L’annuncio, fatto da Benedetto XVI dopo l’Angelus di Capodanno, di un suo viaggio ad Assisi, il prossimo ottobre, per un nuovo incontro tra le religioni per la pace, ha rinfocolato le controversie non solo sul cosiddetto “spirito di Assisi”, ma anche sul Concilio Vaticano II e il postconcilio.
Il professor Roberto de Mattei – fresco autore di una riscrittura della storia del Concilio che culmina nella richiesta a Benedetto XVI di promuovere “un nuovo esame” dei documenti conciliari per dissipare il sospetto che abbiano rotto con la dottrina tradizionale della Chiesa – ha firmato assieme ad altre personalità cattoliche un appello al papa affinchè il nuovo incontro ad Assisi “non riaccenda le confusioni sincretiste” del primo, quello convocato il 27 ottobre 1986 da Giovanni Paolo II nella città di san Francesco.
In effetti, nel 1986, l’allora cardinale Joseph Ratzinger non si recò a quel primo incontro, contro il quale era critico.
Partecipò invece a una sua replica tenuta sempre ad Assisi il 24 gennaio 2002, alla quale aderì “in extremis” dopo essersi assicurato che gli equivoci dell’incontro precedente non si ripetessero.
L’equivoco principale alimentato dall’incontro di Assisi del 1986 è stato quello di equiparare le religioni come sorgenti di salvezza per l’umanità.
Contro questo equivoco la congregazione per la dottrina della fede emanò nel 2000 la dichiarazione “Dominus Iesus”, per riaffermare che ogni uomo non ha altro salvatore che Gesù.
Ma anche da papa, Ratzinger è tornato a mettere in guardia dalle confusioni.
In un messaggio al vescovo di Assisi del 2 settembre 2006 ha scritto: “Per non equivocare sul senso di quanto, nel 1986, Giovanni Paolo II volle realizzare, e che, con una sua stessa espressione, si suole qualificare come ‘spirito di Assisi’, è importante non dimenticare l’attenzione che allora fu posta perché l’incontro interreligioso di preghiera non si prestasse ad interpretazioni sincretistiche, fondate su una concezione relativistica.
[…] Perciò, anche quando ci si ritrova insieme a pregare per la pace, occorre che la preghiera si svolga secondo quei cammini distinti che sono propri delle varie religioni.
Fu questa la scelta del 1986, e tale scelta non può non restare valida anche oggi.
La convergenza dei diversi non deve dare l’impressione di un cedimento a quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità di attingerla”.
E in visita ad Assisi il 17 giugno 2007, ha detto nell’omelia: “La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose.
Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.
[…] Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo, unico Salvatore del mondo”.
Tornando alla controversia sul Concilio Vaticano II, va segnalato un importante convegno tenuto il 16-18 dicembre scorso a Roma, a pochi passi dalla basilica di San Pietro, “per una giusta ermeneutica del Concilio alla luce della Tradizione della Chiesa”.
È finita sotto il giudizio critico dei relatori soprattutto la natura “pastorale” del Vaticano II, con gli abusi avvenuti in suo nome.
Tra i relatori c’erano il professor de Mattei e il teologo Brunero Gherardini, 85 anni, canonico della basilica di San Pietro, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista di teologia tomista “Divinitas”.
Gherardini è autore di un volume sul Concilio Vaticano II che si conclude con una “Supplica al Santo Padre”.
Al quale viene chiesto di sottoporre a riesame i documenti del Concilio, per chiarire “se, in che senso e fino a che punto” il Vaticano II sia o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.
Il libro di Gherardini ha la prefazione di Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo ed ex segretario della congregazione vaticana per il culto divino, fatto cardinale nel concistoro dello scorso novembre.
Ranjith è uno dei due vescovi ai quali www.chiesa ha dedicato recentemente un servizio con questo titolo: > I più bravi allievi di Ratzinger sono in Sri Lanka e Kazakhstan E il secondo di questi vescovi, l’ausiliare di Karaganda, Athanasius Schneider, era presente al convegno romano del 16-18 dicembre, come relatore.
Qui sotto è riportata la parte finale della sua conferenza.
Che si conclude con la proposta di due rimedi agli abusi del postconcilio.
Il primo è l’emanazione di un “Syllabus” contro gli errori dottrinali di interpretazione del Vaticano II.
