Giornata per la custodia del creato

Alle ore 12.20 di oggi, nell’Aula Paolo VI in Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza scolari e studenti delle Scuole italiane partecipanti al progetto Ambientiamoci a scuola promosso dalla Fondazione “Sorella Natura” di Assisi, in occasione della “Giornata per la Custodia del Creato”, che si celebra domani 29 novembre, nell’anniversario della proclamazione di San Francesco di Assisi quale Patrono dei cultori dell’ecologia. Sono presenti nell’Aula Paolo VI il Presidente della Fondazione, Signor Roberto Leoni e il Presidente onorario, Cardinale Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, SDB, che rivolge al Papa un indirizzo di omaggio.
 
La Fondazione Sorella Natura invita tutti gli scolari delle Scuole Medie Italiane ad una riflessione-creativa sulPerché il Papa ha scelto il nome di Francesco?
 

GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

Prima lettura: 2Samuele 5,1-3

In quei giorni, vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”». Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele.  

 

Cristo re dell’universo ha una prefigurazione in Davide che riunisce tutto il popolo in un unico regno. La breve lettura proposta dalla liturgia odierna contiene le tre motivazioni che spingono gli anziani a chiedere l’unificazione del regno (vv. 1-2) e quindi il fatto dell’unificazione con l’unzione regale di Davide (v. 3).

     Le tre motivazioni sono rispettivamente: una certa familiarità con Davide che era loro ‘fratello’ di razza perché membro dello stesso popolo; Davide di fatto aveva già assunto il comando militare e quindi era loro capo; infine, un oracolo divino aveva manifestato la predilezione per lui.

     Troviamo qui alcuni tratti perché ci sia un buon regno. Si parte da un consenso di adesione e da un riconoscimento nella figura del re che diventa una ‘persona corporativa’. La frase «ecco noi siamo tue ossa e tua carne», riecheggia il grido osannante del primo uomo che si ‘specchiava’ nella sua donna (cf. Gn 2,23). Si crea una sintonia che si avvicina molto all’identità. Davide ha, dal canto suo, il compito di essere pastore, di pascere il suo popolo. Quella del pastore è una delle più remote e simpatiche denominazioni del re, forse già presente al tempo dell’antico re babilonese Hammurabi (XVIII secolo a.C.). Il termine esprime la responsabilità e la cura indefessa che il re esercita a vantaggio della sua gente. Egli è lì per loro.

     L’unzione sancisce un’alleanza che è impegno reciproco di fedeltà e di amore. Si stabilisce nel medesimo tempo un’alleanza in orizzontale, con tutti i mèmbri del popolo, di cui il re, come pastore, è il primo responsabile. Oggi diremmo, con un linguaggio a noi più familiare, che egli è il ‘padre’ di tutti. Poi sussiste un’alleanza in verticale, in quanto il re è il rappresentante di tutto il popolo presso Dio.

     La figura di Davide, re ideale e prefigurazione del re messia, non ha avuto buoni imitatori nei suoi successori. Le delusioni causate dal comportamento scorretto di tanti re che si sono avvicendati sul trono, non ha affievolito la speranza messianica, perché questa si fondava essenzialmente sulla sovranità divina e sulla sua promessa. Sempre di più i giudei hanno atteso qualcuno che sarebbe venuto dall’alto e avrebbe avuto tutte le qualità necessario all’avvento del tempo messianico. Gesù mostra di avere le qualità richieste, deludendo però i suoi contemporanei che attendevano un paradiso in terra.

 

Seconda lettura: Colossesi 1,12-20

Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

 

Il primato di Cristo o, se si preferisce, la sua eccellenza che lo incorona re, è mirabilmente scolpita nel famoso inno che la lettura propone. Siamo in presenza di una composizione semplicemente stupenda, anche se irta di difficoltà per gli studiosi. Tralasciando le questioni tecniche e le spinose problematiche connesse, ci limitiamo ad alcuni accenni in sin-tonia con la liturgia odierna.

     L’inno presenta due strofe che celebrano Cristo come il primogenito di tutta la creazione (vv. 15-18a) e come il primogenito dei morti (vv. 18b-20): alla cristologia cosmica della prima strofa corrisponde la soteriologia cosmica della seconda. Creazione e redenzione sono rapportate reciprocamente. Cristo in quanto esaltato nella redenzione totale è pensato anche come il detentore di una sovranità cosmica, quella che presiede, dirige e orienta tutta la creazione. L’inno è un canto di lode al Cristo trionfatore che ha fatto della sua risurrezione una nuova creazione, più completa della prima. La nuova creazione, riconciliata in Cristo, riceve la pienezza, quella che la prima non possedeva. Senza trovare il termine, vi ravvisiamo una celebrazione della regalità di Cristo, signore dell’universo.

     Il fondamento di tutto sta nella sua divinità, che lo rende uguale a Dio, e nella sua umanità, attraverso la quale può esprimere il suo amore che arriva fino al dono della vita.

     L’inno parla sempre di Cristo, senza mai nominarlo. Egli viene presentato al v. 15 come «immagine del Dio invisibile». Qui per «immagine» non si intende una creazione (come in Gn 1,26), ma la riproposizione della stessa natura, come tutto l’inno si impegnerà a dimostrare. Egli è superiore al creato perché «generato prima di ogni creatura» (lett. «primogenito di tutta la creazione»), indicando più una preminenza che una precedenza nel tempo (cf. Sl 89,28). Il primogenito, nel diritto familiare palestinese, godeva di alcune prerogative (cf. Gn 43,33; Dt 21,17). In base a questo sottofondo, si comprende meglio il titolo dato a Cristo, primogenito in senso di eccellenza, e non in senso di anteriorità, come il testo italiano potrebbe lasciar intendere.

     Oltre che la preminenza sul creato, Cristo è presentato come il principio vitale nascosto in «tutte le cose». Egli è causa effettiva di tutto e anche fine ultimo, è il punto di riferimento necessario. Per ogni cosa egli è la possibilità di continuare ad esistere, una specie di fondamento universale. Se tutto è riferito a Cristo, egli è celebrato come il mediatore della signoria di Dio, veramente la sua icona.

     Dopo il Cristo creatore, la seconda parte dell’inno (vv. 18b-20) celebra Cristo come salvatore. Se non è presente il termine, chiara ne è l’idea. È sempre in vista di una celebrazione della superiorità di Cristo che continua l’inno, riprendendo il concetto che egli è «principio, il primogenito». Come la creazione aveva dato la vita a chi non l’aveva, così ora l’opera di Cristo dà la vita a chi l’ha persa. Cristo dà vita. Sta qui uno dei concetti principali del primato: essere ‘fonte di vita’. Occupa il primo posto, non perché ha bisogno di essere salvato, ma perché ha sperimentato per primo il morire-risorgere: «il primogenito di quelli che risorgono dai morti». Cristo porta la comunità dei credenti, la Chiesa, a formare la ‘sua’ Chiesa. Sottomessi a lui, ma anche intimamente legati a lui, i fedeli prendono parte alla sua vita, entrano in un ordine nuovo, più alto, soprannaturale. Così diventa principio e primogenito dei morti, sia perché si trova alla testa, sia, soprattutto, perché gli altri senza di lui non esisterebbero: nella sua risurrezione è garantita quella degli altri. Ecco perché ottiene «il primato su tutte le cose».

     Ora Paolo passa a presentare un altro motivo di primato: la pienezza di Cristo. Non si parla di dimensioni, ma di capacità di dominare ogni cosa. «Pienezza» (in greco pléroma) richiama ai Colossesi l’idea che Cristo è in se stesso totalmente ricco; non ha quindi bisogno di nessuna integrazione.

     La redenzione è presentata in tutta la sua tragica storicità, «avendo pacificato con il sangue della sua croce», per ricordare al lettore un dato che ancora alla concretezza di un avvenimento e al dono personale di un individuo che ama. Il richiamo al sangue conserva un ricordo storico di impressionante realismo (cf. il Vangelo di oggi).

     Cristo è il re universale perché ha creato tutto e tutto ha ricreato con l’amore di una vita totalmente donata.

 

Vangelo: Luca 23,35-43

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».            

 

Esegesi

Siamo alle battute finali della passione. Il clima di ostilità è surriscaldato al massimo. La scelta del presente brano è motivata dalla presenza del titolo di re, dato a Gesù, che ben si intona alla festa di oggi. Si gioca su questo titolo; per qualcuno di dileggio, per altri esprimente una costitutiva qualità di Gesù. Due realtà opposte si fronteggiano: da una parte sono schierate, in forza massiccia, le potenze del male (vv. 35-39), dall’altra, in forza esigua, quelle del bene (vv. 40-43). La theologia crucis sta proprio nel fatto che il piccolo sconfigge il grande, come Davide ha vinto il gigante. Il negativo è impersonato dal triplice scherno: quello dei capi, quello dei soldati e quello di uno dei malfattori. Sono in tanti a credere che siamo alla fine di un’avventura, alimentata da vuota speranza: «Ha salvato altri! Salvi se stesso… Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso… Salva te stesso e noi!» Rimane solo il tempo per l’esecuzione capitale.

     Il fatto ostico di un condannato che muore, suscita, paradossalmente, uno sconfinato interesse. In una situazione di per sé ripugnante, fiorisce una attenzione che lascia presagire una novità. Quella morte riveste un medito valore, quasi di pubblicità. Il mistero pasquale è già abbozzato, o meglio, già definito in questa morte così carica di promessa.

