo Gesù pone un’insanabile contrasto fra «servire Dio e servire il denaro»: «Nessun servo può […] Non potete» (Lc 16,13). Questa parola resta una spina nel fianco di cristiani e chiese ricche in una società opulenta. Il vangelo non da ricette, ma la domanda va almeno fatta risuonare: l’abbondanza di mezzi economici e la potenza di mezzi culturali non rende forse illusoria la sequela Christi? E non la rende anche poco credibile?

Condividere e donare ai poveri sono forme di uso cristiano dei beni suggerito nei vangeli: «Fatevi amici con la disonesta ricchezza». Ovvero: donate ai poveri, gli amici di Dio, ed essi, portatori del giudizio escatologico (Mt 25,31 ss.), potranno accogliervi nelle dimore eterne. Ciò che non è avvenuto al ricco che non ha mai mosso un dito per Lazzaro: ora, dopo la morte, mentre Lazzaro è nel seno di Abramo, il ricco è tra i tormenti, e i due sono separati da un abisso invalicabile (cfr. Lc 16,19-31).

Le parole di Gesù sulla  fedeltà (Lc 16,10-12) svelano che vi è una gerarchia di realtà con differente valore: c’è un «poco» e c’è un «molto», c’è una ricchezza materiale e c’è una vera ricchezza, una ricchezza non quantificabile in cui consiste la propria personale verità. Una ricchezza fatta di umanità, vero capitale che il Dio creatore ha donato all’uomo in forma di immagine e somiglianza con lui.

 

Preghiere e racconti

Perché ascoltandole diventino più avveduti

Le parole che abbiamo letto sono molto chiare nel loro significato letterale e non c’è bisogno di spiegarne i dettagli. Ci dice il Signore stesso perché raccontò questa parabola. Perché, egli dice, i figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce (Lc 16,8). Il Signore non loda l’agire iniquo dell’amministratore, ma la sua avvedutezza. Non lo loda per la frode che ha attuato, ma per l’espediente con il quale ha provveduto al suo futuro. Non sapendo in che modo vivere, poiché non era capace di zappare e si vergognava a mendicare, trovò uno stratagemma particolare: dopo aver dissipato i beni del padrone, alla fine compì questa frode. Viene lodato, dunque, non per una qualche buona azione, ma per la scaltrezza e l’astuzia del suo inganno; siccome ormai non poteva più rubare i beni del suo padrone, li sottrasse di nascosto. E a questa scaltrezza non applaude soltanto il padrone dell’amministratore, ma anche il Signore di tutti, quando dice: I figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce. Quelli sono avveduti nel male più di quanto gli ultimi lo siano nel bene. A stento, infatti, si trovano alcuni cristiani che siano tanto accorti nell’acquistare i beni eterni, quanto sono scaltri costoro nell’acquistare i beni caduchi di questo mondo.

Per questi essi vegliano giorno e notte, faticano, si angustiano e non smettono mai di accumulare tali ricchezze con inganni, furti, rapine, tradimenti, spergiuri, omicidi. E chi può dire a quanta scaltrezza e astuzia ricorrano per ingannarsi a vicenda i figli di questo mondo? Ascoltino dunque i figli della luce e arrossiscano di lasciarsi vincere dai figli di questo mondo. Queste cose sono state scritte perché, ascoltandole, diventino più avveduti, non perché imitando l’agire iniquo dell’amministratore frodino altri o commettano ingiustizie. Perciò viene aggiunto: E io vi dico: Fatevi degli amici con il mammona d’iniquità (Lc 16,9), ma non come fece l’amministratore iniquo. Non frodando l’altrui, ma dando del vostro. Tutte le ricchezze che sono conservate con avarizia, infatti, nuocciono ai propri padroni […] Il Signore continua dicendo: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto e chi è ingiusto nel poco è ingiusto anche nel molto (Lc 16,10). Questo vale in particolare per gli apostoli e per gli altri ministri della chiesa, per i presbiteri. Con questo principio evangelico si dice quello che il Signore aveva detto ai suoi discepoli. Non si devono dunque affidare cose importanti a quelli che nella vita privata non sono stati fedeli e non si sono serviti di quel poco che avevano per opere di amore e di misericordia. Ma quanto a coloro che vediamo, con il poco che possiedono, provvedere volenterosamente ad altri non dobbiamo dubitare della loro fedeltà nell’amministrare. Per questo motivo l’Apostolo ammonisce i vescovi a non essere avidi di denaro né a ricercare un guadagno disonesto (cfr. Tt,7).

(BRUNO DI SEGNI, Su Luca 2,7, PL 165,420C-421C.422A).

La ricchezza

Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26). La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» (16,1 -13). In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo. Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.

La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona». Eppure questo non significa un masochismo pauperista. Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola. La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).

(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).

Quello che non abbiamo cercato

“Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.

(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).

La porta del cielo

Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo. Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…

Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”.

Chiesi a Dio

Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi: Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà. Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese: Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio. Gli domandai la ricchezza per possedere tutto: Mi ha fatto povero per non essere egoista. Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me: Egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro. Domandai a Dio tutto per godere la vita: Mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto. Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo, ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà. Le preghiere che non feci furono esaudite. Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini nessuno possiede quello che ho io!”

(Kirk Kilgour famoso pallavolista rimasto paralizzato nel ’76 a seguito di un incidente durante un allenamento. La preghiera è stata letta da lui in persona di fronte al Papa durante il Giubileo dei malati a Roma)

Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro?

Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi. Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro. È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria. Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.

Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria. Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza. Vogliono averne sempre di più. Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia. In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro. Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso. Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri. Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri. Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità. Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri. O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano. Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.

Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro. Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo. Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli. Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente. Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità. E sono  necessari criteri etici. Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici. Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia. Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità. È necessaria soprattutto la libertà interiore.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).

«Una cosa ti manca»

In che consiste la tristezza dell’uomo ricco? Nel suo fallire il proprio desiderio, nel lasciarsi vincere dalla paura che lo porta a preferire la sicurezza dei beni all’incertezza della relazione con Gesù, nel chiudersi all’amore, nel precludersi un futuro regredendo nel già noto del suo passato, nel cogliersi in maniera unidimensionale come «uno che ha molto», nel temere la sofferenza della vita interiore e del lavoro di ordinamento della propria umanità a cui Gesù lo invita (Mc 10,18-19). Quest’uomo è posseduto da ciò che possiede e sembra dar ragione in anticipo a Marx quando scrive: «Più si ha e più è alienata la propria vita».

Proprio in questa condizione di «troppo pieno», di fiducia posta in beni esteriori che arrivano a schiavizzare mentre ci si crede liberi, risiede l’ostacolo che le ricchezze pongono alla salvezza.

Entrare nella relazione con Gesù e dunque nello spazio della salvezza implica il doloroso riconoscimento di un vuoto, di una carenza, di una ferita attraverso cui può farsi strada l’azione salvifica del Signore. Non a caso l’uomo ricco è rinviato da Gesù a riconoscere la propria povertà interiore e profonda («Una cosa ti manca») e proprio lì egli fallisce: il possesso delle ricchezze dà sicurezza e consente di rimuovere il doloroso lavoro di riconoscere la propria mancanza. In realtà, dice Gesù, non solo le ricchezze sono un ostacolo, ma la salvezza in quanto tale non è impresa possibile alle sole forze dell’uomo: ogni autosufficienza, di qualunque tipo, ostacola il Regno di Dio. Ma, certamente, il possibile di Dio può incontrare l’impossibile degli uomini (Mc 10,27). Quanto ai discepoli, che hanno abbandonato tutto ciò che possedevano per seguire Gesù, a loro è rivolta la promessa di Gesù del centuple quaggiù, insieme a persecuzioni, e la vita eterna. C’è una benedizione insita nell’abbandonarsi al Signore, ma della promessa del Signore fanno parte anche le persecuzioni, dunque le contraddizioni, le difficoltà. Se il discepolo sa che esse sono parte integrante della promessa del Signore, allora esse potranno non scoraggiarlo o indurlo ad abbandonare.