Il secondo è la nomina di vescovi “santi, coraggiosi e profondamente radicati nella tradizione della Chiesa”.
Ad ascoltare Schneider c’erano cardinali, dirigenti di curia e teologi di rilievo.
Basti dire che tra gli stessi relatori c’erano il cardinale Velasio de Paolis, l’arcivescovo Agostino Marchetto, il vescovo Luigi Negri e monsignor Florian Kolfhaus della segreteria di stato vaticana.
Tra gli ascoltatori c’era una folta schiera di Francescani dell’Immacolata, una giovane congregazione religiosa sorta nel solco di san Francesco, fiorente di vocazioni e di orientamento decisamente ortodosso, agli antipodi del cosiddetto “spirito di Assisi”, promotrice dello stesso convegno.
Autore: La redazione
Il parlamento italiano a favore della libertà religiosa
Sulle misure necessarie a far cessare le violenze contro i cristiani nel mondo è arrivata ieri la forte presa di posizione del Parlamento italiano.
Tanto più significativa per la quasi totale unanimità, registrata sia nell’aula della Camera (al mattino) sia quella del Senato (in serata), nell’approvare due mozioni unitarie, pressoché analoghe.
Messe per una volta da parte le fisiologiche divergenze e spaccature, e accantonate le mozioni di partito presentate in partenza, il testo di Montecitorio è passato con 504 voti a favore e nove astensioni.
Bocciata, invece, una risoluzione presentata dai radicali, che sul testo comune si sono astenuti.
A Palazzo Madama specularmente sono stati tre in tutto a non votare «sì».
Il voto «è la dimostrazione del valore che il Parlamento italiano attribuisce a un tema così delicato», ha commentato il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica.
Il Parlamento impegna il governo «a far valere con ogni forma di legittima pressione diplomatica ed economica il diritto alla libertà religiosa, in particolare dei cristiani e di altre minoranze perseguitate, laddove risulti minacciata o compressa per legge o per prassi, sia direttamente dalle autorità di Governo, sia attraverso un tacito assenso e l’impunità dei violenti».
Poi «a promuovere in Italia, nelle scuole e in ogni ambito culturale, la sensibilità alle tematiche della libertà religiosa e della cristianofobia».
A livello diplomatico deve essere fatta valere «la necessità di un effettivo impegno degli Stati per la tolleranza e la libertà religiosa, fino al diritto sancito alla libertà di cambiare religione o credo».
Infine ad «adoperarsi affinché analogo principio sia fatto valere a livello di Unione europea e di qualsiasi altro organismo internazionale per l’assegnazione di aiuti agli Stati».
Mentre a livello di Nazioni unite si deve puntare a un effettiva messa in pratica della risoluzione sulla libertà religiosa negli Stati membri, promuovendo a tal fine «la costituzione di un organismo dedicato».
Sull’onda dell’emozione, dell’indignazione, e della riflessione suscitata dagli ultimi fatti di Egitto e Nigeria, nelle due assemblee – attraverso un dibattito alto e partecipato – è stata fatta una radiografia delle violenze contro le comunità cristiane.
Ma si è fatto anche il punto sullo stato della libertà religiosa nel mondo (dal Pakistan, alla Cina al Sud Sudan ora al voto, di cui il Senato chiede l’immediato riconoscimento) e allo stesso tempo sulla situazione culturale che si registra oggi in Europa, con troppi silenzi e omissioni sui massacri compiuti in nome della religione.
Sintetizza il vicepresidente della Camera, Rocco Buttiglione: i cristiani vengono colpiti perché «segno di una modernizzazione», perché identificati con l’Occidente e perché «noi non sentiamo affatto il diritto-dovere di difenderli».
Il finiano Roberto Menia cita Benedetto Croce e il suo «non possiamo non dirci cristiani», per affermare che «tutti noi credenti o non credenti ci sentiamo colpiti, offesi e umiliati di fronte all’immagine di Cristo imbrattato di sangue nella cattedrale di Alessandria d’Egitto».
Concordano sul fatto che finora ci sia stata troppa indifferenza anche due dei firmatari delle mozioni, Antonio Mazzocchi (Pdl) e Giuseppe Fioroni (Pd).
Tra i senatori, è Francesco Rutelli (Api) a richiamare la «debolezza della politica dell’Ue, addirittura afona rispetto a fenomeni di questa straordinaria gravità».
