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L’apprendistato per i quindicenni

Il governo intende dare, come noto, piena operatività alla norma contenuta nel Collegato lavoro alla Finanziaria 2010, che consente ai giovani di completare l’ultimo anno dell’obbligo di istruzione anche con un contratto di apprendistato.
L’opposizione in Parlamento ha votato contro conducendo una polemica serrata, e duramente contraria è stata anche la posizione assunta dalla Flc Cgil.
L’opinione pubblica che guarda a sinistra non sembra però così graniticamente schierata contro il provvedimento voluto dal governo e in particolare dal ministro del welfare Sacconi, sostenitore del valore educativo delle esperienze pratiche.  La rivista telematica Education2.0, diretta dall’ex ministro Luigi Berlinguer, ha effettuato in proposito un sondaggio tra i propri lettori, verosimilmente orientati in buona parte a sinistra, con un esito sorprendente: la più alta percentuale dei rispondenti (30%) si è espressa a favore del contratto di apprendistato, in alternativa alla frequenza scolastica, come misura idonea a prevenire la dispersione scolastica “per gli studenti più deboli e meno motivati”, mentre solo il 24% ha dato la risposta più nettamente negativa, ma anche più allineata con quella della sinistra tradizionale e della Cgil: nessuna forma di apprendistato prima dei 16 anni di età.
Un altro 28% si è invece espresso per il potenziamento di tirocini e stage per gli “studenti più deboli e meno motivati” sia pure all’interno della scuola, mentre il residuo 17% ha optato per il potenziamento dei percorsi di alternanza scuola-lavoro “per tutti gli studenti in obbligo di istruzione”.
Nel complesso, dunque, il 58% dei rispondenti si è espresso per soluzioni differenziate per le fasce deboli (30% fuori della scuola, con l’apprendistato, 28% all’interno della scuola, con tirocini e stage), mentre il 42% è rimasto fermo al tradizionale modello unitario-inclusivo.
Una spiegazione dell’esito abbastanza inaspettato del sondaggio può essere costituita dal fatto che ad esso abbiano partecipato molti insegnanti che hanno vissuto in prima persona la difficoltà di attenersi a una didattica rigorosamente indifferenziata per tutti gli studenti del biennio iniziale di scuola secondaria superiore.  tuttoscuola.com

