XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Esodo 17,8-13

In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. 

Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.  

 

Il libro dell’Esodo nella sua prima parte (1,1-15,21) descrive la liberazione dall’Egitto del popolo di Israele; nella seconda parte (15,22-18,27) presenta il cammino del popolo nel deserto: nella terza parte (19-40) si ha l’alleanza sul Sinai con tutte le prescrizioni. Il testo della lettura è collocato nella seconda parte, all’inizio; descrive il combattimento di Israele contro Amalek.

     Aspetti di esegesi

     Tra l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia e l’episodio dell’incontro di Ietro con Mosé, si ha il racconto della vittoria di Israele contro Amalek: «In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada» (Es 17,8-13).

     Questo racconto antico, rappresenta una tradizione delle tribù del sud. Esso è legato alla stessa località in cui si svolse il fatto precedente dell’acqua scaturita dalla roccia, Refidim. Gli Amaleciti avevano la loro abitazione sulle montagne di Seir. Di Amalek si parla nel libro della Genesi, come nipote di Esau (Gn 36,12.16); si tratta di un popolo molto antico; nell’oracolo di Balaam è detto: «Poi vide Amalek e pronunciò il suo poema e disse: Amalek è la prima delle nazioni, ma il suo avvenire sarà eterna rovina» (Nm 24,20). Al tempo dei giudici lo vediamo associato ai saccheggiatori di Madian: Davide lo combatte ancora; in seguito viene menzionato nel primo libro delle Cronache, dicendo che fu eliminato dai discendenti di Simeone (1Cr 4,43) e nel Salmo 83,8 che lo enumera tra i nemici di Israele. Il significato del racconto contenuto nella lettura sta nel fatto che la preghiera perseverante di Mosé, sostenuto da Aronne e da Cur, ottiene la vittoria del mediatore presso Dio a favore della comunità. La sua è la preghiera di chi è costituito capo in mezzo al suo popolo.

 

Seconda lettura:  2Timoteo 3,14-4,2

Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.   

 

La seconda lettera a Timoteo dopo l’indirizzo di saluto e ringraziamento, tratta anzitutto delle grazie ricevute da Timoteo, espone poi il significato delle sofferenze dell’apostolo e dell’apostolato, richiama la lotta contro il pericolo attuale dei falsi maestri, esorta a fare attenzione ai pericoli degli ultimi tempi, propone a Timoteo con uno scongiuro solenne, il suo dovere di annuncio della parola, dà infine le ultime raccomandazioni. Il brano della lettura si pone nell’avvertimento sui pericoli e si conclude con lo scongiuro solenne.

     Aspetti di esegesi

     La esortazione con cui inizia il brano riguarda il rimanere fermo, stabile, irremovibile nelle verità che sono state comunicate non come vane teorie ma come rivelazione immutabile, contro le tendenze deviazioniste dei falsi dottori di cui ha parlato precedentemente, seduttori e sedotti: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù» (2 Tm 3,14-15).

     Tali verità sono contenute nelle sacre Scritture: esse danno la vera sapienza della salvezza: la rivelazione divina ha come centro Gesù Cristo; perciò conduce a lui. «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio» (2Tm 3,16). L’affermazione che tutta la Scrittura è ispirata da Dio è importante poiché esprime a sua volta in modo ispirato una verità e cioè la ispirazione divina delle Scritture: è nella pratica assidua della Scrittura che l’uomo di Dio nutre la sua fede e il suo zelo apostolico: La scrittura poi è «utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,16): l’Autore indica a quali scopi è utile la Scrittura: insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia: la prima utilità è di natura didattica; infatti la Scrittura contiene la verità, e la verità è tema di insegnamento; la seconda utilità sta nella convinzione, nella persuasione degli spiriti, rivolta a condurli alla verità e a confutare gli errori; la terza è la correzione, per condurre gli erranti e i peccatori alla verità e alla vita morale; infine la Scrittura aiuta la formazione alla giustizia, cioè alla vita morale secondo la quale Dio vuole che si viva; in tale modo la Scrittura opera una formazione dell’uomo credente e dell’apostolo il quale con la Scrittura è in grado di adempiere il suo ministero, essendo provveduto di ogni strumento per esercitarlo con frutto.

     Viene ora un solenne scongiuro: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2 Tm 4,1-2)». È un appello rivolto al discepolo, quasi una parola di commiato al termine della lettera. Dominato dal pensiero di una morte vicina e della venuta del Signore, Paolo chiede solennemente a Timoteo di perseguire, senza venire meno, la missione che gli trasmette. Scongiura chiamando in causa Gesù Cristo che verrà a giudicare i vivi e i morti: proclama così la verità che Gesù sarà il giudice di tutti gli uomini, quelli che saranno in vita alla sua venuta e quelli che allora risusciteranno; questa affermazione, che apparteneva all’annuncio primitivo, è entrata nel simbolo della fede. Il tema dello scongiuro riguarda la predicazione; l’apostolo ammonisce ed esorta gravemente Timoteo, invocando

a testimonio Dio e Gesù Cristo: l’autore è consapevole di compiere un suo dovere nel prescrivere a Timoteo la predicazione; Timoteo deve predicare la parola come un araldo che ha la lieta notizia da comunicare; deve insistere, prendere ogni occasione, l’inopportunità è da intendere da parte degli uditori; anche quando agli uditori sembri inopportuna la voce del predicatore della verità; deve convincere quello che erano, mostrare loro che sono colpevoli, riprenderli, esortarli; ma la predicazione in sé è sempre opportuna; tutta la predicazione, inoltre, anche quando rimprovera e mostra l’errore deve essere fatta con dolcezza, aspettando con pazienza il suo frutto, e deve avere per solida base la dottrina, la parola di Dio, che è efficace per se stessa. Leggendo queste norme teoriche e pratiche di pedagogia pastorale il ministro della parola saprà congiungere insieme la prudenza e l’audacia, la forza nel rimproverare e nel convincere dell’errore e la mitezza dell’amore paterno; saprà istruire le menti con la luce della verità e istruire i cuori con il calore dello zelo apostolico.

 

Vangelo: Luca 18,1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Esegesi 

     Il testo si trova nella sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme; è la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna e riguarda il tema della preghiera: «In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1).

     Aspetti di esegesi

     Questa parabola e quella che segue, del fariseo e del pubblicano, trattano della preghiera sotto punti di vista differenti. La parabola del giudice iniquo che fa giustizia alla donna per non essere da lei importunato, concorda, nel suo pensiero fondamentale, con la parabola dell’amico importuno (Lc 11,5-8) e mette in evidenza la potenza della preghiera di petizione esprimendo la conclusione come una deduzione da una cosa più piccola a una più grande. Il pensiero fondamentale della parabola è questo: i discepoli devono pregare sempre e non devono scoraggiarsi se l’esaudimento delle loro preghiere si fa attendere. L’insegnamento centrale, che Gesù stesso esprime con il «sempre» significa: per qualsiasi cosa vi stia a cuore: «non stancarsi» significa di conseguenza non mai dubitare della forza della preghiera. A mettere in evidenza questo insegnamento serve un caso preso dalla vita umana; una vedova (che già nell’antico Testamento era l’immagine di una persona indifesa e debole) sta di fronte a un giudice iniquo e lo vince con la sua ostinazione; la figura del giudice qui delineata non è un caso di eccezione, ma il tipo frequente, forse normale, del giudice cui erano abituati a quel tempo; la vedova si trova implicata in un processo e chiede al giudice una sentenza con cui le venga resa giustizia: il giudice non pensa di accondiscendere alla preghiera di una persona sola e debole; il suo soliloquio svela i suoi sentimenti; egli però risolve alla fine di esaudirla non per un senso di giustizia ma unicamente perché l’insistere di lei nel pregare, gli da noia e fastidio: «poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi » (Lc 18,4-5).

     Secondo l’insegnamento finale: «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente». (Lc 18,7-8), insegnamento che opera la deduzione dal più piccolo al più grande, cioè dal giudice iniquo a Dio, il personaggio principale della parabola non è la vedova orante, che stanca il giudice, ma il giudice stesso. Egli viene paragonato a Dio. Il punto culminante della parabola non sta nella ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento. Non viene detto come dobbiamo comportarci nella preghiera di petizione nei confronti di Dio, ma come Dio si comporta di fronte alle nostre preghiere. Se già un uomo cattivo come il giudice per semplice egoismo si lascia indurre dalla domanda di una povera donna indifesa ad aiutarla, quanto più Dio esaudirà le grida di implorazione dei suoi eletti. L’esitazione di Dio è apparente; egli non lascerà mancare il suo aiuto; egli farà giustizia nel senso che ascolterà le preghiere dei suoi. Dio non può restare sordo di fronte alla domanda insistente dei suoi figli e può dare solo cose buone.

     Il detto finale: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8) è una affermazione a se stante, non collegata con il racconto della parabola: esso presenta l’apostasia che deve verificarsi negli ultimi tempi, è tema classico della apocalittica (cf. 2 Ts 2,3; Mt 24,10-12).

 

Meditazione 

La preghiera come lotta e intercessione (I lettura); la preghiera insistente e che non viene meno (vangelo): questo il tema che unisce prima lettura e vangelo. La preghiera non come opera di forti, ma di deboli: Mosè viene aiutato a sostenere le sue braccia stese nella preghiera; nel vangelo è una povera vedova che si fa soggetto di una preghiera insistente. Deboli resi forti dalla fede e che perseverano nella preghiera. La perseveranza come elemento di verità della preghiera e la preghiera come autentificazione della fede sono altri elementi che arricchiscono la catechesi sulla preghiera contenuta nei testi biblici di questa domenica.