Mentre è Giorgio Tonini (Pd) a ricordare con forza l’allarme per le «violazioni sistematiche e ripetute» della libertà religiosa che «è storicamente la madre di tutte le libertà e un principio fondante per tutti i diritti umani».
Un richiamo al ruolo dei media è venuto dal capogruppo del Pdl Maurizio Gasparri che ha sottolineato come «serve una reazione collettiva, non solo delle istituzioni».
Il suo vice, Gaetano Quagliariello, individua due ragioni per un fenomeno che «non nasce oggi».
La prima geopolitica (fine della guerra fredda), la seconda culturale: quell’«odio di sé» dell’Occidente che porta alla tolleranza o addirittura al plauso verso «offese al cristianesimo, ai suoi simboli e alle sue tradizioni», in nome «di una malintesa idea di laicità».
Gianni Santamaria Avvenire 13 01 2011
Camillo Ruini: «La stabilità è un bene Opportuno il contributo di chiunque possa darlo»
L’intervista Sul citofono della casa che guarda il Vaticano non è scritto «cardinale» o «eminenza» , ma solo il cognome: Ruini.
Anche ora che non è più il capo dei vescovi italiani e il vicario del Papa, la sua autorevolezza e il suo prestigio tra i cattolici — e non solo— sono intatti.
Cardinal Ruini, lei ha organizzato un convegno sui 150 anni dell’Unità d’Italia.
Come mai l’unificazione, che si fece contro la Chiesa, oggi è difesa dalla Chiesa stessa? «Lo abbiamo fatto spontaneamente, ci pareva importante dare il nostro contributo.
Ma fin dall’ 800 nella realtà cattolica e anche in ambienti ecclesiastici si guardava con simpatia e coinvolgimento all’Unità.
A dividere la Chiesa dalla nuova Italia era la questione romana, l’indipendenza dal potere politico.
Poi, in particolare nella seconda metà del ’ 900, il contributo dei cattolici alla storia unitaria è stato grande.
Quando ho cercato di approfondire il tema dei 150 anni, avevo in mente la lettera ai vescovi italiani del 6 gennaio 1994, in cui Giovanni Paolo II insiste sulla missione dell’Italia in Europa in un modo che ci appare sorprendente.
Oggi è difficile trovare un italiano che si esprima in questi termini sull’Italia» .
Lei pensa che oggi l’unità nazionale sia in pericolo? «Un pericolo immediato non lo vedo.
Vedo piuttosto una tendenza alla divaricazione tra il Centro Nord e il Sud.
Bisogna cercare di invertire questa tendenza, governarla e superarla; altrimenti a lungo termine può diventare pericolosa» .
Sta emergendo un separatismo anche meridionale? «Non direi un separatismo ma una profonda insoddisfazione, che non è una novità.
Già molti anni fa — almeno dall’ 86, quando arrivai alla Cei come segretario— notavo nella cultura meridionale una lettura dell’unificazione come un danno per il Sud.
Forse adesso è venuta più fuori, ma non nasce ora» .
L’espansione della Lega la preoccupa? «Non credo sia da collegarsi a una volontà separatista, ma più che altro a una rivendicazione delle autonomie locali e in genere di concretezza.
Il federalismo corrisponde alla ricchezza plurale della nostra società, perché l’Italia è il Paese delle cento città.
E può aiutare a responsabilizzare le classi dirigenti locali.
Certo bisogna che sia un federalismo solidale, bilanciato da un’autorità centrale abbastanza forte sul piano non solo della legislazione ma del governo concreto» .
Oggi siamo alla fine di un ciclo politico, o è importante la stabilità sino alla fine della legislatura? «Guardate, della fine dei cicli è meglio parlare quando si sono conclusi e un nuovo ciclo è nato.
Parlarne prima è piuttosto avventuroso.
Non è facile prevedere queste cose» .
Sarebbe auspicabile che i centristi cattolici contribuissero alla stabilità? «La stabilità è certamente un bene per il Paese.
Quindi è opportuno che ogni forza che può farlocontribuisca.
I modi possono essere tanti.
Certo la stabilità non è l’unico bene: accanto a essa c’è la capacità di fare riforme.