Il pantheon di Carlo Bo

Il pantheon di Carlo Bo di Gianfranco Ravasi A Milano abitavamo vicino, in due piccole strade a poca distanza dal Duomo: lui in via Maria Teresa, io in via Cardinal Federico, una laterale della Biblioteca Ambrosiana.
Ci incontravamo talora in quel dedalo di viuzze e ci scambiavamo poche parole.
Avevo conosciuto Carlo Bo durante una cena nella casa dello scrittore Luigi Santucci, amico carissimo a entrambi: era stato l’avvio di una conoscenza rarefatta che però aveva una sua intensità, soprattutto attorno a quei temi ecclesiali che avevano sempre appassionato e un po’ anche tormentato il pensiero e la fede del famoso scrittore, studioso e uomo pubblico.
L’ultimo incontro avvenne nella sua casa milanese tutta foderata di libri.
Alcuni amici della scrittrice Lalla Romano, che era allora da poco scomparsa e della quale avevo celebrato i funerali, si erano ritrovati per costituire un’associazione o una fondazione che ne custodisse il lascito culturale.
Bo assisteva e partecipava con quei silenzi “omerici” che erano divenuti quasi una sua sigla e che, quindi, alonavano di rilievo le sue poche parole.
Alla fine volli trattenermi e, da soli, parlammo dei temi che erano stati sollevati durante un’intervista radiofonica che avevo rilasciato quella stessa mattina.
Era il giugno 2001 e poche settimane dopo, il 21 luglio, egli sarebbe morto a Genova (era anche ligure la città della sua nascita avvenuta cent’anni fa, il 25 gennaio 1911, cioè Sestri Levante).
La sostanza di ciò che mi disse allora la ritrovai in un suo dialogo riferito da Sergio Zavoli nel suo Diario di un cronista (Rai-Eri/Mondadori, 2002): «Ho l’impressione che la voce di Dio passi nei nostri cuori e non lasci traccia.
Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un modo, fra tanti, di non rispondergli».
Si intravedeva in quelle parole non solo la sua fede che vibrava degli stessi battiti di quella degli amati Pascal, Bernanos, Péguy, Claudel, Maritain (senza dimenticare Mallarmé e Rivière), ma anche il suo tormento per il passaggio spesso frustrato e frustrante di Dio nelle strutture ecclesiastiche da lui considerate troppo pesanti, opache e resistenti a quella voce.
Eppure egli era rimasto sempre un cattolico tout court, perché — per usare un’espressione del suo e mio amico padre Turoldo — non si inseriva né nel dissenso molto vivace nei decenni conciliari, né nel consenso, prevalente negli anni precedenti e successivi, ma semplicemente nella ricerca di senso.
E in questo sono emblematici i personaggi religiosi del suo ideale pantheon spirituale.
Al primo posto è collocata la figura di uno straordinario parroco di campagna, la cui voce fu così intensa da essere definita da un Papa, Giovanni XXIII, «tromba dello Spirito Santo» nella terra padana: era don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo (Mantova), «obbedientissimo in Cristo» alla sua Chiesa, ma così libero nella sua fedeltà al Vangelo da non esitare a far vibrare la sua parola contro ogni compromesso.
«Noi passeremo — scrive Bo che lo conobbe, lo ascoltò e lo lesse — col rumore dei nostri problemi, con tutti i cartoni dei ridicoli teatri spirituali che abbiamo messo insieme da letterati e don Primo resterà sulla porta della sua parrocchia con le braccia aperte, a ricevere tutti, senza mai chiedere il nome o la nostra piccola odissea».
Seguono i testimoni della carità e della società come Manzoni, Semeria, Orione e Sturzo.
C’è, poi, la teoria dei sacerdoti che seppero intrecciare fede e cultura, una delle sfide che resse l’intera esistenza di Bo, a partire da quella sorta di manifesto che fu il saggio Letteratura come vita, letto al congresso degli scrittori cattolici del 1938: «Rifiutiamo una letteratura come illustrazione di consuetudini e di costumi comuni, aggiogati al tempo, quando sappiamo che è una la strada più completa per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza…