I privilegi come debiti

La miseria impedisce di essere uomini. La povertà come la concepisce il Vangelo non è per tutti quella di S. Francesco d’Assisi, che abbandonò tutto. Un direttore di azienda può essere povero secondo il Vangelo se ha coscienza che tutti i privilegi sono un debito. Non è obbligato a proporsi l’ideale di lasciare tutto, ma di fare il suo mestiere, di operare affinché ci sia lavoro e salario giusto per tutti. Se vive con questo pensiero, egli è povero secondo il Vangelo.

(Abbè Pierre)

 

Preghiera

Signore, quando credo che il mio cuore sia straripante d’amore e mi accorgo, in un momento di onestà, di amare me stesso nella persona amata, liberami da me stesso. Signore, quando credo di aver dato tutto quello che ho da dare e mi accorgo, in un momento di onestà, che sono io a ricevere, liberami da me stesso. Signore, quando mi sono convinto di essere povero e mi accorgo, in un momento di onestà, di essere ricco di orgoglio e di invidia, liberami da me stesso. E, Signore, quando il regno dei cieli si confonde falsamente con i regni di questo mondo, fa’ che io trovi felicità e conforto solo in Te.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXV DOM TEMP ORD (C)

Famiglia, cammino di generazioni

La famiglia – frutto “dell’unità nella differenza tra uomo e donna e della sua fecondità” e “bene per tutti” – rimane “il primo e principale soggetto costruttore della società e di un’economia a misura d’uomo”. Come tale dunque “merita di essere fattivamente sostenuta”. Lo ricorda Papa Francesco nel Messaggio inviato alla 47° Settimana Sociale dei cattolici italiani, auspicando che l’evento che si è aperto giovedì 12 a Torino aiuti a mettere in evidenza “il legame che unisce il bene comune alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, la di là di pregiudizi e ideologie”. La famiglia, infatti, spiega il Papa, è “ben più che un tema: è vita, è tessuto quotidiano, è cammino di generazioni che si trasmettono la fede insieme con l’amore e con i valori morali fondamentali, è solidarietà concreta, fatica, pazienza, e anche progetto, speranza, futuro”. Ma, ammonisce, “speranza e futuro presuppongono memoria”. “La memoria dei nostri anziani – osserva – è il sostegno per andare avanti nel cammino. Il futuro della società, e in concreto della società italiana, è radicato negli anziani e nei giovani: questi perché hanno la forza e l’età per portare avanti la storia; quelli perché sono la memoria viva”. Nel suo Messaggio, Papa Francesco torna infatti a ribadire che “un popolo che non si prende cura degli anziani e dei bambini e dei giovani non ha futuro perché maltratta la memoria e la promessa”. 

Queste riflessioni, precisa il Papa, non interessano “solamente i credenti, ma tutte le persone di buona volontà, tutti coloro che hanno a cuore il bene comune del Paese”. Perché la famiglia “è scuola privilegiata di generosità, di condivisione, di responsabilità, scuola che educa a superare una certa mentalità individualistica che si è fatta strada nelle nostre società”. Ecco dunque che “sostenere e promuovere le famiglie, valorizzandone il ruolo fondamentale e centrale, è operare per uno sviluppo equo e solidale”. “Non possiamo ignorare – afferma il Pontefice – la sofferenza di tante famiglie, dovuta alla mancanza di lavoro, al problema della casa, all’impossibilità pratica di attuare liberamente le proprie scelte educative”. E neppure “la sofferenza dovuta ai conflitti interni alle famiglie stesse, ai fallimenti dell’esperienza coniugale e familiare, alla violenza che purtroppo si annida e fa danni anche all’interno delle nostre case”. “A tutti – conclude Papa Francesco – dobbiamo e vogliamo essere particolarmente vicini, con rispetto e con vero senso di fraternità e di solidarietà”.
 

XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Esodo 32,7-11.13-14

In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

 

Questa lettura viene oggi utilizzata per introdurre il tema più ampiamente sviluppato nella lettura evangelica: quello della misericordia di Dio, che rinunzia a punire il popolo, responsabile di un gravissimo peccato, grazie all’intercessione di Mosé.

     Il racconto del vitello d’oro, che gli Israeliti avrebbero costruito per raffigurare il Dio che li aveva tirati fuori dall’Egitto, appartiene a una sezione del libro dell’Esodo (quella dei cc. 32-34) in cui si intrecciano in maniera inestricabile le tradizioni più antiche del Pentateuco. In particolare, il racconto del vitello d’oro della nostra lettura pare che derivi direttamente dal testo di 1 Re 12,26-28, dove si racconta come Geroboamo, che si era ribellato al figlio di Salomone, di ritorno dall’Egitto, per spezzare ogni vincolo tra le tribù ribelli settentrionali e Gerusalemme, fece fare due torelli d’oro e disse: «Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» (v. 28). Questa dipendenza può spiegare pienamente l’identità della stessa frase nella nostra lettura (v. 4).

     La colpa qui attribuita agli Israeliti è quella di essere scivolati verso l’assimilazione con i popoli pagani loro contemporanei: con i Cananei, che rappresentavano Bahal-Hadad, dio della tempesta, a cavalcioni su un toro, con una folgore in mano; con gli Egiziani, che a Heliopolis rappresentavano Osiride incarnato nel toro-Apis e a Menfi adoravano il toro-Mnevis nel tempio di Ptah.

     Per la nostra liturgia, sono particolarmente importanti i vv. 13-14, nei quali Mosé, nella figura dell’intercessore, espone la ragione principale che può indurre Dio a perdonare quella colpa: la promessa da lui fatta, con giuramento, ai suoi servi Abramo, Isacco e Giacobbe (Israele).

 

Seconda lettura: 1Timoteo 1,12-17

Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Nel tempo ordinario, la seconda lettura è indipendente dalle altre due, che sono invece tra loro coordinate. Non accade spesso dunque che il tema di quella si armonizzi perfettamente, con quello delle altre due. Ciò capita per l’appunto questa domenica. L’autore della prima a Timoteo (che quasi certamente non è lo stesso s. Paolo) traccia, nel brano che fa da nostra seconda lettura, il modello ideale di un pubblico rendimentodi grazie alla divina misericordia, che vuole salvi tutti i peccatori.

     Il motivo del ringraziamento, che faceva parte del protocollo epistolare antico, è qui sviluppato mediante il procedimento dell’antitesi tra il prima e il dopo dell’incontro di Paolo con Cristo. Almeno in tre passi delle lettere autentiche di Paolo è tracciato un analogo passaggio tra il prima e il dopo: In Gal 1,13-17; in 1 Cor 15,8-10; in Fil 3,6-14. Ma in nessuno di questi testi il passato di Paolo è descritto come privo di fede e peccaminoso (un bestemmiatore…); che anzi sempre si insiste sul suo zelo per Dio e la sua legge. È invece negli atti degli Apostoli (9,1-16; 22,1-15; 26,9-18) che il prima di Paolo è qualificato negativamente, come quello di un bestemmiatore e del persecutore spietato, che repentinamente, dopo, diventa strumento scelto per il Vangelo di Gesù. Il ritratto di Paolo qui delineato è dunque più vicino a quello che di lui è tracciato nel libro degli Atti, anziché al suo stesso autoritratto. Anche l’espressione «agivo per ignoranza, lontano dalla fede» riporta Paolo alla condizione dei pagani che, secondo Atti 17,30, appartenevano «ai tempi dell’ignoranza». La descrizione a tinte fosche serve all’autore della prima a Timoteo per mettere in risalto la misericordia di Dio, manifestatasi mediante la grazia di Gesù Signore nostro. Serve soprattutto per giungere all’enunciazione di una specie di professione di fede, ritenuta «degna di fede e di essere accolta da tutti», cioè che «Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori».

     Questa succinta professione di fede sintetizza bene il principale messaggio contenuto nella liturgia di questa domenica.