Entrambe, stabilità e riformabilità, rimandano allo stesso problema: una guida che possa essere stabile ma anche in grado di prendere decisioni.
Viviamo un periodo di velocissimi mutamenti in tutto il mondo.
Ogni paese, ogni persona è costretta ad adeguarsi in tempi rapidi.
Questo è forse il più grande problema del nostro tempo: nel Vaticano II, con la Gaudium et spes, si dice che la caratteristica del tempo presente è il mutamento.
Era vero nel ’ 65; lo è molto di più nel 2011.
E questo richiede una certa agilità.
È vero fino a un certo punto che il nostro Paese sia poco stabile.
È più vero che è lento nel prendere decisioni» .
Sta dicendo che occorrono riforme per dare più poteri ai governi? «Il problema della debolezza istituzionale dell’esecutivo c’è fin dall’inizio, dal ’ 48.
Anche al tempo di De Gasperi ricordo che ci fu una serie di suoi governi.
Da molti anni questa mia personale valutazione mi ha portato a consigliare, a chi veniva a parlare con me, di trovare la maniera per rafforzare l’esecutivo: sempre nel rispetto della distinzione dei poteri dello Stato» .
Il bipolarismo è un valore o una gabbia che può essere scardinata? «Credo che il bipolarismo, come tutte le forme politiche, abbia pregi e svantaggi.
La Chiesa non ha competenza a intervenire su una o l’altra forma; io posso dire una parola a titolo personale, non di più.
Il bipolarismo è un tentativo di adattare all’Italia, e alla molteplicità dei suoi soggetti politici, uno schema che consenta l’alternanza e una certa governabilità.
Un modo di adeguare il bipartitismo a una realtà complessa come la nostra» .
Nel 2008 lei era considerato favorevole a un accordo tra i cattolici e il Pdl, che non ci fu.
Oggi lo ritiene ancora possibile? «È improprio parlare di un accordo tra i cattolici e il Pdl: molti cattolici sono nel Pdl o lo sostengono, altri lo avversano o comunque non lo amano.
L’accordo a cui vi riferite è nel novero delle cose possibili.
Ciò che può contribuire alla stabilità politica è opportuno.
Ma non tocca a me dare indicazioni operative che non mi competono» .
Ma in chiave storica, secondo lei, dalla Chiesa è venuto un appoggio al berlusconismo? Se sì, dura tuttora? Perché la Chiesa sembra diffidare tanto del centrosinistra? «Queste due categorie, berlusconismo e antiberlusconismo, non servono a molto, per comprendere le dinamiche ecclesiali.
Non è mai stato un problema per noi, né in un senso né nell’altro.
Se vogliamo decifrare la linea della Chiesa nel lungo periodo, è abbastanza semplice: basta approfondire le parole di Giovanni Paolo II a Palermo, nel novembre ’ 95.
Il Papa disse che l’unità dei cattolici non era più intorno a un partito ma a contenuti essenziali e vincolanti; mentre per il resto ci poteva essere un pluralismo anche tra i cattolici.
Questa è sempre stata la linea su cui ci siamo mossi» .
Questi valori essenziali sono stati fatti propri più dalla destra che dalla sinistra? «Ognuno di voi può osservarlo nella realtà empirica.
Non sono cose che si giudicano a priori» .
Infatti le stiamo guardando a posteriori.
«Ma se si chiede alla Chiesa di dare lei stessa questo giudizio, ricadremmo nello schema precedente, quello dell’unità politico-partitica dei cattolici.
Noi non diamo indicazioni di voto.
E credo che questo sia apprezzato dall’opinione pubblica: la gente preferisce che noi indichiamo alcuni obiettivi ed essere poi lei a giudicare della congruenza delle forze politiche con ciò che diciamo.
E naturalmente, anche tra la gente, non tutti tengono conto delle nostre indicazioni» .
Nel referendum sulla fecondazione assistita ne hanno tenuto conto.
«Lì era diverso.
Lì non c’erano in gioco i partiti, si andava direttamente sui contenuti.
Il referendum ci consentiva quindi più libertà di intervento.
C’era da fare una scelta.
Noi l’abbiamo fatta.
Fortunatamente non è stata una scelta isolata» .
Ma non siete stati troppo accondiscendenti con Berlusconi? «Nella Chiesa, come sapete, ci sono vari atteggiamenti.