     Sul Calvario, la sofferenza e la morte di Gesù diventano uno spartiacque che divide gli uomini: alcuni troveranno motivo per negare in lui la presenza di Dio, altri vi vedranno una misteriosa, anche se non facilmente comprensibile, presenza divina. La morte di Gesù è uguale e anche diversa dalle altre. Con la morte di tutti gli uomini condivide la tragica impotenza, il senso di fine, il dramma della separazione da tutto e da tutti. Diversamente da quella degli altri, la morte di Cristo porta i germi di trionfo. Lo attestano la scritta che campeggia sul cartiglio: «Costui è il re dei Giudei», le parole del buon ladrone e, soprattutto, la sentenza finale di Gesù: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (v. 43). Davvero strano questo condannato che, sul punto di morire, determina la vita degli altri con un’autorità che assomiglia molto a quella divina. Consideriamo la cosa più da vicino.

     Gesù reagisce con potere sovrano ad una felice provocazione. Il ladrone che si era rivolto a lui, forse in un ultimo, disperato S.O.S., non si rende pienamente conto del tenore delle sue parole. Egli chiede un ricordo (forse una ‘raccomandazione’) nel regno. Senza che egli ne abbia lucida coscienza, il regno invocato è quello che cresce in terra, ma che si radica in cielo, quello che avviene nel tempo, ma che ha caratteri di eternità. È il regno che Gesù sta meritando con il sacrificio della sua vita. È il regno che potrebbe avere il suo archetipo in quel giardino, un tempo luogo di incontro amoroso tra Dio e la sua creatura (cf. Gn 2), e ora sigillato dal peccato. Gesù si appresta a riaprirlo. Non servono chiavi. Occorre un atto di amore infinito che può compiere solo il Figlio dell’uomo che è altresì Figlio di Dio.

     La risposta di Gesù si apre con la solennità della grandi dichiarazioni: «In verità io ti dico». C’è da aspettarsi qualche parola che farà storia. Infatti, giunge una solenne e inaspettata promessa: «oggi con me sarai nel paradiso». Il giardino è riaperto. La comunione con il Padre è ripristinata, un nuovo abbraccio lega l’uomo al suo Creatore. Questo abbraccio è Cristo crocifisso. Tutti gli uomini sono compresi nelle sue braccia allargate; veramente tutti sono ‘abbracciati’. La scena della morte, tratteggiata con colori drammatici, mai funerei, si illumina improvvisamente con il bagliore della vita. È subito apoteosi.

     Il brano liturgico si interrompe qui, senza passare a descrivere la morte. Interessava, nel presente contesto, individuare e ribadire la regalità di Cristo. Ora sì, è possibile morire. Ma non è più vera morte. È solo passaggio. Veramente la morte è vinta dalla croce e s’inaugura il tempo finale profetizzato da Ezechiele (cf Ez 37,12), da Daniele (cf Dn 12,1-2) e da tanti altri. Gesù realizza le profezie e la sua morte è già principio di vita. L’atto finale della vita di Gesù è di per sé redentore ed è il motivo del suo trionfo sulla morte. Con Cristo s’inaugura un’umanità nuova. Dopo la sua morte non è più concessa la scelta tra il dolore e la felicità, ma tra il dolore senza senso e senza compenso e la felicità raggiunta attraverso il dolore; non tra la morte e la vita senza morte, ma tra la morte senza vita di gloria e la gloria nella quale la morte è diventata premessa indispensabile di vita eterna.

     La vicenda di Gesù anticipa e rende possibile quella di ogni uomo. Lo documenta la pagina evangelica odierna: il ‘collega’ di supplizio diventa il ‘collega’ nel regno. Del regno Gesù aveva detto qualcosa in precedenza: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché

possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e sederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele» (Lc 22,28-30). La citazione richiama elementi analoghi al passo liturgico odierno: il regno è dono del Padre e di Cristo, lo si ottiene ‘contribuendo’ personalmente e uno dei migliori contributi è la sofferenza (idea racchiusa nel concetto di ‘perseverare’). Il regno è comunione e condivisione con la divinità: la prima è espressa con l’immagine classica del banchetto (cf. Is 25,6ss), l’altra con l’immagine del governare (cf. Mt 19,28). Nel regno vige un’unica regola, quella della comunione di amore. Il banchetto e la condivisione del potere, sono mirabilmente riassunte nel «con me sarai», una succosa sin-tesi teologica di ‘paradiso’.

     Essere con Gesù, il Crocifisso di questo momento, presto il Risorto, equivale ad essere con il Padre e con lo Spirito. Il paradiso è comunione con la Trinità.

Meditazione 

     Le letture di questa domenica finale dell’anno liturgico, che celebra Cristo quale Signore e re dell’universo, presentano la regalità nella sua dimensione comunionale, corporativa. Nella prima lettura le tribù di Israele riconoscono Davide come re e mostrano di sentire il messia come figura corporativa. Esse si affidano a lui quasi incorporandosi simbolicamente a lui: «Noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne» (1Sam 5,1). Nel vangelo siamo di fronte a Gesù quale messia debole, inerme, che, sulla croce, mentre si affida radicalmente a Dio (Lc 23,46), vede affidarsi a lui un malfattore crocifisso accanto a lui. E Gesù promette comunione a costui, incorpora a sé quest’uomo promettendogli comunione: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). La seconda lettura esprime la fede ormai sviluppata della chiesa che celebra l’incorporazione cosmica nel Cristo Risorto: tutto è stato creato in Cristo, per mezzo di lui, ma anche in vista di lui, per essere ricapitolato in lui (Col 1,12-20).

     Per tre volte Gesù viene deriso come Messia e per tre volte i suoi avversari gli rivolgono l’invito a salvare se stesso, quasi che proprio la capacità di sottrarsi alla croce, di salvare la propria vita sia per loro il sigillo dell’autenticità della messianicità (Lc 23,35.37.39). Invece, è esattamente l’autosalvezza ciò che è impossibile nello spazio cristiano, ciò che contraddice radicalmente la salvezza cristiana. Gesù aveva annunciato: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,24). Ma prima di annunciare che chi perderà la vita a causa sua, la salverà, egli stesso è passato attraverso l’esperienza del perdere la propria vita, del perdere se stesso. Mettere in salvo la propria vita è la grande tentazione, a cui Gesù si è opposto già durante le tentazioni inaugurali del suo ministero (Lc 4,1-13). Ed è la tentazione perenne del cristiano e della chiesa. Infatti, vale anche per la chiesa il detto di Gesù per cui chi cerca se stesso, chi vuole salvare se stesso, ovvero chi fa di se stesso un fine, il proprio fine, perde se stesso.

     La regalità di Gesù è derisa (Lc 23,35-37) o insultata (Lc 23,39); di essa ci si fa beffe (Lc 23,35-37) o si cerca di sfruttarla a proprio vantaggio (Lc 23,39). Gesù abita lo scandalo del Messia perduto che può così raggiungere chiunque si trovi in situazioni di perdizione. Del resto, noi sappiamo che condizione indispensabile per incontrare e aiutare l’altro nella sua sofferenza, è condividere qualcosa della sua impotenza e debolezza. Scrive Bonhoeffer: «Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza e della sua sofferenza […] La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare». La regalità di Gesù capovolge dunque la logica di potenza e forza che regge le regalità umane.

Gesù mostra la sua signoria manifestando la sua capacità di giudizio e di divisione: egli è segno di contraddizione e di fronte a lui ci si divide, si manifestano i pensieri dei cuori.     Dei due crocifissi con lui uno lo insulta, l’altro lo prega. In particolare, il cosiddetto «buon ladrone» appare tipo del discepolo cristiano. Egli innanzitutto opera la correzione fraterna «rimproverando» (Lc 23,40) l’altro condannato che insulta Gesù, e mettendo così in atto la parola di Gesù: «Se tuo fratello pecca, rimproveralo» (Lc 17,9) ; inoltre egli appare simbolo della responsabilità: riconosce il male che ha commesso e ne accetta le conseguenze (Lc 23,41a); quindi esprime una confessione di fede riconoscendo l’innocenza di Gesù (Lc 23,41b); infine si rivolge a Gesù con la preghiera, la supplica, e riconoscendone la regalità escatologica: «Gesù, ricordati di me, quando verrai [non «entrerai», come traduce la Bibbia CEI] nel tuo regno» (Lc 23,42). Immagine dei credenti e della chiesa che, nella storia, sono chiamati a testimoniare la regalità di Cristo condividendo le sofferenze del Crocifisso, invocando la venuta del Regno, e attendendo il Veniente nella gloria.

Preghiere e racconti

Il Buon ladrone

Coloro ch’egli ama, si accalcano, montano la guardia. Intorno al suo corpo esposto, ricoprendo, velando col loro amore la sua nudità, troppo sanguinante, troppo dolorosa per offendere qualsiasi sguardo. A traverso il sangue e il pus, egli vede la propria pena riflessa sui volti cari: quelli di Maria sua madre, di Maria Maddalena, d’una delle sue zie, moglie di Cleofa. Giovanni ha forse gli occhi chiusi. Ed ecco l’episodio sublime, l’ultima invenzione dell’Amore, innocente e crocifisso, che Luca solo riporta: L’uno dei malfattori appiccati lo ingiuria dicendo: – Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi.  Ma l’altro lo riprendeva dicendo: – Non hai tu timore di Dio, che sei nel medesimo supplizio? Per noi è giustizia, perché riceviamo la pena degna dei nostri misfatti: ma costui non ha commesso nulla di male. E tosto che ha parlato, una grazia immensa gli piove in cuore: quella di credere che quel suppliziato, quel miserevole rifiuto che i cani schiferebbero, è il Cristo, il Figlio di Dio, l’Autore della vita, il Re del cielo. E dice a Gesù: «Signore, ricordati di me, quando sarai entrato nel tuo regno».