 

Vangelo: Luca 15,1-32 

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Esegesi 

     Il capitolo da cui è tratta la lettura evangelica di questa domenica è stato definito da un moderno esegeta «il cuore del terzo vangelo», quasi «il vangelo del vangelo». Si tratta del capitolo 15 del vangelo di Luca. Esso contiene una breve introduzione, che accenna al motivo per il quale Gesù volle impartire il suo particolare insegnamento sopra un tema assai importante, più un’ampia esposizione dottrinale, racchiusa in tre parabole. Nell’introduzione è detto che l’occasione fu la mormorazione di scribi e farisei, i quali si scandalizzavano per il fatto che Gesù ricevesse i peccatori e mangiasse addirittura con loro. Le tre parabole sono quelle della pecora smarrita e poi ritrovata, della moneta perduta e ritrovata, più quella del figlio prodigo che il padre riaccoglie con gioia. Il tema principale, sviluppato nelle tre parabole, è quello della misericordia del Padre, che non gode per la rovina dei suoi figli, ma vuole che si salvino e grandemente gioisce quando il suo piano si realizza.

     Nel ciclo liturgico di quest’anno, che è il ciclo C, la parabole del figlio prodigo, insieme ai tre versetti introduttivi del capitolo, ci è stata già proposta nella quarta Domenica di quaresima. Oggi, 24° Domenica del tempo ordinario, ci è data la possibilità di fare un’ampia riflessione sull’intero capitolo 15 di Luca, proclamando tutte e tre le parabole, oppure di limitarci alla lettura e alla riflessione sopra le due parabole più brevi, quelle della pecora e della moneta smarrite e ritrovate. Alcune osservazioni filologiche ci aiuteranno a capire in profondità il nostro testo.

     Nella frase «si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori» (v. 1), il termine tutti deve certamente intendersi in senso iperbolico; tuttavia, in qualche modo, vi si può leggere un accenno alla possibilità che è offerta a tutti di accostarsi a Gesù.

     Nel v. 2, la mormorazione attribuita a farisei e scribi non deve intendersi come un semplice pettegolare privo di gravità, ma va allineata al peccato grave degli israeliti, i quali, nel deserto, sospettarono che Dio con l’inganno li avesse tirati fuori dall’Egitto, per farli morire di fame e di sete (Es 17,3). Inoltre, l’accusa mossa a Gesù, che riceve i peccatori e mangia con loro, è ritenuta assai grave dagli scribi e dai farisei, perché, presentandosi Gesù come il Messia, egli presentava un’immagine aberrante, a loro giudizio, della comunione escatologica nel Regno di Dio.

     Nel v. 3, può sorprendere l’espressione «disse loro questa parabola», al singolare. La difficoltà si supera dando qui al termine parabola il senso di discorso in parabole.

     Nei vv. 4-7, c’è la parabola della pecora smarrita e ritrovata. La stessa parabola è riportata anche in Mt 18,12-14, nel contesto del così detto discorso comunitario. Abbiamo qui un esempio tipico della moderata libertà con cui le comunità cristiane primitive (e gli stessi evangelisti) accoglievano e riferivano le parole di Gesù, applicandole a situazioni diverse. Nel testo di Matteo, la parabola, inserita nel discorso comunitario, è piegata a illustrare il dovere che ha ogni cristiano di aiutare i propri fratelli traviati a ritornare nell’ovile; il suo vertice è espresso dalle parole: «il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno di questi piccoli». Molti esegeti ritengono che il testo di Luca abbia conservato meglio il senso primitivo della parabola, che sarebbe concentrato sulla conversione (o pentimento) del peccatore, motivo di gioia grande per il Signore infatti espresso nelle parole: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.».

     Bisogna anche notare che, rispetto al testo di Matteo, in Luca, la descrizione della scena guadagna molto in vivacità («Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini …», ma il racconto perde in realismo e continuità; infatti, che fine hanno fatto le novantanove pecore lasciate dal pastore nel deserto per andare dietro a quella perduta? Tuttavia la piccola incoerenza narrativa è dovuta al fatto che il senso religioso della parabola è più importante della verosimiglianza della storia: il narratore dimentica addirittura che stava parlando di un gregge e di una pecora e passa a parlare direttamente di giusti e del peccatore convertito.

     Nei vv. 8-10, c’è la parabola della moneta perduta e ritrovata. Essa è esclusiva di Luca e potrebbe anche apparire superflua, perché il suo significato è esattamente uguale a quello della parabola precedente. Ci sono però in Luca altri esempi di parabole abbinate, aventi lo stesso significato: quelle del vestito e dell’otre di vino (5,36-39), quelle del granello di senape e del lievito (13,18-21) e altre. La ripetizione strettamente palestinese, il che esclude che si possa trattare di una creazione letteraria dell’evangelista. La dramma era una moneta equivalente, più o meno, a un denaro (la paga giornaliera che si dava a un bracciante). Anche in questa parabola, il vertice è racchiuso in una frase che parla della «gioiadi Dio per un solo peccatore che si converte». L’espressione «davanti agli angeli…», sembra non aggiunga niente alla frase «in cielo», che si trova nella parabola precedente.

     Ambedue queste parabole, pur riferendosi al peccatore che si converte, puntano l’attenzione esclusivamente su Dio, che cerca e trova qualcosa che rischiava di essere perduto. Si vuol dunque sottolineare che la salvezza del peccatore è principalmente una iniziativa di Dio.

     La terza parabola, quella del figlio prodigo che torna alla casa paterna, allarga la prospettiva precedente, includendo nel suo messaggio il cammino che lo stesso peccatore deve percorrere perché l’attesa del padre sia soddisfatta. Tuttavia, anche qui il vertice della parabola è rappresentato dal comportamento del padre, che fa festa per il figlio ritrovato, come si farebbe per uno che fosse risuscitato dai morti. Questo comportamento simboleggia a forti tinte la misericordia di Dio che, non rifiutando agli uomini di poter disporre liberamente dei suoi doni, resta in vigile attesa del loro ritorno, quando essi si sono sbandati, allontanandosi da lui.

     Nella parabola, la misericordia divina diventa tenerezza ed è ulteriormente sottolineata dal comportamento del figlio maggiore, che non accetta subito di partecipare alla gioia paterna, ma ha bisogno che gli si spieghi come quella misericordia non tolga niente a lui stesso. Solo accogliendo questa spiegazione del padre, il figlio maggiore potrà continuare a godere della casa e dell’affetto paterno: se la rifiutasse, sarebbe lui a restarne privo per sempre, diventando egli stesso un profugo per sempre.

 

Meditazione 

La storia della salvezza è anche la storia della santità di Dio messa a confronto con il peccato dell’uomo. Di fronte al popolo peccatore l’intercessione di Mosè conduce Dio a desistere dal proposito di nuocere al popolo (I lettura); di fronte al peccato dei due figli, peccato come allontanamento e rottura di relazione nel figlio minore, peccato come pretesa, gelosia e risentimento nel maggiore, il padre della parabola lucana si sottomette e ad entrambi narra l’amore fedele e mite (vangelo).

L’unica parabola narrata da Gesù (Gesù «disse loro questa parabola»; Lc 15,3), in realtà, ne contiene tre. Esse narrano l’esperienza di una perdita e di un ritrovamento. I due momenti non sono simultanei e il primo aspetto è quello della perdita. La gioia del ritrovamento è preceduta dal dolore per la perdita. Perdita di una pecora, perdita di una moneta, e infine, perdita di un figlio. Ma l’allontanarsi dalla casa paterna di un figlio diviene perdita e morte che il padre esperimenta in se stesso. E se in Dio vi è la gioia del ritrovamento (cfr. Lc 15,7.10), certamente vi è anche il dolore per la perdita. L’unica e trina parabola sintetizza così la storia della salvezza: Dio in cerca di Adamo uscito dal giardino della relazione. Le strade che Dio percorre sono le infinite vie della perdizione umana: è lui che cerca l’uomo, bussa alla sua porta, chiede all’uomo. La parabola presenta il padre come colui che attende il figlio che se n’è andato di casa e gli esce incontro quando lo scorge tornare, e che esce incontro al figlio maggiore e lo prega di entrare per far festa con il fratello. Dio in attesa dell’uomo, Dio che prega l’uomo.