Personalmente non amo dare giudizi pubblici sui comportamenti privati delle singole persone, specialmente quando questi giudiziverrebbero subito letti e interpretati in chiave di lotta politica.
È chiaro comunque che ciascuno di noi deve cercare di dare una testimonianza positiva, tanto più importante quanto maggiore è la sua notorietà» .
Lei non ha mai avuto l’impressione che i politici facessero propri a parole i valori della Chiesa in modo strumentale? «Giudicare le intenzioni è molto difficile.
Che i leader pensino anche a un ritorno in termini politici non è strano, forse è anche normale.
D’altra parte sono scelte che hanno anche dei costi.
Non è che uno appoggiando la Chiesa ci guadagni di sicuro.
Quello che la Chiesa dice, infatti, è spesso controcorrente».
Che impressione le hanno fatto le immagini degli scontri del 14 dicembre a Roma? Vede il rischio di una stagione violenta? «Bisogna distinguere protesta e violenza.
Quando la protesta non è violenta, i giovani vanno ascoltati.
Più che il rifiuto della riforma universitaria, credo che queste proteste esprimano una preoccupazione di fondo: oggi le aspettative per i giovani non sono crescenti, ma purtroppo decrescenti.
E questo problema va fronteggiato in due modi.
È necessario fare riforme che diano maggiore spazio ai giovani, perché la società italiana penalizza i giovani, a cominciare dai bambini.
E bisogna che tutti— anche le famiglie, che tendono a essere molto protettive — accettino che nel mondo globalizzato i risultati anche personali si ottengono oggi con fatica maggiore di ieri.
La competizione geopolitica è diventata molto più dura e questo è un fatto irreversibile che riguarda tutto l’Occidente.
Bisogna dunque educare i ragazzi, fin da piccoli, ad affrontare le difficoltà, e non volerli proteggere da tutto.
Quanto alla violenza, è qualcosa che purtroppo si ripete dal ’ 68.
La mia personale allergia risale agli anni 70, quando mi occupavo di studenti a Reggio Emilia: ricordo la fatica di conquistare la possibilità di espressione che da tempo veniva rifiutata.
Per imporre il pensiero unico era facile che si arrivasse a forme di intimidazione» .
Il Papa ha paragonato il nostro tempo al crollo dell’Impero romano…
«Chi ha seguito gli scritti del teologo e del cardinale Ratzinger, e poi di Benedetto XVI, sa che da tempo ha questa preoccupazione: vengono meno i fondamenti morali, culturali e antropologici su cui si fonda la nostra civiltà.
L’imperare del consumismo e del relativismo.
L’eliminazione della specificità irriducibile dell’uomo rispetto agli altri viventi.
E in particolare l’odio dell’Europa verso se stessa, l’odio del proprio passato e delle radici cristiane.
Lo stesso cristianesimo, oltre a essere oggetto di odio, sembra talvolta odiare se stesso e rinnegare la propria rilevanza storica e perfino salvifica.
Ricordo quanto fu contestata dall’interno della Chiesa la dichiarazione Dominus Iesus, che nel 2000 affermava un punto base del Nuovo Testamento: Gesù Cristo è l’unico Salvatore!» .
Quali sentimenti le ha suscitato il libro-intervista del Papa? «Sono stato colpito dalla sua disarmante sincerità, dal suo esporsi sui temi più difficili, e dalla lucidità con cui li affronta.
La linea è sempre quella.
Da una parte Benedetto XVI denuncia la gravità dei problemi nella società e anche dentro la Chiesa.
Dall’altra non indulge mai a una lettura pessimistica, alla fine c’è sempre una grande fiducia: dovuta alla fede in Dio ma anche alla fiducia nell’uomo, quando l’uomo può esprimersi nella sua piena dimensione, come soggetto libero, intelligente e responsabile» .
Lei come passerà la notte di Natale? Per chi pregherà e per chi invita a pregare? «Come ogni anno, andrò alla messa di mezzanotte del Papa in San Pietro.
Pregherò per la Chiesa, per la pace nel mondo, per il mio Paese, per tutti coloro che soffrono e per i tanti che mi chiedono di pregare per loro.
Ma il Natale richiama specialmente Betlemme, le origini umili e indifese del cristianesimo, la povertà e debolezza del Bambino che nasce per noi.
Questi inizi devono essere una caratteristica permanente.