« Oggi stesso tu sarai con me in paradiso ».

Un solo moto di puro amore, e un’intera vita criminale è cancellata. Buon ladrone, santo operaio dell’ultima ora, inebriaci di speranza.

(E. MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 149-150).

 

Voglio che sia una regina

«C’era una volta, tanti secoli fa, una città famosa. Sorgeva in una prospera vallata e, siccome i suoi abitanti erano decisi e laboriosi, in poco tempo crebbe enormemente. Era insomma una città felice nella quale tutti vivevano in pace. Ma un brutto giorno, i suoi abitanti decisero di eleggere un re. Suonate le trombe, gli araldi li riunirono tutti davanti al Municipio. Non mancava nessuno. Lo squillo di una tromba impose il silenzio su tutta l’assemblea. Si fece avanti allora un tipo basso e grasso, vestito superbamente. Era l’uomo più ricco della città. Alzò la mano carica di anelli scintillanti e proclamò: “Cittadini! Noi siamo già immensamente ricchi. Non ci manca il denaro. Il nostro re deve essere un uomo nobile, un conte, un marchese, un principe, perché tutti lo rispettino per il suo alto linguaggio”.

“No! Vattene! Fatelo tacere’ Buuu”. I meno ricchi della città cominciarono una gazzarra indescrivibile. “Vogliamo come re un uomo ricco e generoso che ponga rimedio ai nostri problemi!”.

Nello stesso tempo, i soldati issarono sulle loro spalle un gigante muscoloso e gridarono: “Questo sarà il nostro re! Il più forte!”.

Nella confusione generale, nessuno capiva più niente. Da tutte le parti scoppiavano grida, minacce, applausi, armi che s’incrociavano.

Suonò di nuovo la tromba. Un anziano, sereno e prudente, sali sul gradino più alto e disse: “Amici, non commettiamo la pazzia di batterci per un re che non esiste ancora. Chiamiamo un innocente e sia lui ad eleggere un re tra di noi”.

Presero un bambino e lo condussero davanti a tutti. L’anziano gli chiese: “Chi vuoi che sia il re di questa città così grande?”.

Il bambinetto li guardò tutti, si succhiò il pollice e poi rispose: “I re sono brutti. Io non voglio un re. Voglio che sia una regina: la mia mamma”».

(B. Ferrero, C’è qualcuno lassù, Torino, LDC, 1993, 12-13).

 

Il Cristo di Velázquez

A che pensi Tu, morto, Cristo mio?

Perché qual vel di tenebrosa notte

la ricca chioma tua di nazareno

ricade cupa giù su la tua fronte?

Entro di te Tu guardi ove sta il regno di Dio;

dentro di te, là dove albeggia,

l’eterno sol dell’anime viventi.

Bianco è il suo corpo, sì com’è la sfera del sol,

padre di luce, che dà vita;

bianco è il tuo corpo al modo della luna

che morta ruota intorno alla sua madre,

la nostra stanca vagabonda terra;

bianco è il tuo corpo, bianco come l’ostia

del cielo nella notte sovrumana,

di quel cielo ch’è nero come il velo

della chioma tua ricca e cupa e folta

di nazareno.

Chè sei, Cristo, il solo

Uomo che di sua scelta soccombesse,

trionfando della morte, che fu resa

da te verace vita. E sol da allora

per Te codesta morte tua dà vita;

per Te la morte è fatta madre nostra;

per Te la morte è il dolce nostro anelo

che placa l’amarezza della vita.

Per te, l’Uomo che è morto e che non muore,

bianco siccome luna nella notte…

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 28-29).

«Non sono così».

Si racconta, fra i Padri del deserto, la storia di un misero calzolaio di Alessandria che un angelo aveva presentato al grande sant’Antonio come un uomo più avanti di lui, malgrado gli sforzi eroici dell’eremita appassionato, fortemente preoccupato di fare progressi. Sconcertato non poco da questa rivelazione, Antonio si recò subito nella città di perdizione per imparare dalle labbra del calzolaio il segreto della sua perfezione: «Cosa fai di straordinario per santificarti in un simile ambiente?», «Io? Faccio le scarpe!». «Senza dubbio. Ma devi avere un segreto. Come vivi?». «Suddivido la mia vita in tre ambiti: la preghiera, il lavoro, ed il sonno», «Io prego sempre, quello che fai tu non va bene! E la povertà?». «Anche in questo caso tre parti: una per la chiesa, una per i poveri e una per me». «Ma io ho dato tutto quello che avevo… Deve esserci qualcos’altro. Non credi?».

«No». «E tu riesci a sopportare queste persone che non sanno più distinguere il bene dal male, che vanno chiaramente all’inferno?». «Ah, lì, non lo faccio, non lo sopporto! Chiedo a Dio di farmi scendere vivo all’inferno purché essi siano salvati!». Sant’Antonio si ritirò in punta dei piedi confessando: «Non sono così».

Signore, Misericordia…

Signore, sono davanti a Te da povero tuo amico, debole, peccatore… Signore, io mi abbandono a Te, ti amo davvero, ma resto debole, resto peccatore. Signore, ti invoco in ogni momento: medito giorno e notte la tua Parola ma i miei fallimenti mi sono sempre davanti. Signore, sei il mio vero e unico padrone, ma la mia forza diventa spesso debolezza. Signore, misericordia per il tuo povero amico.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto – Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2005, 54).

 

Aiutami a dire “sì”

Ho paura a di “sì”, Signore.

Dove mi porterai?

Ho paura del “sì” che comporta altri “sì”.

Ho paura a mettere la mia mano nella tua;

perché tu possa stringerla […]

 

O, Signore, ho paura delle tue richieste,

ma chi può opporti resistenza?

Che venga il tuo regno, non il mio,

che sia fatta la tua volontà e non la mia,

Aiutami a dire “sì”».

(Michel QUOIST)

 

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).

 

Lo proclamo re perché ha dato la sua vita

Nessuno costrinse il ladrone, nessuno lo forzò, ma lui stesso disse all’altro: Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, ma lui non ha fatto nulla di male (Lc 23,40-41). E poi dice: Ricordati di me, nel tuo regno (Lc 23,42). Non ha osato dire: Ricordati di me, nel tuo regno prima di aver deposto attraverso la confessione il fardello dei suoi peccati. Vedi, cristiano, qual è il potere del riconoscimento del proprio peccato? Ha confessato di essere peccatore e ha aperto il paradiso; ha confessato e ha trovato il coraggio di chiedere il paradiso dopo tutti i suoi latrocini. Vedi quanti beni ci procura la croce? Pensi al regno? Che cosa vedi che gli sia simile? Vedi i chiodi e la croce, ma proprio questa croce, dice la Scrittura, è simbolo del regno. Per questo, quando vedo Gesù crocifisso, lo proclamo re. E proprio di un re morire per i suoi sudditi. Egli stesso ha detto: Il buon pastore da la sua vita per le pecore (Gv 10,11). Anche un buon re da la sua vita per i suoi sudditi. Io lo proclamo re perché ha dato la sua vita.

Ricordati di me, nel tuo regno. Vedi come la croce è simbolo del regno? Desideri un’altra prova? Il Signore non ha lasciato la sua croce sulla terra, ma l’ha presa e portata con sé in cielo. Come lo sappiamo? Perché l’avrà con sé quando ritornerà nella sua gloria. Impara quanto è degna di venerazione la croce che egli ha chiamato sua gloria […] Quando il Figlio dell’uomo verrà, il sole si oscurerà e la luna perderà il suo splendore (Mt 24,29). Il suo splendore sarà tale da oscurare anche gli astri più luminosi. Allora anche le stelle cadranno, allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo (Mt 24,29-30). Vedi quant’è potente il segno della croce!

[…] Quando un re entra in una città, i soldati lo precedono portando sulle loro spalle gli stendardi e annunciando il suo arrivo. Così quando il Signore discenderà dai cieli, lo precederà una schiera di angeli portando sulle loro spalle il segno della croce e annunciando la venuta del nostro re.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla croce e sul ladrone 1,3-4, PG 49,403-404).

Preghiera

Troppe volte, Signore Gesù,

abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani,

ai vari dominatori del mondo.

Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro

e dall’angoscia del pericolo,

ci rivolgiamo ad altri «re».

Solo l’amore e la fiducia che ne deriva

liberano l’uomo dalla fobia

e dalla tirannia della sua presunzione.

Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo

e a guardare nel tuo futuro.

 

Tu, Re di misericordia,

ricordati di noi nel tuo Regno,

facci percepire il palpito del tuo cuore.

 

Un mondo disgregato dalla diffidenza,

dal dubbio e dallo scetticismo

trova solo in te la salvezza.

 

Il tuo Regno non è fatto

di splendido isolamento,

ma di profonda solidarietà

con l’umanità redenta.