Non esiste un’opposizione fra letteratura e vita.
Per noi sono tutt’e due, e in ugual misura, strumento di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi».
Ecco, allora, don De Luca, don Cesare Angelini, Rebora, lo storico Bedeschi, il mistico Divo Barsotti, il collega all’Università di Urbino Italo Mancini con la «ragnatela delle sue meditazioni» dai molteplici fili teologici, filosofici, sociali, culturali, la cui finestra illuminata nella notte urbinate diventava un simbolo di ricerca della verità.
Ma non sono mancate neanche pagine di forte suggestione dedicate ai papi della sua maturità e degli ultimi anni: dalla lezione d’amore di Giovanni XXIII all’umanesimo cristiano di Paolo VI fino alla «Chiesa di popolo» di Giovanni Paolo II .
In questo «nugolo di testimoni» sacerdotali, per ricorrere a un’espressione biblica (Ebrei 12,1),  raccolti in un unico coro dal volume Don Mazzolari e altri preti (La Locusta, Vicenza 1979), brilla un trittico fiammeggiante.
La prima a venirci incontro è una figura segno di contraddizione, quell’Ernesto Buonaiuti che non volle mai considerarsi ex sacerdote nonostante la censura ecclesiastica abbattutasi su di lui per il suo modernismo, convinto del tradimento che talora la Chiesa storica poteva consumare, ma ancor più convinto che la salvezza avviene proprio nella stessa Chiesa storica.
C’è poi l’amato don Milani, per molti versi simile a don Mazzolari, combattente per la verità naturale e soprannaturale da cristiano e da prete, nonostante «il lungo calvario» impostogli dalle autorità ecclesiastiche.
E, infine, ecco padre Turoldo nel quale la passione si fa parola, la fede poesia e la verità storia.
Sì, perché – sulla scia della concezione di un Teilhard de Chardin letto con entusiasmo appena pubblicato in Francia – Bo è certo che «il cristiano deve bagnarsi nel mare della storia», anche correndo il rischio di infangarsi, «rifiutando quella perniciosa opposizione tra cristianesimo e mondo degli uomini».
Qui si coglie uno dei nodi fondamentali del pensiero spirituale di Carlo Bo e della sua stessa storia personale, quella del dialogo tra fede e cultura, dell’incontro tra il cristiano e l’agnostico che s’interroga, tra il tempio e la strada, nella linea della lezione di Maritain al cui “stile” di pensiero è dedicata un’altra raccolta di saggi (Lo stile di Maritain, La Locusta 1981) nella quale scriveva con amarezza: «Per anni la Chiesa è rimasta immobile e quando finalmente ha sentito il dovere di intervenire, si è accorta di non avere più gli strumenti adatti e si è limitata a ripetere altre voci o ha taciuto».
I rischi in questa operazione di incrocio tra fede e altre visioni dell’essere e dell’esistere non sono mancati, soprattutto quando ci si muoveva in territori borderline, come nel caso del dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth che ebbe una veemente e partecipe prefazione alla traduzione italiana firmata proprio da Carlo Bo.
Rimaneva, però, indiscutibile la sincerità della persona e delle sue interrogazioni e soprattutto la consapevolezza della necessità del confronto tra la Chiesa e il mondo.
Alle soglie della morte, in un’intervista, egli confessava che la magna quaestio del XXI secolo sarebbe stata il «ritrovare le ragioni ultime di quei valori che consentono una vita umanamente e umanisticamente motivata, che tenga conto non solo delle cose visibili ma anche e soprattutto di quelle invisibili…
Bisognerà insomma costruire insieme, credenti e no, un’altra civiltà che sappia finalmente ritrovare lo spirito della carità cristiana: cioè saper perdonare e cercare di risolvere problemi epocali, inevitabili e giganteschi, secondo uno spirito di carità».
Agli occhi di Carlo Bo il cristianesimo non era né stinto né estinto, ma aveva ancora in sé tutto il suo lievito di trasformazione della pasta della storia.
in “Il Sole 24 Ore” del 23 gennaio 2011