L’immagine di Mosè con le mani tese verso l’alto nello sforzo dell’intercessione, aiutato da due uomini che sostengono le sue braccia che diventano sempre più pesanti con il passare del tempo, è una bella immagine della fatica della preghiera. La preghiera è uno sforzo, è lavoro, e come ogni lavoro è faticoso, per il corpo come per lo spirito. Ma quella immagine indica anche un aspetto della dimensione comunitaria della preghiera. La comunità cristiana non è solo il luogo in cui si è chiamati a pregare gli uni per gli altri, a intercedere, ma anche a porsi a servizio della preghiera dell’altro. Sostenersi e incoraggiarsi nella fede e nella preghiera, è compito richiesto ai credenti nella comunità cristiana.

Un aspetto di questa difficoltà della preghiera è il suo divenire quotidiana, il suo essere perseverante, il suo non venire meno. Aspetto espresso nella parabola evangelica (Lc 18,1 ). La preoccupazione di insistere sulla necessità di pregare sempre, senza tralasciare, è rivelatrice della situazione della comunità cristiana a cui si rivolge Luca: una comunità in cui è ormai presente il fenomeno del rilassamento della fede e della preghiera. A distanza di qualche decennio dagli eventi della vita di Gesù, la comunità conosce fenomeni di mondanizzazione della fede e di abbandono (cfr. Lc 8,13). Luca avverte: abbandonare la preghiera è l’anticamera dell’abbandono della fede. Il passare del tempo è la grande prova della fede e della preghiera. La preghiera insistente fa della fede una relazione quotidiana con il Signore. La fatica di perseverare nella preghiera è la fatica di dare del tempo alla preghiera. Pregare è dare la vita per il Signore. La preghiera comporta un confronto con la morte e per questo spesso ci risulta ostica: pregando, non «facciamo» nulla, non «produciamo», ci vediamo sterili e inefficaci. Ma essa è lo spazio e il tempo che noi predisponiamo affinché il Signore faccia qualcosa di noi.

Le parole di Gesù comportano anche un insegnamento sulla dimensione escatologica della preghiera. Alla domanda rivoltagli dai farisei «Quando verrà il Regno di Dio?» (Lc 17,20), Gesù ha risposto nel capitolo precedente (Lc 17,21-37), ma ora completa la sua risposta con una contro-domanda: «Il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Non si tratta di porre domande sulla venuta finale, ma di cogliere la venuta finale del Signore come domanda, e domanda che interpella i cristiani sulla fede. A noi che spesso ci chiediamo: «Dov’è Dio?», «Dov’è la promessa della venuta del Signore?» (2Pt 3,4), risponde il Signore che chiede conto a noi della nostra fede: «Dov’è la vostra fede?» (Lc 8,25). La venuta del Signore non è tema di astratte speculazioni teologiche, ma realtà di fede da viversi e sperimentarsi come attesa e desiderio nella preghiera.

La preghiera della vedova che chiede giustizia indica anche gli aspetti di audacia e di determinazione della preghiera. La preghiera non si vergogna di chiedere, non esita a insistere, non cessa di bussare, non teme di importunare. La preghiera esige coraggio. Il coraggio della fede che conduce a non lasciar perdere, a non tralasciare, a non dire: «Non serve a nulla».

Preghiera e fede stanno in un rapporto inscindibile: credere significa pregare. E se noi possiamo pregare solo grazie ad una fede viva, è anche vero che la nostra fede resta viva grazie alla preghiera.

 

Preghiere e racconti

La preghiera insistente del cristiano

«Attaccati alla preghiera di un povero e sarai unito a Dio» diceva un maestro di Israele. L’insegnamento sulla preghiera nei testi biblici di oggi è posto all’interno della prospettiva della parusia. La preghiera del cristiano si caratterizza come insistente. Se c’è una preghiera da fare nel momento del bisogno, c’è anche una preghiera da rivolgere in ogni tempo, e questa è la preghiera di fronte alla venuta del Signore. Il tempo dell’attesa deve spingere il discepolo non ad addormentarsi, ma a una veglia ancora più intensa. La donna del Vangelo è indifesa, debole, ma piena di intraprendenza e coraggio, di perseveranza e insistenza. «Il punto culminante della parabola non sta nell’ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento» (J. Schmid). Pregare, dunque, per mantenere viva, anche di fronte al ritardo, l’attesa di Dio. Perseverare nella preghiera diventa un radicarsi in Cristo, rimanere «stabili» in lui lungo tutto il cammino della vita anche nell’ora in cui dobbiamo passare «per la valle oscura» del dolore e della prova.

Scriveva un giovane monaco: «Noi preghiamo per mettere una spina nel cuore di Dio. Noi, uomini della cocolla, ci confermiamo qui in rappresentanza degli altri uomini, di tutti. Per ridire chiaro al Signore, ora dopo ora: Vedi, Signore! Ti premiamo, ti sollecitiamo; alziamo la voce, la sommiamo; tempestiamo con le nocche la tua porta, non ti diamo tregua perché tu non perda mai l’entusiasmo della creazione, perché tu veda e provveda a tutti».

L’uomo di preghiera

«Tu farai un’autentica esperienza di Dio, o, più semplicemente, sei un uomo di preghiera quando possiedi il coraggio di gettarti, durante tutta la vita, in questo mistero silenzioso di Dio senza ricevere apparentemente altra risposta che la forza di credere, di operare, di amare Dio e i tuoi fratelli, e quando, in definitiva, continui a pregare».

(Jean Lafrance).

Comunità, «scuola di preghiera»

 «Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche “scuole” di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero “invaghimento” del cuore. Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non distoglie dall’impegno nella storia: aprendo il cuore all’amore di Dio, lo apre anche all’amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio».

(Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, n. 33).

Cuore, labbra, mani

Metti, Signore, nei nostri cuori desideri che tu possa colmare.

Metti sulle nostre labbra preghiere che tu possa esaudire.

Metti nelle nostre opere atti che tu possa benedire.

(Liturgia mozarabica spagnola).

Pregare…

Hai un problema grandissimo?

Incomincia a pregare, a lodare Dio e ti accorgerai che quel problema diventerà sempre più piccolo, perché lo vedrai con gli occhi di Dio.

 

Perché pregare?

«Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere. Si, per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore. Ora, l’amore nasce dall’incontro e vive dell’incontro con l’amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l’amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive nel tempo e per l’eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l’aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.

Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po’ di tempo a Dio. All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti».

(Bruno Forte, Lettera sulla preghiera).

Le vere domande

«L’uomo si eleva verso Dio per mezzo delle domande che gli pone. Ecco il vero dialogo: l’uomo interroga e Dio risponde. Ma le sue risposte non si comprendono, non si possono comprendere perché vengono dal fondo dell’anima e vi rimangono fino alla morte. Le vere risposte, Eliezer, tu non le troverai che in te. E tu, Moshè, perché preghi?- gli domandai. Prego Dio di darmi la forza di potergli fare delle vere domande».

(Elie Wiesel, scrittore ebreo).

La preghiera

 “La preghiera è un bene sommo,

è una comunione intima con Dio,

deve venire dal cuore,

deve fiorire continuamente,

giorno e notte.

È luce dell’anima,

vera conoscenza di Dio,

mediatrice tra Dio e l’uomo;

è un desiderare Dio,

è un amore ineffabile

prodotto dalla grazia divina”.

(San Giovanni Crisostomo)

 

Gioia, preghiera, ringraziamento e carità

Ci hai esortato alla gioia, Signore: «State lieti, sempre». Anzi, ci hai insegnato le parole per dire la gioia: «Io esulto e gioisco nel Signore, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza». Fa’ di me, o Signore, un cristiano lieto: lieto come Giovanni nel vedere la luce che già viene, nel sentirsi voce al servizio della Parola; lieto come il profeta, nel sapersi riempito del tuo Spirito di santità; lieto come Maria nel riconoscere e magnificare quello che tu hai già compiuto per me e in me.

Ci hai esortato alla preghiera, Signore: «Pregate incessantemente». Mi sembra quasi impossibile: abituato a separare preghiera e lavoro, penso sempre che la preghiera si possa fare solo stando in ginocchio. Eppure lo so che sei continuamente presente, a condividere le mie giornate e il mio lavoro. Sei tu, anzi, che mi vuoi santificare «fino alla perfezione», tu che guidi i miei passi incerti sul sentiero della santità. Insegnami a vivere costantemente alla tua presenza, a fare ogni cosa per amore tuo.

Ci hai esortato al ringraziamento, Signore: «In ogni cosa rendete grazie». Nell’eucaristia ci unisci al tuo ringraziamento. Fa’ che non mi limiti a pronunciare parole di riconoscenza, magari stanche e convenzionali, ma a dire grazie al Padre testimoniando il suo amore, nel servizio concreto del prossimo.

Vieni, Spirito Santo, diventa in noi gioia, preghiera, ringraziamento, carità.

Aiutami a pregare

Signore, tu conosci tutto di me,

quello che voglio e quello che faccio;

conosci il mio bisogno di amicizia e di bontà,

di speranza e di verità.

Signore, ho voglia di pregare

perché tu me lo hai insegnato,

perché chi prega riceve la tua fortezza.

Aiutami a pregare

col cuore e con le parole,

di giorno e di notte.

da solo e con gli altri.

Insegnami a pregare per dirti grazie,

per crescere nella fede,

per camminare nella speranza.

per vivere la carità.

Signore, ti ringrazio perché,

quando penso a qualcosa di grande, penso a te;

quando mi sento vuoto, vengo da te;

quando prego, riesco a vivere come piace a te.

Signore, ti prego per quelli che sono soli,

per quelli che nessuno vuole.