Non possono essere relegati al passato.
Natale ci serve per ritrovare l’origine e vedere il presente in quella chiave: il Natale non è una bella favola per i bambini ma una realtà, più reale delle cose che tocchiamo con mano ogni giorno» in “Corriere della Sera” del 24 dicembre 2010
Il nostro tempo per gli altri
Arrivano le feste, ma con esse anche una domanda sempre più pertinente: siamo ancora capaci di fare festa? Riusciamo ancora a segnare un tempo come festivo, diverso dal feriale quotidiano? E, se e quando ci riusciamo, di cosa abbiamo bisogno per distinguerlo dalle ormai sempre più numerose occasioni che abbiamo per festeggiare, stimolati come siamo da un mercato che ci vuole sempre pronti a consumare tempo e denaro in beni fuori dall´ordinario? Finiamo per credere che ciò che caratterizza la festa debba essere l´eccesso, la ricchezza, il poter spendere per il superfluo, lo stordirci con lo stra-ordinario.
In questo senso il Natale è divenuta la ricorrenza che più di altre mostra la contraddizione in cui ci troviamo e il conseguente paradosso di trovarci in ansia per la festa: siccome ha perso la preziosità che gli derivava del suo essere unica o quasi durante l´anno, ora sembra condannata a distinguersi dalle mille altre feste che ci siamo inventati attraverso un “di più” di tutto: più spese, più regali, più cibi, viaggi più lontani, adunate più affollate…
Eppure, il cuore e la mente ci dicono che per noi la vera festa è fatta di altro, di cose che non si pesano in quantità ma in qualità, che non si misurano in estensione ma in profondità: incontri autentici, momenti di condivisione, equilibri di silenzi e parole, tempo offerto all´altro nella gratuità.
Se siamo onesti con noi stessi, il regalo più gradito non è quello che ci sorprende di più per la sua stranezza o per il suo prezzo, bensì quello che più è capace di narrarci il sentimento di chi lo porge.
Come non ricordare la povertà dei regali negli anni del dopoguerra o, ancora oggi, in tante famiglie in difficoltà economiche? Eppure bastava e basta così poco per far risplendere il dono più umile: era e rimane sufficiente che il gesto che lo offre sappia al contempo porgere il cuore di chi dona, sappia parlare al cuore di chi riceve.
A Natale, infatti, non dovremmo sorprendere l´altro con l´ostentazione della ricchezza o della stravaganza, né stordirlo con l´eccesso, bensì stupirlo e confermarlo con l´amore, l´affetto, l ´attenzione che non sempre nel quotidiano trovano il tempo e il modo di essere esplicitati.
Il piatto più apprezzato a tavola, allora, non sarà quello più esotico o costoso, ma quello che meglio mostra che conosco i gusti di chi mi sta accanto, che so cosa lo rallegra, che cerco solo di dirgli “ti voglio bene”.
Del resto, il regalo che più rallegra ciascuno di noi, di qualunque età, non è mai l´ultima trovata di cui tutti parlano o l´ennesima novità straordinaria che nel giro di pochi mesi sarà superata, ma quel semplice oggetto che mi fa capire che chi lo ha scelto ha pensato proprio a me, ha saputo interpretare i miei desideri inespressi, mi ha letto nel cuore.
Tutte cose, queste, che non si comprano in contanti né con carta di credito, anzi: sovente sono beni poveri, sobri, umili, “feriali”, ma che si accendono di novità per la carica di umanità che sappiamo immettervi.
E così, a loro volta accendono di semplicità la festa, fanno sentire che quel giorno è diverso, non perché così dice il calendario dei negozi, non perché lo abbiamo ricoperto d´oro, ma perché abbiamo saputo guardare noi stessi, gli altri, la realtà con occhio diverso, con uno sguardo predisposto a scorgere il bene nascosto in chi amiamo, perché abbiamo saputo essere autenticamente noi stessi, desiderosi di amare e di essere amati.