Dalla parabola emerge  la forza dell’inermità del padre. Egli appare passivo: non mette in guardia il figlio minore dai pericoli che può incontrare andandosene da casa, non lo rimprovera quando ritorna né gli chiede penitenze o espiazioni e nemmeno un ‘fare i conti’ prima di essere eventualmente riammesso nella casa da dove ha voluto andarsene. E proprio questo amore incondizionato, che rifugge da atteggiamenti punitivi, è la via aperta al giovane per fare esperienza del perdono. Il padre non costringe il figlio maggiore ad entrare, ma gli esce incontro, lo prega, non lo rimprovera, ma resta nella dolcezza dell’amore e proprio questo atteggiamento conduce il figlio ad esprimere ciò che sente e prova. Il padre non fa nulla e accoglie anche l’espressione del suo odio per il fratello e del suo risentimento verso di lui, solamente ricordandogli che lui stesso è un figlio e che colui che è tornato è suo fratello (Lc 15,32). E questo atteggiamento esprime la fiducia che egli accorda al figlio, vera matrice in cui egli potrà rinascere come figlio, così come il minore ha trovato nell’abbraccio paterno l’alveo della propria rigenerazione a figlio.

La riconciliazione può avvenire grazie a questa debolezza: è ciò che è avvenuto nella croce di Cristo. La riconciliazione attuata da Cristo nasce dal movimento di abbassamento e di kenosi divina che ha raggiunto il suo apice nella croce. Lo scandalo della rivelazione cristiana afferma che è l’impotenza raggiunta da Dio nella croce del Figlio che opera la riconciliazione (Rm 5,8-11 ).

La strada percorsa dal figlio minore va dalla pretesa all’impossibilità: dal «Dammi!» (Lc 15,12) imposto al padre, al «nessuno gli dava nulla» (Lc 15,16) riferito alle carrube che i maiali mangiavano. Il figlio maggiore è invece tutto nel risentimento e nella collera: «Non mi hai mai dato» (Lc 15,29). Entrambi, figlio ribelle e figlio servo, non hanno saputo cogliere che il dono grande è la relazione filiale.

La casa, segno di comunione che dovrebbe unire i due figli, diviene luogo da cui uno fugge e in cui l’altro non vuole entrare. L’eredità, invece di accomunare, divide i fratelli, e la festa da uno è subita e dall’altro è rifiutata. Solo una prassi di amore incondizionato, come quella del padre, può fare della chiesa il luogo della riconciliazione, della fraternità, della trasmissione dell’amore e della condivisione della gioia. Solo quell’amore fa della chiesa il luogo del perdono e della festa.

 

Preghiere e racconti 

Vivere è un continuo cammino di trasformazione

Tutta la pesante zavorra di negatività che hanno messo sulle mie spalle ha provocato in me una condizione di dolore alle volte difficilmente sopportabile, ma è stato proprio grazie a quella zavorra che ho potuto diventare quella che sono.

Se sono una persona mite, è perché so di poter essere anche estremamente violenta. Se sono coraggiosa, è solo perché il mio sentimento predominante è la paura. Se so scrivere storie che toccano il cuore di molti, è perché il mio cuore è costantemente aperto e pronto ad accogliere le inquietudini, le contraddizioni e le sofferenze del mondo.

Vivere è un continuo cammino di trasformazione, è questo il segno dell’uomo. Gli animali vivono immersi in un’innocente circolarità, noi invece siamo sempre spinti ad andare avanti, a capire i nostri errori e i nostri difetti e saperli trasformare in pregi.

Lottare perché la Luce conquisti sempre più spazio in noi, sottraendo al buio, è il compito che attende ogni persona che si metta alla ricerca della vera libertà. Non avrei potuto, infatti, affrontare questa straordinaria avventura se i miei genitori non mi avessero dato il dono della vita, per questo sarò loro eternamente grata.

 (Susanna TAMARO, Ogni angelo è tremendo, Bompiani, Milano, 2013, 264-265)

 

 

 

Tornare a casa e stare dove Dio dimora

(tratto dal libro di Henri J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Brescia, Queriniana 21994, pp. 212. Commento spirituale al dipinto di Rembrandt, +1669, attualmente nel museo di San Pietroburgo).

Il figlio più giovane parte

Andarsene da casa è molto più di un evento storico legato al tempo e al luogo. E’ la negazione della realtà che appartengo a Dio in ogni parte del mio essere, che Dio mi tiene al sicuro in un abbraccio eterno, che sono veramente scolpito nelle palme delle mani di Dio e nascosto alla loro ombra.

Quando dimentico la voce del primo amore incondizionato, altri suggerimenti possono facilmente cominciare a dominare la mia vita e trascinarmi nel “paese lontano”: rabbia, risentimento, gelosia, desiderio di vendetta, sensualità, avidità, antagonismi e rivalità [«ti amo se sei bello, intelligente e ricco. Ti amo se sei istruito, hai un buon lavoro e le giuste conoscenze. Ti amo se produci molto, vendi molto e compri molto»] sono i segni evidenti che me ne sono andato da casa.

Il padre non poteva costringere il figlio a rimanere a casa. Non poteva imporre con la forza il uso amore al prediletto. Doveva lasciarlo andare in libertà, anche se sapeva il dolore che ciò avrebbe causato sia al figlio che a se stesso. E’ stato l’amore a impedirgli di trattenere il figlio a casa a tutti i costi. E’ stato l’amore a consentirgli di lasciare che il figlio vivesse la sua vita, anche a rischio di perderlo.

Sono amato a tal punto che Dio mi lascia libero di andarmene da casa. La benedizione c’ è fin dall’inizio. L’ho lasciata e persisto a lasciarla. Ma il Padre continua a cercarmi sempre con le braccia tese per accogliermi di nuovo e sussurrarmi ancora all’orecchio: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto»

Il ritorno del figlio più giovane

Il giovane abbracciato e benedetto dal padre è un uomo povero, molto povero. L’unico segno di dignità che gli rimane è la piccola spada che gli pende dal fianco, l’emblema della sua nobiltà. Pur in mezzo alla degradazione, non ha perso del tutto la consapevolezza di essere ancora il figlio di suo padre.

Vedo davanti a me un uomo che se n’è andato lontano in un paese straniero e ha perso tutto ciò che aveva con sé. Vedo vuoto, umiliazione e sconfitta. Lui che era tanto simile al padre, ora sembra peggiore dei servi di suo padre. E’ diventato come uno schiavo.

Il figlio più giovane si rese pienamente conto della sua totale rovina quando più nessuno nel suo ambiente mostrò il benché minimo interesse nei suoi confronti. Lo avevano tenuto in considerazione soltanto finché era stato utile ai loro interessi. Ma quando non ebbe più denaro da spendere e doni da fare, per loro cessò di esistere.

E’ difficile immaginare cosa significhi essere un individuo del tutto estraneo, una persona cui nessuno mostra un qualche segno di riconoscimento. La vera solitudine arriva quando non si riesce più a sentire di avere delle cose in comune. Ogni volta che incontro una persona nuova, in lei cerco sempre qualcosa che si possa avere in comune. Meno abbiamo in comune, più difficile è stare insieme e più ci sentiamo alienati.

Il figlio più giovane si era talmente sradicato da ciò che dà vita, -famiglia, amici, comunità, conoscenti, e persino vitto-, che si rese conto che la morte sarebbe stata il fatale prossimo passo.

In quel momento critico, quale molla lo fece optare per la vita? Fu la riscoperta della parte più profonda di se stesso: rimanere sempre il figlio del proprio padre.

E’ stata la perdita di ogni cosa a portarlo alla radice della sua identità. Quando si è trovato a desiderare di essere trattato come uno dei porci, si è reso conto di non essere un porco, ma un essere umano, un figlio di suo padre.

Dio dice: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui…”. Vogliamo accettare il rifiuto del mondo che ci imprigiona oppure rivendicare la libertà dei figli di Dio? A noi scegliere.

Quando Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine, vide che quanto aveva fatto «era cosa molto buona», e, nonostante le voci oscure, né uomo né donna potranno mai cambiare quell’evento.

Nella strada di ritorno non preparare sceneggiature [«mi leverò e andrò da mio padre…»] devo semplicemente credere che anche se i miei fallimenti sono grandi «la grazia è ancora più grande».