La tristezza della lussuria

La sapienza dei padri della Chiesa fin dai primi secoli ha saputo distinguere tra alcuni peccati gravissimi – passibili di «scomunica» e di una lunga penitenza pubblica prima della riammissione nella comunità cristiana: apostasia, adulterio, omicidio, aborto…
– ma legati a un singolo gesto e altri peccati o vizi «capitali» che sono invece espressione di una patologia spirituale molto più profonda.
Comportamenti generati da «pensieri malvagi» che in certo senso minano la personalità stessa di chi li commette, facendolo finire in una spirale di depravazione sempre più disumana: autentici «vizi dell’anima», che nascono dal cuore e che a partire dal cuore vanno contrastati.
Tra questi la lussuria, il rapporto deformato con il sesso, una passione che porta a ricercare il piacere per se stesso, il godimento fisico avulso dallo scopo al quale è legato.
Il piacere sessuale è il più intenso piacere fisico, un piacere complesso che investe il corpo e la psiche, un piacere inerente all’atto sessuale, di cui tuttavia costituisce solo un aspetto.
Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell’eccedenza, l’incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all’orgasmo, l’interesse si focalizza sull’organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità.
L’unico scopo diventa possedere l’altro per farlo strumento del proprio piacere: l’altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico…
Ma l’energia sessuale è unificante quando è rivolta all’amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d’amore; ridotta all’erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto.
Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l’altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l’altro a una «cosa», prima ancora che a una merce.
Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l’altro, indotto nella fantasia o nella realtà – quasi sempre con prepotenza – all’atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui.
Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna: la complessità del piacere sessuale non riguarda solo la genitalità e l’orgasmo, ma coinvolge la persona intera, con tutti i suoi sensi.
Linguaggio d’amore, manifestazione del dono di sé all’altro, il piacere sessuale è coronamento dell’unione e, come tale, resta inscritto nella storia di un uomo o di una donna: appare nella pubertà ed è accompagnato dalla fecondità, per poi conoscere una stagione di sterilità, fino alla sua estinzione.
La lussuria, per contro, consiste nell’intendere il piacere come realtà scissa dai soggetti, dalla loro storia d’amore, ed è perciò una ferita inferta a se stessi e all’altro.
Quando si separa il corpo dalla persona, allora l’esercizio della sessualità è sfigurato, degenera, sfocia in aridità, diventa ripetizione ossessiva, obbedisce all’aggressività e alla violenza.
L’amore, che è dono di sé e accoglienza dell’altro, è smentito radicalmente dalla lussuria, che vuole il possesso dell’altro; e così il rapporto sessuale, che dovrebbe essere un linguaggio «altro», sempre accompagnato dalla parola ma anche eccedente la parola stessa, diventa la morte del linguaggio, della comunicazione, impedendo di fatto ogni comunione.
Viviamo in un contesto culturale, costruito ad arte da molti mass media e sfruttato dalla pubblicità, in cui l’unica realtà non oscena è quella dell’erotismo: è ormai inevitabile imbattersi in immagini erotiche, che si imprimono nella mente per riemergere in seguito e stimolare fantasie perverse.
Per reagire a tale clima ammorbante dovremmo acquisire la consapevolezza che la lussuria toglie la libertà: chi ne è schiavo finisce per asservirsi all’idolo del piacere sessuale, un idolo ossessionante che innesca una pericolosa dipendenza.
Chi è preda della lussuria è come malato di bulimia dell’altro, lo cosifica in modo reale nella prestazione sessuale o in modo virtuale nell’immaginazione.
La vera perversione in atto nella lussuria è infatti quella che induce a concepire l’altro come semplice possibilità di incontro sessuale, come mera occasione di piacere erotico.
Come non notare oggi il fenomeno della senescenza precoce dell’esercizio sessuale nelle nuove generazioni? Come ignorare l’esercizio di un eros virtuale, la  ornodipendenza da internet? Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un libidogramma piatto, si uccide l’eros per sempre.
Una gestione sana del piacere sessuale comporta che la presa di coscienza di un corpo sessuato si accompagni alla volontà di incontrare l’altro nella differenza e nel rispetto dell’alterità: si tratta di integrare la sessualità nella persona, attraverso l’unità interiore della persona nel suo essere corpo e spirito.
Certo, richiede una padronanza di sé, ma questa è pedagogia alla vera libertà umana: o l’essere umano domina le proprie passioni oppure si lascia da esse alienare e ne diventa schiavo.
Il lussurioso riceve come salario del proprio vizio una tristezza e una solitudine più pesanti, alle quali pensa di riparare entrando nella spirale lussuriosa per nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi piaceri: sì, una spirale «dia-bolica» che separa sempre di più piacere da relazione e fecondità.
Per questo la disciplina interiore, anche nello spazio della sessualità, è sempre opera di libertà e, quindi, di ordine e di bellezza: è uno sforzo di umanizzazione capace di trasformare anche l’esercizio della sessualità in un’opera d’arte, in un capolavoro che corona una storia d’amore.
in “La Stampa” del 19 gennaio 2011