Ti prego perché tu sei sempre

la forza dei deboli,

la speranza dei poveri,

la salvezza dei peccatori.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIX DOM TEMP ORD (C)

Concerto del Coro della Cappella “Sistina”

In occasione della celebrazione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico 2013-2014 dell’UPS, che ha svolgimento martedì 15 ottobreprossimo, e in concomitanza con la chiusura dell’Anno della Fede, l’Università Pontificia Salesiana ha organizzato un concerto di musica sacra di cui è protagonista il Coro della Cappella Musicale Pontificia “Sistina” diretto dalmaestro mons. Massimo Palombella.

Il rinomato Coro eseguirà una collezione di brani scelti dal repertorio di Giovanni Pierluigi da PalestrinaGregorio Allegri e Lorenzo Perosi, collezione a cui è stato dato il titolo: “Credo, Domine, Audage nobis fidem“. L’evento musicale si terrà nella Chiesa dell’Università Pontificia Salesiana, in Piazza dell’Ateneo Salesiano 1, con inizio alle ore 21.00 di martedì 15 ottobre 2013, ed è aperto a quanti vogliono prenderne parte.

Caritas e Save the Children: in aiuto degli immigrati

Save the Children e Caritas Italiana uniscono i propri sforzi e le proprie risorse per dare un concreto sostegno ai bambini sbarcati a Lampedusa, sia quelli scampati al tragico naufragio della settimana scorsa che quelli arrivati sull’isola dopo altrettanto terribili viaggi della speranza. Un intervento fortemente voluto da Papa Francesco, per dare un deciso segnale sulla necessità di concentrarsi sui più piccoli.
Come spiega un comunicato congiunto, all’interno della Casa della Fraternità della parrocchia di San Gerlando verrà infatti allestito uno spazio a Misura di Bambino e Adolescente dove, a partire da sabato, i minori – bambini e adolescenti, sia accompagnati che non – saranno seguiti da un’equipe professionale di Save the Children composta da educatori, uno psicologo e un mediatore culturale, che con attività ludico ricreative li aiuteranno ad elaborare il proprio vissuto e superare i traumi subiti, in base alle procedure dell’organizzazione, consolidate a livello internazionale, e dai volontari coordinati dalla Caritas.
“I bambini hanno una forte capacità di resilienza, ma bisogna accompagnarli con attenzione in un percorso di recupero, soprattutto in un contesto in cui sono privati dei luoghi e delle attività che in quanto routinarie, rappresentano delle certezze. Hanno compiuto viaggi durissimi, alcuni di loro hanno perso i propri cari nel naufragio della scorsa settimana e ora sono costretti a vivere in un centro in condizioni disastrose. I nostri operatori specializzati li affiancheranno in un ambiente sereno, facendo loro svolgere attività laboratoriali espressive e di gioco, per aiutarli gradualmente a sentirsi al sicuro. Inoltre, grazie al sostegno di Bulgari, distribuiremo beni di prima necessità”, ha dichiarato Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia.
“È uno dei segni di sostegno e tutela dei più bisognosi, frutto di una comunione e collaborazione tra organismi che rende concreta la grande solidarietà espressa in questa occasione e rende tangibile la carezza del Papa verso i più piccoli. Un modo per rinnovare la vicinanza alla comunità locale e a tutti coloro che arrivano su quest’isola, a partire proprio dai bambini” ha commentato don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana, che nei giorni scorsi da Lampedusa aveva rilanciato con forza la necessità di un approccio globale al tema dell’immigrazione e dell’asilo, auspicando anche l’apertura di corridoi umanitari.
Nello Spazio, verificati alcuni bisogni dei minori, Save the Children distribuirà anche dei kit con beni di prima necessità per far fronte in particolare al freddo e alla pioggia, mentre Caritas Italiana metterà a disposizione dei giochi per i più piccoli.
 
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XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 2 Re 5,14-17

In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore». 

 

 È in questa linea che si muove la narrazione ripresa dal secondo libro dei Re (5,14-17). Essendo stato colpito dalla lebbra, Naaman, «il comandante dell’esercito del re di Aram» (5,1), sente dire da una giovinetta ebrea, rapita e deportata in Siria a servizio della moglie del generale, che in Israele c’è un profeta, Eliseo, che fa miracoli e può guarire anche dalla lebbra. Se nonché, il profeta gli ordina di bagnarsi sette volte nel Giordano per ottenere la guarigione. Il generale stenta a credere tutto questo: ma alla fine obbedisce e viene guarito. Per riconoscenza vuole offrire dei doni, che il profeta invece respinge, perché Dio soltanto può operare prodigi.           

     È a questo punto che Naaman il Siro si rende conto che solo il Dio di Israele, che il profeta ha invocato e di cui è come il portavoce, è il «vero Dio», e perciò chiede ad Eliseo il permesso di portare un «pezzo» di terra santa a Damasco per adorarvi l’unico Signore del cielo e della terra: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore» (5,17).

     Anche Gesù nella sinagoga di Nazaret, davanti all’indisposizione dei suoi concittadini che reclamavano da lui miracoli, quasi come segno di particolare «appartenenza», si riferirà a questo episodio per dire che ormai non ci sono più «stranieri» nel suo regno, che appartiene a tutti coloro che vorranno entrarvi per la fede in lui: «C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro» (Lc 4,27).

     Con Gesù, Figlio di Dio, incarnatosi nel seno di Maria e diventato uomo come tutti noi, ogni uomo è chiamato a salvezza, a prescindere dalla collocazione geografica o dell’appartenenza a qualsiasi gruppo umano: ormai, con la sua venuta in mezzo a noi, ogni «terra» è diventata sacra!

 

Seconda lettura: 2Timoteo 2,8-13

Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;  se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

 

Questo riferimento a Cristo, morto e risuscitato per la salvezza di tutti, è ribadito nel brano della 2a lettera a Timoteo (2,8-13), in cui Paolo esorta il suo discepolo ad essere coraggioso testimone dell’annuncio cristiano, anche se ciò dovesse comportare inimicizia, e perfino il carcere, come di fatto è capitato a lui: «ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore» (2,8-9).

     L’impedimento del carcere, però, non riuscirà a imprigionare la «parola» di Dio, non solo perché Paolo continuerà ad annunciarla anche in prigione, ma soprattutto perché nella sofferenza sarà anche più unito a Cristo, e così apporterà un suo particolare contributo all’opera di redenzione: «Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (2,9-10).

     Segue quindi un frammento di antico inno cristiano, in cui si esalta la comunanza di vita e di destino del credente con il suo Signore, per cui soltanto il nostro rinnegamento della salvezza, da lui apportataci, potrebbe portare anche lui a rinnegarci: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà...» (2,11-13).

     C’è un riecheggiamento palese, in questa ultima espressione, delle parole di Gesù: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,33).

     Questo brano della 2a lettera a Timoteo non è soltanto un invito al coraggio dell’annuncio, sempre e dovunque, di fronte a chiunque, ma anche l’affermazione della nostra «intimità» con Cristo, per cui, se «partecipiamo» al suo destino di sofferenza, parteciperemo anche alla sua «gloria». Noi potremmo anche essere estranei a Dio, ma lui non è mai «estraneo» a nessuno di noi!

 

Vangelo: Luca 17,11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.

Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 

Esegesi 

Guarigione dei dieci lebbrosi.

     È quanto ci dice soprattutto il racconto evangelico (Lc 17,11-19), che ci descrive la guarigione dei dieci lebbrosi, di cui uno soltanto, e precisamente un samaritano, torna a «rendere grazie a Dio» per la salute riacquistata. Già precedentemente Luca aveva narrato la guarigione di un lebbroso (5,12-16), che ritroviamo anche negli altri Sinottici (Mc 1,40-45; Mt 8,1-4). Qui invece egli attinge a materiale proprio, e appunto per le «particolarità» con cui l’episodio viene narrato non può essere una rielaborazione del precedente racconto, come qualcuno ha ipotizzato.

     Le «particolarità» più significative sono le seguenti: a) Gesù si trova quasi alla fine del «viaggio» che lo porta a Gerusalemme, dove sarà drammaticamente respinto dal suo popolo, che era venuto a salvare; b) è un gruppo intero di lebbrosi (10) che si rivolge a lui per essere guarito e che la sciagura aveva come affratellato, senza distinzione né di razza né di religione, nonostante che Giudei e Samaritani non avessero «buone relazioni» fra di loro (cf. Gv 4,9); c) Gesù non tocca i lebbrosi per guarirli (cf. 5,13), ma, rispettando la legge mosaica (cf. Lev 13,4-5), a distanza comanda loro di «presentarsi ai sacerdoti» per la verifica della guarigione, che sola consentiva il normale rientro nella società: la guarigione avviene proprio lungo il loro viaggio verso Gerusalemme.

     — Solo il samaritano torna a «ringraziare».

     Ma a questo punto accade la cosa più inattesa di tutto l’episodio, che è anche la «punta» semantica di tutto il racconto: uno soltanto, e precisamente il samaritano, cioè lo «straniero», torna a ringraziare Gesù, nel quale ovviamente ha riconosciuto un inviato di Dio. È allora che Gesù esprime la sua amarezza per l’ingratitudine degli altri, che erano tutti ebrei: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (17,17-19).

     Qui la «salvezza» ovviamente è da intendere in senso più largo: non solo quella fisica, che avevano ricevuto anche gli altri, ma anche quella spirituale, che si ottiene appunto per la fede e che introduce nella comunità di Gesù, che è aperta a tutti e non solo ai Giudei.