Una delle più grandi provocazioni della vita è ricevere il perdono di Dio. C’ è qualcosa in noi, essere umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò da garzone. Ma voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? 

Il figlio maggiore parte

Non si è perduto soltanto il figlio più giovane, che se n’ è andato da casa per cercare libertà e felicità in un paese lontano, ma anche quello che è rimasto.

Esteriormente faceva tutte le cose che si suppone faccia un bravo figlio, ma, interiormente, si era allontanato da suo padre. Faceva il proprio dovere, lavorava sodo ogni giorno e adempiva tutti i suoi obblighi, ma era diventato sempre più infelice e meno libero. [Sono nato, battezzato, cresimato nella Chiesa e sono stato obbediente ai miei genitori, insegnanti e al mio Dio. Non sono mai scappato di casa, non ho mai sprecato il mio tempo e il mio denaro nella ricerca del piacere e non mi sono mai perduto in «dissipazioni e ubriachezze». Per tutta la vita sono stato piuttosto responsabile, tradizionalista e legato alla famiglia. Ma, con tutto ciò, posso in realtà essermi perduto proprio come il figlio più giovane. Ho visto la mia gelosia, la mia rabbia, la mia permalosità, la mia caparbietà, il mio astio e soprattutto la sottile convinzione di essere sempre nel giusto. Ero certo il figlio maggiore, ma perduto come il fratello minore, anche se ero rimasto a casa tutta la vita. Avevo lavorato moltissimo nell’azienda agricola di mio padre, ma non avevo mai gustato pienamente la gioia di essere a casa].

Nel lamento del figlio maggiore [«ecco, ti ho servito da tanti anni…»] l’obbedienza e il dovere sono diventati un peso e il servizio è una schiavitù.

Il figlio giovane ha peccato in un modo che possiamo facilmente identificare. Abbiamo un tipico fallimento umano, piuttosto facile da comprendere e compatire.

Lo smarrimento del figlio maggiore è molto più difficile da identificare. Dopo tutto, faceva le cose perbene. All’esterno era irreprensibile. Ma, di fronte alla gioia del padre al ritorno del fratello più giovane, una forza oscura erompe in lui e ribolle in superficie. Improvvisamente emerge una persona rimasta nascosta nel subconscio, anche se si era fatta sempre più forte e operante nel corso degli anni.

Dall’esperienza della mia vita, so con quanto zelo ho cercato di essere buono, ben accetto, amabile e di buon esempio agli altri. Mi sono sforzato, in modo cosciente, di evitare le insidie del peccato e ho sempre avuto paura di cedere alla tentazione. Ma nonostante questo, sono subentrati una severità e un fervore moralistici, -e perfino un tocco di fanatismo- che mi hanno reso sempre più difficile sentirmi a casa nella casa di mio Padre. Sono diventato meno libero, meno spontaneo, meno allegro, e gli altri hanno finito per vedermi sempre più come una persona piuttosto “pesante”.

E’ il lamento che grida: «Ho faticato tanto, ho lavorato a lungo, mi sono dato sempre da fare e ancora non ho ricevuto quello che altri ottengono tanto facilmente. Perché la gente non mi ringrazia, non mi invita, non si diverte con me, non mi rende omaggio, mentre presta tanta attenzione a coloro che prendono la vita con disinvoltura e noncuranza?».

E’ difficile vivere accanto a qualcuno che si lamenta e pochissime persone sanno come rispondere a chi rifiuta se stesso. La tragedia è che spesso le lamentale, una volta espresse, conducono a ciò che più si teme, e cioè a un ulteriore rifiuto.

Ogni volta che ci lamentiamo per non saper accettare noi stessi, perdiamo la spontaneità al punto che non riusciamo più a lasciarci coinvolgere dalla gioia che è intorno a noi. Gioia e risentimento non possono coesistere.

Il ritorno del figlio maggiore

Anche il figlio maggiore ha bisogno di essere ritrovato e ricondotto alla casa della gioia.

Che io sia il figlio minore o il figlio maggiore, l’unico desiderio di Dio è di portarmi a casa. Arthur Freeman scrive: «Il padre ama ogni figlio e dà ad ognuno la libertà di essere ciò che vuole, ma non può dar loro la libertà che non si sentiranno di assumere o che non comprenderanno adeguatamente. Il padre sembra rendersi conto, al di là dei costumi della società in cui vive, del bisogno dei propri figli di essere se stessi. Ma egli sa anche che hanno bisogno del suo amore e di una “casa”. Come si concluderà la storia dipende da loro. Il fatto che la parabola non abbia finale garantisce che l’amore del padre non dipende da una conclusione appropriata del racconto. L’amore del padre dipende solo da lui e fa esclusivamente parte del suo carattere. Come dice Shakespeare in uno dei suoi scritti: “L’amore non è amore se muta quando trova mutamenti”».

Il padre

La risposta libera e spontanea del padre al ritorno del figlio più giovane non implica alcun confronto con il figlio maggiore. Al contrario, desidera ardentemente farlo partecipare della sua gioia. Il nostro Dio non fa paragoni.

Il cuore del padre va incontro ai due figli; li ama entrambi; spera di vederli insieme come fratelli intorno alla stessa tavola; vuole che sentano che, per quanto diversi, appartengono alla stessa casa e sono figli dello stesso padre. Il padre quasi cieco vede un intero orizzonte. La sua è una vista che comprende lo smarrimento de donne e uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che capisce con compassione immensa la sofferenza di coloro che hanno scelto di andarsene da casa, che ha pianto un mare di lacrime quando si sono trovati nell’angoscia e nel dolore. Il cuore del padre arde del desiderio di riportare i figli a casa.

Come avrebbe voluto parlare loro, metterli in guardia contro i tanti pericoli che avrebbero affrontato e convincerli che a casa si può trovare tutto quello che  cercano altrove! Quanto avrebbe voluto trattenerli con la sua autorità paterna e tenerli vicino a sé perché non si facessero del male!

Ma il suo amore è troppo grande per comportarsi così. Non può forzare, costringere, spingere o trattenere. L’immensità del amore costituisce anche la sua sofferenza.

Tanto profondo è il dolore perché tanto puro è il cuore. Dal profondo luogo interiore dove l’amore abbraccia tutto il dolore umano, il Padre raggiunge i suoi figli.

Dio ci ama prima che qualunque essere umano possa mostrarci amore.

Non sarebbe bello aumentare la gioia di Dio lasciandomi trovare e portare a casa da lui e celebrare insieme il mio ritorno? Non sarebbe meraviglioso far sorridere Dio dandogli la possibilità di trovarmi e amarmi prodigalmente? So accettare che sono degno di essere cercato? Credo che Dio desideri davvero stare soltanto con me?

Il padre esige che si faccia festa

Mentre il figlio si è preparato ad essere trattato come un garzone, il padre esige che gli venga dato il vestito riservato agli ospiti di riguardo. Il padre veste il figlio con i simboli della libertà, la libertà dei figli di Dio.

Dio vuole fare festa con noi. Questo invito al banchetto è un invito all’intimità con Dio.

Dio si rallegra. Non perché i problemi del mondo sono stati risolti, non perché tutto il dolore e la sofferenza umani sono giunti alla fine, e nemmeno perché migliaia di persone si sono convertite e ora lo stanno lodando per la sua bontà. No, Dio di rallegra perché uno dei suoi figli che era perduto è stato ritrovato. Ciò a cui sono chiamato è partecipare a quella gioia. E’ la gioia di vedere un figlio che cammina verso casa.

Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro

Padre, dice il figlio minore. Quale misericordia, quale tenerezza in colui che, pur essendo stato offeso, non rifiuta di sentirsi dare il nome di padre! Dice il figlio: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te (Lc 15,18) […] Così diceva dentro di sé il figlio. Ma non basta parlare se non vieni al Padre. Dove cercarlo, dove trovarlo? Innanzitutto alzati! Lo dico per chi stava seduto e dormiva. Per questo l’Apostolo dice: Alzati, o tu che dormi, e levati di tra i morti (Ef 5,14) […] Alzati, vieni di corsa in chiesa: qui c’è il Padre, qui c’è il Figlio, qui c’è lo Spirito santo. Ti corre incontro colui che ti sente conversare nel segreto del tuo cuore. Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro. Vede nel tuo cuore, corre perché nessuno ti trattenga e per di più ti abbraccia. Nel suo correre incontro vi è la sua prescienza, nell’abbraccio la misericordia e, vorrei dire, vi sono i sentimenti del suo amore paterno. Si getta al collo di chi è caduto per rialzarlo e perché si volga al cielo a cercare il suo Creatore colui che è oppresso dai peccati e chino verso le cose terrene. Cristo ti si getta al collo per toglierti dalla nuca il giogo della schiavitù e porre sul tuo collo il giogo soave (cfr. Mt 11,30). Non vi sembra che si sia gettato al collo di Giovanni, quando questi riposava sul petto di Gesù, con la testa rivolta all’indietro? E così il Verbo che era presso Dio vide (cfr. Gv 1,1), poiché era rivolto alle altezze. Il Signore vi si getta al collo quando dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e io vi darò riposo; prendete su di voi il mio giogo che è leggero» (cfr. Mt 11,28-30).

(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca 7, 224.229-230, SC 52, pp. 93-95).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIV DOM TEMP ORD (C)

Arte, Spiritualità, Università

Martedì 15 Ottobre, ore 11:15  Aula Paolo VI dell’UPS    L’Università Pontificia Salesiana è sita in Piazza Ateneo Salesiano 1, Roma

Il Prof. P. Marko Rupnik, S.J.,

Direttore del “Centro Aletti”

e autore dei Mosaici della

Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano,

prende parte all’Inaugurazione dell’Anno Accademico 2013-2014

con la Prolusione dal titolo

“Arte, Spiritualità, Università”

 

Presiede l’Atto il Gran Cancelliere

Don Pascual Chávez Villanueva

Rettor Maggiore dei Salesiani

Sarà il Prof. P. Marko Rupnik, S.J., Direttore del “Centro Aletti” e autore dei Mosaici della Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano, a tenere la Prolusione per l’Inaugurazione dell’anno accademico 2013/2014 dell’Università Pontificia Salesiana. La concelebrazione eucaristica che precede l’Atto Accademico, sarà presieduta dal Gran Cancelliere don Pascual Chávez Villanueva, Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco.

L’inaugurazione avrà luogo martedì 15 ottobre 2013 e si svolgerà secondo il consueto programma. Alle ore 9.30 l’eucaristia nella Chiesa di Santa Maria della Speranza (in Piazza Fradeletto 2). Nell’Aula Paolo VI dell’UPS farà seguito, (ore 11.15) l’Atto Accademico con la Relazione introduttiva del Rettore Magnifico, prof. Carlo Nanni, la Prolusione del Prof. Rupnik dal titolo “Arte, Spiritualità, Università”, la consegna del diploma ai Docenti che in quest’anno diventano emeriti, la premiazione degli Studenti meritevoli per l’eccellenza dei risultati e infine la Proclamazione dell’apertura dell’Anno Accademico da parte del Rettor Maggiore don Chávez.

In serata, sempre nell’Aula Paolo VI dell’UPS, il Maestro Mons. Massimo Palombella, SDB, dirigerà il Coro della Cappella Musicale Pontificia “Sistina” nel Concerto “Credo Domine, adauge nobis fidem”.

Padre Marko Ivan Rupnik è nato nel 1954 a Zadlog, in Slovenia. Dal 1973 è religioso della Compagnia di Gesù. Compiuti gli studi filosofia, prosegue la sua formazione presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Studia teologia alla Gregoriana di Roma dove si specializza in Missiologia con una tesi dal titolo: “Vassilij Kandinskij come approccio a una lettura del significato teologico dell’arte moderna alla luce della teologia russa”. Nel 1985 è ordinato sacerdote. Nel 1991 consegue il dottorato in Missiologia presso la Facoltà della Gregoriana con una tesi dal titolo “Il significato teologico missionario dell’arte nella saggistica di Vjaceslav Ivanovic Ivanov”.

Dal 1991 vive e lavora a Roma presso il Pontificio Istituto Orientale “Centro Aletti” di cui è direttore. Insegna alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Liturgico. Dal 1995 è Direttore dell’Atelier dell’arte spirituale del Centro Aletti. Dal 1999 è consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura e dal 2012 consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.

 

Non è un fatto privato, nè per chi è senza coraggio

Il messaggio della Salvezza, spiega l’autorevole filosofo, offre un “senso” all’origine e alla fine della vita, fonda la dignità di ogni persona umana e dà valore alla famiglia.

«La sostanza della nostra fede è che noi riconosciamo in Cristo il Figlio di Dio, vivente, incarnato e divenuto uomo». Questo scriveva l’allora cardinale Joseph Ratzinger ne Il sale della terra (1997). E aggiungeva che davanti a Cristo bisogna decidersi: «Si tratta di una decisione […)]che riguarda l’intera struttura della vita, che ha a che fare con me stesso nella parte più profonda di me… Si tratta di una decisione che abbraccia la totalità della mia esistenza: come vedo il mondo, quel che voglio essere, e quel che sarò. Non si tratta di una delle tante decisioni sul mercato delle possibilità che mi vengono offerte. Qui, al contrario, è in gioco tutto ciò che ha a che fare con la mia vita e con il suo destino».

«Profondamente grato», a Benedetto XVI, per il «prezioso lavoro» da lui sviluppato nella prima stesura della lettera enciclica sulla fede, papa Francesco fa subito presente che «chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo, stella mattutina che non tramonta». È ben vero, egli dice, che tanti nostri contemporanei hanno parlato della fede come di una luce illusoria e, a tal proposito, cita un brano da una lettera di Nietzsche alla sorella Elisabeth: «Se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pure fede; ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga». Il credere, dunque, si opporrebbe al cercare. Senonché – precisa papa Francesco – così non è, perché «a poco a poco si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto».

I problemi più importanti della nostra vita esulano dalla ragione scientifica; la filosofia non salva; e “il senso” è sempre religioso. Aveva ragione Wittgenstein a dire che «noi sentiamo che se anche tutti i problemi della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero neppure sfiorati». E, d’altro canto, la filosofia non salva. La filosofia – ha scritto Norberto Bobbio – pone la «grande domanda» (perché l’essere e non il nulla?), ma non si è dimostrata in grado di offrire risposte soddisfacenti. E, «proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo» – è ancora Bobbio a parlare – «rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea». La «grande domanda » è «una richiesta di senso, che rimane senza risposta, o meglio che rinvia a una risposta, che mi pare difficile chiamare ancora filosofia». Il “senso”, in altri termini, è sempre religioso. Di nuovo, Bobbio: «Non è sufficiente dire: la religione c’è, ma non dovrebbe esserci. C’è: perché c’è? Perché la scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare le risposte».

L’uomo, dice papa Francesco, non può accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, non può rinunciare alla ricerca di una verità grande, di una luce grande capace di illuminare tutta l’esistenza. Ed è sotto il faro di luce proiettato dalla fede che papa Francesco vede e pone in risalto l’origine e la fine della vita; la dignità unica della singola persona, il valore della famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna; il rispetto della natura quale «dimora a noi affidata perché sia coltivata e custodita»; la ricerca di «modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità e il profitto»; un impegnato e concreto servizio alla giustizia, al diritto e alla pace; il senso della sofferenza quale «tappa di crescita della fede e dell’amore»; la convinzione che «la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro». E soprattutto la consapevolezza che la fede libera dall’idolatria («l’idolo è un pretesto per porre sé stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani»; «l’idolatria è sempre politeismo, movimento senza meta da un signore all’altro»). In breve, «la fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita».

Famigliacristiana.it

11 settembre 2013

La fede illumina l’oscurità della vita

Il “gran lavoro” di Benedetto XVI porta il sigillo della firma di Francesco. Dunque, dicono il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione dei vescovi, monsignor Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede e monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, si «può parlare di enciclica a quattro mani ». Insomma la firma è una sola, ma il magistero della Lumen fidei, 96 pagine, quattro capitoli più tre paragrafi di introduzione, è di due Papi.