Sì, Natale è davvero festa quando l´amore trova spazio e tempo per essere narrato, semplicemente.
in “la Repubblica” del 23 dicembre 2010
Natale alla ricerca di una morale comune
Caro direttore, la realtà testarda che si impone anche se non sempre vorremmo accettarla, l´attualità incalzante che lascia emergere preoccupanti tensioni, che ci ributta continuamente addosso le conseguenze pesanti dell´attuale crisi economica e politica, ci costringono alla fine a stare di fronte a una domanda cruciale: è ancora possibile una “morale comune” (common morality) nella nostra società plurale? Si può ancora parlare di una “percezione morale” (moral insight) per sua natura universale e propria di ogni uomo in quanto uomo? È ancora valida l´affermazione cara a Lewis che esiste «un´attitudine di rispetto e di gratitudine per ciò che ci è stato donato», attitudine propria di ogni uomo nei confronti di quell´eredità di saggezza pratica che tutte le tradizioni, le culture e le religioni hanno assicurato, in tutte le parti del globo, alla grande catena delle generazioni? Su questi temi Benedetto XVI, nel recente discorso di auguri alla Curia, ha usato parole provocanti parlando dell´ethos contemporaneo per il quale «… non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé.
Esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”.
Niente sarebbe in se stesso bene o male.
Tutto dipenderebbe dalle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male.
La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere».
«Contro di esse – ha aggiunto Benedetto XVI – Giovanni Paolo II nella sua enciclica Veritatis splendor del 1993 indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell´ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell ´agire morale».
Importanti correnti del pensiero morale concordano nell´affermare che per cogliere l´autentica natura della morale si debba partire dalla esperienza elementare del bene che ogni uomo vive.
Se si guarda alla genesi di questa esperienza morale, ci si rende conto che essa si radica in un desiderio di compimento di sé che prende forma dalla promessa suscitata dalle inclinazioni e dagli affetti originari.
A partire dalle relazioni primarie di riconoscimento reciproco con la mamma e il papà, il bambino, mediante la parola, acquista coscienza pratica di se stesso e diventa capace di apertura e comunione con gli altri.
A questo proposito il dialogo tra Gesù e il giovane ricco raccontato dal Vangelo è particolarmente significativo anche a una pura lettura razionale perché vi possiamo trovare conferma della triplice scansione dell´esperienza morale elementare: desiderio-riconoscimento-comunione.
Il giovane ricco si avvicina a esù e chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?».
Accogliendo la domanda, Gesù gli risponde: «Dà ai poveri».
Lo invita cioè a riscoprire la decisività del nesso tra il bene e la relazione.
Il desiderio di compimento che anima il giovane ricco si realizza, dunque, in questo riconoscimento che apre a una vita comune, condivisa: è questa la forma originaria dell´esperienza del bene e la verità antropologica della moralità.
Se i comandamenti sono la via al bene, il principio della moralità è il bene stesso.
Ed è nella relazione che questo si rivela primariamente.
Del bene si deve fare esperienza perché il desiderio di bene trovi la via della piena attuazione.
A conferma di questo, nell´episodio evangelico, Gesù rilancia ancora e indica un´altra più impegnativa relazione: «Una volta che hai dato tutto vieni e seguimi».
In questa proposta è contenuta una “pretesa” singolare: l´uomo apprende ad attuare il bene nella relazione con l´origine personale del bene e comprende quali sono le cose buone da fare continuando a intrattenere relazioni buone.
L´esperienza elementare del bene e della moralità consiste dunque nel beneficio primario della relazione.
Non si origina da un´idea del bene che sia contenuta nel cosmo o nel bios, né si deduce dalla natura razionale dell´uomo.
Per la costruzione di una moralità comune sembra emergere dunque come modello di riferimento su cui lavorare insieme quello che afferma, da una parte, che la moralità non inizia con il comandamento, ma dall´interno di una ricca e complessa esperienza elementare del bene come articolata unità di desiderio, promessa, parola, riconoscimento e comunione; dall´altra, che alla fine compete alla ragione discernere il senso di questa esperienza morale, comune a tutti gli uomini, per definire i beni umani fondamentali e quindi per sancire il loro universale significato morale.
Fattori questi decisivi in una società plurale come la nostra.
patriarca di Venezia in “la Repubblica” del 23 dicembre 2010
La svolta mariana degli Stati Uniti
L’orgoglio degli americani soffriva di una mancanza: già avevano fatto venire Gesù nei futuri States (così affermano i 6 milioni di Mormoni) ma la Madonna, almeno ufficialmente, non era mai stata tra loro.