 

Il tuo Regno non impone diffidenza,

ma libera, salva, assicura speranza.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIV DOM TEMP ORD (C) CRISTO RE (C)

Avvento e Natale: il sussidio on line

È on line al seguente link: http://www.chiesacattolica.it/avvento2013 il sussidio liturgico-pastorale che accompagna il tempo di Avvento-Natale, frutto del lavoro di alcuni Uffici della Segreteria Generale e disponibile online.
Commentando le parole di San Paolo, che fanno da titolo al Sussidio, Mons. Crociata scrive: “Da quale sonno siamo chiamati ad uscire? C’è infatti un sonno che oscura la coscienza e la ragione; ma c’è anche un sonno nel quale Dio si rivela e parla: pensiamo all’esperienza di Giuseppe, sposo di Maria, che in sogno riceve la parola di Dio, e «svegliatosi dal sonno» si assume la responsabilità di custodire la madre e il bambino che dovrà nascere. Sembra più giusto, dunque, partire da questa visione del “sonno”: il periodo dell’attesa, dei tempi lunghi del discernimento, della formazione, dell’educazione, lo spazio richiesto per maturare decisioni forti.
“In altri passi della Scrittura – aggiunge – si parla poi del riposo del seme sotto terra, che «muore» (Mc 4,26-32; Gv 12,24) e si sviluppa irresistibilmente finché viene il tempo della mietitura: possiamo dire che molto è stato seminato nella Chiesa di Dio in Italia all’inizio del decennio dedicato all’educazione.
“Viene il momento in cui tutto ciò dovrà manifestarsi, attraverso l’opera di persone capaci, come Giuseppe, di assumersi responsabilità e prendersi cura – conclude -. La parola di Dio del tempo di Avvento e Natale ci rende “consapevoli del momento” e ci dona di risvegliare le energie positive che abbiamo ricevuto da Lui”.

La Chiesa per la scuola

Il laboratorio nazionale La Chiesa per la scuola (Roma, 3-4 maggio 2013) ha testimoniato l’interesse della Chiesa per la situazione e il compito della scuola e della formazione professionale nel nostro Paese: interesse avvertito in maniera particolarmente viva nel quadro del decennio pastorale dedicato all’educazione. L’evento, voluto dalla Presidenza della CEI, ha coinvolto diverse centinaia di persone, secondo un’ottica che tenesse al centro la questione educativa. Sono stati invitati non solo quanti operano direttamente nel mondo della scuola e della formazione professionale, ma anche genitori e studenti, nella convinzione che la scuola rappresenta un’esperienza umanamente rilevante per chi vi lavora, per chi la frequenta e per chi affida a essa l’istruzione dei propri figli.
Anche in questo modo la Chiesa ha voluto mettere in atto la propria vicinanza al mondo della scuola e della formazione professionale, e al tempo stesso segnalare che, quando si parla di esso, non sono in gioco solo esigenze economiche o sindacali, pure importanti; piuttosto si tratta di una questione che riguarda direttamente la polis, cioè di una questione politica: la scelta di educare i propri figli è un diritto costituzionalmente garantito, cui deve essere assicurata adeguata recezione e applicazione. Non si pretende, ovviamente, di dettare un’agenda a questa o quella formazione politica, ma piuttosto di esprimere chiaramente la vicinanza e la premura a un mondo che, pur centrale di fatto per la vita sociale e civile, non riceve sempre adeguata considerazione dall’opinione pubblica. Lo stile di questo impegno intende essere pienamente ecclesiale, consapevole della responsabilità della comunità cristiana dentro la società civile. Ciò comporta due importanti conseguenze. La prima è che – come è già successo – attorno alla “scuola” vanno raccolti non solo gli “addetti ai lavori”, ma tutte le persone di buona volontà, nella convinzione che se la scuola è una risorsa per tutti, a tutti è richiesto di averne cura. La seconda riguarda i contenuti: anche se alcuni problemi sono squisitamente tecnici, molti temi possono essere affrontati con un linguaggio semplice e comprensibile a tutti. Con questo spirito sono stati preparati i materiali raccolti nel volume. La relazione introduttiva del card. Angelo Bagnasco, presidente della CEI, inquadra il problema della scuola dal punto di vista educativo e civile, proponendo una chiave di lettura unitaria del problema. A essa segue una serie di otto parole-chiave, alle quali sono stati dedicati altrettanti gruppi durante il laboratorio nazionale, e quindi la sintesi di questi lavori, a cura del prof. Onorato Grassi. Il volume si chiude con le riflessioni conclusive di Mons. Gianni Ambrosio, presidente della Commissione episcopale per l’eduzione cattolica, la scuola e l’università. Le parole–chiave qui proposte non esauriscono certo i problemi; esse aiutano a concentrare l’attenzione su alcuni punti – momenti di passaggio, snodi importanti del discorso tra luoghi, situazioni, persone – intorno ai quali tutti siamo invitati a discutere e a confrontarci. L’evento di maggio 2013 non rappresenta certo un momento chiuso in sé, ma piuttosto l’inizio di un ampio percorso di sensibilizzazione e mobilitazione, volto a rilanciare temi e problemi, sicuramente bisognosi e meritevoli di ulteriore riflessione. Anche per tali ragioni mi auguro che questo agile testo circoli il più possibile e che i suoi contenuti siano diffusamente presentati e discussi. Con questo spirito lo affido ai credenti delle nostre comunità ecclesiali e a quanti, animati di buona volontà, vorranno condividere l’attenzione e la cura verso la scuola.
 
 
ALTRO MATERIALE:
 
La Chiesa per la scuola. Laboratorio nazionale   
Roma, 3-4 maggio 2013
 
Il laboratorio nazionale La Chiesa per la scuola, è la prima tappa di un percorso di sensibilizzazione sulle tematiche della scuola (statale e paritaria) e della formazione professionale, promosso dalla Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana.
Il percorso punta a coinvolgere la comunità ecclesiale e tutta la società in una riflessione sull’importanza della scuola come ambiente educativo, nel quadro degli orientamenti pastorali per il decennio in corso Educare alla vita buona del Vangelo.
Con questo spirito è stato costruito anche questo laboratorio nazionale, nella cui organizzazione sono coinvolti, oltera a questo ufficio, il Servizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica, l’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia e il Servizio nazionale per la pastorale giovanile
L’obiettivo di questo primo incontro è fare il punto su alcuni nodi centrali della scuola e della formazione professionale: per aiutarci a raggiungere questo scopo, stiamo preparando un breve dossier che sarà pubblicato online sul sito dell’ufficio.
 
  
Relazione introduttiva del Cardinale Angelo Bagnasco
Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
 
 Andrea Gavosto
Direttore della Fondazione Giovanni Agnelli
 
Elisa Manna
Responsabile politiche culturali,Censis
 
Marco Tibaldi
Docente di filosofia e storia
 
Gruppi di lavoro:
 
 
Onorato Grassi
Ordinario di storia della filosofia medievale – LUMSA
 
  
S.E.Mons. Gianni Ambrosio
Vescovo di Piacenza-Bobbio e Presidente della Commissione Episcopale
per l’educazione, la scuola e l’università
 

Quali “alleanze” per uscire dalla crisi?

“Stiamo vivendo una crisi globale che non è soltanto prevalentemente economica ma è crisi di valori, crisi di identità che determina disorientamento, scoraggiamento e difficoltà di dialogo. Occorre una buona capacità di lettura del tempo presente per dare risposte forti ai bisogni educativi e non solo che da ogni parte giungono. Saper leggere la cultura del proprio tempo aiuta a prevenire disagi e a escogitare strategie per rispondere alle sfide educative con concretezza, competenza e coerenza, coniugando fede e professionalità. “Fare rete” è una delle espressioni più usate e abusate, dal momento che la rete troppo spesso rimane nel dichiarato, in assenza di umiltà, capacità di collaborare sulla base di una corresponsabilità effettivamente sentita e agita”.
 

il Papa: «Troppa curiosità per il futuro ci allontana da Dio»

Lo spirito di curiosità genera confusione e ci allontana dallo Spirito della sapienza che, invece, ci dà pace: è quanto ha affermato stamani il Papa nella Messa celebrata nella Cappella di Casa Santa Marta, in Vaticano. 
L’omelia del Papa inizia con il commento sulla prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, dove si descrive “lo stato d’animo dell’uomo e della donna spirituale”, del vero cristiano e della vera cristiana che vivono “nella sapienza dello Spirito Santo. E questa sapienza li porta avanti con questo spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile”:
“Questo è camminare nella vita con questo spirito: lo spirito di Dio, che ci aiuta a giudicare, a prendere decisioni secondo il cuore di Dio. E questo spirito ci dà pace, sempre! E’ lo spirito di pace, lo spirito d’amore, lo spirito di fraternità. E la santità è proprio questo. Quello che Dio chiede ad Abramo – ‘Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile’ – è questo: questa pace. Andare sotto la mozione dello Spirito di Dio e di questa saggezza. E quell’uomo e quella donna che camminano così, si può dire che sono un uomo e una donna saggia. Un uomo saggio e una donna saggia, perché si muovono sotto la mozione della pazienza di Dio”
Ma nel Vangelo – sottolinea il Papa – “ci troviamo davanti ad un altro spirito, contrario a questo della sapienza di Dio: lo spirito di curiosità”: 
“E’ quando noi vogliamo impadronirci dei progetti di Dio, del futuro, delle cose; conoscere tutto, prendere in mano tutto… I farisei domandarono a Gesù: ‘Quando verrà il Regno di Dio?’. Curiosi! Volevano conoscere la data, il giorno… Lo spirito di curiosità ci allontana dallo Spirito della sapienza, perché soltanto interessano i dettagli, le notizie, le piccole notizie di ogni giorno. O come si farà questo? E’ il come: è lo spirito del come! E lo spirito di curiosità non è un buono spirito: è lo spirito di dispersione, di allontanarsi da Dio, lo spirito di parlare troppo. E Gesù anche va a dirci una cosa interessante: questo spirito di curiosità, che è mondano, ci porta alla confusione”. 
La curiosità – prosegue il Pontefice – ci spinge a voler sentire che il Signore è qua oppure è là; o ci fa dire: “Ma io conosco un veggente, una veggente, che riceve lettere della Madonna, messaggi dalla Madonna”. E il Papa commenta: “Ma, guardi, la Madonna è Madre! E ci ama a tutti noi. Ma non è un capoufficio della Posta, per inviare messaggi tutti i giorni”. “Queste novità – afferma – allontanano dal Vangelo, allontanano dallo Spirito Santo, allontanano dalla pace e dalla sapienza, dalla gloria di Dio, dalla bellezza di Dio”. Perché “Gesù dice che il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione: viene nella saggezza”. “Il Regno di Dio è in mezzo a voi!”, dice Gesù: è “questa azione dello Spirito Santo, che ci dà la saggezza, che ci dà la pace. Il Regno di Dio non viene nella confusione, come Dio non parlò al profeta Elia nel vento, nella tormenta” ma “parlò nella soave brezza, la brezza della sapienza”:
“Così Santa Teresina – Santa Teresa di Gesù Bambino – diceva che lei doveva fermarsi sempre davanti allo spirito di curiosità. Quando parlava con un’altra suora e questa suora raccontava una storia, qualcosa della famiglia, della gente, alcune volte passava ad un altro argomento e lei aveva voglia di conoscere la fine di questa storia. Ma sentiva che quello non era lo spirito di Dio, perché era uno spirito di dispersione, di curiosità. Il Regno di Dio è in mezzo a noi: non cercare cose strane, non cercare novità con questa curiosità mondana. Lasciamo che lo Spirito ci porti avanti, con quella saggezza che è una soave brezza. Questo è lo Spirito del Regno di Dio, di cui parla Gesù. Così sia”.
 