Alla conferenza stampa di presentazione, Ouellet ha spiegato: «Alla trilogia di Benedetto XVI mancava un pilastro e la Provvidenza ha voluto che il pilastro fosse un dono del Papa emerito al suo successore e nello stesso tempo un simbolo di unità». L’enciclica è «un ponte», ha titolato il suo commento il direttore dell’Osservatore Romano, Gian Maria Vian. L’enciclica è il testimone della staffetta che un Papa passa all’altro, «come avviene negli stadi», ha sorriso Ouellet. L’omaggio di Jorge Mario Bergoglio a Joseph Ratzinger si può leggere verso la fine del terzo paragrafo dell’introduzione, dove spiega che queste «considerazioni sulla fede» intendono «aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza ». Bergoglio rivela che Papa Benedetto aveva «già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede »: «Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi».

Nell’enciclica c’è molto di Benedetto e molto di Francesco. L’impronta del Papa teologo si sente soprattutto nelle pagine centrali, quella di papa Francesco nella trattazione delle indicazioni più decisamente pastorali che orientano l’impegno dei cristiani e poi in quell’appello finale: «Non facciamoci  rubare la speranza», concetto che ha ripetuto più volte in questi mesi di pontificato, rivolgendosi soprattutto ai giovani. La spiegazione della narrazione teologica dell’enciclica l’ha fatta monsignor Gerhard Müller, non da molto al posto che fu di Ratzinger all’ex Sant’Uffizio: «La voce profetica di critica e di denuncia deve essere sempre libera di alzarsi, ma la verità è una ricerca compiuta insieme e quindi la fede è la grande risorsa della Chiesa “portatrice storica dello sguardo planetario di Cristo sul mondo”, come scrive Francesco citando Romano Guardini, grande teologo caro a entrambi i Papi».

Famigliacristiana.it

11 settembre 2013

Papa: lettera a chi non crede

Francesco scrive al quotidiano Repubblica rispondendo a quesiti posti da Eugenio Scalfari. “La questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza”.

Il testo integrale della lettera di papa Francesco a Eugenio Scalfari

Riportiamo per intero la lettera indirizzata dal pontefice all’ex direttore di Repubblica.

Pregiatissimo Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.
La ringrazio, innanzi tutto, per l’attenzione con cui ha voluto leggere l’Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell’intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l’ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l’ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce “un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth”. Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.
Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza – come si richiama nelle pagine iniziali dell’Enciclica – deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.
La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un’affermazione a mio avviso molto importante dell’Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell’amore – vi si sottolinea – “risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti” (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.
La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa – mi creda – non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità.
Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme. Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell’editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso – o se non altro mi è più congeniale – andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall’Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all’esperienza storica di Gesù di Nazareth.
Osservo soltanto, per cominciare, che un’analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell’Enciclica, di fermare l’attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell’Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.
Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo “scandalo” che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria “autorità”: una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è “exousia”, che alla lettera rimanda a ciò che “proviene dall’essere” che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire – egli stesso lo dice – dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa “autorità” perché egli la spenda a favore degli uomini.
Così Gesù predica “come uno che ha autorità”, guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona… cose tutte che, nell’Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: “Chi è costui che…?”, e che riguarda l’identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un’autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l’incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.
Ed è proprio allora – come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco – che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l’uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l’ha rifiutato, ma per attestare che l’amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.
La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva “caro cardo salutis”, la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell’Enciclica.
Sempre nell’editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l’originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio. L’originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell’amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione.
Certo, da ciò consegue anche – e non è una piccola cosa – quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.
Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo – mi creda – un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l’aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch’io, nell’amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l’apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell’alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.
Vengo così alle tre domande che mi pone nell’articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che – ed è la cosa fondamentale – la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.
In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita”? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione… assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all’inizio di questo mio dire. Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio – questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! – non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la “R” maiuscola. Gesù ce lo rivela – e vive il rapporto con Lui – come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra – e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno – , l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di “cieli nuovi e terra nuova” e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà “tutto in tutti”. Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all’invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà “a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19). Con fraterna vicinanza Francesco

11 settembre 2013

 

Le otto domande di Eugenio Scalfari

Gesù, fede e ragione: i quesiti del fondatore ed ex direttore di Repubblica.

Le ha pubblicate in due differenti editoriali, il 7 luglio e il 7 agosto. Ecco le otto domande formulate dal fondatore ed ex direttore del quotidiano la Repubblica, Eugenio Scalfari.
1) La modernità illuminista ha messo in discussione il tema dell'”assoluto”, a cominciare dalla verità. Esiste una sola verità o tante quante ciascuno individuo ne configura?
2) I Vangeli e la dottrina della Chiesa affermano che l’Unigenito di Dio si è fatto carne non certo indossando un abito e imitando le movenze degli uomini e restando Dio, bensì assumendone anche i dolori, le gioie e i desideri. Ciò significa che Gesù ha avuto tutte le tentazioni della carne e le ha vinte non in quanto Dio ma in quanto uomo che si era posto il fine di portare l’amore per gli altri allo stesso livello d’intensità dell’amore per sé. Di qui l’incitamento: ama il prossimo tuo come te stesso. Fino a che punto la predicazione di Gesù e della Chiesa fondata dai suoi discepoli ha realizzato questo obiettivo? 
3) Le altre religioni monoteiste, l’ebraica e l’Islam, prevedono un solo Dio, il mistero della Trinità gli è del tutto estraneo. Il cristianesimo è dunque un monoteismo alquanto particolare. Come si spiega per una religione che ha come radice il Dio biblico, che non ha alcun Figlio Unigenito e non può essere né nominato né tantomeno raffigurato, come del resto Allah?
4) Il Dio incarnato ha sempre affermato che il suo regno non era e non sarebbe mai stato di questo mondo. Di qui il “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Papa Francesco rappresenta finalmente la prevalenza della Chiesa povera e pastorale su quella istituzionale e temporalistica? 
5)Dio promise ad Abramo e al popolo eletto di Israele prosperità e felicità, ma questa promessa non fu mai realizzata e culminò, dopo molti secoli di persecuzioni e discriminazioni, nell’orrore della Shoah. Il Dio di Abramo, che è anche quello dei cristiani, non ha dunque mantenuto la sua promessa?
6)  Se una persona non ha fede né la cerca ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?
7) Il credente crede nella verità rivelata, il non credente crede che non esista alcun “assoluto” ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?
8) Il Papa ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie finirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Ma quando la nostra specie sarà scomparsa anche il pensiero sarà scomparso e nessuno penserà più Dio. Quindi, a quel punto, Dio sarà morto insieme a tutti gli uomini?

11 settembre 2013

famigliacristiana.it

Primo giorno di scuola: basta un quaderno nuovo

Per chi volesse degli spunti ecco un articolo dell’anno scorso che è stato tradotto in altre lingue data la diffusione che ha avuto.