Ma ecco che l’8 dicembre, nel giorno dell’Immacolata Concezione, la Chiesa ha sentenziato in modo solenne, per voce del vescovo di Green Bay nel Wisconsin, che Maria è davvero apparsa nell’America del Nord.
È la prima volta che una apparizione negli Usa è riconosciuta ufficialmente come autentica.
Il Messico, nel 1531, ha avuto Guadalupe, che provocò la nascita del santuario forse più frequentato del mondo.
Per stare nelle Americhe, autentici pure, secondo la Chiesa, i fatti che diedero vita a un altro enorme santuario, quello brasiliano dell’Aparecida (1717).
Il Venezuela vide riconosciute le apparizioni della Finca Betania, avvenute nel 1976.
Per non parlare della Francia, che ha il primato (Le Laus, 1664; La Salette, 1846; Lourdes, 1858; Pontmain, 1871).
Anche il Giappone (Akita, 1973) e la Polonia (Gietrzwald, 1877), ebbero Maria tra loro.
Persino l’Africa Nera (Kibeho, nel Rwanda, 1981) ha goduto di una apparizione mariana dichiarata soprannaturale.
Nulla, invece, per gli yankee.
Sinora, lo dicevamo, milioni di statunitensi credevano che le popolazioni originarie della loro terra fossero i discendenti di tribù emigrate da Israele prima di Cristo.
E Gesù stesso, dopo la Risurrezione, sarebbe venuto nel territorio dei futuri Stati Uniti.
Anzi, proprio qui avrebbe dato il meglio del suo insegnamento.
È questo, in effetti, il Credo di quella religione tipicamente made in Usa che è il mormonismo, ufficialmente «Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni».
Quanto alle presunte apparizioni di Maria, sono state numerose, ma nessuna ha superato le severe inchieste della gerarchia cattolica.
Adesso la svolta, anche se sono occorsi 151 anni per giungere alla decisione.
I fatti, in effetti, si svolsero a Champion, sobborgo di Green Bay, nel 1859, cioè un anno dopo Lourdes.
Anche nel Wisconsin la protagonista fu una ragazzina, figlia di immigrati belgi.
Per tre volte, una Signora radiosa, vestita di bianco, le apparve e le disse: «Sono la Regina del Cielo che prega per i peccatori e desidero che tu faccia lo stesso».
Aggiunse poi: «Riunisci i figli di questo Paese selvaggio e insegna loro ciò che devono sapere per salvarsi».
Il comando della Signora fu preso radicalmente sul serio, tanto che Adele Brise — questo il nome della veggente — aiutata da un’amica che era presente alle apparizioni e che aveva lei stessa visto e sentito, fondò una Congregazione per l’educazione dei figli dei poveri immigrati.
Morì nel 1896 in odore di santità e sul luogo dell’Incontro sorse un santuario ancora oggi molto frequentato: la Chiesa vi permetteva il culto, però non si pronunciava sulla verità delle origini.
L’attuale vescovo di Green Bay, monsignor David Ricken, ha ripreso il dossier storico, impressionato soprattutto dal fervore dei pellegrini e basandosi, dunque, sul criterio dato da Gesù stesso: «Dai frutti conoscerete l’albero».
Tanta devozione, durata un secolo e mezzo, poteva avere solo origini genuine.
Così, nel giorno della Immacolata, nella sua cattedrale, ha letto solennemente un decreto: «Dichiaro con certezza morale e in base alle norme della Chiesa che le apparizioni e i discorsi ricevuti dalla serva di Dio Adele Brise nell’ottobre del 1859 hanno verità di carattere soprannaturale.
Io, con la presente, approvo queste apparizioni della Vergine Maria come degne di fede».
Il vescovo precisa che accettare questa verità «non è obbligatorio» per i credenti, ma questa è la norma che sempre vale per questi eventi.
Grande esultanza, comunque, non solo nel Wisconsin ma in tutto il Paese, dove — malgrado tutto — quella cattolica è la comunità religiosa con il maggior numero di aderenti.
Come ha osservato Massimo Introvigne, sociologo delle religioni: «Anche questo è un segno che la Chiesa americana è molto cambiata.
Dopo l’ubriacatura progressista e la crisi dei preti pedofili, i credenti si sono stretti attorno ai vescovi e al loro insegnamento: anche nel rilancio della devozione mariana».
in “Corriere della Sera” del 13 dicembre 2010
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