     Anche altrove S. Luca dimostra simpatia per i Samaritani: si ricordi appunto la parabola del buon Samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita, ebrei, passati avanti senza curarsi di lui, si china sull’uomo ferito e lo aiuta con tutti i suoi mezzi, che Gesù porta ad esempio del vero amore del prossimo (cf. Lc 10,30-37).

     Come si vede, anche la parabola del buon Samaritano, in ultima analisi, vuol dire che la salvezza portata da Gesù non solo si allarga oltre i confini d’Israele, ma addirittura che i «lontani» sono talora più vicini a Dio di quelli che dovrebbero essergli più «prossimi».

 

Meditazione

     La prima lettura presenta la guarigione dalla lebbra dello straniero Nàaman ad opera del profeta Eliseo e il vangelo narra la guarigione, ad opera di Gesù, di dieci lebbrosi di cui uno solo, uno straniero (un samaritano), torna a ringraziarlo. Il tema dell’azione di grazie, della capacità eucaristica lega le due letture. Nàaman, che voleva sdebitarsi con Eliseo per la guarigione ottenuta e che incontra il rifiuto del profeta, ottiene un po’ di terra d’Israele per poter venerare il Signore, Dio d’Israele. La gratitudine appare così nella sua dimensione teologale. Il profeta scompare davanti al Signore, vero autore del beneficio, e Nàaman rivolge a Dio il suo ringraziamento. Anche il vangelo presenta la dimensione eucaristica della fede: il ringraziamento del samaritano a Gesù (Lc 17,16) esprime la sua fede (Lc 17,19).

     Il testo di 2Re mostra la difficoltà, soprattutto per un uomo importante, ricco e potente come Nàaman, di riconoscersi debitore: coprire di denaro e preziosi chi lo ha beneficato significherebbe «sdebitarsi», far divenire l’altro grato nei suoi confronti, e così non perdere la propria grandezza e la propria immagine di uomo che «non deve nulla a nessuno». La gratitudine è difficile e richiede la messa a morte del proprio narcisismo per entrare nel novero di coloro che si sanno graziati.

     La difficoltà del ringraziamento emerge anche dal vangelo: di dieci lebbrosi guariti, uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. È colui che ha saputo vedersi guarito (Lc 17,15). Occorre il rispetto (nel senso etimologico di guardare indietro: respicere) per giungere al riconoscimento di ciò che è avvenuto e quindi alla riconoscenza, al ringraziamento. Il guardare indietro è anche lavoro di memoria e la memoria è costitutiva dell’eucaristia come del movimento umano della gratitudine: spesso ci rendiamo conto solo dopo molto tempo di ciò che dobbiamo a persone che abbiamo incontrato nel nostro passato e che hanno lasciato tracce importanti in noi.

     Il samaritano ha saputo vedersi guarito, dunque ha saputo prendere una distanza fra sé e sé e considerare ciò che è venuto a lui dal Signore. Allora è entrato nella salvezza ritornando indietro, cambiando strada, ovvero, immettendosi in un movimento di conversione. Ritornare da Gesù senza andare al tempio a farsi vedere dai sacerdoti perché venga verificata la guarigione, significa confessare che ormai la presenza di Dio ha trovato in Gesù il suo tempio, la sua manifestazione: è ringraziando Gesù che il samaritano rende gloria a Dio (Lc 17,18). E Gesù pronuncerà l’oracolo di salvezza nei suoi confronti: «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). Il vero culto è nella relazione con il Signore Gesù: è davanti a lui che il samaritano si prostra e rende grazie.

     Le parole di Gesù sulla fede del samaritano significano che la salvezza è veramente tale se la si celebra: il dono di Dio è veramente accolto quando per esso si sa ringraziare, ovvero riconoscerne e confessarne l’origine. Solo nel ringraziamento il dono è riconosciuto come dono. Per questo il cuore del culto cristiano si chiama eucaristia: di fronte al dono di Dio non vi è altro da fare che entrare nel ringraziamento, divenire eucaristici (cfr. Col 3,15), vivere nel rendimento di grazie.

     Tutti guariti, uno solo salvato. Questa la situazione dei dieci lebbrosi che Gesù ha incontrato. Nella rivelazione biblica ed evangelica guarigione e salvezza sono spesso associati e la salvezza appare significata e anticipata dalla guarigione. Oggi, di fronte alla svalutazione culturale di una salvezza oltremondana, il rapporto salvezza-guarigione viene capovolto e la salvezza è declinata come dilatazione del sé qui e ora, guarigione di tutti gli aspetti fisici e psichici dell’esistenza per poter vivere una vita «espansa», «piena». Ma la riscoperta della dimensione terapeutica della fede non può scadere in asservimento dello spirituale ai bisogni dell’individuo e non può dimenticare la dimensione tragica dell’esistenza, il non-guarito, il malato fin dalla nascita, la sofferenza innocente, il male che non passa. Non può dimenticare la croce di Cristo.

 

Preghiere e racconti 

Un giorno San Francesco…

Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso. Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.

(Dalla Leggenda Maggiore).

I Samaritani e i lebbrosi

Oggi, non bisogna forse chiedersi chi sono coloro che abbiamo trasformato in samaritani e in lebbrosi? Nel nostro mondo lacerato, ma anche fra i nostri vicini, fra i nostri compagni di lavoro, forse nella nostra stessa famiglia? La domanda è urgente: si tratta di rispettare e di accogliere tutti gli uomini, si tratta di rispettare e di accogliere Dio.

(G. Bessière, Il fuoco che rinfresca)

I dieci lebbrosi

I dieci lebbrosi se ne vanno al calar del sole

tutti guariti, mostrandosi la pelle sana

liberati dall’immonda raganella

che faceva il deserto all’ingresso dei villaggi.

Uno solo si gira, inquieto di camminare

fra due ombre: una dietro di lui

come i nove compagni e l’altra

leggera, davanti a lui, già calante

come se il suo dorso restasse rischiarato

dall’oriente, lo sguardo intravisto

che li ha mandati pieni di speranza ai sacerdoti

– la Vita che si dona, dimenticata dalla vita

che segue e ricomincia. Dov’era il miracolo

prima del miracolo? Sono partiti così in fretta.

Gli altri nove sono lontano. Allora, lui decide

di risalire il fiume della strada.

(J.P. Lemaire, La rotta)

Grazie!

L’immagine che mai dimenticherò è la serie di donne che alle 6 del mattino trovo ad attendermi fuori della porta della mia stanza. Nessuna parla, nessuna mi guarda negli occhi. Con i loro bambini rachitici e senza più latte, sono lì ad aspettare. Se non dessi niente, se ne andrebbero via senza una parola. Nessuna chiede, è scontato il perché del loro essere lì. Devo capire e, se posso, aiutare! Una mamma mi mette in braccio il suo bambino dicendo che non vuole vederlo morire.

Con il raccolto di fine agosto la grande paura passa e la vita pian piano riprende normalmente.

Tutte, e sottolineo tutte, le donne che abbiamo aiutato sono tornate con un dono: chi una gallina, chi un gallo, chi un’anatra… Così la missione ha avuto finalmente il suo pollaio.

La sera, passeggiando in giro per la missione, rifletto sulla giornata trascorsa, mi fermo, guardo i polli, ripenso ai poveri di Fianga, ai poveri del mondo, che ogni giorno, in silenzio, tra le lacrime ma con grande dignità, sanno magistralmente dire grazie alla Vita!

(Saverio Fassina, in Piccole storie d’Africa. Da Fianga, nel Ciad).

Dire grazie

Tenerezza è dire grazie con la vita: e ringraziare è gioia perché è umile riconoscimento dell’essere amati.

(B. Forte)

Gesù l’ha denunciato

Gesù ha denunciato l’uomo che non ringrazia. Nel Vangelo di Luca (17,11) quando vide che dei dieci lebbrosi guariti ne era tornato uno solo a dire grazie, esclamò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?”.

“E gli altri nove dove sono?”. È pesante questa denuncia di Cristo. La percentuale di chi pensa e ringrazia sarà sempre così ridotta? L’uomo è proprio inguaribile nel suo egoismo? Abbiamo addosso la lebbra dell’ingratitudine.

Il Signore aspetta il nostro ringraziamento come logica dei fatti; se abbiamo ricevuto da Dio è logico che lo riconosciamo, se lo riconosciamo è logico che ci apriamo alla gratitudine. Il Signore non ha dato ai nove lebbrosi guariti un ordine, ma si attendeva che i nove guariti dessero un ordine a se stessi.

La gratitudine è la logica dell’intelligenza e del cuore retto. Chi capisce e ha il cuore retto non può fare a meno di ringraziare. Per questo non esiste un comando specifico per il ringraziamento, perché il comandamento deve partire dall’uomo; avrebbe senso la riconoscenza imposta?

“E gli altri nove dove sono?”. In quei nove ci siamo tutti, perché sono innumerevoli le nostre negligenze verso la bontà di Dio. Purtroppo in quei nove siamo presenti tutti, perché tutti siamo colpevoli di ingratitudine a Dio. L’uomo non riuscirà mai a stare al passo coi doni di Dio. I benefici di Dio sono più numerosi dell’arena del mare, sono innumerevoli come le gocce d’acqua dell’oceano.

Ma l’uomo deve almeno aprirsi al problema! Non lo risolverà, ma deve almeno capire che c’è!

“E gli altri nove dove sono?”. La denuncia amara di Cristo deve spingermi a rappresentare gli assenti. Quando avremo capito e saremo guariti dalla lebbra dell’ingratitudine, dovremo presentarci a Dio anche per i nostri fratelli che non capiranno mai e rappresentarli: “Signore, perdonali, perché non sanno quello che fanno; io sono qui a ringraziare anche per loro, dammi la capacità di poterli rappresentare sostituendomi ad essi…”.

(A. GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1993, 45-46).