Ci sono alcuni giorni che non si amano per se stessi, ma per l’attesa che li prepara. Uno di questi è il primo giorno di scuola, investito della speranza che un’estate possa aver cambiato tutto. Ma dopo cinque ore ciò che il desiderio aveva rivestito di speranza viene sostituito dalla ruvida certezza che nulla è cambiato: si arrancherà per portare a termine un altro anno. Viene allora da chiedersi, professori (750mila) e studenti (8 milioni): che ci facciamo qui? Perché non registriamo le lezioni su youtube e pianifichiamo i giorni per compiti e interrogazioni? Ne usciremmo tutti più riposati forse, ma dovremmo ignorare lettere come questa, ricevuta qualche giorno fa:

Gentile Prof. D’Avenia, ho quasi diciassette anni e studio al liceo. Per tutte le scuole elementari e medie ho cercato di prendere il meglio dai miei insegnanti, per la maggior parte insoddisfatti di se stessi e della loro vita, o semplicemente piatti, e da ciò che cercavano di mettermi in testa, come fosse solamente una scatola vuota da riempire, a volte senza riuscirci, altre volte invece aumentando la mia sete di sapere e di conoscere nuove storie, come quelle provenienti da mondi lontani e antichi come la Grecia, l’Antica Roma, l’Egitto.
Avevo cominciato il liceo piena di entusiasmo, determinazione e voglia di scoprire quale sarebbe stato il mio posto nel mondo, aspettando con gioia e ansia il momento in cui avrei cominciato a studiare per davvero ciò che mi piaceva tanto. Ora tutto l’entusiasmo e la determinazione sono stati sostituiti da noia e incertezza, la gioia dalla paura, e c’è solo tanta ansia nel pensare all’inizio di questo nuovo anno scolastico, il cui ambiente è spietato e duro, carico di tensione e di aspettative, e dove non esiste “l’unico triangolo amoroso che renda tutti felici” di cui parla spesso lei, composto da alunni, genitori e insegnati disposti al dialogo e alla collaborazione. Si pensa solo al risultato, tiranneggiando costantemente i ragazzi e la loro voglia di imparare con tranquillità e passione, senza cercare di capirli, e non provarci nemmeno. Sulla carta sono tutti degli ottimi insegnanti, ma nella realtà di tutti i giorni rivelano le persone che sono veramente: alcuni incapaci di insegnare, altri capacissimi di farlo, ma assolutamente incapaci di educare, che sono due concetti molto diversi. Nonostante tutto questo, io ho ancora tanta voglia di scoprire qual è il mio posto nel mondo, e provo ancora entusiasmo e gioia nell’ascoltare e nell’apprendere. Voglio ritrovare la mia determinazione per qualcosa d’importante per me, per fare la mia strada, a tutti i costi… Ci provo, anche se non so come, né quando, né per che cosa…

All’inizio di un nuovo anno ciascuno potrebbe provare a rispondere a queste righe (o chiedere ai propri studenti di scrivere cosa ne pensano) che tanto lucidamente mettono nero su bianco il cancro che corrode la scuola. Non è questione di lavagne elettroniche ed effetti speciali. Ma di persone. Non è questione di forma, ma di ri-forma mentis. Istruire ed educare sono stati forzosamente separati, con la pretesa che bastasse dire che erano due cose da separare, perché la realtà, mai prona alle balzane ideologie umane, si adeguasse; e Confucio, Socrate e Cristo venissero dimenticati. Ogni uomo preposto a guidarne un altro, che lo voglia o no, lo educa. Se pretende solo di istruirlo, lo educherà lo stesso, all’irrealtà (noia, incertezza, paura…) come dimostra la lettera di questa ragazza e di molti altri, ridotti a oggetti del sapere, teste da riempire e addestrate, non soggetti protagonisti del conoscere, nella ricerca comune di sé e della verità.

Non si può non educare se si sta nella stessa aula per 5 ore al giorno. Se volessimo solo istruire dovremmo accontentarci delle lezioni registrate. Se stiamo nello stesso luogo per 5 ore, che lo vogliamo no, educhiamo. Educare è introdurre alla realtà e solo chi entra in contatto con la realtà entra in contatto con se stesso. Noi professori, talvolta grandi nemici del “virtuale”, spesso ci accontentiamo di un insegnamento virtuale, ripetendo le stesse cose da anni, come se avessimo davanti una telecamera e non volti diversi di anno in anno, di giorno in giorno.

Propongo allora di comprare (io per primo) un bel quaderno e dedicare due pagine ad ogni alunno: punti di forza, punti deboli, sogni, passioni, ambizioni, situazione familiare, consigli dei genitori. Pagine frutto di osservazione e colloqui personali e periodici, con il ragazzo e con i genitori.

Propongo di dedicare qualche pagina alle strategie della propria materia, perché venga amata da quei ragazzi in particolare.

Propongo di dedicare i consigli di classe a condividere le strategie perché ogni ragazzo riesca a far fiorire i propri talenti.

Perché la scuola non sia noia, paura, delusione l’unica strada è cambiare i programmi.
I ragazzi: ecco il programma.

Papa Francesco: “I giovani pessimisti? Li mando dallo psichiatra”

Bergoglio si è rivolto a 500 ragazzi, in un incontro a porte chiuse nella basilica di San Pietro. “Che triste un giovane pigro”, ha detto. E li ha inviatati a andare controcorrente. In serata è arrivato nella basilica di Sant’Agostino, nel centro di Roma, dove ha celebrato la messa

CITTA’ DEL VATICANO – Si è rivolto ancora una volta ai giovani, Papa Francesco. In un incontro a “porte chiuse” nella Basilica di San Pietro, ha parlato a un gruppo di 500 ragazzi della diocesi di Piacenza. Il Pontefice ha esortato i ragazzi a essere coraggiosi e ad andare controcorrente sottolineando come la sfida sia “scommettere su un grande ideale, e l’ideale di fare un mondo di bontà, bellezza e verità”. E come sua abitudine Papa Francesco ha usato parole immediate e semplici, suscitando anche applausi tra i presenti: “E’ una cosa brutta, un giovane triste!” o pigro, e parlando dei giovani pessimisti ha detto: “Li mando dallo psichiatra…”.

Poi il Pontefice ha aggiunto: “Quando a me dicono: ‘Ma, Padre, che brutti tempi, questi… Guarda, non si può fare niente!’. Come, non si può fare niente? E spiego che si può fare tanto! Ma quando un giovane mi dice: ‘Che brutti tempi, questi, Padre, non si può fare niente!’, Lo mando dallo psichiatra.. Perché… è vero, non si capisce, non si capisce un giovane, un ragazzo, una ragazza, che non vogliano fare una cosa grande, scommettere su ideali grandi, grandi per il futuro, no? Poi faranno quello che possono, ma la scommessa è per cose grandi e belle”.

“Dentro di voi – ha proseguito – avete tre voglie: la voglia della bellezza. A voi piace la bellezza” e “siete ricercatori di bellezza”. Secondo, “siete profeti di bontà. A voi piace la bontà” e questa bontà “è contagiosa”, ha sottolineato Papa Francesco, “aiuta tutti gli altri”. Terza voglia: la “sete di verità”: occorre “cercare la verità”. E qui il Pontefice ha precisato come la verità si debba incontrare: “E’ un incontro, con la verità, che è Dio, ma bisogna cercarla. E queste tre voglie che voi avete nel cuore, dovete portarle avanti, al futuro, e fare il futuro con la bellezza, con la bontà e con la Verità”. Questa la sfida che il Papa ha lanciato ai giovani, “la vostra sfida”, ha detto.

“Ma se un giovane è pigro o è triste” ed “è una cosa brutta, un giovane triste”, allora quella bellezza non sarà bellezza, quella bontà non sarà bontà e quella verità non sarà tale, ha aggiunto. L’esortazione quindi è “scommettere su un grande ideale, e l’ideale di fare un mondo di bontà, bellezza e verità. Questo, voi potete farlo: voi avete il potere di farlo. Se voi non lo fate, è per pigrizia”.

Papa Francesco, pigro, non lo è per primo. Lui è l’esempio. In serata, alle 19 è arrivato nella basilica di Sant’Agostino, nel centro di Roma, dove ha celebrato la messa, portando nella mano sinistra la sua mitria avvolta in una custodia di stoffa. Il Papa ha poi indossato il paramento nella processione di ingresso alla messa e in altri momenti della liturgia. “Andare incontro all’altro”, “non essere chiusi in se stessi ma continuare a cercare Dio”. Nell’omelia nella messa riservata ai 90 Padri Capitolari dell’Ordine di Sant’Agostino, Francesco ha invitato a essere “inquieto” come il Santo d’Ippona. Per il Pontefice “dall’inquietudine nasce la fecondità pastorale”. “Con dolore – sottolinea il Papa – penso ai consacrati che non sono fecondi, che sono zitelloni. Conservate l’inquietudine spirituale, l’inquietudine di cercare e annunciare il Signore con coraggio e di andare verso l’altro. Inquietudine di cercare l’amore, amore verso ogni fratello e sorella”.