I movimenti cattolici: Il cammino Neocatecumenale

Nel discorso rivolto due giorni fa a migliaia di membri entusiasti del Cammino Neocatecumenale, riuniti nell’aula delle udienze, Benedetto XVI ha battuto per tre volte in sole venti righe sul tasto dell’obbedienza dovuta ai vescovi.
In effetti, il rapporto con i vescovi è un punto dolente del Cammino, fondato e diretto da più di quarant’anni dai laici spagnoli Francisco José Gómez Argüello, detto Kiko, e Carmen Hernández, affiancati dal sacerdote italiano Mario Pezzi.
Tra i vescovi, il Cammino conta molti sostenitori in tutto il mondo.
Il prossimo 26 gennaio 250 di costoro, tra i quali 70 dagli Stati Uniti, si ritroveranno in Israele nella Domus Galilaeae, la residenza ideata e costruita da Kiko sulle pendici del Monte delle Beatitudini, con magnifica vista sul lago, per uno stage in cui lo stesso Kiko farà da mattatore.
Ma vi sono anche numerosi vescovi che dal Cammino si sono sentiti scottati, dopo averlo visto all’opera sul proprio territorio.
Ad esempio i vescovi del Giappone.
Il 15 dicembre 2007, nella visita “ad limina” fatta al papa, il loro presidente, che all’epoca era l’arcivescovo di Tokyo, Peter Takeo Okada, disse a Benedetto XVI che “la potente attività simile a una setta sviluppata dai membri del Cammino produce acute e dolorose divisioni e lotte all’interno della Chiesa”.
I vescovi giapponesi esigevano la chiusura del seminario che il Cammino aveva aperto nel 1990 nella diocesi di Takamatsu.
Il Cammino faceva resistenza.
Nel 2008 per due volte dei vescovi giapponesi dovettero recarsi a Roma a perorare la loro causa.
Il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone studiò la questione e diede ragione ai vescovi.
Entro l’anno i seminaristi e il loro rettore dovettero traslocare a Roma.
Ma i membri del Cammino presenti in Giappone non accettarono la cosa pacificamente.
Il vescovo di Takamatsu, Francis Osamu Mizobe, scrisse loro una lettera in cui lamentava che celebrassero liturgie separate e chiedeva che obbedissero alle diocesi invece che ai loro capi.
Da Roma, la congregazione per l’evangelizzazione dei popoli inviò in Giappone un ispettore favorevole al Cammino, Javier Sotil Vaios Espiriceta.
L’ispezione avvenne tra il 20 e il 25 marzo 2009.
Ma non ebbe effetto.
Tant’è vero che nel 2010 i vescovi giapponesi, unanimi, decisero di farla finita.
All’inizio dell’Avvento resero pubblica la loro decisione di sospendere per cinque anni la presenza del Cammino nell’intero paese.
Il Cammino fece appello a Roma, alle massime autorità della Chiesa.
E in effetti lo scorso 13 dicembre si è svolta in Vaticano una riunione fuori del comune.
Da una parte del tavolo c’erano cinque vescovi giapponesi: quello di Osaka e presidente della conferenza episcopale, Leo Jun Ikenaga, gesuita (nella foto); quello di Takamatsu, Mizobe; quello di Fukuoka, Dominic Ryoji Miyahara; quello di Niigata, Tarcisius Isao Kikuchi; e quello emerito di Oita, Peter Takaaki Hirayama.
Dall’altra parte del tavolo c’erano il papa in persona, il cardinale Bertone, altri cinque cardinali e un arcivescovo.
In curia il principale protettore dei neocatecumenali è il sostituto segretario di stato Fernando Filoni.
Le autorità vaticane hanno ordinato ai vescovi di riprendere il dialogo con il Cammino, con l’aiuto di un delegato inviato da Roma e seguendo le istruzioni della segreteria di stato e della congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
I dirigenti del Cammino hanno accolto la decisione vaticana come un loro successo.
Ma i vescovi giapponesi faticano a pazientare ancora.
Il 12 gennaio il loro presidente, l’arcivescovo Ikenaga, ha scritto sul settimanale cattolico giapponese “Katorikku Shimbun” che “noi vescovi, alla luce della nostra apostolica responsabilità pastorale, non possiamo ignorare il danno che producono i neocatecumenali”.
E così ha proseguito: “Nei luoghi dove passano quelli del Cammino aumentano la confusione, i conflitti, le divisioni, il caos.
Speriamo che diano uno sguardo realistico ai motivi per cui le cose non hanno fin qui funzionato e, per la prima volta, ci aiutino ad andare alle radici dei problemi, affinché si possa arrivare a una soluzione”.
Il delegato vaticano non è stato ancora designato.