Sergio Centofanti per Radio Vaticana

“Internazionalizzazione degli studi, universalità del sapere”

L’evento di apertura della “Settimana dell’università” della FUCI si terrà lunedì 18 novembre 2013 (ore 11-13.30) presso l’Aula Magna della Facoltà di Economia (Piazza Scaravilli 2, Bologna). Il tema sarà “Internazionalizzazione degli studi, universalità del sapere. L’Università italiana a quindici anni dal Processo di Bologna”. L’evento si aprirà con il saluto delle Autorità Accademiche, dei Presidenti Nazionali della  FUCI e di don Maurizio Viviani, Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della Cei.

“Internazionalizzazione degli studi, universalità del sapere”. Questo vuole essere un modo per riflettere all’interno dei nostri gruppi e dei nostri Atenei da un lato sul processo di internazionalizzazione dell’università, in particolare sulle riforme che hanno coinvolto e coinvolgeranno i Paesi europei nell’intento di creare un progetto comune di formazione, che garantisca anche maggiori collegamento e comunicabilità tra i diversi sistemi universitari. A che punto è questo processo? In cosa deve ancora realizzarsi e quali sono le difficoltà? Quali conseguenze ha portato, sia in termini positivi che problematici? Dall’altro lato vorremmo interrogarci su come questo processo si rapporta all’esigenza di un sapere che non sia troppo tecnico e parcellizzato, che mantenga un’elevata qualità e sia in grado di insegnare un metodo e di dialogare con saperi e competenze differenti.

La Chiesa per la scuola nella comunità

La Conferenza Episcopale Triveneta promuove (con la collaborazione di FISM, FIDAE, AGESC, CdO, CONFAP, FORMA Veneto, MSC, AGIDAE, AIMC, UCIIM, AGE, MSAC, CISM, USMI e Festival della Dottrina Sociale della Chiesa) la Quarta Conferenza sulla scuola e la formazione professionale sul tema “La Chiesa per la scuola nella comunità”, che si svolgerà a Verona domenica 23 novembre 2013 dalle ore 9 alle 13.
Il primo momento si terrà nell’Auditorium della Gran Guardia (piazza Bra) dalle ore 9 alle 11. Sarà presieduto da S.E. Mons. Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia e Presidente della Conferenza Episcopale Triveneta. Parteciperanno S.E. Mons. Giuseppe Zenti, Vescovo di Verona, e S.E. Mons. Andrea Tessarollo, Vescovo di Chioggia.
Alle ore 11 avrà inizio la “Marcia per la città” (seguendo questo percorso: Piazza Bra, Liston, Via Oberdan, Corso Portoni Borsari, Via Garibaldi, Via Pacifico, Duomo). Il momento conclusivo si terrà nella Chiesa Cattedrale, con la Celebrazione della Santa Messa presieduta dal Vescovo di Verona.
Proponendo la IV Conferenza, le Diocesi del Triveneto intendono continuare il cammino intrapreso qualche anno fa a favore della scuola, per evidenziare la fecondità e preziosità del sistema educativo di istruzione e di formazione (dalla Scuola dell’infanzia alla Secondaria di Secondo grado e ai Centri di Formazione Professionale) presente nel territorio. L’incontro, che conclude il Festival della Dottrina Sociale della Chiesa, è pensato in vista della grande manifestazione di popolo denominata “La Chiesa per la scuola”, promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana, che si terrà il 10 maggio 2014 in piazza S. Pietro a Roma con la presenza di Papa Francesco.
 
Info Utili. Indicazioni per il parcheggio per i pullman: carico e scarico momentaneo: Porta Nuova; per le auto: zona Fiera (con servizio navetta) oppure in città.
Per ulteriori informazioni, rivolgersi a Vicentini Davide (347.2388190; davide.vicentini@fondazionetoniolo.it).
 

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Malachia 3,19-20

Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germoglio. Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.

 

Il libretto di Malachia pare si concluda con l’annunzio del giorno del Signore, quale risposta al lamento di alcuni israeliti (3,19-21). Questi si rammaricano di fronte al problema del male in questo mondo: «che vantaggio ne abbiamo dall’aver osservato i comandamenti, se i superbi, pur provocando Dio, restano impuniti?» (3,14s). Il Signore mostra loro «il suo Libro delle memorie», secondo cui coloro che temono Dio saranno «sua proprietà nel giorno che Lui prepara», giorno di luce per i giusti, di fuoco e di cenere per gli empi (3,19-21). L’opera di Ml impostata sopra una serie di 6 dialoghi tra Dio e varie categorie di fedeli

sembra termini qui con quest’ultima dichiarazione del Signore. I versi che seguono (3,22-24) sul ritorno del profeta Elia probabilmente sono dovuti a un redattore finale con l’intento di chiudere più serenamente i vaticini del messaggero di JHWH (3,1).

     Note esegetiche. – «Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno» (v. 19). Si tratta del giorno escatologico: l’era già preannunziata da antecedenti profeti (Am 5,18-20; Gl 2,1-3; Sof 1,7-18…), in cui si attendeva un intervento decisivo e grandioso del Dio d’Israele, descritto con termini immaginari delle teofanie e dei grandi sconvolgimenti della natura e della storia. L’immagine del fuoco ardente di una fornace (Is 31,9), che brucerà la paglia e ridurrà in cenere radici e rami da l’idea esatta dell’ineluttabile giudizio divino; esso abbatterà gli orgogliosi (zedîm, nel senso di arroganti: 3,15), coloro cioè che osano provocare l’Altissimo (v. 15) e gli operatori di iniquità, in opposizione ai giusti che hanno osservato i comandi del Signore (3,14); di essi non resterà nulla, come viene efficacemente confermato dalla doppia metafora: bruciatura della paglia e incenerimento di rami e radici (cf. Gb 18,16s), vale a dire scomparsa di eredi, di genitori e di loro aderenti.

     — «Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (v. 20). Lett. «voi, che avete timore del mio nome», cioè che venerate il supremo Signore (il nome, nel concetto ebraico, sta in vece della persona), e quindi ne adempite di voleri (cf. Dt 3,14; 10,12…). L’immagine del sole alato, radioso, era molto diffusa nella simbolica orientale: la si trova nelle stele egiziane, nei sigilli e monumenti di Siria: rappresentava il fulgore della Divinità (come il dio Râ per l’Egitto), difensore del diritto e apportatore di benessere. Il profeta la utilizza per descrivere l’intervento del Dio giusto e Salvatore a favore dei suoi eletti, in sintonia con precedenti espressioni bibliche. Il sorgere del sole era indice del nuovo giorno, e di una vita rinnovata, come in Is 30,26: la luce del sole apparirà, quando Dio verrà a risanare il suo popolo. La giustizia solare non sarà solo il ristabilimento dell’ordine e dell’equità, ma la sedaqah isaiana, cioè l’attuazione dell’alleanza divina, la restaurazione della pace, la salvezza piena (Is 41,2; 46,13; Sal 22,32). Ma più espressamente viene detto che il sole sarà apportatore di guarigione. La frase della trad. CEI «con raggi benedici», a parola può essere resa con «recante guarigione nelle sue ali»: la radice rafa’ ebraica ha il senso fondamentale di «risanare da un’infermità». Il sole divino in quel giorno avrebbe conferito ai cultori dell’Onnipotente la liberazione da tutte le loro piaghe (cf. Ger 33,6; Is 57,18s): non solamente quindi pace e salvezza nella mente e nel cuore, ma una restaurazione integrale in tutto l’essere umano, anche corporale; con tenue accenno, forse, alla riabilitazione dal sepolcro secondo il Salmo 16,10.

     Il portavoce del Dio vivente ha offerto così ai suoi uditori, e in loro anche a noi, la più confortante rassicurazione per quanto riguarda il ricorrente problema dell’arroganza dei malvagi in questo nostro mondo: una parola indefettibile, «dice il Signore degli eserciti» (v. 19), confermata dal Salvatore divino: «cielo e terra passeranno, le mie parole mai» (Lc 21,33); nel «Libro delle memorie» è già indelebilmente segnato il giorno di fuoco e il sorgere del sole sfolgorante, il giudizio cioè del Signore supremo, che farà tacere per sempre la provocazione e la prepotenza, mentre il fulgore del suo volto ricoprirà di gloria imperitura chi lo ha servito fedelmente. 