Dire “grazie”

«”Grazie” è una parola di poche lettere, ma di molto peso: ingentilisce la terra e la profuma. Ringraziare è un verbo da ricuperare» (Pino Pellegrino). La fede dei lebbrosi del Vangelo è sufficiente per ottenere il miracolo della guarigione. Ma questo deve aumentarla. La fede del Samaritano è nuova e più profonda. Gli altri hanno ottenuto la guarigione, lui una fede accresciuta e approfondita che ottiene la salvezza. Questa fede è in qualche modo risposta alla domanda dei discepoli: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6; cf 27ª domenica). Come, dunque, chi è tornato indietro per rendere gloria a Dio e per benedirlo è stato veramente salvato, ha riconosciuto che in Gesù è Dio che agisce e salva; così solo chi è capace di «Eucaristia» (bene-dizione, rendimento di grazie), culmine e fonte di tutta l’attività della Chiesa, ha la «salvezza»: superamento del caos e accesso alla casa del senso. Il Samaritano guarito insegna a dire grazie. Niente ci è dovuto nel nostro rapporto con Dio. Come anche nel rapporto con i fratelli. «Tutto è grazia», dice Bernanos. E se tutto è grazia, solo chi sa dire «grazie» ha capito il suo posto e la sua strada. Nei nostri rapporti pensiamo sovente che tutto ci sia dovuto e facciamo fatica a dire «grazie», a utilizzare questa piccola forma di cortesia. «Il segreto del vivere spirituale è nella facoltà di lodare. La lode è il racconto dell’amore e precede la fede. Prima cantiamo e poi crediamo» (A.J. Heschel). Per chi legge il Vangelo non c’è niente di più impegnativo che dire «grazie». Dal profondo del cuore. È fare «Eucaristia». La lode è pura gratuità per il dono dell’esistenza. L’uomo è così restituito alla sua vocazione: «Misericordias Domini in aeternum cantabo!». «La riconoscenza – afferma un proverbio africano – è la memoria di cuore». È la capacità di ricordare e, pertanto, di amare. 

Grazie, Signore 

Signore, ti ringrazio perché mi hai messo al mondo:

aiutami perché la mia vita

possa impegnarla per dare gloria a te e ai miei fratelli.

Ti ringrazio per avermi concesso questo privilegio:

perché tra gli operai scelti, tu hai preso proprio me.

Mi hai chiamato per nome

perché io collabori con la tua opera di salvezza.

Grazie perché il mio letto di dolore è fontana di carità,

è sorgente di amore.

Di amore per te, anche di amore per tutti i fratelli.

Signore, io seguo te più da vicino, in modo più stretto.

Voglio vivere in un legame più forte

per poter essere più pronto a darti una mano,

più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti

possano essere salutati da chi sta a valle.

Concedimi il gaudio di lavorare in comunione

e inondami di tristezza ogni volta che, isolandomi dagli altri,

pretendo di fare la mia corsa da solo.

Salvami, Signore, dalla presunzione di sapere tutto.

Dall’arroganza di chi non ammette dubbi.

Dalla durezza di chi non tollera i ritardi.

Dal rigore di chi non perdona le debolezze.

Dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone.

Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita,

perché le parole, quando veicolano la tua,

non suonino false sulle mie labbra.

(Don Tonino Bello)

Ascolta il tuo cuore

In quegli anni di sbandamento e di assenza di domicilio, ripresi a frequentare mia nonna. O meglio, fu lei, compresa finalmente la situazione, a venirmi incontro, cercando di stabilire un rapporto. Di relazioni affettive, però, ormai non volevo più sentir parlare, dunque dovette impegnarsi a fondo per riuscire ad aprire una breccia nel muro invalicabile che mi circondava. […] Eppure piano piano, giorno dopo giorno, con l’abilità di un cesellatore, riuscì a creare uno spiraglio per giungere al mio cuore.

Spesso mi sono chiesta come sia stato possibile per lei compiere questo miracolo, penso che nessun altro ci sarebbe riuscito. Non credo che il sangue e la parentela l’abbiano influenzata, così come lo spirito di maternità – vale a dire il sapersi prendere naturalmente cura dell’altro – che non le era mai veramente appartenuto. Mi confessò, infatti, di aver messo al mondo i suoi figli soltanto per consuetudine e non per una vera aspirazione.

Penso che quello che, alla fine, ci ha unite, sia stata la comune esigenza di raggiungere la verità nei rapporti. […] Aborriva come me il moralismo e, come me, detestava l’obbligo di volersi bene per pura convenzione. Non era la parentela a rendere necessario un rapporto, ma qualcosa di più profondo. Camminare verso la verità, nella verità. E camminare in quella direzione voleva dire una sola cosa: cancellare, giorno dopo giorno, la menzogna, la noia perpetua e falsificante dell’ovvietà delle parole già dette, dei pensieri già pensati. Voleva dire anche non avere alcun timore di entrare in una dimensione più profonda, quella dell’amore che niente pretende, niente separa, cieco davanti ogni forma di giudizio.

Alla nostra mente così piccola, così sempre desiderosa di distinguo, di separazioni, di cassetti ordinati in cui mettere le cose, di recinti in cui rinchiudere le persone, questo tipo di amore fa una paura tremenda perché, in qualche modo, si trasforma in una kenosis, in un vuoto.

Ma, a differenza del nulla a cui, fin dalla più tenera età, ero stata ammaestrata da mio padre – un nulla deserto, brullo, sterile, in cui l’unica forma di movimento era quello di qualche rotolo di spine o di qualche barattolo trascinato dal vento – il nulla propostomi da mia nonna, l’annullamento che veniva da Auschwitz e che, attraverso il suo corpo e le sue parole, era giunto fino a me, conteneva in sé il principio perpetuamente rigenerante della redenzione.

A questo principio ho dedicato le ultime righe di Và dove ti porta il cuore. “Stai ferma in silenzio e ascolta il tuo cuore…”

 

(Susanna TAMARO, Ogni angelo è tremendo, Bompiani, Milano, 2013, 199-201)

 

 

La sofferenza come maestra

Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore. Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita. Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono. Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo. Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.

Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti. Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto. E Ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla. 

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).

Dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare

Noi riceviamo dalla grazia di Dio molti e svariati doni; in cambio di ciò che abbiamo ricevuto dobbiamo rendere grazie con la preghiera a chi ce li ha donati. Penso che anche se trascorressimo la nostra vita intera nel colloquio con Dio ringraziandolo e pregandolo, saremmo ancora lontani dal contraccambiarlo adeguatamente; ci troveremmo, in un certo senso, a non aver neppure cominciato a concepire il desiderio di ringraziarlo. Il tempo si divide in tre parti: passato, presente e futuro. In tutti e tre noi sperimentiamo la benevolenza del Signore. Se pensi al presente, sei in vita grazie al Signore. Se pensi al futuro, su di lui riposa la speranza di ciò che attendi. Se guardi al passato, non saresti in vita, se il Signore non ti avesse creato. Ti ha fatto il dono di ricevere vita da lui, e, una volta nato, ti è fatto il dono di avere in lui la vita e il movimento, come dice l’apostolo (cfr. At 17,28). Da questo stesso dono dipendono le tue speranze future. Nelle tue mani è soltanto il presente. Anche se tu non smettessi mai di ringraziare Dio, a stento potresti ringraziare per il tempo presente, ma non potresti mai rendere ciò che devi per il futuro o per il passato. Siamo ben lontani, del resto, dal rendere grazie secondo le nostre capacità! Non facciamo il possibile per ringraziare, non dico tutto il giorno, ma neppure una piccola parte del giorno, dedicandola a meditare le opere divine. Chi ha dispiegato la terra ai miei piedi? […] Chi ha dato a me, polvere senz’anima, vita e intelligenza? Chi ha plasmato me, che sono argilla a immagine di Dio? Chi ha restituito alla mia immagine alterata dal peccato il suo primitivo splendore? Chi riconduce alla primitiva beatitudine me che sono stato cacciato dal paradiso, allontanato dall’albero di vita, immerso nell’abisso dell’esistenza terrena? Non vi è chi comprenda (cfr. Rm 3,11), dice la Scrittura. Considerando queste cose, dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare per tutta la nostra vita.

(GREGORIO DI NISSA, Sul Padre nostro 1, PG 44, 1124C-1125C).

Insegnaci a non amare solo noi stessi

Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che in ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo; e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.

(Raoul Follereau)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVIII DOM TEMP ORD (C)

“L’evoluzione digitale della specie”

“Si parla sempre di connettività ma la nuova tecnologia della comunicazione non crea un tessuto sociale connesso”. Lo ha dettoGiuseppe De Rita, presidente del Censis, in occasione della presentazione dell’11° “Rapporto sulla comunicazione – L‘evoluzione digitale della specie” realizzato dal Censis e dall’Ucsi con la collaborazione di Rai, Mediaset, Mondadori, Telecom e 3 Italia. Il rapporto è stato illustrato questa mattina a Roma durante un convegno al quale hanno partecipato: Andrea Melodia, presidente Ucsi, Gina Nieri di Mediaset, Antonio Marano della Rai, Vincenzo Novari di 3 Italia, Giulio Anselmi della Fieg, Angelo Marcello Cardani, presidente Agcom. “Assistiamo ad una molecolarizzazione dell’individuo. Tutto il sistema della comunicazione esalta l’individualità. È il trionfo del relativismo mentre scompare la dimensione collettiva”, ha detto De Rita. “Anche Papa Francesco è stato accusato di relativismo perché sembra aver sposato la dimensione molecolare del mondo. Ma – ha spiegato il sociologo – conosco bene l’educazione dei gesuiti per dire che questo fa parte di una prospettiva di crescita che prevede un percorso che parta dalla presa di coscienza dell’individuo. La cosiddetta rivoluzione digitale, invece, non ha una sua logica interna”.
 
Televisione sempre al primo posto. Secondo i dati presentati oggi, quasi tutti gli italiani guardano la televisione (il 97,4%). Cresce il pubblico delle nuove televisioni:
+8,7% per le tv satellitari rispetto al 2012, +3,1%; sale anche il consumo della web tv, +4,3% e della mobile tv. E questi dati sono ancora più elevati tra i giovani: il 49,4% degli under 30 segue la web tv e l’8,3% la mobile tv. L’uso dei cellulari continua ad aumentare (+4,5%), soprattutto grazie agli smartphone sempre connessi in rete (+12,2% in un solo anno), la cui utenza è ormai arrivata al 39,9% degli italiani (e la percentuale sale al 66,1% tra gli under 30).
 
La tv come ponte fra le generazioni. “La tv deve svolgere un ruolo di ponte fra le generazioni”, ha detto Andrea Melodia, presidente dell’Ucsi. “Siamo arrivati al paradosso che i nuovi contenuti veicolati dalla rete sono utilizzati dai giovani ma sono pagati dagli anziani”. Secondo Melodia “sappiamo che la comunicazione degli anziani è monopolizzata dalla televisione generalista. Sappiamo anche che solo la televisione generalista, i cui contenuti raggiungono tutta la popolazione, giovani compresi, è in grado di fare da ponte tra le generazioni. Dunque è alla tv generalista, cominciando dal servizio pubblico, che dobbiamo richiedere un grande sforzo per superare sia il gap digitale sia quello generazionale”. Sul tema dei contenuti, Melodia ha lanciato un allarme. “La Rai deve ridare piena credibilità al proprio prodotto, cominciando da quello informativo”. Secondo Melodia: “i giovani saranno vittime del guru di turno che avrà imparato a non privarli della libertà formale e a intrattenerli invece in uno sterile mix fatto di disimpegno al limite del qualunquismo, vacua indignazione e scelte irrazionali”.
 
Gli italiani, Internet e la carta stampata. Gli utenti di Internet, dice il rapporto Censis-Ucsi, dopo il rapido incremento registrato negli ultimi anni, sono ora circa il 63,5% della popolazione (+1,4% rispetto a un anno fa). La percentuale sale nel caso dei giovani (90,4%) e delle persone più istruite, diplomate o laureate (84,3%). Non si arresta il fenomeno dei social network. Facebook è seguito dal 69,8% delle persone che hanno accesso a internet (erano il 63,5% lo scorso anno). YouTube arriva al 61% di utilizzatori. E il 15,2% degli internauti usa Twitter. I quotidiani hanno registrato un calo di lettori del 2% (l’utenza complessiva si ferma al 43,5% degli italiani), -4,6% la free press (21,1% di lettori), -1,3% i settimanali (26,2%), stabili i mensili (19,4%). Stazionari anche i quotidiani online (+0,5%), in crescita gli altri portali web di informazione, che contano l’1,3% di lettori in più rispetto allo scorso anno, attestandosi a un’utenza complessiva del 34,3%.
 
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L’impegno degli insegnanti per il futuro del Paese

Domani, 5 ottobre 2013, tutta l’AIMC sarà impegnata nella realizzazione della manifestazione Cento piazze, giunta alla sua IV Edizione per celebrare la Giornata mondiale dell’insegnante.
Il tema scelto quest’anno L’impegno degli insegnanti per il futuro del Paese, si pone un triplice intento:
– evidenziare la complessità della professione docente. Gli insegnanti non sono soltanto mediatori di un programma da svolgere, ma sono professionisti che, ogni giorno, nella scuola hanno a che fare con una realtà complessa e, insieme ad altri soggetti, impegnati direttamente e indirettamente nell’educazione delle giovani generazioni, costruiscono il futuro del Paese.
esortare gli insegnanti a non rinunciare all’impegno. Chi sceglie di essere docente sceglie non solo di svolgere un mestiere, ma svolge una professione che impegna quotidianamente a formare persone, i cittadini di domani, pur nella complessità dei contesti, delle condizioni e delle situazioni di difficoltà in cui si opera;
 
 
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Gli insegnanti tornino a illuminare cuori e menti giovani
 
Insegnanti in prima linea. Il futuro dell’Italia si costruisce con il contributo di tutti: una chiamata alla corresponsabilità all’interno della quale a rivestire un ruolo strategico è proprio la scuola, purtroppo fanalino di coda nell’agenda politica. È stato questo il filo conduttore della quarta edizione della manifestazione “Cento piazze 2013”, su “L’impegno degli insegnanti per il futuro del Paese”, organizzata questa mattina a Roma dall’Associazione italiana maestri cattolici (Aimc), in collaborazione, tra gli altri, con l’Ufficio nazionale educazione, scuola e università della Cei, in occasione della Giornata mondiale degli insegnanti, promossa il 5 ottobre dall’Unesco. Teatro dell’incontro la Biblioteca “Giovanni Spadolini” del Senato.

Fiaccole da accendere. “Hanno la grande responsabilità e l’immenso privilegio di contribuire in modo determinante allo sviluppo” del Paese”, afferma il presidente del Senato Pietro Grasso, secondo il quale gli insegnanti sono chiamati a “formare i giovani anche dal punto di vista sociale e morale”, a educarli alla “civile convivenza, al rispetto delle differenze tra persona e persona, tra culture e religioni”, alla legalità. Per questo “istruzione, formazione, cultura devono essere prioritarie, inserite negli obiettivi strategici per la crescita”. Sulla stessa linea don Maurizio Viviani, direttore dell’Ufficio Cei: “La missione dell’insegnante è dare fiducia, indicare la strada”. E un autentico “servizio educativo è aprire la mente e il cuore dei giovani, far intravedere loro il futuro e prepararli ad affrontarlo”. Il richiamo, quindi, al “significativo contributo” che l’Aimc sta offrendo al percorso “La Chiesa per la scuola”, e all’incontro con le scuole, il prossimo 10 maggio, di Papa Francesco. Gli alunni, conclude, “non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”. 

Luce che corre. Una giornata “non di celebrazione ma di riflessione e testimonianza”, osserva Giuseppe Desideri, presidente nazionale Aimc, secondo il quale occorre “dare una speranza di futuro ai nostri ragazzi”. Della necessità di “un’alleanza strategica tra scuola, mezzi di comunicazione e famiglia” per far “maturare una consapevolezza più grande”, che “si può riassumere nel concetto di etica della responsabilità”, parla il giornalista Rai Francesco Giorgino. Intensa e toccante la testimonianza di Annalisa Minetti, ipovedente, cantante e medaglia di bronzo alle Paralimpiadi Londra 2012: “Non importa quanto tempo si impieghi a raggiungere un obiettivo; l’importante è la volontà di affrontare la sfida. Non si è vincenti quando si sale sul podio, ma quando si decide di impegnarsi in un’impresa”. Di qui il ricordo dei suoi insegnanti all’istituto di ragioneria; anche attraverso loro, dice, “ho sviscerato e superato il mio dolore. Sono diventata luce e corro per illuminare le persone che non vogliono ascoltare”. 

Da straordinario a ordinario. Dopo i videomessaggi di docenti e dirigenti scolastici di Belgio, Inghilterra, Argentina, Olanda, Rosa Musto, coordinatore nazionale scuole associate Unesco-Italia (81 su tutto il territorio), introduce alcune esperienze di rappresentanti della rete. Maria Rosa Mortillara descrive “Classe 2.0”, percorso di “didattica multimediale avviato nel 2007” al Convitto nazionale “Vittorio Emanuele II” di Roma. “Scommettiamo che…” è il “progetto trandisciplinare” del liceo classico La Mura di Angri-Salerno, “nato dalla dieta mediterranea” per “coniugare cultura scientifica e umanistica”, spiega Rossana Rosapepe. Forte e accorata la testimonianza di Rosalba Rotondo, preside Istituto comprensivo Ilaria Alpi – Carlo Levi (Scampia – Napoli). Una realtà “complessa” quella di Scampia, “in gran parte negativa ma non solo. Occorre dire basta ai film che speculano su questo marchio di infamia”. “Chiedo all’intellighenzia di impegnarsi per neutralizzare il male”. Basta anche ai “progetti straordinari. I finanziamenti si esauriscono, e poi? Rendiamo lo straordinario ordinario”. La legalità, conclude, “si costruisce attraverso un processo induttivo: attraverso il godimento di beni e servizi, i nostri ragazzi possono dire: ‘Ora capisco che cos’è la legalità e la cittadinanza partecipata’”. A testimoniare la “grande domanda di integrazione presente tra gli immigrati”, è Daniela Pompei, responsabile servizi immigrati Comunità Sant’Egidio, descrivendo l’impegno con i rom – “un progetto a Roma e a Napoli-Scampia che prevede 100 euro al mese alle famiglie per favorire la frequenza scolastica dei bambini”, e la scuola di lingua e cultura italiana che quest’anno festeggia i 30 anni. 

a cura di Giovanna Pasqualin Traversa

Scuola, luogo della responsabilità

Siamo all’inizio di un nuovo anno scolastico e, come si è giustamente soliti sottolineare, ogni inizio porta sempre con sé un dono: il dono di un cammino formativo, del comune impegno alla crescita e allo sviluppo integrale della persona umana, dell’attenzione profonda a tutti gli aspetti della vita dell’uomo, del bene comune di tutti e di ciascuno. Se da una parte il primo soggetto naturale e insostituibile di questo processo rimane la famiglia nella sua peculiarità e specificità, la scuola però svolge un compito fra i più importanti di questo cammino di crescita. Mi sembra doveroso partire dalla dimensione del dono in quanto, pur non mancando certo difficoltà e criticità, è pur vero che la dedizione, l’attenzione, la professionalità e l’impegno di coloro che, a qualunque titolo, quotidianamente operano in questo settore permette di tenere lo sguardo positivamente orientato verso l’obiettivo comune da raggiungere.
 

XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Abacuc 1,2-3;2.2-4

Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese.  Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede».

 

Un testo forte, vorrei dire drammatico, sulla fede, sulle sue difficoltà e, pur tuttavia, sulla necessità di rimanervi attaccati con tutto il nostro essere è il brano della prima lettura, ripresa dal profeta Abacuc, di cui sappiamo quasi nulla, salvo che dovrebbe aver vissuto ed operato verso il 600 a.C., più o meno contemporaneo di Geremia.

     Davanti allo scempio che avevano fatto i Babilonesi distruggendo la città santa (587-86), davanti alla loro tracotanza e violenza, sembra che Dio si sia dimenticato del suo popolo e non voglia più ascoltare le sue suppliche. È per questo che il profeta insorge e mette quasi sotto accusa Dio: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti… Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (1,2-3).

     Non è un bestemmiatore, il profeta, ma molto arditamente domanda al Signore se c’è un senso in tutto questo e se il popolo può ancora continuare a sperare. Alla fine Dio risponde e garantisce che a un tempo «stabilito», che lui solo conosce, la salvezza verrà: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà» (2,3).

     Il testo si conclude con una riflessione del profeta stesso, che lapidariamente descrive l’esito diverso di chi conta solo sulle proprie forze, come i Caldei, e di chi invece è «fiducioso» nel Signore, come devono esserlo i Giudei ai quali egli si rivolge: «Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,4).

     È risaputo che Paolo adopererà questo testo, secondo la versione greca dei LXX, per formulare la sua dottrina della «giustificazione» per la sola fede in Cristo (cf. Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38). Nel testo originale più che di fede si parla di «fedeltà» a Dio, al suo disegno di salvezza: chi avrà il coraggio di «fidarsi» di lui, di buttarsi nelle sue mani, soprattutto nei momenti bui dell’esistenza, propria o della comunità, non verrà deluso, mentre «colui che non ha l’animo retto», perché confida solo in se stesso, «soccomberà».

 

Seconda lettura:  2Timoteo 1,6-8.13-14 

Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato. 

 

Nel brano della seconda lettera a Timoteo abbiamo di nuovo il tema della fede, però considerata più nel suo contenuto (la fides quae creditur, come dicono i teologi) che come atteggiamento dell’anima, aperta a ricevere il messaggio (fides qua creditur).

     E si capisce il perché di questa prospettiva diversa: Paolo si rivolge al suo discepolo prediletto, forse scoraggiato e un po’ anche depresso per le difficoltà del suo apostolato, allo scopo di richiarmarlo al senso della sua missione pastorale: «ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). Nella sua consacrazione egli non ha ricevuto uno «spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (1,7): perciò non deve «vergognarsi» di rendere testimonianza al Signore Gesù, né delle «catene» in cui per il momento è costretto l’apostolo, quasi che fosse un perdente. Piuttosto «soffri con me per il Vangelo. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (1,8), prendendo proprio come esempio il suo maestro (1,13).

     A conclusione troviamo il solenne richiamo a custodire integro il «bene prezioso», cioè la totalità del mistero cristiano, da annunciare con coraggio e fedeltà. L’immagine del «bene prezioso» è ripresa dalla prassi giuridica del tempo, secondo la quale il depositario di qualche oggetto prezioso, o di una determinata quota di denaro, era obbligato a restituire integri, in qualsiasi momento, al depositante gli oggetti a lui affidati, pena gravissime punizioni in caso di inadempienza. A Timoteo è stato affidato qualcosa di più prezioso che oro o argento; di qui la sua grave responsabilità: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi » (1,14).

 

Vangelo: Luca 17,5-10 

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». 

Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». 

 

Esegesi 

Signore: «Accresci in noi la fede!».                     .

     Eloquente al riguardo è il brano di Vangelo, che si articola in due sezioni: la prima (Lc 7,5-6) è rintracciabile, diversa, nella comune tradizione sinottica (cf. Mc 9 24; Mt 17,20, 21,22), la seconda (17,7-10) fa parte del tipico patrimonio lucano ed è coerente con le dinamiche del suo pensiero.                   

     Dunque gli Apostoli, un bel giorno, chiedono a Gesù: «Accresci in noi la fede!». Accanto a lui, quotidianamente, non potevano non avvertire che in lui c’era qualcosa che andava oltre il comune limite dell’umano: si dovevano perciò essere aperti a un rapporto di «fiducia» altissima di fronte a Gesù. Ma questa era davvero «fede», come pensavano gli Apostoli dal momento che lo pregano di «aumentargliela»?

     Sembra che Gesù non condividesse questa convinzione, per il fatto che in forma ipotetica, afferma che di fede ne basterebbe solo un pizzico per compiere addirittura miracoli: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (v. 6). 

     Due testi paralleli di Matteo riportano l’immagine del «monte» che potrebbe essere spostato nel mare; Luca, più coerentemente con l’immagine del «granello di senapa», parla di un gelso, o di un sicomoro, che è una delle piante più fortemente radicate sul terreno. Comunque, a parte la diversità delle immagini, il pensiero è chiaro: basta un mimmo di fede che sia autentica, profonda, al di là di ogni dubbio o incertezza, perché il miracolo, l’umanamente impossibile, avvenga.

     Perciò praticamente Gesù, per un verso, invita i suoi discepoli a verificare la propria fede; per un altro verso, assicura loro che la preghiera fatta con fede ottiene tutto: anche «l’aumento» e la «crescita» stessa della fede, esattamente come scrive S. Paolo, «di fede m fede» (Rm 1,17).

     — «Siamo servi inutili»                                      

     E soprattutto di fede «adulta», tesa costantemente a crescere, c’è bisogno quando potrebbe sembrarci che il nostro servizio fosse di poco conto, o che non fosse sufficientemente remunerato. È quanto si afferma nella seconda sezione del brano evangelico (vv. 7-10) con la parabola del servo che, dopo aver fatto il suo lavoro, nei campi o dietro il gregge, e

pregato ancora di preparare da mangiare al padrone prima di assidersi  pure lui a mensa.

     È indubbiamente urtante per la sensibilità moderna assai mercantilizzata la conclusione che ne trae Gesù: «Forse che il padrone si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (vv. 9-10).

     Gesù si riferisce qui alle abitudini sociali del tempo (che certamente non prevedevano contratti sindacali), senza peraltro esprimere nessuna valutazione morale al riguardo. Il quadro gli serve semplicemente per dire che davanti a Dio nessuno può avanzare delle pretese: anche il massimo che potremmo aver fatto non crea nessuna posizione di privilegio, perché abbiamo fatto solamente «quanto dovevamo fare». Siamo tutti «servi inutili» davanti a lui: ci ha scelti per pura grazia a collaborare alla costruzione del regno e dobbiamo rispondergli con pienezza di impegno, grati solo perché ci ha chiamati ad essere «servi», e non «padroni»: lui soltanto è il «padrone»!

     Questo discorso è chiaro che vale per tutti, ma soprattutto per coloro che Dio ha chiamato all’apostolato, proprio come i Dodici. Ciò che alla luce della ragione potrebbe apparire evidente, alla luce della fede appare addirittura esaltante: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare», proprio perché egli ci ha dato la grazia di farlo.

 

Meditazione 

     La fede è il tema unificante la prima lettura e il vangelo. Nella prima lettura si tratta della fede messa alla prova dal silenzio e dall’inazione di Dio e chiamata a divenire attesa perseverante e fiduciosa nella promessa di Dio. Così, anche in tempi bui, il giusto troverà vita grazie alla fede. Nel vangelo si tratta della fede come realtà non quantificabile, ma qualitativa, caratterizzata dalla relazione di abbandono fiducioso del servo al suo Signore.

     Di fronte alle parole di Gesù che parlano di perdono fino a sette volte al giorno nei confronti del fratello che pecca (Lc 17,3-4), gli apostoli pregano Gesù di accrescere la loro fede (Lc 17,5). Essi mostrano così di aver ben capito che il perdono non è solo un gesto etico, ma è evento escatologico, dono dello Spirito santo, irruzione del Regno di Dio nella vita degli uomini. Mostrano di aver capito che la comunione nella comunità cristiana – comunione a cui è essenziale il perdono – è possibile solo grazie alla fede, al far regnare la signoria di Dio. Ma chiedendo la fede essi mostrano anche di aver compreso che la fede è dono che trova nel Signore stesso la sua origine e la sua fonte.

     E mostrano di aver capito che della fede – propria e altrui – non si è padroni e non la si può imporre, ma solo la si può accogliere con gratitudine e nutrire con la preghiera. E ancora che anche per loro, «gli apostoli» (Lc 17,5), i Dodici scelti direttamente da Gesù, la fede non è una realtà scontata. Anzi la fede è sempre «poca» e i discepoli sono sempre «uomini di poca fede», ovvero incapaci di quella relazione di abbandono pieno e fiducioso, gratuito e convinto, umile e perseverante, dolce e robusto, in una parola, di quell’amore che è alla base della potenza della fede.

     La fede e null’altro è alla base dell’autorità degli apostoli: questo è sottolineato da Luca con l’annotazione che, se avessero fede quanto un minuscolo granello di senape, potrebbero farsi «obbedire» (verbo hypakoúein: Lc 17,6) anche da un albero a cui viene ordinata una cosa folle. Solo la fede consente al predicatore, al missionario, all’apostolo di farsi eco – con la propria azione e la propria parola – dell’azione e della parola di Dio e di suscitare nel destinatario l’adesione teologale, non un’appartenenza alla propria persona.