Quando arriverà, l’arcivescovo Ikenaga ha chiesto ai cattolici giapponesi entrati a contatto col Cammino di incontrarlo e di vuotare il sacco senza reticenze, perché questo è l’unico modo per “far arrivare il vero stato delle cose a un posto così lontano come Roma”.
Nella conferenza stampa tenuta a Roma il 17 gennaio subito dopo l’udienza col papa, Kiko Argüello ha detto che il Cammino agisce sempre in obbedienza ai vescovi e quindi non opera nelle diocesi in cui il vescovo non lo consente.
Ma il caso del Giappone è la prova che le cose non si svolgono in modo così lineare.
Dove il Cammino ha messo piede è difficile che retroceda, indipendentemente da cosa pensino i vescovi.
* Nella stessa udienza del 17 gennaio, Benedetto XVI ha toccato un altro punto dolente del Cammino, quello dei suoi testi di catechismo.
Questi testi – tredici volumi trascritti dall’insegnamento orale di Kiko e Carmen, oggi riassunti sotto il titolo di “Direttorio catechetico del Cammino neocatecumenale” – sono sempre stati segreti.
Nel 1997 l’allora cardinale Joseph Ratzinger ordinò che fossero consegnati alla congregazione per la dottrina della fede, per essere sottoposti a un esame dei loro contenuti dottrinali.
L’esame si protrasse fino al 2003.
La congregazione, che all’epoca aveva Bertone come segretario, apportò delle correzioni e introdusse circa 2000 rimandi a passi paralleli del catechismo ufficiale della Chiesa cattolica.
Eppure, solo alla fine del 2010 i tredici volumi dell’opera hanno avuto l’approvazione ufficiale, comunicata da Benedetto XVI nell’udienza di due giorni fa.
  Perché questo lungo purgatorio? Stando a ciò che Kiko ha detto nella conferenza stampa del 17 gennaio, il motivo era che nel frattempo c’erano altre due questioni da sistemare: l’approvazione definitiva dello statuto del Cammino e l’approvazione del modo con cui nelle comunità neocatecumenali si celebrano la messa e altri sacramenti.
Lo statuto è stato approvato l’11 maggio del 2008 – un anno dopo che era scaduto il precedente statuto provvisorio – e in esso sono state fissate anche le regole liturgiche alle quali il Cammino deve attenersi.
Entrambi questi traguardi sono stati raggiunti con grande fatica e in capo a forti contrasti, specie in campo liturgico, come www.chiesa ha documentato a suo tempo.
E tuttora i comportamenti effettivi delle comunità neocatecumenali non obbediscono sempre e in tutto alle norme.
Le messe continuano a essere celebrate nella gran parte dei casi separatamente, gruppo per gruppo, a porte semichiuse, con largo spazio alla creatività, cioè alle modalità rituali e parlate ritenute utili ai fini del cammino di iniziazione di ciascun gruppo.
Per i catechismi il criterio sembra essere lo stesso.
“Anche ora che sono stati approvati – ha detto Kiko nella conferenza stampa del 17 gennaio – c’è un cammino di iniziazione che va rispettato.
Non è bene che uno possa vedere subito l’intero percorso, prima ancora di cominciarlo.
Se la Chiesa ce lo ordinasse li metteremmo in vendita.
Ma preferiamo di no”.
* Nell’udienza del 17 gennaio Benedetto XVI ha inviato in missione 230 famiglie neocatecumenali, che si sono aggiunte alle oltre 600 già in missione in vari paesi del mondo.
Oltre a queste, ha inviato “ad gentes” anche 13 sacerdoti accompagnati ciascuno da tre o quattro famiglie, col compito di impiantare un nucleo di Chiesa in luoghi in cui il cristianesimo è sparito o non è mai arrivato.
All’udienza erano presenti anche i 2000 seminaristi dei 78 seminari “Redemptoris Mater” che il Cammino ha in tutto il mondo, dai quali sono usciti in vent’anni 1600 preti.
Le ultime cifre danno il Cammino presente in oltre 1320 diocesi di 110 paesi nei 5 continenti, con 20.000 comunità in circa 6.000 parrocchie.
Di queste 20.000 comunità, 500 sono a Roma – definita “la diocesi del mondo in cui il Cammino si è più sviluppato” – e 300 a Madrid, suo luogo d’origine.
Se ad ogni comunità si assegnasse una media di 15 membri, il totale dei neocatecumenali adulti nel mondo sarebbe di 300.000.
“Ma con i bambini e i ragazzi passiamo il milione”, dicono.
Le famiglie neocatecumenali, infatti, sono molto prolifiche.
Tra quelle inviate in missione la media è di 4 figli per coppia.
__________ Il testo integrale del discorso di Benedetto XVI nell’udienza del 17 gennaio 2011: > “Cari amici…” __________ Il sito ufficiale del Cammino, in otto lingue: > Cammino Neocatecumenale __________ Per i precedenti servizi di www.chiesa sul tema, vedi: > Focus su MOVIMENTI CATTOLICI