Seconda lettura: 2Tessalonicesi 3,7-12

Fratelli, sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.

 

Al termine della 2a lettera ai tessalonicesi S. Paolo sta dando le raccomandazioni finali, ribadendo quel che aveva già detto nella prima (1Ts 4,7-12: vivere nella santità e nella carità fraterna, procurandosi con l’onesto lavoro il proprio sostentamento). Forse gli era arrivata qualche specifica notizia su quest’ultimo argomento: vi erano in comunità individui che si comportavano disordinatamente contro le direttive già date (v. 6), andavano in giro, diffondendo pettegolezzi e pretendendo di assidersi alla mensa degli altri. L’apostolo ha l’occasione di esporre più distintamente il suo pensiero in proposito.

     Note esegetiche. – «sapete in che modo dovete prenderci a modello» (v. 7).

     Propone anzitutto il suo esempio, quale apostolo inviato da Cristo. Egli avrebbe avuto certamente il diritto a ricevere dai fratelli la sua ricompensa, come ha disposto lo stesso Maestro divino: «chi annunzia il Vangelo, viva del Vangelo» (1Cor 9,14; Mt 10,9; Lc 10,7). Tuttavia non se ne è avvalso (cf. però Fil 4,15), vi ha rinunziato liberamente (1Cor 9,15) e non è stato mai in ozio tra i fratelli che evangelizzava, ma si è dato da fare esercitando il suo mestiere manuale durante il giorno e, se occorreva, anche di notte (probabilmente si trattava dell’arte di tessitore di tende). Per i greci il lavoro fisico era un disonore: l’uomo libero lo riservava agli schiavi. I rabbini invece lo apprezzavano molto. L’apostolo di Cristo, pur non essendo obbligato, lo esercita con una speciale motivazione: non poteva essere disprezzato dai credenti di origine greca, perché egli assumeva quelle fatiche per sua libera scelta; e allo stesso tempo era di esempio e di incitamento a tutti coloro ai quali inculcava di vivere decorosamente con il proprio lavoro.

     — «A questi taliordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (v. 12).

     Non si contenta di dimostrare il suo comportamento, ma aggiunge un preciso comando; impegna la sua autorità di rappresentante di Cristo, «nel nome del Signore Gesù». Egli non obbliga nessuno a esercitare l’apostolato del tutto gratuitamente; ma adesso si tratta di veri abusi: di gente che invece di evangelizzare, va suscitando malintesi e contrasti e pretende di farsi mantenere dalle stesse comunità che sta disgregando! Paolo si sente in dovere di intervenire energicamente: costoro la finiscano di andare in giro a danno degli altri e imparino a trovar di che vivere dalla propria fatica (vv. 11 s); e diversamente, siano tenuti lontani dei comuni rapporti, pur guardandoli sempre come fratelli (vv. 14s).

     In conclusione, il pensiero dell’apostolo è chiaro. L’operaio evangelico è «degno della sua mercede» (Lc 10,7). Egli tuttavia, se vuole, può rinunziarvi nei limiti consentiti dalle sue attività apostoliche, per rendersi indipendente col proprio lavoro dalla comunità che evangelizza. A nessuno però che ha accettato di impegnarsi nel ministero del culto e della parola, è lecito vivere in ozio, senza attendere ai compiti assunti, o peggio seminando discordie e liti, e pretendere di essere sostentato dai fratelli nella fede; si trovi, in tal caso, un’onesta occupazione e si comporti con dignità e in pace con tutti! Una saggia esortazione che è valida e opportuna anche per i nostri tempi!

Vangelo: Luca 21,5-19 

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». 

 

Esegesi 

     Il nostro brano fa parte del discorso escatologico con cui Luca conclude il suo Vangelo prima del racconto della Passione, (21,5-36). Ha molte somiglianze con l’analogo discorso di Marco (Mc 13,1-34); ma se ne allontana in tratti significativi. Ne possiamo dedurre una visione più chiara degli eventi cui ci si riferisce, e delle raccomandazioni date dal divin Maestro in quelle circostanze. L’occasione dell’intero discorso (divisibile in due parti: a- vv. 5-19; b- vv. 20-36) è offerta dalla richiesta di alcuni sull’epoca precisa della distruzione del Santuario ebraico: «quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno» (v. 7).

     Note esegetiche. – La risposta di Gesù, in Lc, 1a parte, viene presentata con immagini apocalittiche e insieme con indicazioni molto concrete. L’evento preannunziato sarà così terribile che lo stesso Gesù nel richiamarlo in Lc 19,41-44 non poté frenare il pianto; e per descriverlo adeguatamente ha fatto ricorso agli scenari sconvolgenti con cui i profeti predicevano i grandi disastri collettivi del loro tempo: «vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo» (Lc 21,11); cf. Is 24,18 «le cateratte dell’alto si aprono, si scuotono le fondamenta della terra»; Ez 32,7s: «quando cadrai, oscurerò il sole e gli astri…»; per la caduta dell’Egitto e di Babilonia.

     Mentre però Mc (con Mt) pone al primo posto come segni precursori l’apparire dei falsi messia, le guerre, le pestilenze, le catastrofi naturali, e poi in secondo luogo le persecuzioni dei discepoli del Cristo, (Mc 13,9; Mt 24,9), Luca capovolge la situazione: «Ma prima di tutto questo (fenomeni terrificanti) metteranno le mani su di voi » (Lc 21,13): si verificheranno cioè le violenze e le calunnie contro i predicatori del Vangelo, « traditi perfino dai genitori…. sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (vv. 16s). Ma subito Gesù si premura di rassicurare i suoi amici: nulla varrà a turbare la loro pace, «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» (v. 18); nessuno potrà fare loro alcun male, contro il volere del Padre; si fidino totalmente di Lui, e conseguiranno sicuramente la vera salvezza nel suo Regno: «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (v. 19). L’asprezza delle persecuzioni dei discepoli e il desiderio di premunirli contro ogni paura e scoraggiamento sembra predominare nell’attenzione del divino Maestro sul punto di lasciare quaggiù il suo piccolo gregge.

     Nella 2a parte, poi, del discorso (vv. 20-36) il Maestro dà un’indicazione molto concreta del segno rivelatore richiesto: l’assedio della città santa, nominata qui 2 volte (vv. 20-24), da parte di eserciti nemici. In Mc e Mt si parla solo di «presenza dell’abominazione sul luogo sacro, dove non deve» (Mc 13,14; Mt 24,15), senza che mai si nomini Gerusalemme.

Simultaneamente Gesù ha aggiunto nuovi avvertimenti per i suoi amici: fuggano sui monti, si allontanino dai dintorni della città, poiché Gerusalemme sarà calpestata dai pagani e il suo popolo sarà disperso tra le genti… vedranno allora il Figlio dell’uomo venire sulle nubi… e avvicinarsi il regno di Dio, il suo giudizio e la liberazione dei suoi fedeli e testimoni… (vv. 21-24.31.36).

     Si delinea così in Lc 21, nei riguardi degli eventi preannunziati da Gesù nel suo ultimo discorso, una prospettiva più chiara, che negli altri due sinottici (Mt 24; Mc 13). Primo fatto premonitore sarà l’accanita persecuzione contro gli evangelizzatori del Cristo risorto (vv. 12-17; cir. At 4-12); seguiranno grandi calamità e rivolgimenti tra i popoli, designati già con termini escatologici (vv. 9-11 «con grandi segni dal cielo»); e infine l’assedio di Gerusalemme a opera delle legioni romane, che segnerà l’inizio della più tragica catastrofe del popolo ebreo, l’incenerimento del Tempio e la dispersione tra le genti: come si è esattamente verificato nel 70 d.C. Fu come lo sfacelo del cosmo e il ricadere nel buio primordiale: «vi saranno segni nella luna e nelle stelle… le potenze dei cieli saranno sconvolte» (vv. 25s).

     Molto probabilmente il Signore Gesù ha inteso parlare direttamente solo della completa rovina del Santuario e, in più, della diaspora del popolo ebreo per il mondo; e ovviamente l’ha fatto con lo stile ben noto dei vaticini biblici; in modo da consegnare ai suoi discepoli le più opportune direttive per le difficili prove che li attendevano. Ne abbiamo un parallelo anche nel discorso di addio nel Vangelo di Giovanni: «hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi… tutto questo vi faranno a causa del mio nome (Gv 15,20s); vi scacceranno dalle sinagoghe… chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio… vi ho detto queste cose perché, quando verrà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato» (Gv 16,2.4). E in Lc 21 vien detto: «vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza… (vv. 12s); quando vedrete accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina… (v. 28); vegliate e pregate, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere» (vv. 28.36).

     Era una pressante esortazione agli uditori a non farsi travolgere dalle vicissitudini e dalle opposizioni del mondo, a perseverare nella fede in Lui, nella coraggiosa proclamazione del suo Vangelo d’amore tra le genti, e nella ferma speranza di raggiungerLo nella gloria imperitura della sua risurrezione.

     Poiché però nel piano del Rabbì di Nazaret il Vangelo del regno doveva essere predicato a tutti i popoli della terra fino alla consumazione dei secoli (Mc 16,5; Mt 28,19s), quel che egli diceva a quei primi suoi seguaci intendeva certamente raccomandarlo a coloro che avrebbero creduto in Lui per la loro testimonianza (Gv 17,20), nelle situazioni di disagio e di persecuzione che si sarebbero riprodotte nelle successive generazioni.

 

Meditazione 

       Il messaggio escatologico di questa domenica comprende l’annuncio della venuta del giorno del Signore che sarà di giudizio per gli uni e di salvezza e guarigione per altri (I lettura) e un’esortazione alla perseveranza e alla vigilanza rivolta da Gesù ai suoi discepoli e, attraverso di loro, ai futuri credenti, affinché non si lascino prendere dalla paura e dall’angoscia della fine di fronte a eventi catastrofici e a persecuzioni (vangelo). Lungi dall’essere segno di una pretesa imminente fine del mondo, questi eventi vanno accolti come occasione di martyría (Lc 21,13), di testimonianza. Nel testo evangelico odierno non si tratta della fine del mondo, ma di ciò che avviene «prima» (Lc 21,9.12), nella storia, che appare così il tempo della faticosa perseveranza.

Luca sottolinea la diversità di sguardo che Gesù da una parte e «alcuni» dall’altra portano sul tempio. Se questi sconosciuti e innominati ammirano la dimensione estetica delle «belle pietre» (Lc 21,5) del tempio e i doni votivi che lo adornano, Gesù ne vede con sguardo disincantato e lucido la fine prossima. Come il tempio (e il suo sistema di offerte e di santificazione), anche tutte le costruzioni e realizzazioni più sante e spirituali dell’uomo sono caduche, finite. Non sono esse a dover trattenere lo sguardo e l’attenzione, ma il Signore che viene e di cui esse vogliono essere solo un segno.

Nei tempi della storia il cristiano deve allenarsi al discernimento.

Anzitutto il discernimento come opposizione all’inganno. Occorre infatti riconoscere i «molti» che si presenteranno come detentori della verità e portatori della rivelazione, che usurperanno il titolo solo d’istologico «Io sono» (Lc 21,8) per indurre qualcuno a seguirli. Lo spazio religioso ed ecclesiale è anche scenario di inganni e di imposture che si manifestano anzitutto con la loro pretesa di verità assoluta e non discutibile. Il cristiano è chiamato a discernere e a saper dire dei no: il comando «non seguiteli» è altrettanto forte del comando dato altre volte da Gesù: «seguitemi». Occorre sempre diffidare di chi pretende di sapere quale sia la volontà di Dio sulle persone e imporla loro.

Inoltre si tratta di discernere guerre e sommovimenti storici, così come catastrofi e disastri naturali, senza pensarli come eventi annunciatori della fine del mondo (Lc 21,9-11). Il discernimento qui è attiva lotta contro la paura e la potenza inibente del terrore ( «Non vi terrorizzate»: Lc 21,9). E conduce all’umiltà di chi riconosce che il proprio tempo non è la totalità del tempo, che la propria vicenda non è la totalità della storia e che la propria fine non coincide con la fine di un tempo e di una storia che superano ciascun uomo.

La storia diviene così per il credente il luogo di esercizio della perseveranza e della pazienza. Persecuzioni e tradimenti, ostilità anche da parte degli amici e dei famigliari potranno segnare la vita di coloro che aderiscono al Messia Gesù, ma grazie alla sofferta perseveranza essi potranno custodire la loro anima (Lc 21,19). Mentre esperimentano la fine di relazioni e fedeltà, mentre intravedono la loro stessa fine, essi possono conoscere la salvezza delle proprie vite e trarre come bottino, dalla battaglia che la vita e la storia impongono loro, la loro anima (cfr. Ger 45,5).       

Ci sono tempi difficili e bui in cui al credente è chiesto semplicemente di resistere, di rimanere saldo, di custodire l’interiorità di mantenere la fede, di salvaguardare la propria umanità, di preservare la propria anima dal caos e dalla confusione. E questo sarà come chicco di grano caduto a terra che darà frutto. Scrisse Dietrich Bonhoeffer in tempi particolarmente duri e difficili dal carcere di Tegel nel 1944: «Noi dovremo salvare, più che plasmare la nostra vita, sperare più che progettare, resistere più che avanzare. Ma noi vogliamo preservare a voi giovani, alla nuova generazione, l’anima con la cui forza voi dovrete progettare, costruire e plasmare una vita nuova e migliore». La perseveranza che salva l’anima non è dunque nulla di intimistico, ma atto della responsabilità storica di chi osa pensare il futuro oltre e dopo di lui.

 

Preghiere e racconti

Fedeltà

Forse a voi non verrà chiesto il sangue, ma la fedeltà a Cristo certamente sì! Una fedeltà da vivere nelle situazioni di ogni giorno: penso ai fidanzati ed alla difficoltà di vivere, entro il mondo di oggi, la purezza nell’attesa del matrimonio. Penso alle giovani coppie e alle prove a cui è esposto il loro impegno di reciproca fedeltà. Penso ai rapporti tra amici e alla tentazione della slealtà che può insinuarsi tra loro. Penso anche a chi ha intrapreso un cammino di speciale consacrazione ed alla fatica che deve a volte affrontare per perseverare nella dedizione a Dio e ai fratelli. Penso ancora a chi vuol vivere rapporti di solidarietà e di amore in un mondo dove sembra valere soltanto la logica del profitto e dell’interesse personale o di gruppo. Penso altresì a chi opera per la pace e vede nascere e svilupparsi in varie parti del mondo nuovi focolai di guerra; penso a chi opera per la libertà dell’uomo e lo vede ancora schiavo di se stesso e degli altri; penso a chi lotta per far amare e rispettare la vita umana e deve assistere a frequenti attentati contro di essa, contro il rispetto ad essa dovuto.

(Giovanni Paolo II – GMG di Roma).

Pazienza e perseveranza

E veniamo a quell’energia dello Spirito costituita dalla lotta, alla quale ci si dedica impugnando la spada dello Spirito e la forza della gloria di Dio. All’interno di questa lotta si colloca la più importante virtù cristiana, che è la pazienza. La mirabile hypomone evangelica non ha nulla a che vedere con analoghe virtù stoiche o con particolari atteggiamenti o forme di resistenza propri del paganesimo. «Anche noi non cessiamo di pregare per voi… perché possiate piacere in tutto al Signore, rafforzandovi con ogni energia secondo la potenza della sua gloria, per poter essere forti e pazienti in tutto» (Col 1,9-11), dice Paolo ai cristiani di Colossi. Questa forza di Dio, che è la forza dello Spirito, è il tratto peculiare dei cristiani. Chi dipende totalmente dalla Parola porterà il frutto della Parola nell’hypomone, «nella pazienza», come ricorda Luca. Un tale uomo trattiene e (nel senso più forte del termine) custodisce la Parola. Egli si stringe a essa contro ogni speranza e al di là di ogni speranza, tutto proteso in avanti nell’attesa, lacerato dal desiderio e tuttavia sempre sostenuto da un grande senso di fiducia. Tutte queste cose sono contenute in un detto che, con ogni probabilità, fa parte degli ipsissima verba Iesu: «In patientia vestra possidebitis animas vestras», «Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime» (Lc 21,19). In greco e in latino è una frase che risuona in modo abbastanza enigmatico. Se però cerchiamo di farne la retroversione aramaica, penso che il significato che ne emerge sia il seguente: «Nella pazienza voi assumerete i vostri veri volti», cioè»sarete pienamente voi stessi». La vera personalità cristiana di ciascuno di noi si realizza attraverso la pazienza, la perseveranza nella lotta.

(Tatto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella), 2001, pp. 9-20).

Sosta nel cammino

Due boscaioli lavoravano nella stessa foresta ad abbattere alberi. Usavano le loro asce con identica bravura, ma con una diversa tecnica.

Il primo colpiva il suo albero con incredibile costanza, un colpo dietro l’altro, senza fermarsi se non per prender fiato rari secondi. Il secondo boscaiolo faceva una discreta sosta ogni ora di lavoro. Al tramonto il primo boscaiolo era a metà del suo albero, il secondo era incredibilmente al termine del suo tronco.

Avevano cominciato insieme e i due alberi erano uguali. Il primo boscaiolo non credeva ai suoi occhi: “Come hai fatto ad andare così veloce se ti fermavi ogni ora?”

L’altro sorrise: “hai visto che mi fermavo ogni ora. Ma non hai visto che approfittavo della sosta per affilare la mia ascia”.

Dagli scritti di San Francesco di Assisi

«E tutti coloro che faranno tali cose e persevereranno fino alla fine, riposerà su di essi lo Spirito del Signore ed egli ne farà la sua dimora, e saranno figli del Padre celeste di cui fanno le opere, e sono sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo sposi, quando per lo Spirito Santo l’anima fedele si unisce a Gesù Cristo. Siamo fratelli suoi, quando facciamo la volontà del Padre suo che è in cielo. Siamo madri sue quando lo portiamo nel cuore e nel nostro corpo con l’amore e con la pura e sincera coscienza e lo generiamo attraverso sante opere che devono splendere agli altri in esempio».

Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime

Nel tempo della prova è di grande aiuto la perseveranza secondo il volere di Dio. Dice infatti il Signore: Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime (Lc 21,19). Non ha detto: «con il vostro digiuno», ne «con la vostra quiete in solitudine», ne «con la recita dei salmi». Tutto questo vi è certamente utile, ma ha detto: «con la vostra perseveranza». Con la perseveranza, vuole dire, in ogni prova che vi giungerà, in ogni afflizione, che si tratti di un’offesa, del disprezzo, del disonore arrecato da un uomo importante o da uno qualsiasi, di una malattia, dell’assalto di guerre scatenate dal demonio, di una prova di qualunque genere provocata dagli uomini o dai demoni. Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime; non soltanto con la vostra perseveranza, ma anche con l’azione di grazie, la preghiera, l’umiltà in modo da benedire, innalzare inni a Dio, Salvatore di tutti, al benefattore, a colui che tutto volge e guida al vostro bene, sia che si tratti di qualcosa di buono o di meno buono. E l’Apostolo scrive: Corriamo con perseveranza la corsa della fede che ci sta innanzi (Eb 12,1 ). Che vi è di meglio di questa virtù? Che vi è di più solido e di più utile della perseveranza, della perseveranza secondo Dio, voglio dire, la regina delle virtù, il fondamento delle opere buone, il porto al riparo dai flutti? Essa, infatti, dona pace nei conflitti, tranquillità in mezzo alla tempesta, sicurezza nelle insidie e nei pericoli. Essa rende colui che la vive più resistente dell’acciaio. Ne le armi, ne archi da guerra, ne eserciti schierati […] ne l’esercito dei demoni, ne le truppe tenebrose delle potenze avverse, ne il diavolo stesso con tutto il suo esercito e i suoi stratagemmi non potrà fare alcun male a chi ha acquistato la perseveranza in Cristo.

(NILO DI ANCIRA, Lettere III, 35, PG 79, 403D-404C).

…dal cavallo al cammello

«Chi non risponde alla Parola diventa sordo» (Martin Buber). L’accompagnamento non può che portare alla consapevolezza che, come ci ricorda NVNE, «tutta la vita è una risposta» (26/e) e, quindi, a saper scorgere le continue chiamate di Dio in ogni stagione della propria esistenza. È il faticoso passaggio dal cavallo al cammello.

Un cavallo va bene per la bellezza, la forza, la velocità e la razza, per godersi una cavalcata, gareggiare e vincere un premio. Tutto molto bello. Ma poi nella vita ci sono anche i deserti, e là il migliore dei cavalli è inutile e la velocità non serve. Il cavallo si spazientirà, diverrà irrequieto, gli zoccoli affonderanno nella sabbia. Il suo respiro brucerà nel calore e la bestia s’imbizzarrirà, cadrà e morirà nelle sabbie spietate. I cavalli non sono per il deserto.

I cammelli sì! Il cammello s’incamminerà e andrà avanti. Anche senza cibo, senz’acqua, senza redini, senza direzione, andrà avanti costantemente, fedelmente, sicuramente, manterrà la rotta, attraverserà il deserto, raggiungerà l’acqua e salverà se stesso e il suo cavaliere. La tenace perseveranza di mantenere fermamente la rotta nelle circostanze peggiori è una dote preziosa per sopravvivere in questo mondo. Noi tutti abbiamo bisogno di un cammello nelle nostre stalle.

(Antonio LADISA, La direzione spirituale oggi: perché?, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 30).

Il coraggio di osare

Signore Gesù, fammi conoscere chi sei.

Fa sentire al mio cuore la santità che è in te.

Fa’ che io veda la gloria del tuo volto.

Dal tuo essere e dalla tua parola, dal tuo agire e dal tuo disegno,

fammi derivare la certezza che la verità e l’amore

sono a mia portata per salvarmi.

Tu sei la via, la verità e la vita.

Tu sei il principio della nuova creazione.

Dammi il coraggio di osare.

Fammi consapevole del mio bisogno di conversazione,

e permetti che con serietà lo compia, nella realtà della vita quotidiana.

E se mi riconosco, indegno e peccatore, dammi la tua misericordia.

Donami la fedeltà che persevera e la fiducia che comincia sempre,

ogni volta che tutto sembra fallire.

(Romano Guardini).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIII DOM TEMP ORD (C)

La scuola che mi aiuta a crescere – Convegno Insegnanti

Ad un anno di distanza dal I convegno nazionale degli insegnanti promosso dall’Azione Cattolica Italiana, la riflessione e l’impegno per una elaborazione condivisa continuano.

I numerosi aderenti di Azione Cattolica che vivono e lavorano quotidianamente nella scuola non si rassegnano di fronte agli scenari con cui solitamente viene descritto il mondo della scuola: mancanza di un orizzonte ampio e profondo entro cui disegnare insieme la scuola del terzo millennio; incapacità a cogliere in una scuola davvero rinnovata la vera possibilità di crescita di un Paese; perdita di senso e di capacità attrattiva del mestiere dell’insegnante. E’ necessario condividere con tutti il patrimonio di esperienze, riflessioni, buone prassi formative e didattiche che, pur tra mille difficoltà e limiti, la nostra scuola in ogni angolo del Paese vive e costruisce ogni giorno. E’ necessario inoltre immaginare insieme un nuovo modo di “essere e fare scuola” che, partendo dall’esperienza concreta dell’aula e della sala insegnanti, giunga a delineare percorsi formativi rigenerati ed una ri-motivata professionalità docente.

“Stanno emergendo nuovi modelli di insegnamento pensati per trasformare l’educazione scolastica da contesto competitivo a esperienza collaborativa ed empatica, mentre le scuole e le università cercano di attrarre una generazione che è cresciuta in internet ed è abituata ad interagire nelle reti sociali aperte, nelle quali l’informazione è scambiata, non accumulata. L’approccio tradizionale, che considera il sapere un potere da utilizzare per il guadagno personale, viene progressivamente sostituito dall’idea che la conoscenza sia un’espressione della responsabilità condivisa, tesa al benessere dell’umanità” (1).  

Ci chiediamo: in questo tempo di crisi non solo economica e finanziaria, quale valore aggiuntorappresenta la scuola in Italia? Quali sfide culturali e sociali è chiamata ogni giorno a raccogliere, nonostante le poche risorse a disposizione, le scarse e fragili alleanze, una politica di corto respiro che oltre “lavoro di cacciavite” e ai “tagli lineari” poco altro ha saputo offrire alla scuola negli ultimi anni? Quali risposte di senso sono chiamati a dare oggi gli insegnanti? Con quali strumenti e strategie?

Vogliamo ripartire dall’idea di crescita, costantemente citata in ambito politico, economico e finanziario quale autentica leva da cui ripartire per risollevare il Paese, l’Europa, l’Occidente dalla crisi generale e globale che investe tutti. Ci chiediamo innanzitutto se è corretto parlare di crisi: chi lavora in ambito formativo sa che “crisi” può essere inteso anche il momento di transizione, non necessariamente negativo, nello sviluppo della persona o nel percorso storico di una civiltà. Un momento di passaggio dunque che può condurre anche alla crescita. Pare invece che il tempo presente – proprio dai disagi e dalle domande di vita che emergono sui banchi di scuola – rappresenti l’esito inevitabile del fallimento di un determinato modello di civiltà, che ha creduto più nel potere del denaro che in quello dell’educazione e della formazione; che ha investito nel potere del mercato e non in quello dell’aula scolastica, come luogo in cui promuovere e realizzare la vera crescita  e l’autentico benessere di una persona, di una comunità, di una civiltà.

Ci chiediamo: in quali luoghi e attraverso quali relazioni avviene oggi il necessario dialogo formativo che consente alle giovani generazioni di capire se stessi, gli altri, la società in cui sentirsi accolti, ascoltati, valorizzati, aiutati a comprendere, a crescere e a partecipare in un contesto in continuo cambiamento? E’ davvero possibile ipotizzare una nuova crescita sociale, culturale ed economica senza la valorizzazione della famiglia e della scuola e di una loro effettiva alleanza educativa? In che modo gli insegnanti possono costruire percorsi di apprendimento in cui bambini e ragazzi sappiano trovare le risposte alle loro importanti domande di vita e di crescita?

Dove è possibile trovare un luogo in cui i più piccoli e più giovani possano imparare quella“grammatica della convivenza” che diventa sempre più cifra connotativa di questo nostro tempo? Naturalmente nella scuola, ma in una scuola rinnovata. “La vita etica e l’incontro tra le differenze si sviluppano con la crescita umana della persona e della comunità, che è il compito specifico e la vocazione della scuola. Per questo non c’è scuola senza sapienza antropologica. La scuola richiede una visione dell’umanità. Una visione non più monoculturale, non solo interculturale, ma corale. (…) Allora educare è risvegliare e nutrire l’umanità di ciascuno, perché possa svilupparsi nel modo più originale. Educare è liberare le persone e la loro capacità di amare. Educare è mettere le nuove generazioni nella condizione migliore per rinnovare il mondo. In una scuola capace di educare, la conoscenza viene coltivata come bene comune fondamentale e la didattica si sviluppa come cammino di ricerca. In una scuola simile anche l’affinamento di tutte le competenze che un domani saranno preziose per il lavoro non sarà effettuato per preparare individui competitivi e auto-interessati, ma per formare persone che avranno piacere nel contribuire al bene comune” (2).

Una nuova prospettiva per rinnovati percorsi formativi può partire dall’idea che l’apprendimento è sempre un’esperienza profondamente sociale. Impariamo per partecipazione. Cresciamo davvero solo grazie al percorso di crescita di ciascuno, soprattutto di chi è più debole e in difficoltà.

Compito e responsabilità dei docenti è mantenere vivo l’orizzonte ampio e profondo, senza il quale la scuola è destinata a ricadere nella routine più grigia e deludente. Attraverso una formazione qualificata e motivante, il confronto professionale aperto e costruttivo, la condivisione di uno stile esigente e contagioso, gli insegnanti di Azione Cattolica rinnovano la scelta e il dono di essere educatori, capaci di cogliere in questo nostro tempo le reali possibilità di crescita della scuola e di chi nella scuola crede, vive e lavora.

    1. Jeremy Rifkin – La terza rivoluzione industriale – Mondadori 2011
  1. Roberto Mancini – Intervento al Seminario nazionale CVM “Una nuova etica per i curricoli della cittadinanza globale” – Settembre 2013