       Nel detto parabolico dei vv. 7-10 Gesù prima paragona gli apostoli a dei padroni che hanno dei servi, poi direttamente a dei servi, e per di più, inutili. L’autorità nella chiesa si declina come servizio ed esclude ogni rapporto di forza e di dominio. Il passaggio dall’«avere un servo» (Lc 17,7) all’«essere servi» (Lc 17,10) è significativo: nella comunità cristiana non vi sono padroni e servi, ma vi sono dei fratelli che sono dei servi dell’unico Signore e maestro (cfr. Mt 23,8-10). L’autorità nella chiesa deve passare attraverso il vaglio dell’umiltà e del servizio per non esprimersi come potere e oscurare così l’unica signoria di Gesù: «Un apostolo non è più grande di chi l’ha inviato» dice Gesù ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi durante l’ultima cena (Gv 13,16).

     Ecco dunque la situazione, paradossale ma salvifica, in cui è posto il missionario, l’apostolo nella comunità cristiana: la sua autorità riposa interamente sul suo essere inviato come servo (Lc 17,7; At 20,19), per lavorare il campo di Dio (1Cor 3,5 ss.), per arare (Lc 17,7; 1Cor 9,10) o pascolare (Lc 17,7; At 20,28; 1Cor 9,7). La sua autorità riposa sulla sua obbedienza alla parola del Signore (Lc 17,10). Ed ecco la coscienza con cui il servo è chiamato ad esercitare il suo ministero: l’inutilità. Non che il suo spendersi sia inutile, ma la coscienza che anima l’apostolo è liberante e liberata quando egli compie tutto senza nulla far risalire a se stesso, ma tutto rinviando al Signore che è all’origine della sua chiamata e di ogni fecondità apostolica. Paolo, dopo aver ricordato di aver «servito il Signore con tutta umiltà» (At 20,19) dice: «La mia vita non è meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi e stato affidato dal Signore Gesù» (At 20,24).

Preghiere e racconti

Fede e certezze

Francesco parla anche del «cercare e trovare Dio in tutte le cose» di San’Ignazio di Loyola, fondatore dei gesuiti, e spiega: «Si, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mose, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili». Così «l’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre».

(Intervista del Direttore a Papa Francesco, in «Civiltà Cattolica» 164 (2013/III) 3918, 449-477).

La fede di papa Francesco

«La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa — mi creda — non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità. Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme».

(Dalla Lettera di Papa Francesco a Eugenio Scalfari – 11  settembre 2013). 

La possibilità della fede

“Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli – voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio – Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(Matteo 17,20). Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento. Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore. Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé. Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane. Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi. “Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard). Eppure, credere non è un atto irragionevole. È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama.

(Bruno FORTE, Lettera ai ricercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 27-28)

L’inquietudine della notte della fede

Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.

Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.

Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi. Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).

Fede

La fede non è una sicurezza ma un cammino silenzioso.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 184).

La ricerca di Dio

Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia. E che anche la Fede è una Notte Buia. Di certo, non può dirsi una sorpresa. Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia. Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti. Perché ‘confidano’. Perché hanno Fede. […] Ogni momento della vita è un atto di fede.

(Paulo COELHO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31)

Dona a ogni istante il mio amore eterno

Mio Dio, sorgente senza fondo della dolcezza umana,

addormentandomi lascio scorrere il mio cuore in Te

come un recipiente caduto nell’acqua di una fontana

e che Tu riempi di Te stesso senza di noi.

In Te domattina ritornerò a prenderlo

pieno dell’amore che occorre per la giornata.

O Dio, ne tiene poco, ahimè! Per quanto Tu spanda

i Tuoi flutti su di esso, non ne trattiene mai più di un po’.

Ma rinnovami senza fine questo po’ di acqua viva,

donamelo fin dall’alba, ai piedi dell’arduo giorno

e ridonamelo ancora quando giunge la sera,

prima di sera, Signore, poiché l’avrò perduto.

O Tu dal quale il giorno riceve senza sosta il giorno

grazie al quale l’erba che cresce è cresciuta nella notte,

che continuamente aggiungi all’albero che cresce

l’invisibile altezza che lo conduce in aria,

dona al mio cuore debole e molto limitato,

al mio cuore con tanta fatica amante e fraterno.

Dio paziente delle opere lente e piccole,

dona a ogni istante il mio amore eterno.

(M. Noël, I canti della pietà).

La tentazione dell’impazienza

«Cercare subito il grande successo, i grandi numeri… non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio […] vale sempre la parabola del grano di senape (cfr. Mc 4, 31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. […] Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

Il dubbio e la grazia

Ogni mattino,

Dio nomina il suo governo.

Un giorno è il sole a presiederlo,

con il marmo e la rugiada

come grandi funzionari,

e laggiù nei mondi molto evanescenti

un albero di virtù

porta la sua ambasciata.

L’indomani,

Dio capovolge l’ordine:

il nero oceano gode della sua fiducia,

ed esso delega i suoi poteri

alla dolce collina,

al ruscello che canticchia,

a qualche mezzofico

trovato nella polvere.

Ma Dio deve perfezionarsi: è la sua legge;

oggi si circonda

di un pangolino esperto in scienze occulte,

di un’isola che gli mostra

discretamente della tenerezza,

di una pioggia fine dalle favole edificanti,

di una lunetta un po’ gobba

che gli riferisce le voci che circolano.

Dio non ha mai trovato un buon ministro

degli affari divini.

(A. Bosquet, Il libro del dubbio e della grazia)

Aumenta la nostra fede

«Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5). Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio. Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24). I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali. Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).

(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp. 160-161).

 

 

 

Preghiera

Signore, fa di me ciò che vuoi!

Non cerco di sapere in anticipo i tuoi disegni su di me,

voglio ciò che Tu vuoi per me.

Non dico: “Dovunque andrai, io ti seguirò!”,

perché sono debole,

ma mi dono a Te perché sia Tu a condurmi.

Voglio seguirTi nell’oscurità,

non Ti chiedo che la forza necessaria.

O Signore, fa’ ch’io porti ogni cosa davanti a Te,

e cerchi ciò che a Te piace in ogni mia decisione

e la benedizione su tutte le mie azioni.

Come una meridiana non indica l’ora se non con il sole,

così io voglio essere orientato da Te,

Tu vuoi guidarmi e servirTi di me.

Così sia, Signore Gesù!

(John Henry Newman)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVII DOM TEMP ORD (C)

Seminario gratuito: Raccontarsi e Riscoprirsi. Il potere terapeutico dell’Autobiografia

Torna per il quinto anno consecutivo il Mese del Benessere Psicologico, l’importante  campagna di sensibilizzazione e promozione della cultura psicologica organizzata da  cinque anni dalla S.i.p.a.p. Società Italiana Psicologi Area Professionale privata che ha lo scopo di offrire gratuitamente ai cittadini italiani uno spazio per essere ascoltati  da specialisti e cercare i percorsi possibili per migliorare la qualità della propria vita. Un’iniziativa che ha acquisito sempre più consensi da parte della popolazione e delle  stesse istituzioni, tanto da raggiungere anche quest’anno sette regioni italiane:  Lombardia, Trentino, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Marche.
Le consulenze e i seminari, come sempre gratuiti per tutto il mese di ottobre, saranno  diretti a promuovere la cultura psicologica e ad informare i cittadini su tematiche  d’interesse psicologico.
Sarà messo a disposizione dell’utenza un centralino unico nazionale che sarà attivo dal  23 settembre per tutta la durata del mese di ottobre e metterà in contatto l’utenza con gli specialisti psicologi associati alla Sipap che aderiscono al progetto aprendo i loro studi e 
offrendo gratuitamente le loro competenze nelle diverse località italiane suddette.
 
Ecco le modalità per prenotare una consulenza o un seminario: 
I cittadini potranno telefonare dalla rete fissa al numero verde 800.76.66.44, mentre 
dai telefoni cellulari potranno comporre il 333.40.271.40.
Il centralino opererà dal Lunedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 18.00, per il suo  tramite gli utenti potranno prendere appuntamento per una consulenza psicologica con lo psicologo più vicino, prenotare la partecipazione ai moltissimi seminari in calendario. 
 
Per consultare il calendario, le sedi dei seminari e i recapiti dei professionisti basterà  visitare il sito internet www.sipap.org da cui si accederà al sito che la S.i.p.a.p. ha  costruito appositamente per questo progetto www.mesebenesserepsicologico.it. 
Il sito offre un motore di ricerca interno in cui si può selezionare la regione d’appartenenza  in cui individuare sia gli psicologi esperti più vicini, sia i seminari più adatti alla sfera d’interesse dei singoli utenti. 
I seminari sono volti ad affrontare i temi che maggiormente interessano la società  contemporanea, dai conflitti di coppia all’educazione dei figli, dalla depressione all’ansia,  dalle dipendenze da sostanze e da gioco d’azzardo ai disturbi dell’alimentazione, dalle problematiche collegate alla crisi sociale e lavorativa al mobbing.
L’iniziativa offre anche un vasto panorama di tematiche che affrontano i tanti disagi esistenziali, il difficile incontro tra maschile e femminile, l’integrazione e la realizzazione del singolo, la cura delle problematiche dell’infanzia e dell’età evolutiva, i disagi e le 
opportunità della terza età, le perversioni. Gli psicologi interessate che partecipano al progetto sono circa 500 distribuiti nelle sette 
regioni interessate. I seminari sono circa 550.
 
La Sipap – Società Italiana Psicologi Area Professionale