I cristiani perseguitati

Voto a Strasburgo: niente aiuti ai Paesi in cui sono discriminati o perseguitati.
Chiesta con urgenza ai Ventisette una strategia comune con possibili misure restrittive contro gli Stati che volutamente non tutelano le confessioni religiose.
Il documento sarà recapitato immediatamente ai rappresentanti di Pakistan, Iran, Iraq, Nigeria, Filippine e Vietnam.  –

 

DOCUMENTAZIONE

Cristiani, la Ue li difenderà

Un segno una speranza di Luigi Geninazzi

Il card. Turkson: «Nessuno può impedire al Papa di parlare»

VAI AL DOSSIER

Evangeliario secondo il rito romano

CONFERENZA EPISCOPALE PIEMONTESE, Evangeliario secondo il rito romano, EMP, Padova 2010, ISBN: 8825025106, pp.340, Euro 140 Nel volume sono riportati tutti i brani dei vangeli letti nelle domeniche, nelle solennità e quelli per le messe rituali.
Le pericopi sono disposte secondo l’ordine canonico dei vangeli e per ognuna di esse è indicata la celebrazione in cui viene letta.
Quattro Vangeli da baciare e ascoltare di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 16 gennaio 2011 II diacono ha incensato prima e cantato poi il testo evangelico della solennità; richiude il volume, lo eleva e lo porta processionalmente verso il papa che presiede la celebrazione.
Il pontefice accoglie e bacia questo libro dalla legatura d’argento tempestata di gemme e con esso benedice l’assemblea che ha ascoltato in piedi.
Molti ricordano questa scena visibile nelle trasmissioni televisive dei riti papali: il gesto, che può essere ripetuto anche nelle altre liturgie locali solenni, esprime la venerazione per la Parola sacra, proclamata a voce e cristallizzata nella pagina scritta.
Già nell’ebraismo la Torah era ed è nel cuore stesso della sinagoga.
Infatti, una copia manoscritta della «Legge», i primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco), usata per la pubblica lettura, è custodita nell”aron haqodesh, l’«arca santa» del luogo di culto.
Si tratta di un rotolo di pergamena sul quale un sofer, uno scriba, ha trascritto a mano l’intero testo ebraico di quei libri, con inchiostro nero brillante così da far sfolgorare ogni lettera e parola, e – secondo un’antica tradizione – con calamo vegetale o animale, perché ogni penna metallica avrebbe evocato la materia con cui si approntano le armi, negando così la missione di pace della Parola.
Anche il cristianesimo ebbe i suoi “lezionari”, ossia i testi liturgici che contenevano i brani biblici (le “pericopi”) proclamate nella celebrazione eucaristica.
Al loro interno si distinguevano gli “evangeliari” che contenevano solo i quattro Vangeli: uno studioso tedesco, Theodor Klauser, nel suo Das römische «Capitulare Evangeliorum» (Münster 1935), ne ha classificati un migliaio di latini, attestati tra il 645 e il 750.
All’interno, poi, degli evangeliari è da identificare una categoria più specifica sorta in epoca successiva, l’«evangelistario»: proprio perché nella liturgia si leggono, di volta in volta, a brani e non integralmente i quattro Vangeli, si pensò di preparare volumi nei quali fossero raccolti solo quelle “pericopi” distribuite nella sequenza delle varie domeniche e feste.
Questi «evangelistari», dall’evidente finalità pratica, acquistarono uno splendore particolare perché le loro pagine furono costellate di miniature, di capilettera in oro o argento, e furono raccolte in legature o teche impreziosite da smalti, avori e gemme.
Negli anni 80 si decise di elaborare – nello spirito del fervore liturgico post- conciliare – un «evangeliario» per le Chiese d’Italia che «avesse l’ambizione di competere per decoro e bellezza con gli splendidi esemplari trasmessi dall’antichità».
Apparve, così, nel 1987, per i tipi dei Fratelli Accetta, editori palermitani, Haec sunt Verba sancta.
Evangeliario delle Chiese d’Italia, un prodotto pregevole, ma certo non all’altezza di quegli «splendidi esemplari» del passato coi quali si voleva gareggiare.
Un nuovo Evangeliario secondo il rito romano, voluto dalla Conferenza Episcopale del Piemonte e della Valle d’Aosta, è ora disponibile per tutte le comunità ecclesiali italiane: in esso si nota il tentativo di fondere i due generi dell’«evangeliario» e dell’«evangelistario».
Infatti, da un lato, si hanno i testi integrali dei quattro Vangeli; d’altro lato, però, essi sono suddivisi secondo i vari brani che la liturgia propone nella sua articolazione annuale (anzi, triennale).
All’opera si può assegnare la definizione di «nobile semplicità» che il Concilio Vaticano II proponeva per lo stile liturgico sia per il candore della legatura, sia per il nitore tipografico, sia per la sobrietà delle immagini, riproduzioni di sculture in marmo di Trani, eseguite nel 2001da Novello Finotti per la facciata della Basilica di S.
Giustina a Padova.
Certo, si potrebbe pensare anche a un dialogo più intenso e serrato con l’arte contemporanea, auspicabile dopo gli anni del divorzio che si è consumato nel secolo scorso.
Qualcosa del genere fu tentato con coraggio dalla Conferenza Episcopale Italiana col suo recente Lezionario domenicale e festivo in tre volumi: l’idea era felice e suggestiva, anche se l’attuazione fu guidata con poco rigore e il risultato fu eterogeneo e diseguale.
Su questa scia si muove ora anche la Chiesa di Milano che sta allestendo un suo «evangeliario», illustrato da artisti contemporanei di alta qualità, considerato come il suggello della recente riforma del lezionario del rito ambrosiano (una riforma oggetto di discussioni e critiche varie da parte di alcuni esperti).
Significativo è, comunque, lo sforzo di riannodare il confronto con l’arte dei nostri tempi, propugnato da Paolo VI già nel 1964 in un memorabile discorso tenuto agli artisti nella Cappella Sistina, evento e appello reiterato il 21 novembre 2009 da Benedetto XVI nello stesso luogo mirabile, sulla scia anche della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II del 1999.
Si tratta di un incontro necessario e benefico sia per la liturgia sia per l’arte che nella storia sempre s’incrociarono, generando capolavori straordinari in una continua evoluzione: si pensi solo ai trapassi tra paleocristiano, romanico, gotico, rinascimentale, barocco, neoclassico o alla rivoluzione della polifonia rispetto alla “monodia” del gregoriano…
Ora, purtroppo, da un lato in ambito ecclesiale si ricorre spesso soltanto al ricalco di moduli, stili e generi di epoche precedenti o si adotta il puro e semplice artigianato o, peggio, ci si adatta alla bruttezza dei nuovi quartieri urbani e dell’edilizia aggressiva, innalzando edifici sacri simili, come diceva sarcasticamente padre David M.Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e quel “grande codice” che era la Bibbia.
Ha abbandonato, come pericolosa, ogni proposta di messaggio, si è consacrata a esercizi stilistici sofisticati o provocatori e fin blasfemi, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato spesso artificioso ed eccessivo.
Le parole di Benedetto XVI possono essere di stimolo ad ambedue gli ambiti: «Non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare coi credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita.
La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi, li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la meta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente».